È preoccupato, il professore. Lo ha pure messo per iscritto in uno dei suoi tanti libri, stravenduti in molti Paesi. Sostiene che stiamo assistendo in diretta al crollo della nostra civiltà. Il sogno occidentale, spiega, è morto l'11 settembre 2001 con l'attentato alle Twin Towers. Ma prima c'è stata una crisi culturale con le rivolte studentesche del 1968, una crisi ecologica nel 1972 col primo rapporto del Club di Roma, una crisi sociale nel 1986 con la politica turbo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Segnali evidenti, tutti questi, che la festa è davvero finita.Serge Latouche, filosofo ed economista, è diventato una celebrità per la sua teoria sulla decrescita felice. In sostanza dice che abbiamo speso e consumato oltre le nostre possibilità ampliando la forbice tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri. «Non poteva durare». La salvezza, a un millimetro dal baratro, è in una ricetta apparentemente semplice: scendiamo tutti di un gradino. Ossia: riduciamo consumi e lavoro, sprechiamo meno, rispettiamo l'ambiente. Altrimenti sarà la Fine.
Settantatré anni, tre figli e cinque nipotini (che racconta con affettuoso sorriso), ha insegnato all'università di Parigi. Ha una laurea in Economia, un dottorato in Filosofia e una specializzazione in Scienze politiche: questo cocktail gli occorre per illustrare con solide argomentazioni l'analisi sul futuro che ci aspetta. I denigratori dicono che è l'apostolo d'una sorta di pauperismo planetario, uno che vorrebbe mettere la Terra in saldi ma nessuno riesce tuttavia a collocarlo politicamente in maniera precisa. «Sto dalla parte degli esclusi del mondo», precisa lui mostrando indifferenza alla valanga di etichette che gli hanno appiccicato addosso.
Abita a Parigi quattro mesi l'anno, per altri quattro va in giro a tenere conferenze e lezioni e infine si divide tra una casa vicina ai Pirenei e l'appartamento di un'amica ad Arzachena. Cappello da marinaio bretone (che sarebbe piaciuto a Lenin), cammina aiutato da un bastone. È alto, asciutto, informale nel comportamento e nel modo di vestire. Il contrario di un super-accademico, insomma. Ad ascoltarlo, mentre raschia meticolosamente la schiuma di un cappuccino in un bar di Marrubiu (nell'Oristanese), c'è da restare stupiti per la chiarezza e la sorprendente capacità di esprimere con parole semplici concetti decisamente complessi. Si definisce obiettore di crescita per far capire quale sia la sua visione della realtà. E qui comincia una pacata e lucida requisitoria contro il capitalismo, lo sfruttamento selvaggio delle risorse, l'indifferenza verso tutti quelli che non hanno un posto a tavola. Se non ci mettiamo rimedio, e subito, sarà Apocalisse.
Perché decrescere?
«Perché non si può crescere all'infinito. L'ossessione per lo sviluppo ci ha fatto perdere il senso della misura. Bisogna ritrovarlo. Viviamo in un mondo che è stato dominato dalla illimitatezza. Una crescita infinita è incompatibile in un Pianeta che è invece limitato, finito».
Dove inizia la decrescita?
«Si deve rinunciare alla logica del sempre-di-più. Il nostro sistema è basato sul principio della illimitatezza: illimitatezza della produzione, che comporta la distruzione delle risorse rinnovabili e non rinnovabili; illimitatezza dei consumi, che significa creare continuamente bisogni artificiali; illimitatezza dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua. Il problema è che noi viviamo nel capitalismo e il capitalismo, alle sue radici, ci impone di avere sempre di più».
A proposito di capitalismo: lei è amato dall'estrema destra e dalla sinistra. Da che parte sta?
«Storicamente vengo dalla sinistra. C'è tuttavia un punto in comune tra gli estremi: difatti finiscono per congiungersi. Il capitalismo oggi si chiama modernità. Ecco, io critico la modernità, vorrei fuggirne prima possibile. Nello stesso tempo capisco la nostalgia di chi rimpiange il passato e propone uno sviluppo sostenibile. Ma veramente sostenibile».
Brutalizzando: sbagliato definirla conservatore illuminato?
«Lo scrittore George Orwell, autore della celebre Fattoria degli animali, invocava un presente non deviato, civile, onesto, possibile. La mia linea è esattamente questa. Poi, chiamatela come vi pare».
Lo sviluppo economico è una via senza uscita?
«Lo sviluppo economico, almeno come l'abbiamo interpretato e messo in atto, è una strada sbagliata. Non si può crescere all'infinito. Lo sviluppo materiale, tenuto conto che la materia è limitata, non può gonfiarsi senza fine».
Crescita, dal suo punto di vista, significa morte certificata dello sviluppo.
«Dello sviluppo come abbiamo voluto intenderlo noi, certamente sì. È la nostra storia a dimostrarlo».
Ha detto: liberiamoci dalla logica economicista. Vuol dire no alla globalizzazione?
«Noi francesi la chiamiamo mondializzazione ma, in fondo, le due parole sono identiche. La mondializzazione del mercato cos'è? Lo aveva detto Karl Marx molto prima di me: la Terra è mondializzata almeno dal 1492, ossia dalla scoperta dell'America. Allora, cosa c'è di nuovo? C'è che siamo arrivati all'omologazione totale, alla cancellazione delle culture locali, delle identità. Tutto questo ha un solo obiettivo: accrescere i consumi senza fermarsi mai».
Dunque dobbiamo smettere di sognare, sperare di diventare sempre più ricchi.
«Siamo costantemente ingombrati da, come dire?, la civiltà dei gadget. È il caso di abbandonarla: ci offre un arricchimento davvero modesto e solo apparente».
La decrescita è l'esatto opposto dello spirito del capitalismo?
«Da un certo punto di vista, sicuramente sì. Stiamo parlando del capitalismo che conosciamo, quello con cui facciamo i conti tutti i giorni, quello analizzato con precisione dal sociologo Max Weber. La finalità del capitalismo è il profitto. Profitto a qualunque costo».
Lei però critica anche chi parla di sviluppo sostenibile.
«Lo sviluppo sostenibile è il più bell'ossimoro inventato finora. Se si chiama sviluppo non può essere, per definizione, sostenibile. È l'invenzione di un vero criminale, recentemente condannato dal Tribunale di Torino a diciotto anni di carcere. Per capirci, il signore dell'amianto. Governa la più imponente lobby del cosiddetto sviluppo sostenibile ovvero il World business Council of sustainable development. Assieme ad un miliardario svizzero e un altro canadese (che si occupa di petrolio) hanno realizzato una società di marketing proprio per imporre lo sviluppo sostenibile».
Una grande ipocrisia, secondo lei.
«Qualcosa di peggio. Però si chiama semplicemente business. Affari e nient'altro. Gli affari non hanno odore: sono o non sono».
Il sole dell'occidentalismo è al tramonto?
«Penso di sì. Il filosofo Oswald Spengler parlava di declino dell'Occidente già tanto tempo fa. È un declino che pare non finire mai. O quasi: secondo qualcuno siamo a dieci anni dalla Grande Catastrofe».
Al sodo: il Pil (prodotto interno lordo) non può crescere all'infinito.
«Mi sembra una verità sotto gli occhi di tutti. Solo con le statistiche si può programmare e ipotizzare una crescita all'infinito. Crescita che abbiamo conosciuto in quello che si chiama trentennio d'oro, ovvero il boom del dopoguerra e dello sfruttamento del petrolio. Bene, quel tempo non tornerà mai più».
E allora?
«Gli economisti hanno però trovato il modo di farci credere che le cose possano continuare ad andare bene, ci hanno abituato-educato-convinto a una crescita fittizia, virtuale grazie alla magìa di una gigantesca bolla di speculazione finanziaria e immobiliare. Carte truccate che però sono servite a farci credere che in fondo non stava cambiando nulla».
Invece?
«Ora che s'è sgonfiata la bolla speculativa, debbono riconoscere che la crescita si è fermata. Parlano di un +0,5 o di un -0,5. Cioè inezie, briciole di sviluppo».
Quindi mentono i nostri governanti quando dicono di cogliere segnali di una ripresina?
«Naturalmente. È una truffa. A meno che non intendano per ripresina l'ipotesi che gli Usa non vogliano buttare sul mercato internazionale una parte della loro gigantesca montagna di dollari e allungare così l'agonia del sistema».
Tutti colpevoli, politici, imprenditori e sindacati?
«Certo, ognuno per la parte che gli compete. È quella che io chiamo la Santa Alleanza. Vanno tutt'e tre nella stessa direzione».
Con qualche eccezione: Enrico Berlinguer parlava di austerità già nel 1977.
«È stato di sicuro preveggente. Aveva capito con grande anticipo. L'austerità a cui si riferiva non è la parola d'ordine dei governi borghesi di oggi. Si richiamava alla necessità di stringere la cinghia, anzi di dividere la torta in modo più equo, per poter ipotizzare una prospettiva futura».
Federal Reserve, Banca Europea e Commissione Europea: è la troika che decide i nostri destini?
«Dietro di loro c'è un'oligarchia mondiale. Più o meno, sono quelli che si riuniscono ogni anno a Davos. Di tanto in tanto si incontrano come club di Bilderberg e, insieme, programmano e indirizzano il futuro di tutti. Sono loro che gestiscono il mercato finanziario mondiale».
Al succo della sua teoria: lavorare meno lavorare tutti?
«Direi meglio: lavorare meno per guadagnare di più. Ci aiuterebbe a ritrovare il senso della vita, che non sta affatto nel lavoro».
Ma lavorando meno, e dunque guadagnando meno, chi lo paga poi il mutuo della casa?
«Ci sono milioni e milioni di disoccupati che non hanno il problema del mutuo della casa. Hanno semplicemente diritto al lavoro come qualunque altro cittadino. Questa è proprio l'assurdità del nostro sistema: le aziende che chiedono ai dipendenti di lavorare sempre più e, sull'altro fronte, un oceano di persone che lavoro non ne ha. Bisogna imparare a condividere. Condividere significa giocoforza orientare verso il basso il livello collettivo di vita».
La sua ricetta per i disoccupati: rilocalizzazione sistematica delle attività utili. Che significa?
«Bisogna fermare l'emorragia di imprese che chiudono, interrogarsi sui piccoli imprenditori del Veneto che, strangolati dalle banche, si tolgono la vita. Una volta fermata l'emorragia, bisogna riavviare soprattutto la rete delle piccole imprese».
Un sospetto: non è che per lei le banche siano associazioni a delinquere legalizzate?
«Non necessariamente. Ma, con la trasformazione del capitalismo, che è diventato capitalismo finanziario, si occupano più di speculazione che non di aiuto all'attività produttiva. Stanno tradendo la loro missione».
Ammetterà che la decrescita è molto più facile da annunciare che non da realizzare.
«Inevitabile: siamo tossicodipendenti di questo sistema. Difficile rinunciare alla droga».
Lei applica la decrescita anche in casa sua?
«Faccio il possibile. Non ho il cellulare, mi sono liberato dell'apparecchio tivù, prendo l'aereo il minimo possibile e solo quando è strettamente necessario, vado in bici, sono diventato passeggero abituale dei treni notturni. Che, a differenza degli aerei, oggi sono molto modernizzati, puntuali e a buon prezzo. Rispettano più seriamente il mio tempo, insomma».