Il senatore del Movimento 5 stelle Elio Lannutti ha scatenato un’accesa polemica dopo un suo tweet in cui condivideva un articolo in cui si parla della creazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”. Scrive Lannutti: "Il Gruppo dei Savi di Sion e Mayer Amschel Rothschild, l'abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale, portò alla creazione di un manifesto: "I Protocolli dei Savi di Sion".
Ho aspettato un po' per dire la mia perché : << Di respirare la stessa aria \di un secondino non mi va\perciò ho deciso di rinunciare\alla mia ora di libertà\se c'è qualcosa da spartire\tra un prigioniero e il suo piantone\che non sia l'aria di quel cortile \voglio soltanto che sia prigione\che non sia l'aria di quel cortile\voglio soltanto che sia prigione. [....] >> Sono inoltre : assuefatto senza per questo sminuire o sottovalutare il fenomeno dell'antisemitismo e dello'olocausto \ shoah , davanti al ripetersi di tali fenomeni ., sfiduciato , da qui il il titolo del post , come la nostra utente Daniela Tuscano che ha scritto
E dopo quasi 30 anni che insegni, scrivi, organizzi incontri, ti batti in qualsiasi modo contro ogni razzismo... siamo ancora alla m.erda antisemita dei Protocolli dei Savi di Sion, diffusa nientemeno che da un "senatore" della Repubblica. Che ti rappresenta, e paghi lautamente. E scrive pure libri per editori importanti. Lui. Simpatico comunque il tweet "riparatore": postare un link non significa condividerne i contenuti. Certo, come no. Se io pubblico senza alcun commento un link neonazi (lo stesso da cui ha attinto Lannutti), non significa che l'approvi, figurarsi! Lo faccio così, per sport.
Ma soprattutto volevo evitare le solite frasi di circostanza e ipocrite della maggior parte dell'informazione che avvengono nelle giornate come questa . Unica cosa che mi sento di dire e che a certe persone , vsto che ormai lo sanno anche i sassi di come tale documento sia un falso storico , andrebbe ritirata la laurea e rimandati a scuola a studiare oppure messi cosi come il protagonista di quewstgo famossissimo film
davanti a documentari ed immagini di tale eventi
Ritornando alla riflessione del post mi chiedo come fa sempre Daniela
A 74 anni da #Auschwitz, siamo ancora ai #SavidiSion. E lo dice un senatore della Repubblica. Che caxxo insegno a fare. #Shoah
ma chi me lo fa fare di continuare ,ormai sono più di 15 anni cioè da quando ho messi su questo blog , a riportare : storie , testimonianze , riflessioni ed altro che riguarda tale periodo storico e di sentirmi vomitare frasi del tipo : << ma sei un giudeo , sei un comunista , ed crmini dei tuoi compagni non ne parli , ecc. solo per indicare i più educati e civili >> .
La risposta è li nel vento
che vola
Lo stesso discorso mi viene quando faccio i miei contro post per ricordare la giornata del 10 febbraio
ma io sono un : << (.... ) il mare aperto dei sentimenti \le vele al vento del mio pensiero \ finché quel vento mi resisterà. >> ( qui il resto della canzone ) e quindi continuerò nolente e dolente
Lunedì, 29 June 2015 17:45 Scritto da Davide Allegri
I campi di concentramento fascisti in Jugoslavia
“Il mio nome è Marija Poje. Sono una ex internata nel campo di concentramento forzato di Rab-Arbe e di Gonars. Sono nata il 5 aprile 1922 a Gorači, un paesetto sperduto tra i boschi al confine tra la Slovenia e la Croazia. Sono stata arrestata e internata alla fine del mese di luglio del 1942 con tutta la mia famiglia, con tutta la gente del mio paese, i bambini, i vecchi, tutti. Ci hanno bruciato le case a Stari kot dove mi ero trasferita dopo il matrimonio. Siamo partiti solo con quello che siamo riusciti a portarci dietro. […]In quella bolgia infernale dove il pianto dei bambini si alternava agli urli delle donne alle quali avevano appena fucilato il marito, io ho pensato solo al mio bambino che allora aveva 16 mesi ed era sempre con me, perché avevo paura che ci dividessero e non avevo fiducia in nessuno. Essere divisi dalla famiglia, dagli abitanti del proprio paese o da gente conosciuta era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere. Noi gente di montagna eravamo abituati a stringere i denti, ma l’insicurezza della nostra posizione e la crudeltà dei soldati ci facevano stare in apprensione. […] La mattina seguente dopo un ultimo appello e dopo averci diviso dagli uomini, ci hanno fatti salire sui camion per portarci chissà dove.” A prima vista questa sembra una delle tante testimonianze toccanti dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazionalsocialista sparsi nell’Europa occupata. Ma qualcosa non torna, nei nomi di luogo: Rab, un’incantevole isola dell’attuale Croazia e Gonars, che a dispetto del nome, si trova in Friuli a pochi chilometri da Palmanova. Certo non sarebbe una novità venire a conoscenza di lager in terra italiana, vista la terribile fama guadagnata ad esempio dal campo di concentramento di Bolzano. Probabilmente campi sorti e gestiti dai tedeschi in Italia ed in Croazia dopo il 1943, dirà qualcuno. Assolutamente no: essi erano campi di concentramento voluti e organizzati dall’Italia fascista all’indomani dello scoppio della Seconda Guerra mondiale. Forse non votati allo sterminio sistematico e scientifico di una razza, come quelli del Reich tedesco, ma luoghi di orrore e morte del tutti simili a quelli ideati dal Führer.
Sorti per piegare la resistenza dei popoli dei Balcani ma, si badi bene, non certo destinati solo ai partigiani di Tito ed ai combattenti. In questi campi venivano indistintamente segregate e lasciate morire di fame e di malattie le popolazioni iugoslave
Uomini, ma soprattutto vecchi, donne e bambini: come Marija che aveva solo vent’anni ed era incinta. Il campo si portò via entrambi i figli dopo la fucilazione del marito. Una vita spezzata e segnata per sempre. Come lei decine di migliaia di civili subirono una sorte analoga. “Nei 29 mesi di occupazione italiana soltanto nella provincia compresa tra Lubiana e Fiume vennero fucilati cinquemila civili, 900 furono i partigiani catturati e fucilati e, in base ai dati a disposizione presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, furono più di 20.000 i deportati civili sloveni internati nei campi di Arbe, Chiesanuova (Padova), Monigo (Treviso), Gonars (Udine) e Renicci di Anghiari (Arezzo)” sostiene Boris Mario Gombač (articolo completo qui), lo storico italo-sloveno che insieme ad altri come Angelo del Boca per l’Africa e Carlo Spartaco Capogreco per i Balcani, sta cercando di rompere il velo di silenzio e omertà sui crimini commessi dal fascismo nelle sue “colonie”. Studi che distruggono lo stereotipo del “soldato italiano buono” a confronto con i tedeschi “cattivi” e che mettono in luce la necessità di approfondire ulteriormente queste vicende. Si trattava di campi del tutto “illegali”, vale a dire non visitabili dalla Croce Rossa internazionale e dove i detenuti non potevano ricevere aiuti, pacchi viveri e visite dall’esterno. Campi dove gli internati erano costretti ad una durissima lotta quotidiana per la sopravvivenza: “ormai la sopravvivenza era diventata una lotta di tutti contro tutti. Si lottava contro gli abitanti delle altre tende, contro i militari ma anche contro i nostri uomini che dall’altra parte della rete pretendevano dalle mogli il loro rancio quotidiano. Nelle nostre menti era inciso solo un pensiero: chi riusciva a sopravvivere un giorno più degli altri era vivo e chi non ce la faceva lo portavano giù verso le fosse comuni. Ormai eravamo solo l’ombra di noi stessi. I giorni e le notti passavano tra il pianto e i gemiti continui dei bambini affamati o assetati che andava avanti per mesi” prosegue la testimone nel suo toccante racconto.
Solo l’armistizio del 1943 interruppe questo orrore. Marija, nel frattempo trasferita da Rab a Gonars così descrive la fuga: “All’uscita del campo eravamo mal messi, le gambe non ci tenevano e dopo pochi passi eravamo stanchi come se avessimo falciato l’erba tutto il giorno. Un militare ci aveva dato del riso, ma non sapevamo cosa farne, non sapevamo come cuocerlo e mangiarlo. Per strada abbiamo trovato gente che ci dava del pane. Qualcuno vedendoci ripeteva esterrefatto “poveri bambini, poveri bambini”. Alcune donne ci hanno portato pane e sapone indicandoci i bambini. Era buona questa gente.” Un barlume di umanità in una vicenda turpe e taciuta troppo a lungo.
lo so che è inglese e farò fatikcare parecchio chi non lo parla o non lo capisce ma moltimiei seguiaci sono anche internazionali ( americani specialmente ) . comunque per chi non mastica inglese non ha voglia po tempo di leggerlo nell'originale ecco ( sintetico purtroppo , ma avevo poca voglia di stare a fare richerche ) lo trova qui sul sito di www.leggo.it
da www.haaretz.com When a black German woman discovered her grandfather was the Nazi villain of 'Schindler's List'An odd series of events led Jennifer Teege to discover that her grandfather was none other than the notorious Nazi Amon Goeth.
In the mid-1990s, near the end of the period during which
she lived in Israel, Jennifer Teege watched Steven Spielberg’s film
“Schindler’s List.” She hadn’t seen the film in a movie theater, and
watched it in her rented room in Tel Aviv when it was broadcast on
television.
“It was a moving experience for me, but I didn’t learn much about the Holocaust from it,” she tells me by phone from her home in Hamburg, mostly in English with a sprinkling of Hebrew. “I’d learned and read a great deal about the Holocaust before that. At the time I thought the film was important mainly because it heightened international awareness of the Holocaust, but I didn’t think I had a personal connection to it.”
Indeed, it was not until years later that Teege, a German-born black woman who was given up for adoption as a child, discovered that one of the central characters in the film, Amon Goeth, was her grandfather. Many viewers recall the figure of Goeth, the brutal commander of the Plaszow concentration camp in Poland – played in the film by Ralph Fiennes – from the scenes in which he shoots Jewish inmates from the porch of his home. But Teege, who had not been in touch with either her biological mother or biological grandmother for years, had no idea about the identity of her grandfather. The discovery came like a bolt from the blue in the summer of 2008, when she was 38 years old, as she relates in the memoir “Amon,” which was published in German in 2013 (co-authored with the German journalist Nikola Sellmair), and is due out in English this April under the title “My Grandfather Would Have Shot Me: A Black Woman Discovers Her Family’s Nazi Past.” Teege is scheduled to visit Israel next week to take part in events marking the book’s publication in Hebrew (from Sifriat Poalim), at the International Book Fair in Jerusalem, the University of Haifa and the Goethe Institute in Tel Aviv. She opens her book by describing the 2008 visit to a library in Hamburg to look for material on coping with depression. While there, she happened to notice a book with a cover photograph of a familiar figure: her biological mother, Monika Hertwig (née Goeth). She immediately withdrew the book, titled “I Have to Love My Father, Right?,” and which was based on an interview with her mother.“The first shock was the sheer discovery of a book about my mother and my family, which had information about me and my identity that had been kept hidden from me,” Teege says. “I knew almost nothing about the life of my biological mother, nor did my adoptive family. I hoped to find answers to questions that had disturbed me and to the depression I had suffered from. The second shock was the information about my grandfather’s deeds.”
Thus Teege embarked on a long personal journey in
the wake of the unknown family heritage. But in the first half year
after the discovery at the library, she relates, “I lapsed into silence,
I slept a lot and I wasn’t really functioning. Only afterward did I
begin to analyze the situation and try to understand the characters of
my mother and my grandmother. I only started to learn more about my
grandmother at the end. Today I understand that I went through the
process step by step, peeling away layer after layer. But in the first
months I had no idea what to do.”
Teege was born on June 29, 1970, in Munich, the
offspring of a brief affair between her mother and a Nigerian man. At
the age of one month, she was placed in a Catholic children’s home, and
when she was three, she was transferred to a foster family, which
adopted her formally when she was seven. That also marked the end of the
loose ties she had had until then with her mother and her grandmother.
The only black girl in the Munich neighborhood
where she grew up, she was often the butt of insulting remarks about her
skin color. In 1990, after graduating from high school, Teege went to
Paris, where she became friends with a young Israeli woman, Noa
Berman-Herzberg, now a screenwriter. Teege arrived in Israel the
following year, toured around worked on a tourist boat in Eilat and had a
brief affair with an Israeli man. After they broke up, she decided to
remain in Tel Aviv. She learned Hebrew, received a B.A. from the Middle
Eastern and African Studies Department of Tel Aviv University, and
worked in the city’s Goethe Institute. She left the country in 1995.
“Germans who come to Israel never know what kind of
reception they will get,” she says. “I was welcomed with open arms. My
German origin generated interest – not because of the Holocaust or
Nazism, but mainly because of [then] recent events, such as the toppling
of the Berlin Wall and the unification of Germany. In any event, I
didn’t represent the German stereotype.”
Her skin color served as camouflage, even if Teege
didn’t yet know for what. Years later, when she discovered her actual
roots, she recalled the many Holocaust survivors she had met at the
Goethe Institute. They came because they wanted to speak and hear
German, the language of their old homeland, she notes in her book. When
she saw the numbers tattooed on their arms in the camps, she felt for
the first time that there was something disadvantageous about belonging
to the German nation – something that demanded an apology.
Teege shared her rented apartment in Tel Aviv with
the actor and director Tzachi Grad, then at the start of his
professional career.
“Jennifer seemed to me special and beautiful, a
woman with European class,” he recalls now. “We got along very well in
the apartment, we became friends and talked about many different
subjects. The fact that it turned out years later that her grandfather
was a sadistic Nazi is no reflection on her, even if some of the genetic
matter and traits came from him. I do not attribute to the Nazis’
descendants the wrongs perpetrated by their forebears.”
Therapist in tears
After leaving Israel, Teege moved to Hamburg and
started to work in an ad agency, where she met her partner, Goetz Teege.
They have two children. When she found out that Amon Goeth was her
grandfather, she entered psychotherapy. The therapist himself burst into
tears when he heard her story at their first meeting, but afterward
helped her cope with the questions that hounded her.
Digging into the past brought her face to face with
many of the atrocities perpetrated by her grandfather, who was known as
the “butcher of Plaszow.” He shot inmates from his porch every morning
and had two dogs that were trained to attack prisoners at his command.
After the war, Goeth faced trial in Krakow on after
being accused of genocide, including responsibility for the death of
8,000 people in Plaszow and the murder of some 2,000 more during the
evacuation of the Krakow Ghetto. He denied responsibility for the
crimes, and said he had only been following orders. He was hanged in
September 1946. His last words were “Heil Hitler.”
Goeth never saw Monika, the daughter he had
fathered a year earlier during an extramarital affair he had with Ruth
Irene Kalder, a young German woman who worked as a secretary in the
Wehrmacht; Goeth's wife had remained behind in Austria.
The couple were introduced by Oskar Schindler – who
needed to have good ties with Goeth so as to obtain Jewish workers for
his factory – at a dinner in Goeth’s villa. Kalder became Goeth’s lover,
moved in, raised two dogs of her own and lived a life of wanton luxury.
His plan to divorce his wife and marry Kalder was dashed when he was
arrested and executed.
Teege, who remembers her grandmother as a central
figure in her early childhood, who showed her more warmth and love than
her mother, also delves into her grandmother’s attitude toward Goeth’s
deeds. For years Kalder denied his crimes and claimed she knew nothing
about them; she and Teege never discussed the subject.
In a conversation in 1975 with the Israeli
journalist and historian Tom Segev (who spoke to her while he was
reporting his 1988 book “Soldiers of Evil”), she said, “It was a
beautiful time. We enjoyed being together. My Goeth was the king, and I
was the queen. Who wouldn’t have traded places with us?”
In 1983, when Teege was 13, her adoptive parents
told her they had seen mourning notices in the paper for her biological
grandmother. They did not know that Ruth Irene Goeth (she had changed
her surname after the war) had committed suicide in the wake of a
serious illness – and also, apparently, because of belated regret for
her moral blindness during the Holocaust.
After learning about Goeth’s deeds and the life her
grandmother led in Krakow during the war, Teege decided to go see the
place where her grandfather had murdered people – to get very close to
him in order to distance herself from him afterward, as she writes in
the book. I ask her whether she succeeded in her mission.
“At the beginning I didn’t know that it was
important to be close to Amon,” she replies. “I felt a powerful need to
be done with this part, and I decided to visit Krakow and the memorial
monument for the Plaszow camp, to place flowers there and honor the
victims, so that I could resume a normal life. When I returned to
Germany after the visit, I felt a certain release. I wanted to let go of
the past but not to make it disappear. I didn’t want to be like my
mother, who felt so tied to the family past and couldn’t disconnect
herself from it. I managed to achieve distance.”
Closing the circle
In her book, Teege describes her quest to learn
about her grandparents, mother and biological father (whom she did not
meet until adulthood). She also talks about the difficulty she had
sharing her life story with her Israeli girlfriends. She remembered that
relatives of two of her friends had perished in the Holocaust, although
she did not know whether they had relatives in the ghettos and camps
where her grandfather had served.
One of Teege’s Israeli friends, Anat Ben Moshe, now
a nurse at Yoseftal Hospital in Eilat, recalls that she and Noa
Berman-Herzberg had stayed in touch with Teege after she left Israel,
and had even attended her wedding, but that suddenly, and over a period
of two years, she stopped responding to their emails.
In 2011, when the Israeli film “The Flood” (for
which Berman-Herzberg wrote the screenplay, together with the director,
Guy Nativ, and which stars the former roommate, Tzachi Grad) was
accepted by the Berlin Film Festival, Teege was invited to the
screening. With some apprehension, she renewed the connection with her
friends, and told Berman-Herzberg the whole story.
Later that year, Teege visited Israel, and she and Ben Moshe met for a long talk.
“I wanted to understand all the details and to know
that she was seeing the picture properly and coping with it. I
supported her when she decided to make the story public,” Ben Moshe
says. Later, she invited Teege to accompany her son’s high-school class
on a visit to the Plaszow camp. Teege accepted the invitation, told the
students her story and replied to their stunned questions.
Her book ends with an account of the extraordinary
ceremony that the teenagers from Israel conducted together with her, in
memory of the victims in the camp of which her grandfather was
commandant.
Teege is very excited about her upcoming visit to
Israel. “I very much wanted the book to be translated into Hebrew, and I
am looking forward to seeing how it’s received,” she says. “People ask
me if I’m not afraid of the visit, but I have no fears. I lived in
Israel for five years, I have friends there and I know the mentality a
little.
“I am first of all Jennifer and not first of all
Amon Goeth’s granddaughter. I am coming as a private person, even though
I know that I am more than that. The survivors who were in contact with
me see me differently. I am so different from the figure of my
grandfather. Some of them, who were in touch with me after the book came
out in German, responded very warmly and said that reading my story was
a kind of closing of the circle for them.”
‘Drop of humanity’
One of the survivors who contacted Teege was Rena
Birnhack, 88, from Haifa, one of the Schindler’s list survivors.She
expects to meet with the younger woman during her visit here next week.
“Goeth was even worse than he is described in
Teege’s book, but it was important for me to contact her, because I am
perhaps the only Jew who was left alive and survived because of her
grandfather,” Birnhack says, in an interview with Haaretz.
She was born in Krakow and sent to the city’s
ghetto with her family as a girl. She relates that she took the family’s
dog with her to the ghetto. The dog gave birth to two puppies, and when
the ghetto was liquidated, in March 1943, and the residents were
summoned for a “selection” process – to decide who would be deported to
Auschwitz and Belzec, and who would do forced labor in the Plaszow camp –
Birnhack had to abandon the older dog but took the two puppies, wrapped
in a small coat.
“It was the first time I saw Amon, a huge,
frightening person,” Birnhack recalls. “In the selection he indicated
with a finger movement who should go to which side. When he saw me
holding the coat, he shouted, ‘What do you have there?’ But when he saw
the two puppies, a drop of humanity came into his eyes for a few
seconds. He asked me what I intended to do with them, and I offered them
to him as a present. He ordered one of the soldiers to take the
puppies, and sent me to the side with those who would remain alive.”
From reading Teege’s book, Birnhack learned that
Goeth gave the puppies to Irene, who raised them in the villa. During
her time in Plaszow, Birnhack saw Goeth only at camp roll-calls – or
when he shot inmates from the porch. She, her sister and her parents
were among the Schindler survivors.
Lo striscione di Militia esposto fuori dal parco Rabin a Roma (ansa)
Come se non bastassero i soliti imbecilli di Militia e simili ( vedere nella note cosa è successo a Roma foto a destra ) ci manca anche 'stro cretino ,è a dir poco ,di Giovanardi con le suie insulse dichiarazioni .Ora lo so che parlare di questo imbecille è come sparare sula croce rossa ma non riesco a rimanere impassibile a tali fesserie ed ignoranze . Infatti << leeggo sul sito di Gaywawe.it più precisamente qui << (... ) la posizione dei Radicali, che senza mezzi termini invitano Giovanardi a tacere una buona volta: “Noi di fronte a questa ennesima esternazione non possiamo che dire a Giovanardi: facevi meglio a stare zitto, almeno su questo >>
Infatti
Dopo le dichiarazioni in cui venivano equiparati un bacio fra due donne al reato di atti contrari alla pubblica decenza,l'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è tornato sul tema dell'omosessualità, con una ricostruzione storica 'personale'.
“L’Olocausto dei gay non c’è mai stato. C’è stata invece, questo sì, una persecuzione dei gay. Ma per essere chiari di Olocausto ce n’è stato uno solo, ed è stato quello del popolo ebraico, anche dal punto di vista legislativo, normativo; tutti elementi che hanno costituito l’unicità di questo terribile dramma storico”. Dopo le dichiarazioni in cui venivano equiparati un bacio fra due donne al reato di atti contrari alla pubblica decenza, il deputato del Pdl Carlo Giovanardi è tornato con una lezione di storia sugli omosessuali durante una intervista al programma Klaus Condicio condotto da Klaus Davi. [....]
che affermano simile idiozie accertate dalla storia sarebbe come dare le perle ai porci : Ma me ne frego e ricordo ed insisto fornendogli materiale su tale argomento ( vedere sotto di più per ricordare il 27 gennaio nella sua diversità e a 360 ° non solo di un determinato gruppo etnico religioso
da http://www.olokaustos.org/argomenti/homosex/index.htm suddiviso in
Le porte dei campi di concentramento si aprirono per gli omosessuali molto presto: nel 1933 abbiamo i primi internamenti a Fuhlsbuttel, nel 1934 a Dachau e Sachsenhausen. Molte centinaia furono internati in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936 per "ripulire le strade".
Tuttavia le cifre - se confrontate con l'enormità dello sterminio degli ebrei europei - mostrano un atteggiamento apparentemente contraddittorio da parte delle autorità naziste. Vi è concordanza sulle cifre degli omosessuali morti nei campi di concentramento tra il 1933 ed il 1945: circa 7.000. Si trattava per la quasi totalità di omosessuali di nazionalità tedesca, poiché, a differenza degli Ebrei e degli Zingari, i nazisti non perseguitarono o cercarono di perseguitare gli omosessuali non tedeschi.
Campo di Sachsenausen: internati omosessuali (1938)
Sempre tra il 1933 ed il 1945 le persone processate per la violazione del Paragrafo 175 furono circa 60.000, di questi circa 10.000 vennero internati nei campi di concentramento. Gli altri furono condannati a pene detentive.
Come si spiega questo apparente trattamento "mite"?
I nazisti distinguevano tra "cause ambientali" che avevano condotto alla omosessualità e "omosessualità abituale".
Nel primo caso il carcere duro, i lavori forzati, le cure psichiatriche e la castrazione volontaria erano ritenuti provvedimenti utili al reinserimento nella società. Nel secondo caso invece l'omosessualità veniva considerata incurabile.
Il tasso di mortalità degli omosessuali nei campi fu del 60% contro il 41% dei prigionieri politici ed il 35% dei Testimoni di Geova. Un altro dato significativo è dato dal fatto che due terzi degli omosessuali internati morirono durante il primo anno di permanenza nei campi.
Campo di Sachsenausen: internati omosessuali (1938)
Una transessuale tedesca che lavorava all'Eldorado. Ricadendo nella categoria degli "omosessuali abituali" e quindi incurabili, le transessuali furono le vittime più faciliQuesti dati portano a due conclusioni ancorché provvisorie.
La prima: tra gli omosessuali internati un considerevole numero doveva essere rappresentato dalla fascia di "omosessualità abituale" più evidente e cioËdalle transessuali. La seconda: l'omosessualità "abituale" veniva considerata una malattia degenerativa della "razza ariana" e, per questo motivo, sugli omosessuali vennero condotti con particolare intensità esperimenti pseudoscientifici quasi sempre - come vedremo - mortali. In più, come emerge dalle testimonianze, l'accanimento delle SS contro gli omosessuali era particolarmente violento.
Una transessuale tedesca che lavorava all'Eldorado. Ricadendo nella categoria
degli "omosessuali abituali" e quindi incurabili, le transessuali furono le vittime più facili
A questo si aggiunga che i detenuti omosessuali - a differenza delle altre categorie --- secondo le numerose testimonianze assumevano un atteggiamento di rinuncia alla sopravvivenza con un tasso di suicidi (gettandosi sul filo spinato elettrificato dei campi o rifiutando il cibo) estremamente elevato. Più di altri prigionieri gli omosessuali subivano un crollo psicologico profondissimo. In un primo tempo gli internati in base al Paragrafo 175 erano costretti ad indossare un bracciale giallo con una "A" al centro. La "A" stava per la parola tedesca "Arschficker", sodomita. Altre varianti furono dei punti neri o il numero "175" in relazione all'articolo di legge. Soltanto successivamente, seguendo la rigida casistica iconografica nazista venne adottato un triangolo rosa cucito all'altezza del petto.
La vita nei campi di concentramento per i "triangoli rosa" fu terribile e seconda soltanto ai prigionieri ebrei.
La storia di Heinz Heger in questo senso è illuminante. Heinz Heger era uno studente ventiduenne dell'Università di Vienna senza alcun impegno politico, non era membro dell'associazione studentesca nazista né di qualsiasi altra organizzazione.
Cresciuto in una famiglia cattolica osservante ciononostante trovò in sua madre comprensione e accettazione per la sua omosessualità. Heinz non fece mistero con nessuno della propria omosessualità e gli effetti non tardarono a manifestarsi. Il padre venne licenziato e intorno alla famiglia si fece il vuoto a causa dell'arresto di Heinz per violazione dell'Articolo 175. A seguito dell'arresto il padre si suicidò lasciando un biglietto per la moglie con queste parole: "E' troppo per me. Perdonami. Dio protegga nostro figlio".
Arrestato nel 1939 Heinz venne processato e condannato a 6 mesi di prigione. Il partner di Heinz non venne giudicato per "disordini mentali". Trascorsi i 6 mesi ad Heinz venne notificato che su richiesta del Dipartimento Centrale di Sicurezza non sarebbe stato scarcerato ma trasferito al campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui dopo essere stato malmenato come benvenuto e lasciato ore in piedi nel campo in pieno inverno venne sistemato nel blocco degli omosessuali che all'epoca ospitava 180 persone. In omaggio all'idea nazista che attraverso il lavoro duro si otteneva la "purificazione" i prigionieri erano adibiti a lavori pesanti senza senso come spazzare la neve a mani nude trasportandola su un lato della strada per poi essere costretti a portarla tutta sul lato opposto.
A maggio del 1940 venne trasferito al campo di concentramento di Flossenburg dove rimase sino alla fine della guerra.
Con la liberazione dei campi da parte degli Alleati paradossalmente ---- ma questa è un altra storia sempre di brutture che va pero al di la dell'olocausto nazista iniziata nel lontano 187 e finita nel 1994 dopo l'unificazione della Germania e l'abolizione del famigerata legge "Paragrafo 175" --- [ corsivo mio ] i triangoli rosa non riacquistarono la libertà. Americani ed Inglesi non considerarono gli omosessuali alla stessa stregua degli altri internati ma criminali comuni. In più non considerarono gli anni passati in campo di concentramento equivalenti agli anni di carcere. Ci fu così chi, condannato a otto anni di prigione, aveva trascorso cinque anni di carcere e tre di campo e per questo venne trasferito in prigione per scontare altri tre anni di carcere.
E se tali persone prima d'aprire quel cesso di boccaoltre a collegare il cervello quando parlano volessero saperne di più ecco un altro sito su tale argomento ( cvioè l'olocaustoi nhellgay nie lager nazisti ) la pagina di di http://it.wikipedia.org/