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1.1.25

“È giusto che si emigri, ma bisogna poter tornare”: così i nomadi digitali riportano vita nel cuore spopolato della Sardegna

da il FQ del 1/I\2025

 Il territorio di Laconi inizia dove l’ultimo tornante della strada statale 128 si apre sul verde. Per chi è originario di quel luogo, per chi vi è nato e da lì è emigrato, quel confine ufficioso segnala il ritorno a casa: è il “canali mraxani”, la valle stretta e lunga delle volpi. In quel paese dell’entroterra sardo, in provincia di Oristano, la popolazione si è ridotta della metà nell’arco di sessant’anni, fino ad arrivare agli

attuali 1600 residenti. E in altri sessant’anni, se la
 decrescita dovesse rimanere costante, come molti altri paesi della Sardegna, Laconi potrebbe quasi non esistere più. Eppure i primi segnali di un’inversione di rotta ci sono: nel centro storico del borgo, tra le mura di un’antica casa con il cortile, dal 2020 esiste Treballu (in sardo “lavoro”), il primo spazio di coworking e coliving rurale dell’isola. Che in quasi cinque anni ha innescato un circolo virtuoso di ritorni, arrivi e scambi culturali. E che ora vuole investire sui giovani del territorio.
Leonardo dalla Colombia, Evgeniya dalla Russia, Ardeena dall’Australia. Sono tanti i nomadi digitali che negli anni si sono fermati a Laconi, comune al di fuori dei principali circuiti turistici dell’isola – che da sempre è vista soprattutto come una meta di mare – e che non vuole convertirsi al turismo “mordi e fuggi”. “Volevamo avere un impatto reale sulla comunità, innestando nuove storie e nuovi incontri, che durassero nel tempo e che portassero nuova vita nel paese”, spiega Carlo Coni, fondatore e project manager di Treballu. “Con tutti i nomadi digitali si è creato un rapporto profondo, di amicizia e di connessione con il territorio. E spesso ritornano”.
Come Leonardo: “È un ragazzo colombiano che vive in Canada e lavora per un’azienda del nord degli Stati Uniti. È venuto l’estate scorsa e alla fine è rimasto per due mesi. I primi giorni era molto timido, credevo non si stesse integrando – ricorda Carlo – poi un giorno ha deciso che doveva farci provare il suo mojito”. Carlo in quell’occasione prova a dargli consigli sui negozi del paese, così che Leonardo possa recuperare il necessario: rum bianco, zucchero di canna, menta. Non sa che quel timido ragazzo del nuovo continente conosce bene persino i commercianti del borgo. Li cita per nome, poi dalla tasca estrae un foglietto un po’ stropicciato: “Il signore della bottega locale gli aveva disegnato una mappa per trovare il punto in cui cresce la mentuccia selvatica – racconta Carlo – Abbiamo bevuto quel mojito un po’ fusion, e al brindisi ha promesso che sarebbe tornato: voleva rivedere tutti”.
Del gruppo di Treballu fa parte anche Annalisa Zaccaria, europrogettista e garden designer permacultrice, insieme a tanti altri che supportano e collaborano con lo spazio. “Il progetto è nato anche da un bisogno personale: vogliamo vivere a Laconi, ma anche incontrare persone sempre diverse, che ci ricordino che non siamo unici e che il modo in cui facciamo noi le cose non è necessariamente il migliore – spiega Carlo – E questo scambio di visioni, fondamentale per crescere, vorremmo coinvolgesse sempre di più anche i ragazzi di Laconi e della Sardegna. Per questo guidiamo Giovani Iddocca, un’associazione che si occupa di mobilità giovanile”.
Perché secondo il fondatore di Treballu emigrare è positivo, ma può esserlo anche tornare. “Non credo nella retorica del bloccare lo spopolamento, è giusto che la gente emigri. Ciò che si può fare è offrire prospettive di ritorno, lavorare concretamente perché un luogo come questo non si rassegni né all’estinzione, né all’essere solo una meta turistica o una località nota per le sue tradizioni”. E spiega: “Il folclore, il costume sardo, i balli, sono sì una parte di ciò che siamo, ma non bastano a definire la nostra identità”. Proprio come in una poesia dello scrittore sardo Marcello Fois: “Io ho visto bene me stesso col costume della festa. E mi sono visto come gli altri mi vedevano, non com’ero. Perché adattarsi allo sguardo altrui può diventare una forma di sopravvivenza, ma anche una forma di eutanasia”.
Su queste premesse è nato anche il progetto Ammonte dell’associazione Giovani Iddocca, con il supporto della European Youth Foundation e il patrocinio del Comune di Laconi. Partendo da un processo di progettazione partecipata, l’obiettivo è quello di creare uno “spazio creativo rurale”, un punto di riferimento per la comunità, soprattutto per i giovani, in collaborazione con enti locali, imprese del territorio e associazioni culturali. Un luogo dove tutti possano essere liberi di organizzare workshop, eventi, presentazioni. “Sentiamo che Treballu non è abbastanza. Serve un luogo che sia di tutti. Così uniremo la dimensione internazionale e la dimensione locale”.
Il 7 dicembre per il progetto Ammonte si è tenuto un evento di restituzione e confronto. Molte tra le realtà presenti – Treballu compresa – fanno parte di Nodi, una rete di connessione fondata e coordinata da Federico Esu. Nodi vuole unire il capitale culturale di chi è emigrato e poi tornato, di chi non se n’è mai andato, ma anche di chi si è trasferito in Sardegna per la prima volta: “È importante collaborare, coesistere. Ci si sente meno soli e si cresce insieme – riflette Carlo – Io stesso so cosa significa viaggiare e poi portare le proprie scoperte a casa, un’esperienza che condivido con Esu e con alcuni degli amici che collaborano a Treballu. L’idea stessa di coliving rurale l’ho avuta in un’esperienza di scambio giovanile in Spagna”. Perché il cambiamento non si attua da soli: nasce con l’incontro e si sviluppa con lo scambio.


1.11.20

Vivere senza supermercato. L’esperienza di Elena

 


Dal canale Youtube  di Bernardo Cumbo (…) Elena Tioli ex consumista perfetta, ex insoddisfatta cronica e schiava dell’aspetto esteriore. Ex dipendente a tempo indeterminato. Dal 2015 non entra in un supermercato. Negozi che vendono sfusoautoproduzioneaziende agricole e socialibotteghe e negozi di quartiere e altre piattaforme che mettono in contatto diretto produttori e consumatori.

Ha creato la mappa Italia senza supermercato (che puoi trovare sul sito  Vivere senza Supermercato ) in cui chiunque può segnalare piccoli produttori, aziende etiche, il mondo dello sfuso, del biologico, del solidale… lontano dalla grande distribuzione e vicino al Pianeta e alle persone.

27.8.16

ritorniamo al passato o meglio integriamolo con il presente ovvero pensiare globale agire locale cioè un economia di decrescita

 canzoni  suggerite
  • 883  - nord  sud ovest est 
  • Edoardo bennato  - l'isola    che non  c'è




 c'è qualcuno che  applica  o almeno ci prova  a  pensare locale  agire locale

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 da  repubblica  del 26\8\2016


Basta consumismo, riappropriamoci del tempo". Budapest festeggia la decrescita
A Budapest sono diverse le iniziative che promuovono uno stile di vita sostenibile. Come Cargonomia, punto d'incontro tra tre piccole imprese “ecocompatibili”, che si occupano di cibo e consegne. O Átalakuló Wekerle, un'associazione di quartiere impegnata  in diverse attività: dall'isolamento delle finestre al compostaggio. Non a caso, dal 30 agosto al 3 settembre, la capitale magiara ospiterà la quinta Conferenza internazionale sulla decrescita Dal 30 agosto al 3 settembre la capitale magiara ospita la quinta conferenza internazionale dedicata al movimento. Un'occasione per riflettere sulla sostenibilità del nostro stile di vita

BUDAPEST - A Cargonomia, punto d'incontro tra tre piccole imprese "ecocompatibili" attive a Budapest, è appena arrivata una cassetta di uova fresche. È stata poggiata a fianco delle particolari bici cargo a tre ruote progettate per scorrazzare in città, consegnando frutta e verdura. "Ce l'ha inviata un amico che sta implementando una cooperativa", dice Vincent Liegey, ricercatore francese ora di base in Ungheria, e uno dei coordinatori del progetto. "In cambio domani potremo offrirgli un servizio di trasporto con le nostre bici, oppure aiutarlo a fare delle riparazioni in fattoria. Difficile spiegare che cosa sia esattamente questo posto se non un'esperienza economica alternativa basata non sul profitto né sullo scambio, ma sulla reciprocità".
"Basta consumismo, riappropriamoci del tempo". Budapest festeggia la decrescita

un anarchico silenzio, all'interno della capitale magiara c'è una città decrescente che, quasi per paradosso, si allarga. Contrasta i messaggi divisivi di Viktor Orbán, attuale primo ministro del paese, ma anche quelli di molti altri leader europei. Perché promuove altri modelli di vita, costruiti sulla collaborazione. Non a caso qui, dal 30 agosto al 3 settembre, si terrà la quinta conferenza internazionale sulla decrescita. L'ultima, a Lipsia, è stata un boom: oltre tremila le persone coinvolte, provenienti da 74 paesi. "Quest'anno sarà particolarmente interessante per due ragioni", prosegue Liegey, che è anche tra gli organizzatori della manifestazione. La prima: "L'Ungheria ha vissuto il violento collasso dell'Unione Sovietica, uno stato centralizzato, implementazione dittatoriale di una buona idea. E dato che anche la decrescita nasce dalla teoria, penso che sia una buona occasione per imparare dagli errori passati e per facilitare il dialogo tra est e ovest. La seconda è che qui non c'è stato lo stesso sviluppo che ha caratterizzato l'Occidente, però ci sono ugualmente molte attività solidali ben funzionanti"





Tutte coinvolte nei due eventi paralleli in programma: in cinquecento parteciperanno alle conferenze pensate più per addetti ai lavori, mentre al festival - con workshop, discussioni aperte, esibizioni artistiche - si aspettano migliaia di curiosi. Pronti ad assaggiare cibo biologico e a imparare trucchetti utili a risparmiare nella vita domestica. L'obiettivo è indurre tutti a porsi delle domande: che cosa sono crescita e sviluppo?; è possibile avere una crescita infinita su un pianeta finito?. Gli stessi quesiti che circa quindici anni fa hanno caratterizzato gli esordi di ciò che Liegey definisce un modo di pensare "interdisciplinare e multidimensionale": "Ci sono tante strade per la decrescita quante persone 'decrescenti'", puntualizza, "infatti, non si tratta un movimento che ti dice cosa fare, bensì ti invita ad abbandonare la logica dell'ottenere sempre di più, a riappropriarti del tempo, come di una stile di vita sostenibile e pieno di significato".






Un mutamento che, secondo l'attivista, è necessario adesso più che mai. "Oggi stiamo fronteggiando il collasso della società occidentale, fondata sulla convinzione che la crescita permetta di risolvere i conflitti sociali. Un falso mito, perché le risorse fisiche sono limitate. Gli effetti sono sotto i nostri occhi: il cambiamento climatico, la perdita delle biodiversità e via discorrendo. Ma c'è anche un limite culturale. Nonostante il consumismo, non siamo più felici: c'è un alto livello di stress, un alto numero di suicidi, di violenza e sfruttamento". Per modificare il corso corrente basta poco. Qualche esempio: si può lasciare il proprio lavoro in banca e investire in una fattoria, fare la spesa in un negozio di prodotti a chilometro zero  o mangiare meno carne. Basta questo a rendere più felici? "A me sì", ribatte Liegey.





A Wekerle estate, nel XIX distretto di Budapest, sono partiti dal cibo buono. Arrivando qui dal centro, sembra di addentrarsi in un villaggio d'altri tempi. Case basse con giardino e biciclette a ogni angolo. "La zona è stata disegnata per accogliere le persone che si sono spostate in città dalla campagna. L'idea era quella teorizzata dall'inglese Ebenezer Howard: un mix proporzionato tra agricoltura, industria e abitazioni", spiega Tracey Wheatley che fa parte di Átalakuló Wekerle, un'associazione di quartiere impegnata a promuovere diverse attività









dall'isolamento delle finestre al compostaggio. "Abbiamo cominciato dal mangiare: perché il pane saporito fatto con grano coltivato senza pesticidi, per dire, è qualcosa che viene capito in fretta da tutti", racconta, "ma, in sostanza, ciò che stiamo facendo è lavorare sulla cooperazione, la tolleranza e l'auto organizzazione. In modo da spingere le persone a guardare fuori dal proprio piccolo mondo, a lavorare insieme e fidarsi degli altri".

  che sia  la  via   da  intraprendere o  per  chi l'applica  sia la  via  giusta   c'è  il fatto che sempre  da  repubblica   online  d'ieri   si legge  questa news


Le birre artigianali mettono alle strette i colossi: 5.500 tagli per AB Inbev

La società belga pianifica uno sfoltimento del 3 per cento della forza lavoro complessiva, nei tre anni successivi alle nozze con SABMiller. I gruppi del largo consumo generalista corrono ai ripari per diminuire i costi
MILANO - Troppi dipendenti nel gigante della birra Anheuser-Busch InBev, che è convolato a nozze miliardarie con la concorrente SABMiller per creare un colosso della bevanda apprezzata in tutto il mondo. La società si aspetta di tagliare il 3 per cento circa della sua forza lavoro complessiva nei tre anni successivi alla fusione, in una mossa mirata proprio a massimizzare le sinergie (più prosaicamente i risparmi) date dall'unione dei due maggiori birrifici al mondo.
Secondo le informazioni dettagliate in un documento pubblicato in merito all'acquisizione, la cura dimagrante dovrebbe esser attuata in maniera graduale, per fasi. Alla fine del processo, però, 5.500 posti di lavoro dovrebbero essere cancellati, secondo quanto ha riportato una fonte anonima a conoscenza della materia alla Bloomberg.
I tagli al personale rientrano in una strategia da 1,4 miliardi di dollari di risparmio annuo che AB InBev si aspetta di riuscire a realizzare, a valle della fusione. Tutti i birrifici che hanno in portafoglio marchi destinati al largo consumo stanno d'altra parte cercando di tagliare i costi di produzione e distribuzione, messi sotto pressione dalla crescita dei piccoli birrifici indipendenti, tanto in Europa che in Nord America. SABMiller soltanto, l'anno scorso, ha raddoppiato il suo obiettivo di risparmi a 1,05 miliardi di dollari entro il 2020.   Secondo AB InBev, che resta il maggior produttore al mondo, the world’s largest brewer, i tagli sono per altro limitati ad alcune aree e non includono ad esempio la divisione delle vendite, dove non sono stati ancora sviluppati piani

di integrazione a causa dei vincoli da parte della Autorità di regolamentazione. La compagnia ha perl specificato che il quartier generale di SABMiller verrà integrato al proprio - che si trova in Belgio, a Leuven - così come avverrà per il management office a New York.




13.10.13

«Decrescere per salvare la Terra, siamo a un passo dal baratro»

unione  sarda del 13\10\2013

«Decrescere per salvare la Terra, siamo a un passo dal baratro»

È preoccupato, il professore. Lo ha pure messo per iscritto in uno dei suoi tanti libri, stravenduti in molti Paesi. Sostiene che stiamo assistendo in diretta al crollo della nostra civiltà. Il sogno occidentale, spiega, è morto l'11 settembre 2001 con l'attentato alle Twin Towers. Ma prima c'è stata una crisi culturale con le rivolte studentesche del 1968, una crisi ecologica nel 1972 col primo rapporto del Club di Roma, una crisi sociale nel 1986 con la politica turbo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Segnali evidenti, tutti questi, che la festa è davvero finita.Serge Latouche, filosofo ed economista, è diventato una celebrità per la sua teoria sulla decrescita felice. In sostanza dice che abbiamo speso e consumato oltre le nostre possibilità ampliando la forbice tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri. «Non poteva durare». La salvezza, a un millimetro dal baratro, è in una ricetta apparentemente semplice: scendiamo tutti di un gradino. Ossia: riduciamo consumi e lavoro, sprechiamo meno, rispettiamo l'ambiente. Altrimenti sarà la Fine.

Settantatré anni, tre figli e cinque nipotini (che racconta con affettuoso sorriso), ha insegnato all'università di Parigi. Ha una laurea in Economia, un dottorato in Filosofia e una specializzazione in Scienze politiche: questo cocktail gli occorre per illustrare con solide argomentazioni l'analisi sul futuro che ci aspetta. I denigratori dicono che è l'apostolo d'una sorta di pauperismo planetario, uno che vorrebbe mettere la Terra in saldi ma nessuno riesce tuttavia a collocarlo politicamente in maniera precisa. «Sto dalla parte degli esclusi del mondo», precisa lui mostrando indifferenza alla valanga di etichette che gli hanno appiccicato addosso.
Abita a Parigi quattro mesi l'anno, per altri quattro va in giro a tenere conferenze e lezioni e infine si divide tra una casa vicina ai Pirenei e l'appartamento di un'amica ad Arzachena. Cappello da marinaio bretone (che sarebbe piaciuto a Lenin), cammina aiutato da un bastone. È alto, asciutto, informale nel comportamento e nel modo di vestire. Il contrario di un super-accademico, insomma. Ad ascoltarlo, mentre raschia meticolosamente la schiuma di un cappuccino in un bar di Marrubiu (nell'Oristanese), c'è da restare stupiti per la chiarezza e la sorprendente capacità di esprimere con parole semplici concetti decisamente complessi. Si definisce obiettore di crescita per far capire quale sia la sua visione della realtà. E qui comincia una pacata e lucida requisitoria contro il capitalismo, lo sfruttamento selvaggio delle risorse, l'indifferenza verso tutti quelli che non hanno un posto a tavola. Se non ci mettiamo rimedio, e subito, sarà Apocalisse.
Perché decrescere?
«Perché non si può crescere all'infinito. L'ossessione per lo sviluppo ci ha fatto perdere il senso della misura. Bisogna ritrovarlo. Viviamo in un mondo che è stato dominato dalla illimitatezza. Una crescita infinita è incompatibile in un Pianeta che è invece limitato, finito».
Dove inizia la decrescita?
«Si deve rinunciare alla logica del sempre-di-più. Il nostro sistema è basato sul principio della illimitatezza: illimitatezza della produzione, che comporta la distruzione delle risorse rinnovabili e non rinnovabili; illimitatezza dei consumi, che significa creare continuamente bisogni artificiali; illimitatezza dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua. Il problema è che noi viviamo nel capitalismo e il capitalismo, alle sue radici, ci impone di avere sempre di più».
A proposito di capitalismo: lei è amato dall'estrema destra e dalla sinistra. Da che parte sta?
«Storicamente vengo dalla sinistra. C'è tuttavia un punto in comune tra gli estremi: difatti finiscono per congiungersi. Il capitalismo oggi si chiama modernità. Ecco, io critico la modernità, vorrei fuggirne prima possibile. Nello stesso tempo capisco la nostalgia di chi rimpiange il passato e propone uno sviluppo sostenibile. Ma veramente sostenibile».
Brutalizzando: sbagliato definirla conservatore illuminato?
«Lo scrittore George Orwell, autore della celebre Fattoria degli animali, invocava un presente non deviato, civile, onesto, possibile. La mia linea è esattamente questa. Poi, chiamatela come vi pare».
Lo sviluppo economico è una via senza uscita?
«Lo sviluppo economico, almeno come l'abbiamo interpretato e messo in atto, è una strada sbagliata. Non si può crescere all'infinito. Lo sviluppo materiale, tenuto conto che la materia è limitata, non può gonfiarsi senza fine».
Crescita, dal suo punto di vista, significa morte certificata dello sviluppo.
«Dello sviluppo come abbiamo voluto intenderlo noi, certamente sì. È la nostra storia a dimostrarlo».
Ha detto: liberiamoci dalla logica economicista. Vuol dire no alla globalizzazione?
«Noi francesi la chiamiamo mondializzazione ma, in fondo, le due parole sono identiche. La mondializzazione del mercato cos'è? Lo aveva detto Karl Marx molto prima di me: la Terra è mondializzata almeno dal 1492, ossia dalla scoperta dell'America. Allora, cosa c'è di nuovo? C'è che siamo arrivati all'omologazione totale, alla cancellazione delle culture locali, delle identità. Tutto questo ha un solo obiettivo: accrescere i consumi senza fermarsi mai».
Dunque dobbiamo smettere di sognare, sperare di diventare sempre più ricchi.
«Siamo costantemente ingombrati da, come dire?, la civiltà dei gadget. È il caso di abbandonarla: ci offre un arricchimento davvero modesto e solo apparente».
La decrescita è l'esatto opposto dello spirito del capitalismo?
«Da un certo punto di vista, sicuramente sì. Stiamo parlando del capitalismo che conosciamo, quello con cui facciamo i conti tutti i giorni, quello analizzato con precisione dal sociologo Max Weber. La finalità del capitalismo è il profitto. Profitto a qualunque costo».
Lei però critica anche chi parla di sviluppo sostenibile.
«Lo sviluppo sostenibile è il più bell'ossimoro inventato finora. Se si chiama sviluppo non può essere, per definizione, sostenibile. È l'invenzione di un vero criminale, recentemente condannato dal Tribunale di Torino a diciotto anni di carcere. Per capirci, il signore dell'amianto. Governa la più imponente lobby del cosiddetto sviluppo sostenibile ovvero il World business Council of sustainable development. Assieme ad un miliardario svizzero e un altro canadese (che si occupa di petrolio) hanno realizzato una società di marketing proprio per imporre lo sviluppo sostenibile».
Una grande ipocrisia, secondo lei.
«Qualcosa di peggio. Però si chiama semplicemente business. Affari e nient'altro. Gli affari non hanno odore: sono o non sono».
Il sole dell'occidentalismo è al tramonto?
«Penso di sì. Il filosofo Oswald Spengler parlava di declino dell'Occidente già tanto tempo fa. È un declino che pare non finire mai. O quasi: secondo qualcuno siamo a dieci anni dalla Grande Catastrofe».
Al sodo: il Pil (prodotto interno lordo) non può crescere all'infinito.
«Mi sembra una verità sotto gli occhi di tutti. Solo con le statistiche si può programmare e ipotizzare una crescita all'infinito. Crescita che abbiamo conosciuto in quello che si chiama trentennio d'oro, ovvero il boom del dopoguerra e dello sfruttamento del petrolio. Bene, quel tempo non tornerà mai più».
E allora?
«Gli economisti hanno però trovato il modo di farci credere che le cose possano continuare ad andare bene, ci hanno abituato-educato-convinto a una crescita fittizia, virtuale grazie alla magìa di una gigantesca bolla di speculazione finanziaria e immobiliare. Carte truccate che però sono servite a farci credere che in fondo non stava cambiando nulla».
Invece?
«Ora che s'è sgonfiata la bolla speculativa, debbono riconoscere che la crescita si è fermata. Parlano di un +0,5 o di un -0,5. Cioè inezie, briciole di sviluppo».
Quindi mentono i nostri governanti quando dicono di cogliere segnali di una ripresina?
«Naturalmente. È una truffa. A meno che non intendano per ripresina l'ipotesi che gli Usa non vogliano buttare sul mercato internazionale una parte della loro gigantesca montagna di dollari e allungare così l'agonia del sistema».
Tutti colpevoli, politici, imprenditori e sindacati?
«Certo, ognuno per la parte che gli compete. È quella che io chiamo la Santa Alleanza. Vanno tutt'e tre nella stessa direzione».
Con qualche eccezione: Enrico Berlinguer parlava di austerità già nel 1977.
«È stato di sicuro preveggente. Aveva capito con grande anticipo. L'austerità a cui si riferiva non è la parola d'ordine dei governi borghesi di oggi. Si richiamava alla necessità di stringere la cinghia, anzi di dividere la torta in modo più equo, per poter ipotizzare una prospettiva futura».
Federal Reserve, Banca Europea e Commissione Europea: è la troika che decide i nostri destini?
«Dietro di loro c'è un'oligarchia mondiale. Più o meno, sono quelli che si riuniscono ogni anno a Davos. Di tanto in tanto si incontrano come club di Bilderberg e, insieme, programmano e indirizzano il futuro di tutti. Sono loro che gestiscono il mercato finanziario mondiale».
Al succo della sua teoria: lavorare meno lavorare tutti?
«Direi meglio: lavorare meno per guadagnare di più. Ci aiuterebbe a ritrovare il senso della vita, che non sta affatto nel lavoro».
Ma lavorando meno, e dunque guadagnando meno, chi lo paga poi il mutuo della casa?
«Ci sono milioni e milioni di disoccupati che non hanno il problema del mutuo della casa. Hanno semplicemente diritto al lavoro come qualunque altro cittadino. Questa è proprio l'assurdità del nostro sistema: le aziende che chiedono ai dipendenti di lavorare sempre più e, sull'altro fronte, un oceano di persone che lavoro non ne ha. Bisogna imparare a condividere. Condividere significa giocoforza orientare verso il basso il livello collettivo di vita».
La sua ricetta per i disoccupati: rilocalizzazione sistematica delle attività utili. Che significa?
«Bisogna fermare l'emorragia di imprese che chiudono, interrogarsi sui piccoli imprenditori del Veneto che, strangolati dalle banche, si tolgono la vita. Una volta fermata l'emorragia, bisogna riavviare soprattutto la rete delle piccole imprese».
Un sospetto: non è che per lei le banche siano associazioni a delinquere legalizzate?
«Non necessariamente. Ma, con la trasformazione del capitalismo, che è diventato capitalismo finanziario, si occupano più di speculazione che non di aiuto all'attività produttiva. Stanno tradendo la loro missione».
Ammetterà che la decrescita è molto più facile da annunciare che non da realizzare.
«Inevitabile: siamo tossicodipendenti di questo sistema. Difficile rinunciare alla droga».
Lei applica la decrescita anche in casa sua?
«Faccio il possibile. Non ho il cellulare, mi sono liberato dell'apparecchio tivù, prendo l'aereo il minimo possibile e solo quando è strettamente necessario, vado in bici, sono diventato passeggero abituale dei treni notturni. Che, a differenza degli aerei, oggi sono molto modernizzati, puntuali e a buon prezzo. Rispettano più seriamente il mio tempo, insomma».

che desolazione la nostra classe politica pienone ipocrita per lo più per carlo III e assenza mentre viene discussa un’interrogazione sulla violenza di genere, la tutela delle vittime e gli atti persecutori.

Questo è il Senato, stamattina. E quelli che vedete sono i banchi della maggioranza mentre viene discussa un’interrogazione sulla violenza d...