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4.12.15
Selfie sotto accusa . Una settimana prima di essere uccisa a Perugia dal marito, l’avvocato Raffaella Presta si era fatta un selfie del proprio volto tumefatto ma nessuno ldegli amici a cui l'ha mandato l'ha portato dai carabinieri o forze dell'ordine
03/12/2015
MASSIMO GRAMELLINI
e lo aveva spedito al fratello e all’amica più cara con il commento: «Ecco come mi ha ridotta» e la chiosa amara «Incidente domestico, diciamo». Oltre che uno sfogo, forse una richiesta di aiuto: io non ce la faccio a denunciarlo, pensateci voi.
Il tema è immenso e chiama in causa tutti: la bestialità gelosa di certi maschi che confondono l’amore con il senso del possesso e l’impossibilità per certe donne di abbandonare da sole un nido diventato mattatoio, persino quando ne avrebbero gli strumenti culturali e giuridici: Raffaella Presta era un’esperta di diritto di famiglia. Chiama però in causa anche gli amici di entrambi. Ma mentre esiste sempre l’ipotesi che il marito violento riuscisse a nascondere agli altri la propria natura e la scatenasse soltanto tra le mura domestiche, il selfie della vittima testimonia che qualcuno all’esterno della coppia era stato avvertito. Le colleghe di Raffaella l’avevano vista arrivare a giugno in ufficio con un timpano rotto a furia di botte e l’avevano scongiurata affinché chiamasse i carabinieri. Ma perché non li avevano chiamati loro? Perché uno dei destinatari del selfie d’accusa non si è presentato in procura sventolando l’immagine impressa nel suo telefonino? Quel selfie era a tutti gli effetti una notizia di reato. Il proverbio dice: tra moglie e marito non mettere il dito. Ma se il marito comincia a usare i pugni, almeno un dito bisognerebbe mettercelo eccome.
LEGGI ANCHE Il selfie del volto tumefatto di Raffaella, 8 giorni prima di morire
30.4.13
La nuda verità
Sono
arrivati. Puntuali e disgustosi come sciacalli. Sempre pronti a
giudicare, a scaricare la colpa su altri, ad accusarli di malafede. Ad
attaccare per non esser attaccati.

Hanno
visto il manifesto-shock dell'Arabia Saudita contro la violenza sulle
donne. Una ragazza che s'intuisce bella, nascosta dietro il niqab, con
solo gli occhi splendenti, perforanti e spietati. Uno magnifico, nero
come la notte. L'altro tumefatto, turgido di sangue. Commento secco, di
lama affilata: "Alcune cose non possono essere coperte".
La
campagna, finanziata dalla Fondazione Re Khalid, ha suscitato le ire
degli occidentalisti. I quali fingono di non capire. Di fronte
all'inequivocabile immediatezza dello slogan, essi, sedicenti difensori
dei diritti, lucidi e razionali, dimostrano una doppiezza levantina: "Da
quelle parti sono ancora al Medioevo!", "Ecco il ritratto d'una donna
libera!" (questa frase è accompagnata da un ghigno storto sotto la
fronte imperlata di sudore), "Se è finanziata dalla monarchia si tratta
sicuramente di fumo negli occhi per gli occidentali". E così via.
In
tal modo ululano gli sciacalli, bene attenti a fissare il dito, quando
la mano indica la luna. Come se in Europa, e segnatamente in Italia, le
pupattole nude che infestano i media, inculcando fin nei bambini il
binomio tra la donna e l'oggetto, fossero invece chiaro indice di
emancipazione. Come se in Europa, e segnatamente in Italia, la tragedia
del femminicidio fosse un retaggio polveroso di secoli remoti, ormai
estirpato per sempre. Come se in Europa, e segnatamente in Italia, il
numero di donne uccise dai partner non avesse raggiunto quasi la ventina
dall'inizio dell'anno.
E
segnatamente in Italia, non esiste alcuna legge contro il femminicidio.
Alcuna cultura della differenza di genere. Di recente, un uomo ha
inseguito la sua ex compagna con l'automobile, in un folle e disperato
inseguimento degno d'un poliziottesco anni '70. Non ha smesso finché non
l'ha uccisa. Lei aveva segnalato precedenti episodi di stalking da
parte dell'assassino, del tutto sottovalutati dalle forze dell'ordine.
Un
altro uomo ha sparato alla fidanzata, rea d'averlo lasciato. Non poteva
tollerare si ricostruisse una vita senza di lui. Il giorno prima aveva
pubblicato un annuncio sul web: "Ti amo tanto". L'ha amata fino alla
morte. Di lei.
Il
più agghiacciante dei femminicidi è stato però perpetrato, anche per la
valenza altamente simbolica, ai danni di un'avvocata
(maschilisticamente definita, da quasi tutti i giornali e Tv,
"avvocatessa"). Per lei, l'aguzzino ha studiato una soluzione
"all'indiana"; qui, nel razionale Occidente, in un ambiente di
professionisti borghesi, il maschio ferito nell'onore ha assoldato un
sicario per sfregiare la fedifraga con l'acido. Le ha ucciso il futuro,
cancellandole il volto: non sarai mia, non sarai di nessun altro. La
mente maschile non riesce a concepire una donna se non in termini di
proprietà.
Ora l'avvocata rischia di perdere la vista.
Episodi
che, senza sia stata attivata un'efficace campagna di prevenzione,
rischiano di diventare routine, se non oggetto di speculazione morbosa.
Come avviene per gli efferati omicidi delle ragazze e bambine Poggi,
Scazzi e Gambirasio; come avviene per quella pubblicità d'un panno
miracoloso esposta a Casoria, e fortunatamente ora ritirata, dove un
bullo belloccio, stile "uomo-che-non-deve-chiedere-mai", fissava
spavaldo l'obiettivo sotto la scritta "Elimina tutte. Le macchie",
presumibilmente anche di sangue, dato che alle sue spalle giaceva
esanime un corpo femminile.
Occorreva
la velata ragazza saudita per distoglierci da quest'atmosfera di
squallido film. Per ricordarci che la violenza è sempre nuda, sempre
svergognata, pur se si nasconde dietro spesse coltri nere.
Gli
apologhi della superiorità occidentale ne fanno una questione di
centimetri di stoffa. Basta toglierla, magari per deliziare estenuati
sguardi maschili, e tutto si risolve. Il rivoluzionario creativo/a arabo
non ha invece esitato a infrangere uno dei più inossidabili simboli
della tradizione culturale e religiosa del suo Paese: attenzione -
avverte - il femminicidio riguarda ogni donna, non solo le "ribelli" e
le insubordinate (mentre alcuni mesi fa, in Italia, il prete don Corsi
affiggeva alle porte della sua chiesa un'intemerata tratta dal sito
fondamentalista Pontifex contenente il più retrivo concentrato di
brutalità misogina, secondo
cui le donne subivano stupri per aver rinunciato al "naturale" ruolo di
asservimento all'uomo). Il femminicidio interessa ogni donna. E ogni
uomo. È, anzitutto, un problema di uomini.
Se
la donna non viene rispettata nella sua dignità nessun velo potrà
proteggerla. E nessun velo potrà nascondere l'occhio del dolore,
quell'occhio muto che, nella cultura arabo-islamica, è spoliazione e
varco, come l'ombelico rotante nella danza del ventre, suo corrispettivo
profano, continuamente ci ricorda.
L'occhio
pesto della donna in niqab è l'occhio d'una madre, d'una sorella, d'una
sposa. Ci dice, quell'occhio, che la violenza misogina nasce in
famiglia, cellula della società, e si alimenta con la cultura del
pregiudizio e della prepotenza. Attraverso un'immagine tradizionale, il
manifesto saudita fa dunque a pezzi una sciagurata tradizione. Non
sorprende sconquassi la cattiva coscienza dei violenti d'ogni
latitudine.
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