da
http://www.napolitan.it/ del 13\3\2015
Mi chiamo
David Raggi, sono stato condannato a
rimanere un eterno ragazzo di 27 anni, sono nato e cresciuto a Terni, ho
un lavoro, vanto raro per i giovani di questa generazione, sono un
informatore farmaceutico e in passato ho aiutato tante persone, in
quanto, spesso ho vestito la tuta arancione e l’altruismo di chi lavora
nel 118. Ieri sera, però, non ho potuto fare nulla per aiutare me
stesso.
L’altra sera, quando sono uscito di casa, avevo solo voglia di
divertirmi e trascorrere la solita serata tra amici, non sapevo che
sarei finito sui giornali e che non avrei più rivisto i miei genitori e
mio fratello.
Non sapevo che sarei morto.
Sono morto perché sono stato colpito casualmente davanti ad un bar da
un marocchino che ha dato di matto per una birra. Il personale, insieme
ai due agenti in borghese presenti, hanno cercato di calamaro, ne è
nato un parapiglia nel corso del quale sono stati rotti bicchieri e
bottiglie. Quello straniero è entrato e uscito dal locale varie volte,
me lo sono trovato davanti, per caso e mi ha colpito al collo con una
bottiglia rotta. «Che mi guardi? Che cosa vuoi?» mi ha sbraitato contro prima di colpirmi.
Sono morto, semplicemente, perché il mio corpo ha impattato con la
delirante e barcollante esagitazione di un uomo poco lucido e fuori
controllo. Una mina vagante che ha lasciato esplodere la sua follia
contro di me. Poteva esserci chiunque al posto mio. Invece c’ero io e
quell’infausta morte ha squarciato la mia vita.
Ho chiesto al mio amico medico che per primo mi ha prestato soccorso
di chiamare un’ambulanza, ma sapevo che non ci sarei arrivato
all’ospedale e gliel’ho anche detto. Ho capito che quelli erano i miei
ultimi, concitati respiri e che dovevo spenderli bene. E, allora, ho
parlato con il cuore, ho lasciato parlare il cuore e ho avuto solo il
tempo e la forza necessari per chiedere ai miei amici di dire alla mia
famiglia che gli voglio bene.
La polizia ha arrestato Amine Aassoul, un
marocchino di 29 anni, lo hanno rintracciato in via Roma, poco distante
dal luogo dove giaceva il mio corpo esanime. Era a dorso nudo e in stato
di agitazione.
È stato lui ad uccidermi. Dopo hanno scoperto che Assoul, quel
marocchino, il mio assassino, era arrivato a Terni nel 2007 dove aveva
raggiunto la madre sposata con un uomo del posto. Dopo alcuni furti
compiuti tra Porto Recanati, Fermo e Civitanova Marche gli era stato
revocato il permesso di soggiorno e rimpatriato. Era poi tornato in
Italia nel maggio dell’anno scorso, sbarcando a Lampedusa. La sua
richiesta di asilo politico era stata respinta a ottobre e la squadra
volante di Terni gli aveva notificato la decisione. Il marocchino aveva
però fatto ricorso nei 30 giorni previsti ed era in attesa di una
decisione in merito.
La mia morte è diventata, così, un affare di Stato, una di quelle
vicende che mette tanta carne a cuocere e che consente a quella fazione
politica di scagliarsi contro l’opposizione e a quest’ultimi, a loro
volta, di inveire contro i primi.
Intanto io sono morto.
Il Viminale, Angelino Alfano, tanti “pezzi grossi” hanno
espresso indignazione e cordoglio. Ma i miei genitori? Loro vedranno
sfilare sagome e belle parole accanto al vuoto e al dolore, quello vero,
quello che solo i genitori che piangono la morte di un figlio possono
essere in grado di comprendere. Quando il trambusto sarà passato,
accanto a loro, ai mio genitori, rimarranno ancora, sempre e solo vuoto e dolore.
Tutti, adesso, tesseranno le mie lodi, per quell’ipocrita,
convenzionale e beffardo principio secondo il quale, quando si muore,
diventiamo tutti belli e buoni.
Eppure, nel mio caso, è proprio vero.
Mi chiamo
David Raggi, sono stato condannato a
rimanere un eterno ragazzo di 27 anni, sono nato e cresciuto a Terni, ho
un lavoro, vanto raro per i giovani di questa generazione, sono un
informatore farmaceutico e in passato ho aiutato tante persone, in
quanto, spesso ho vestito la tuta arancione e l’altruismo di chi lavora
nel 118. Ieri sera, però, non ho potuto fare nulla per aiutare me
stesso.
L’altra sera, quando sono uscito di casa, avevo solo voglia di
divertirmi e trascorrere la solita serata tra amici, non sapevo che
sarei finito sui giornali e che non avrei più rivisto i miei genitori e
mio fratello.
Non sapevo che sarei morto.
Sono morto perché sono stato colpito casualmente davanti ad un bar da
un marocchino che ha dato di matto per una birra. Il personale, insieme
ai due agenti in borghese presenti, hanno cercato di calamaro, ne è
nato un parapiglia nel corso del quale sono stati rotti bicchieri e
bottiglie. Quello straniero è entrato e uscito dal locale varie volte,
me lo sono trovato davanti, per caso e mi ha colpito al collo con una
bottiglia rotta.
«Che mi guardi? Che cosa vuoi?» mi ha sbraitato contro prima di colpirmi.
Sono morto, semplicemente, perché il mio corpo ha impattato con la
delirante e barcollante esagitazione di un uomo poco lucido e fuori
controllo. Una mina vagante che ha lasciato esplodere la sua follia
contro di me. Poteva esserci chiunque al posto mio. Invece c’ero io e
quell’infausta morte ha squarciato la mia vita.
Ho chiesto al mio amico medico che per primo mi ha prestato soccorso
di chiamare un’ambulanza, ma sapevo che non ci sarei arrivato
all’ospedale e gliel’ho anche detto. Ho capito che quelli erano i miei
ultimi, concitati respiri e che dovevo spenderli bene. E, allora, ho
parlato con il cuore, ho lasciato parlare il cuore e ho avuto solo il
tempo e la forza necessari per chiedere ai miei amici di dire alla mia
famiglia che gli voglio bene.
Mi chiamo
David Raggi, sono stato condannato a
rimanere un eterno ragazzo di 27 anni, sono nato e cresciuto a Terni, ho
un lavoro, vanto raro per i giovani di questa generazione, sono un
informatore farmaceutico e in passato ho aiutato tante persone, in
quanto, spesso ho vestito la tuta arancione e l’altruismo di chi lavora
nel 118. Ieri sera, però, non ho potuto fare nulla per aiutare me
stesso.
L’altra sera, quando sono uscito di casa, avevo solo voglia di
divertirmi e trascorrere la solita serata tra amici, non sapevo che
sarei finito sui giornali e che non avrei più rivisto i miei genitori e
mio fratello.
Non sapevo che sarei morto.
Sono morto perché sono stato colpito casualmente davanti ad un bar da
un marocchino che ha dato di matto per una birra. Il personale, insieme
ai due agenti in borghese presenti, hanno cercato di calamaro, ne è
nato un parapiglia nel corso del quale sono stati rotti bicchieri e
bottiglie. Quello straniero è entrato e uscito dal locale varie volte,
me lo sono trovato davanti, per caso e mi ha colpito al collo con una
bottiglia rotta.
«Che mi guardi? Che cosa vuoi?» mi ha sbraitato contro prima di colpirmi.
Sono morto, semplicemente, perché il mio corpo ha impattato con la
delirante e barcollante esagitazione di un uomo poco lucido e fuori
controllo. Una mina vagante che ha lasciato esplodere la sua follia
contro di me. Poteva esserci chiunque al posto mio. Invece c’ero io e
quell’infausta morte ha squarciato la mia vita.
Ho chiesto al mio amico medico che per primo mi ha prestato soccorso
di chiamare un’ambulanza, ma sapevo che non ci sarei arrivato
all’ospedale e gliel’ho anche detto. Ho capito che quelli erano i miei
ultimi, concitati respiri e che dovevo spenderli bene. E, allora, ho
parlato con il cuore, ho lasciato parlare il cuore e ho avuto solo il
tempo e la forza necessari per chiedere ai miei amici di dire alla mia
famiglia che gli voglio bene.
La polizia ha arrestato
Amine Aassoul, un
marocchino di 29 anni, lo hanno rintracciato in via Roma, poco distante
dal luogo dove giaceva il mio corpo esanime. Era a dorso nudo e in stato
di agitazione.
È stato lui ad uccidermi. Dopo hanno scoperto che Assoul, quel
marocchino, il mio assassino, era arrivato a Terni nel 2007 dove aveva
raggiunto la madre sposata con un uomo del posto. Dopo alcuni furti
compiuti tra Porto Recanati, Fermo e Civitanova Marche gli era stato
revocato il permesso di soggiorno e rimpatriato. Era poi tornato in
Italia nel maggio dell’anno scorso, sbarcando a Lampedusa. La sua
richiesta di asilo politico era stata respinta a ottobre e la squadra
volante di Terni gli aveva notificato la decisione. Il marocchino aveva
però fatto ricorso nei 30 giorni previsti ed era in attesa di una
decisione in merito.
La mia morte è diventata, così, un affare di Stato, una di quelle
vicende che mette tanta carne a cuocere e che consente a quella fazione
politica di scagliarsi contro l’opposizione e a quest’ultimi, a loro
volta, di inveire contro i primi.
Intanto io sono morto.
Il Viminale, Angelino Alfano, tanti “
pezzi grossi” hanno
espresso indignazione e cordoglio. Ma i miei genitori? Loro vedranno
sfilare sagome e belle parole accanto al vuoto e al dolore, quello vero,
quello che solo i genitori che piangono la morte di un figlio possono
essere in grado di comprendere. Quando il trambusto sarà passato,
accanto a loro, ai mio genitori, rimarranno ancora, sempre e solo
vuoto e dolore.
Tutti, adesso, tesseranno le mie lodi, per quell’ipocrita,
convenzionale e beffardo principio secondo il quale, quando si muore,
diventiamo tutti belli e buoni.
Eppure, nel mio caso, è proprio vero.
Ero
«un ragazzo d’oro»: aiutare gli altri
era la filosofia che ha condito ed animato il senso della mia breve
vita. Donavo il sangue, aiutavo gli altri, aiutavo
“quelli come Assoul”,
più abituati a difendersi da sguardi sprezzanti che a vedersi tendere
una mano, dispensavo sorrisi ed altruismo, facevo ragionare le teste
calde che inveivano contro
“quelli come Assoul”, predicavo tolleranza ed integrazione.
“Un altro angelo nel cielo.. a vegliare su di noi..non meritavi
questo.. eri un angelo sceso in terra.. un portatore sano di allegria e
spensieratezza.. era impossibile non volerti bene e l’unica cosa che
rimpiango è di non aver passato più tempo con te.. aver goduto di tutta
la gioia e la voglia di vivere che avevi e regalavi a tutti” scrive il mio amico Fabio su facebook.
“Eri un angelo in terra ora vola in cielo in mezzo agli altri angeli del paradiso”, scrive, invece, Federica.
Ma non è per questo che mi sento preso in giro dal mio stesso destino, non solo perché ero
“un giusto”. Nessuno meriterebbe di morire così. Nessuno dovrebbe morire così. Non si può morire così. Nessuno dovrà più morire così.
Chi dispone del potere necessario per intervenire, per non rendere
vano il messaggio che ho cercato di inculcare nelle vite che si sono
intrecciate con la mia, conferisca un senso alla mia insensata morte.
La polizia ha arrestato
Amine Aassoul, un
marocchino di 29 anni, lo hanno rintracciato in via Roma, poco distante
dal luogo dove giaceva il mio corpo esanime. Era a dorso nudo e in stato
di agitazione.
È stato lui ad uccidermi. Dopo hanno scoperto che Assoul, quel
marocchino, il mio assassino, era arrivato a Terni nel 2007 dove aveva
raggiunto la madre sposata con un uomo del posto. Dopo alcuni furti
compiuti tra Porto Recanati, Fermo e Civitanova Marche gli era stato
revocato il permesso di soggiorno e rimpatriato. Era poi tornato in
Italia nel maggio dell’anno scorso, sbarcando a Lampedusa. La sua
richiesta di asilo politico era stata respinta a ottobre e la squadra
volante di Terni gli aveva notificato la decisione. Il marocchino aveva
però fatto ricorso nei 30 giorni previsti ed era in attesa di una
decisione in merito.
La mia morte è diventata, così, un affare di Stato, una di quelle
vicende che mette tanta carne a cuocere e che consente a quella fazione
politica di scagliarsi contro l’opposizione e a quest’ultimi, a loro
volta, di inveire contro i primi.
Intanto io sono morto.
Il Viminale, Angelino Alfano, tanti “
pezzi grossi” hanno
espresso indignazione e cordoglio. Ma i miei genitori? Loro vedranno
sfilare sagome e belle parole accanto al vuoto e al dolore, quello vero,
quello che solo i genitori che piangono la morte di un figlio possono
essere in grado di comprendere. Quando il trambusto sarà passato,
accanto a loro, ai mio genitori, rimarranno ancora, sempre e solo
vuoto e dolore.
Tutti, adesso, tesseranno le mie lodi, per quell’ipocrita,
convenzionale e beffardo principio secondo il quale, quando si muore,
diventiamo tutti belli e buoni.
Eppure, nel mio caso, è proprio vero.
Ero
«un ragazzo d’oro»: aiutare gli altri
era la filosofia che ha condito ed animato il senso della mia breve
vita. Donavo il sangue, aiutavo gli altri, aiutavo
“quelli come Assoul”,
più abituati a difendersi da sguardi sprezzanti che a vedersi tendere
una mano, dispensavo sorrisi ed altruismo, facevo ragionare le teste
calde che inveivano contro
“quelli come Assoul”, predicavo tolleranza ed integrazione.
“Un altro angelo nel cielo.. a vegliare su di noi..non meritavi
questo.. eri un angelo sceso in terra.. un portatore sano di allegria e
spensieratezza.. era impossibile non volerti bene e l’unica cosa che
rimpiango è di non aver passato più tempo con te.. aver goduto di tutta
la gioia e la voglia di vivere che avevi e regalavi a tutti” scrive il mio amico Fabio su facebook.
“Eri un angelo in terra ora vola in cielo in mezzo agli altri angeli del paradiso”, scrive, invece, Federica.
Ma non è per questo che mi sento preso in giro dal mio stesso destino, non solo perché ero
“un giusto”. Nessuno meriterebbe di morire così. Nessuno dovrebbe morire così. Non si può morire così. Nessuno dovrà più morire così.
Chi dispone del potere necessario per intervenire, per non rendere
vano il messaggio che ho cercato di inculcare nelle vite che si sono
intrecciate con la mia, conferisca un senso alla mia insensata morte.
Ero «un ragazzo d’oro»: aiutare gli altri
era la filosofia che ha condito ed animato il senso della mia breve
vita. Donavo il sangue, aiutavo gli altri, aiutavo “quelli come Assoul”,
più abituati a difendersi da sguardi sprezzanti che a vedersi tendere
una mano, dispensavo sorrisi ed altruismo, facevo ragionare le teste
calde che inveivano contro “quelli come Assoul”, predicavo tolleranza ed integrazione.
“Un altro angelo nel cielo.. a vegliare su di noi..non meritavi
questo.. eri un angelo sceso in terra.. un portatore sano di allegria e
spensieratezza.. era impossibile non volerti bene e l’unica cosa che
rimpiango è di non aver passato più tempo con te.. aver goduto di tutta
la gioia e la voglia di vivere che avevi e regalavi a tutti” scrive il mio amico Fabio su facebook.
“Eri un angelo in terra ora vola in cielo in mezzo agli altri angeli del paradiso”, scrive, invece, Federica.
Ma non è per questo che mi sento preso in giro dal mio stesso destino, non solo perché ero “un giusto”. Nessuno meriterebbe di morire così. Nessuno dovrebbe morire così. Non si può morire così. Nessuno dovrà più morire così.
Chi dispone del potere necessario per intervenire, per non rendere
vano il messaggio che ho cercato di inculcare nelle vite che si sono
intrecciate con la mia, conferisca un senso alla mia insensata morte.