anche noi italiani non fummo immuni dai crimini dell'olocausto ma di questo non tutti ne parlano e chi lo fa viene bollato come anti patriota
Lunedì, 29 June 2015 17:45 Scritto da Davide Allegri
I campi di concentramento fascisti in Jugoslavia
“Il mio nome è Marija Poje. Sono una ex internata nel campo di concentramento forzato di Rab-Arbe e di Gonars. Sono nata il 5 aprile 1922 a Gorači, un paesetto sperduto tra i boschi al confine tra la Slovenia e la Croazia. Sono stata arrestata e internata alla fine del mese di luglio del 1942 con tutta la mia famiglia, con tutta la gente del mio paese, i bambini, i vecchi, tutti. Ci hanno bruciato le case a Stari kot dove mi ero trasferita dopo il matrimonio. Siamo partiti solo con quello che siamo riusciti a portarci dietro. […]In quella bolgia infernale dove il pianto dei bambini si alternava agli urli delle donne alle quali avevano appena fucilato il marito, io ho pensato solo al mio bambino che allora aveva 16 mesi ed era sempre con me, perché avevo paura che ci dividessero e non avevo fiducia in nessuno. Essere divisi dalla famiglia, dagli abitanti del proprio paese o da gente conosciuta era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere. Noi gente di montagna eravamo abituati a stringere i denti, ma l’insicurezza della nostra posizione e la crudeltà dei soldati ci facevano stare in apprensione. […] La mattina seguente dopo un ultimo appello e dopo averci diviso dagli uomini, ci hanno fatti salire sui camion per portarci chissà dove.”
A prima vista questa sembra una delle tante testimonianze toccanti dei sopravvissuti ai campi di sterminio della Germania nazionalsocialista sparsi nell’Europa occupata. Ma qualcosa non torna, nei nomi di luogo: Rab, un’incantevole isola dell’attuale Croazia e Gonars, che a dispetto del nome, si trova in Friuli a pochi chilometri da Palmanova. Certo non sarebbe una novità venire a conoscenza di lager in terra italiana, vista la terribile fama guadagnata ad esempio dal campo di concentramento di Bolzano. Probabilmente campi sorti e gestiti dai tedeschi in Italia ed in Croazia dopo il 1943, dirà qualcuno. Assolutamente no: essi erano campi di concentramento voluti e organizzati dall’Italia fascista all’indomani dello scoppio della Seconda Guerra mondiale. Forse non votati allo sterminio sistematico e scientifico di una razza, come quelli del Reich tedesco, ma luoghi di orrore e morte del tutti simili a quelli ideati dal Führer.
Sorti per piegare la resistenza dei popoli dei Balcani ma, si badi bene, non certo destinati solo ai partigiani di Tito ed ai combattenti. In questi campi venivano indistintamente segregate e lasciate morire di fame e di malattie le popolazioni iugoslave
Uomini, ma soprattutto vecchi, donne e bambini: come Marija che aveva solo vent’anni ed era incinta. Il campo si portò via entrambi i figli dopo la fucilazione del marito. Una vita spezzata e segnata per sempre. Come lei decine di migliaia di civili subirono una sorte analoga. “Nei 29 mesi di occupazione italiana soltanto nella provincia compresa tra Lubiana e Fiume vennero fucilati cinquemila civili, 900 furono i partigiani catturati e fucilati e, in base ai dati a disposizione presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, furono più di 20.000 i deportati civili sloveni internati nei campi di Arbe, Chiesanuova (Padova), Monigo (Treviso), Gonars (Udine) e Renicci di Anghiari (Arezzo)” sostiene Boris Mario Gombač (articolo completo qui), lo storico italo-sloveno che insieme ad altri come Angelo del Boca per l’Africa e Carlo Spartaco Capogreco per i Balcani, sta cercando di rompere il velo di silenzio e omertà sui crimini commessi dal fascismo nelle sue “colonie”. Studi che distruggono lo stereotipo del “soldato italiano buono” a confronto con i tedeschi “cattivi” e che mettono in luce la necessità di approfondire ulteriormente queste vicende. Si trattava di campi del tutto “illegali”, vale a dire non visitabili dalla Croce Rossa internazionale e dove i detenuti non potevano ricevere aiuti, pacchi viveri e visite dall’esterno. Campi dove gli internati erano costretti ad una durissima lotta quotidiana per la sopravvivenza: “ormai la sopravvivenza era diventata una lotta di tutti contro tutti. Si lottava contro gli abitanti delle altre tende, contro i militari ma anche contro i nostri uomini che dall’altra parte della rete pretendevano dalle mogli il loro rancio quotidiano. Nelle nostre menti era inciso solo un pensiero: chi riusciva a sopravvivere un giorno più degli altri era vivo e chi non ce la faceva lo portavano giù verso le fosse comuni. Ormai eravamo solo l’ombra di noi stessi. I giorni e le notti passavano tra il pianto e i gemiti continui dei bambini affamati o assetati che andava avanti per mesi” prosegue la testimone nel suo toccante racconto.
Solo l’armistizio del 1943 interruppe questo orrore. Marija, nel frattempo trasferita da Rab a Gonars così descrive la fuga: “All’uscita del campo eravamo mal messi, le gambe non ci tenevano e dopo pochi passi eravamo stanchi come se avessimo falciato l’erba tutto il giorno. Un militare ci aveva dato del riso, ma non sapevamo cosa farne, non sapevamo come cuocerlo e mangiarlo. Per strada abbiamo trovato gente che ci dava del pane. Qualcuno vedendoci ripeteva esterrefatto “poveri bambini, poveri bambini”. Alcune donne ci hanno portato pane e sapone indicandoci i bambini. Era buona questa gente.” Un barlume di umanità in una vicenda turpe e taciuta troppo a lungo.
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