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6.7.24

L’amore per il latino e per la vita Così Marco Remedia,ha vinto la malattia

 Un brutto male diagnosticato alla nascita l’ha costretto a lottare fin da subito. E lui ne è uscito più forte e intenzionato a mettere a disposizione degli altri le proprie qualità. «Sogno di diventare insegnante»L’amore per il latino e per la vita Così Marco ha vinto la malattia

avvenire  6\7\2024
ROBERTO 
MAZZOLI

Pesaro
«Ragazzi, studiate il latino e scoprirete voi stessi». Sono le parole di Ivano Dionigi, pesarese, già Magnifico rettore dell’Università di Bologna e per lunghi anni a capo della Pontificia Accademia della Latinità. Parole che evidentemente hanno fatto breccia nel cuore di Marco Remedia, 14 anni, che quest’anno ha concluso brillantemente il primo anno al liceo classico “T. Mamiani” di Pesaro, ottenendo il massimo dei voti in tutte le materie d’indirizzo. 
Inoltre lo scorso 26 maggio ha ricevuto la palma del vincitore alla 33^ edizione di “Latinus Ludus”, manifestazione riservata alle giovani eccellenze italiane nello studio dei classici. « È stata la mia insegnante, Alessandra Massent, a iscrivermi e ho partecipato con grande entusiasmo alla prova che consisteva in una traduzione del “Ratto delle Sabine” di Tito Livio». Quel giorno su centinaia di partecipanti da tutta Italia, Marco consegna la sua traduzione per primo. È molto soddisfatto del suo lavoro e lo stupore della commissione è grande, anche perché sono trascorsi appena 50 minuti delle tre ore concesse. A casa per festeggiare il novello Cicerone ci sono mamma Francine e papà Filippo, le due sorelle maggiori Holly e Carolina e la nonna Maria Rosa, già maestra elementare e innamorata del latino. « La passione di Marco per questa lingua non ha niente di snob – dice il suo parroco don Mario Florio – e questo premio ha coronato il suo percorso che gli auguro lungo e fecondo». Sembra tutto facile per Marco, in realtà la sua vita si è rivelata un vero dramma fin dalla nascita. A seguito di una peritonite meconiale non riconosciuta al momento del parto, Marco subisce un ictus ischemico e sarà costretto ad un delicato intervento presso l’ospedale di Rimini dove verrà dimesso dopo un lungo ricovero di quasi due mesi. « Da quell’esperienza sono uscito anche con un superpotere – scherza Marco – infatti mi è rimasto un udito molto più sensibile della norma cosa che, se da un lato è positiva, d’altra parte è penalizzante perché amplifica ogni minimo rumore, impedendomi di concentrarmi come vorrei». Le gravi conseguenze motorie subite alla nascita, resteranno inoltre per tutta la vita, costringendolo a nuovi e complessi interventi chirurgici. L’ultimo esattamente un anno fa, quando è stato sottoposto all’allungamento dei tendini più importanti delle gambe: il semitendinoso e il gracile, che nel suo caso erano rimasti pari all’estensione di quelli di un bambino di tre anni. «Sono stato contento di essermi operato durante i mesi estivi, subito dopo l’esame di terza media perché, anche se ho patito parecchio caldo e sofferenza, almeno non ho perso giorni di scuola; non sarei stato in grado di dedicarmi allo studio, per me così importante, perché era già faticoso anche solo alimentarsi». Parlare con Marco è come dialogare con un adulto. Ha le idee ben chiare sul suo futuro: «Sogno di potermi iscrivere alla Facoltà di Lettere classiche e di diventare un insegnante ma spero di non sentirmi mai superiore agli altri, perché non c’è niente di più bello che comunicare la propria conoscenza ». Del resto comunicare deriva dal latino communicare: cum (insieme) e munus (dono), e Marco è un vero dono anche per la sua classe che ha festeggiato la sua vittoria portandolo in trionfo e facendogli sentire tutto l’affetto della vera amicizia. « A scuola mi trovo bene come in famiglia, mi piace studiare ma anche divertirmi come un qualunque ragazzo della mia età: leggo i fumetti manga, gioco alla playstation e vado all’oratorio parrocchiale». Come premio per il riconoscimento ottenuto, oltre a numerosi libri, potrebbe arrivare anche un regalo speciale della famiglia: un viaggio a Roma. « Non sono mai stato nella capitale e per me sarebbe un sogno viaggiare nel tempo alle origini della lingua che tanto mi affascina». E a proposito di sogni: la madre dice che nel sonno Marco parla in latino. Forse è proprio vero quel che dice Dionigi. Il latino ci consente di risalire al significato originario delle parole, di riconoscere il loro volto, di ripercorrere la loro storia. Perché le parole, come le persone, hanno un’origine, un volto e una storia.

1.8.23

Marco Ruffa, l'anarchico dei tatuaggi: "Serve più cultura e romanticismo"



Parla Marco Ruffa: "Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea" da  https://www.ilgiornale.it/news/arte/ del 30 Luglio 2023 - 14:44


                      DI Matteo Carnieletto




“L'anarchia non è fare quello che ti pare, l'anarchia è darsi delle regole prima che te le diano gli altri”. Così parlò De Andrè, Faber, e fabbro della parola. Un aedo del Novecento. Era, quella, un’idea che poco o nulla a che fare con quello che vediamo oggi. L’anarchico di ieri poteva anche essere un terrorista. Un criminale. Ma, prima di tutto, era un idealista. Un romantico, in definitiva. Uno ciò che metteva un’idea, giusta o sbagliata che fosse, al di sopra di tutto. Anarchico e romantico è ancora oggi Marco Ruffa, tatuatore presso T-Shock, in corso di Porta Ticinese a Milano. Carattere ruvido, ma capace in poco tempo di spalancare le porte all’amicizia, mette subito le cose in chiaro: “Giornalista e de ilGiornale. Mio padre lo leggeva, io ho preso una strada diversa: ho fatto il volontario del Leoncavallo, poi mi hanno deluso. Dei tuoi colleghi ne apprezzo solo uno: Massimo Fini”. Sorrido ed estraggo il telefono, perché devo difendermi. Il rischio di essere bollato come pennivendolo è dietro l’angolo. Cerco la mail di cui ho bisogno, l’ultima scritta dall’eterno ragazzo che ora non vede più, e che si conclude con quella che è per me una medaglia al valore: “Finiano di stretta osservanza”. Marco legge e si convince. L’intervista può cominciare. Anzi: prima i preliminari. Estrae un libro e, orgoglioso, dice: “Questo è il quaderno che contiene una parte dei miei lavori dal 1988 ad oggi. Ora è tutto su Instagram e su quelle cagate lì. Ma un libro è fisico, lo si può toccare”. Cominciamo a inquadrare la persona, che ci tiene subito a precisare: “Io e Michele (Tartaglia, ndr) siamo tattooer e non tattoo artist. Loro dicono: ‘Faccio solo questo’. Noi invece portiamo avanti l’idea di una storia: quando una persona entra in studio, eseguiamo quello che ci viene chiesto, senza fare i fighi”. Tutti gli stili, tranne il realistico, precisa: “Perché se non viene fatto bene, dopo due o tre anni fa schifo”.





Qual è lo stile che ti piace tatuare di più, quello insomma che ti dà maggiore soddisfazione?


Sono i tatuaggi grandi. Quelli grossi, perché mi piace andare a mano libera. Uno dei miei fari illuminanti è stato Hanky Panky, il tatuatore olandese Schiffmacher, che fra l'altro ho anche conosciuto. È un “pazzo” che, vedendolo lavorare, mi ha indirettamente insegnato come il tatuaggio debba essere una linea che entra nel corpo. Una linea semplice, pulita, veloce. Che puoi anche permetterti di sbagliare, perché poi dopo riempi con il nero. Personalmente, a me piace fare i tribali. Ho girato tutto il sudest asiatico: Borneo, Malesia, India, Indonesia. Sono andato a studiare queste tecniche abbastanza grezze, soprattutto in India, dove in alcuni posti tatuano in mezzo alla strada con zero igiene.

A questo punto, Ruffa mi indica una fotografia appesa a una parete.

Questa è Higan. Ho conosciuto questi indigeni sul fiume Skrang in Borneo. Ti racconto un episodio: sono arrivato il lunedì e non c'erano bambini nel villaggio. Dopo cinque giorni ho chiesto il motivo. Allora mi hanno portato nel villaggio principale, dove mi hanno mostrato la scuola con i banchi, i libri e i bambini che studiavano. “Possiamo insegnare a scacciare le scimmie ma i bambini vogliono andare nella civiltà e devono studiare”, mi hanno risposto i capi. Mi stavano dicendo che avere la conoscenza era un fattore importantissimo.

L'italiano medio pensa che il tatuatore sia una persona un po' rozza, quasi un criminale senza cultura..


Il tatuatore, se è veramente serio, se è un professionista, è una persona di altissima cultura. Perché il tatuaggio c'è da sempre, nasce nella storia dei tempi. I tatuatori sono persone con le quali puoi parlare ore di conoscenza, di antropologia.


Il centro di questo mestiere è l'uomo con i suoi sogni, le sue paure, insomma...


Esatto. Quando le persone vengono nel mio studio, è importante che lascino fuori l'ignoranza e si aprano. Perché io li tocco. Devono quindi raccontarmi le loro storie e capire l'importanza di ciò che stanno facendo: tatuarsi.


Essendo eterno, il tatuaggio non può essere una cosa stupida.


Certo. Molte volte mi capita di avere dei clienti attempati, 50-55 anni, che mi chiedono di rimettere in ordine alcuni loro vecchi tatuaggi. Io mi rifiuto, dico di no anche se potrei guadagnarci. E questo perché quel tatuaggio che mi chiedono di coprire era un momento di una loro storia risalente a tanti anni prima. Non bisogna mai rinnegare il passato. No remorse.

Hai iniziato a tatuare alla fine degli anni Ottanta, tra il 1988 e il 1989. Hai avuto come riferimento il grande maestro Gianmaurizio Fercioni. Poi chi altro?


Non solo lui. Anche Marco Leoni, Marco Pisa, Gippi Rondinella. I primi ad aver avuto il coraggio di iniziare questo tipo di lavoro.

Erano tutte persone che uscivano dall'Accademia delle Belle Arti...


Io faccio parte di un'idea proletaria, non sono figlio di persone ricche o di borghesi. Ho fatto fatica. Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea. Ricordo che diverse volte mio papà mi ha portato a vedere il suo lavoro. Lavorava in una ditta: disegnava e vendeva le guarnizioni degli altiforni. Quando avevo 12-13 anni, lui tornava a casa e mi diceva che non gliele compravano. Sai perché? Perché funzionavano e quindi è morto arrabbiato. Voleva inoltre che facessi il suo lavoro. Io invece mi sono tolto questa sua rabbia.


Il mestiere del tatuatore è cambiato?


Certo. Sta seguendo il cambiamento del mondo globalizzato. Una volta c'erano tre o quattro studi di tatuaggi, adesso ce ne sono 300mila. Dentro questo numero ci sono anche giovani umili e in gamba, ma anche una grande fetta di sbarbati che vogliono soltanto fare “i fighi”. Servono poi determinate qualità. Noi tatuatori tocchiamo e facciamo male a persone che non conosciamo. Quindi loro si aprono e si raccontano. Siamo una specie di psicologi.

Tu dici che il fenomeno del tatuaggio si è globalizzato. C'è il rischio di una uniformazione, in senso negativo del termine, del tatuaggio?


Si è un po' perso il linguaggio dei tatuaggi. Sarà colpa anche della Torre di Babele. Alla fine tutti parlano in modo diverso. Mentre prima quei pochi tatuatori che c'erano parlavano allo stesso modo, forte e romantico, ora ognuno parla una lingua diversa. E rimarca il fatto che la sua sia la lingua più bella. Invece dovrebbe essere come una volta, con tanto romanticismo. Rispetto i tempi che cambiano, sia chiaro. Ho fatto il giudice di varie tattoo convention, e sto vedendo da vicino i cambiamenti del settore. Penso che, anche se qualcuno decide di disegnarsi un piccolo infinito sulla pelle, il suo gesto sia uguale a quello che decide di farsi un tatuaggio che ricopre l'intera schiena. In entrambi i casi stiamo sempre parlando di mettere un po' di nero sulla pelle. Bisogna solo fermarsi, andare piano. Dovrebbe rimanere una cosa delicata. E invece adesso anche il salumiere sotto casa mia ha chiuso la vecchia attività per fare quella di tatuatore. Con pessimi risultati, per altro, visto che ha già chiuso.


Hai citato tante volte la parola romanticismo. Cosa significa?

È semplice. È la risposta alla domanda sul perché ho scelto di tatuare. Quando ero ragazzino sono sempre stato un ribelle. Quando avevo dieci anni e vedevo gli uomini, ex galeotti o muratori, con addosso tatuata una rosa dei venti, ero affascinato. Quel disegno mi portava a Salgari, al viaggiare con la mente in altri posti. Penso che sia questa una delle cose più importanti. Romanticismo vuol dire anche convivere con dei sogni, gli stessi che poi, magari quando si avverano, non sono più belli. Ecco: il tattoo è un sogno che dovrebbe rimanere tale. Non dovrebbe essere realtà, anche se quel che faccio è reale. Il romanticismo sta all'inizio della realizzazione di un lavoro. È quel punto in cui ho davanti una persona che non ha tatuaggi e inizia a realizzare qualcosa di romantico e incredibile. Io non salvo vite. Non sono un medico. Però produco felicità e sogni.

Mi colpisce quello che dici perché oggi l'idea del tatuaggio è sempre più distante dal romanticismo e associata alla moda. Non serve una rieducazione al tatuaggio?


Domani verrà qui, nel mio studio, una ragazzina che è la figlia della mia prima fidanzatina. La madre mi ha telefonato per raccomandarsi: “Non sono d'accordo con la sua scelta. Convincila a fare un disegno non esagerato”. Mi chiama poi la figlia tutta entusiasta: “Non vedo l'ora di tatuarmi”. Vedi, il discorso del tatuaggio si pone all'interno della famiglia, nei rapporti tra figli e genitori e via dicendo. Secondo me riguarda anche un discorso di ribellione, fermo restando che adesso sono quasi più ribelli quelli che non hanno tatuaggi. Però, ripeto: anche avere solo un puntino, vuol dire essersi predisposto ad accettare il fatto che una persona che non conosci, il tatuatore, ti tocchi e ti faccia male.


Il tatuaggio è sempre stato un rito di iniziazione.

Oggi questo rito è andato perso. Io tatuo varie cose... Sono passato a fare disegni che riguardano le isole del Pacifico. Dopo anni che le ho riprodotte, le persone a cui le ho realizzate non sono mai state neanche sull'Adriatico. Per questo sono in un momento un po' di stasi. Sono un po' “stanchino”. Io tatuo tutti. Però, su dieci persone che entrano nello studio, io sono felice quando ce ne sono due o tre che vengono a chiedermi dei lavori, che rimarranno sulla loro pelle, e che sanno cosa vogliono e quello che fanno. Al giorno d'oggi la gente non sa cosa vuole.

Ti sei mai rifiutato di fare un tatuaggio?


Mi son rifiutato di tatuare simboli politici, come la svastica o la falce e martello. La mia politica è che se da quella porta entra un ragazzino di 18 anni, senza tatuaggi, e mi chiede di tatuarsi la faccia e le mani, io non lo tatuo. Gli parlo e gli spiego. Se, invece, entra un 60enne interamente tatuato e mi chiede lo stesso, allora accetto senza problemi. Ti racconto un episodio. Nel mio vecchio studio è venuto Sfera Ebbasta, che fa parte di questa nuova generazione di trapper. Gli ho chiesto chi fosse il suo manager e mi ha risposto in modo tosto: “Sono io il mio manager”. È un tipo in gamba, non c'è che dire. Ma ad un certo punto gli ho detto che mi piace Tupac, un tipo che sparava con la pistola vera, mentre lui, a Cinisello Balsamo, spara con la pistola ad acqua. In quel momento c'erano lui, la sua guardia del corpo - che mi guardava già male - il driver e un quarto tipo che non ho mai capito chi fosse. ​La società di oggi è materialista e capitalista. Si guarda solo al materiale. Ti fai i denti con mille diamanti e poi non sai nemmeno che quei diamanti arrivano da posti dove la gente muore per estrarli.

30.1.23

San Giovanni Bosco Lo spazio è curato da un insegnante in pensione In chiesa una biblioteca di periferia «La lettura per riunire il quartiere»

dal sassarese una storia in cui la chiesa rimedia o almeno ci prove alle deficenze dello stato

 

Sassari
Lo stanzone dell’oratorio è colorato dalle copertine di migliaia di libri. La parrocchia di San Giovanni Bosco ha la sua biblioteca e don Franco Manunta, il parroco, parla di un atto politico. Perché la lettura è educazione e condivisione e lo è ancora di più quando viene promossa nel cuore di un quartiere con le sue difficoltà ben radicate. Dopo aver mosso i primi passi ormai un anno fa, la biblioteca dell’oratorio della parrocchia che si affaccia su via Washington sarà inaugurata ufficialmente domani pomeriggio, proprio nel giorno in cui si festeggia don Bosco. Ricca di libri e volumi di ogni genere, è nata grazie alla passione e alla buona volontà di un insegnante di musica in pensione. Si chiama Tonino Satta e tra gliscaffali divisi per sezione sta portando avanti una vera missione.
Tonino Satta ha insegnato una vita alle scuole medie. Alla numero 5 aveva anche messo su una piccola biblioteca di mille libri. «Una volta andato in pensione, ho pensato di donare la mia dotazione alla parrocchia – racconta Satta –. Don Franco Manunta mi ha risposto che, insieme ai libri, serviva però anche un bibliotecario. E così è nato questo spazio. Nel giro di poco tempo sono stati donati tanti altri
Il bibliotecario volontario Tonino Satta
libri, adesso ne contiamo circa ottomila». La biblioteca, che sarà inaugurata domani alle 16.30, nasce proprio in una parrocchia intitolata a un santo che ha dedicato la vita ai giovani e all’educazione. «Qui non è stata spesa una lira – spiega Tonino Satta –. Ma anche in povertà si possono fare delle belle cose. Questo è un progetto della parrocchia e io sono solo al servizio». Anche altri volontari stanno dando la propria disponibilità per tenere aperte le porte la biblioteca, alla quale si accede da piazza Fondazione Rockefeller. Diversi i servizi garantiti: consultazione, prestito, aiuto alla ricerca, interscambio e anche consegna a domicilio per le persone con disabilità. I libri sono numerosi e per tutti i gusti: sezione ragazzi, religione, saggistica, narratori stranieri, narratori italiani, arte e poesia. Atto politico Quella dell’oratorio della parrocchia di San Giovanni Bosco è una biblioteca di periferia. Prende infatti forma in un quartiere alle porte della città, in un luogo privo di altri servizi di questo tipo. Un quartiere con le sue problematiche e anche le sue diversità. «Secondo me la biblioteca ha un valore politico – commenta il parroco della chiesa di via Washington, don Franco Manunta –. Io insegnavo filosofia e mi riferisco al senso platonico. E quindi al riunire il demos, il popolo, la gente. Questa biblioteca nasce in un quartiere con molte forme e tante identità e, credo, anche poco conosciuto dal resto della città. C’è la parte delle case popolari, quella delle cooperative e poi una parte più borghese. Zone che, spesso, neanche comunicano tra loro». Secondo il parroco è dunque importante che la biblioteca sia stata aperta proprio qui. «La biblioteca è formazione, istruzione, è porsi delle domande – aggiunge il sacerdote –. Per questo dico che ha una funzione politica. Il mio desiderio è che questo spazio diventi un punto di riferimento. Penso per esempio ai ragazzi che abbandonano la scuola perché non si sentono coinvolti: leggere significa pensare e riflettere».

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                                          don Gaetano Galia
Sassari 
Il 31 gennaio è la festa di san Giovanni Bosco, un grande educatore. Ne approfittiamo per riflettere su una tematica educativa a lui molto cara: il valore della riconoscenza. Don Bosco cita spesso nei suoi dialoghi e nei discorsi ai suoi ragazzi questo contenuto. Mi piace proporre questa riflessione che attiene sia alla sfera dell’etica laica che religiosa. Di fatto il grazie è sempre più merce rara. Sa dire grazie solo chi è sensibile, chi si coglie bisognoso degli altri, chi sa che la relazione è il segno del nostro
la chiesa intitolata a San Giovanni Bosco
      e il cappellano del carcere di Bancali don Gaetano Galia  autore  
dell'articolo 
limite, il sigillo della necessità della complementarità con l’altro. L’uomo è relazione e non può vivere da solo ma si   completa con l’altro. La riconoscenza, allora, consiste nel saper individuare il bene ricevuto. Si richiedono alcuni passaggi fondamentali: è necessario uscire dall’io, dal narcisismo, da quell’istinto naturale all’autosufficienza che regna in ciascuno di noi, dal nostro smisurato egocentrismo. Non può essere riconoscente chi è supponente, arrogante, superbo e quindi non percepisce il valore di ciò che gli viene donato. È un problema culturale: siamo nel tempo del tutto è dovuto e tutto è scontato. Forse dovremmo sdoganare maggiormente questo meraviglioso sentimento e ringraziare più frequentemente genitori, medici, insegnanti, negozianti, badanti, meccanici… Non dice grazie chi, con i soldi, crede di poter comprare tutto, e una volta pagato, non sente il bisogno di ringraziare! Chi crede di poter comprare anche l’amicizia, l’amore, la stima, l’affetto, Dio. Chi disprezza gli altri non ha bisogno di nessuno. Ci si accorgerà solo nel momento della sofferenza che non aver coltivato le relazioni con i propri simili porta alla solitudine e all’isolamento. Facciamo un esame introspettivo: cosa avvertiamo quando doniamo qualcosa e ci viene detto grazie? Ci sentiamo valorizzati, apprezzati, riconosciuti, incoraggiati, stimolati a fare sempre più del bene. Quando, al contrario, facciamo un bel gesto, un regalo e non veniamo ringraziati, ci percepiamo tristi, delusi, scoraggiati e perdiamo l’entusiasmo di essere generosi. È fondamentale riproporre a livello educativo la bellezza della meraviglia e del desiderio. Se i nostri figli desiderano solo oggetti e non si meravigliano più del mistero della vita, del fascino delle relazioni, dell’incanto delle emozioni, formiamo persone infelici. Persone che ricercano la felicità nell’ultimo oggetto proposto dal mercato per poi stancarsi e rincorrere il prossimo. Meravigliarsi delle cose semplici, dà un senso alla vita e gli adulti devono educare a questo, più che correre essi stessi verso l’ultimo prodotto. Dobbiamo educare i nostri figli alla riflessione e ad approfondire l’origine dei doni, il valore dei doni, l’affetto che c’è dietro un dono. Elementi che richiedono meditazione e silenzio. La fretta, la velocità, il mondo virtuale non consentono di apprezzare ciò che riceviamo. La gratitudine, quindi, è un sentimento positivo perché aumenta la nostra sensazione di benessere, di vitalità, ci aiuta a fidarci degli altri e a “donarci” al prossimo. Se prendessimo l’abitudine di usare con più frequenza la parola “grazie”, vedremmo che anche i nostri interlocutori avrebbero un atteggiamento ispirato alla cortesia, alla gentilezza, alle buone maniere, in quanto la gratitudine è un gesto che apre a rapporti umani, non formali, ma carichi di umanità. La riconoscenza è contagiosa. Ma anche non aspettarsi il grazie è un elemento di grande saggezza: il dono più bello è quello non opportunistico o strumentale, ma gratuito. L’apice della generosità matura! Il meccanismo è molto evidente nel rapporto genitori-figli. Per una parte della vita i ruoli sono chiari: i genitori danno, i figli ricevono. Poi è solo il senso di gratitudine che spinge i figli a a invertire i ruoli e a diventare a loro volta genitori di padri e madri invecchiati. Ma proprio per questo, più che mai bisognosi del nostro aiuto, della nostra riconoscenza, del nostro affetto. E della nostra gratitudine. Grazie! *cappellano del carcere di Bancali

29.11.22

[ 10 giorni senza mondiale ] OCCIDENTE E ORIENTE si attraggono e quindi una contrapposizione io non la vedo


canzone  consigliata

Tomorrow Never Knows - the  Beatles   qui  notizie  ed  aneddoti    sulla  canzone  

Oggi  ho visto  anzi rivisto  , visto  con rai replay   puntata  d'ieri  della   trasmissione    alla  ricerca del  ramo  d'oro  (  foto sotto al lato  ) perchè  mentre  guardavo  la  puntata    stavamo facendo l'aerosol  a  gatto ,  la puntata  d'ieri  della  trasmissione   Alla scoperta del ramo d'oro  di   un ottima  trasmissione   di rai  3   Alla scoperta  del  ramo d'oro  uno  delle poche  occasioni  di servizio pubblico in rai .

La  trasmissione  di   Edoardo Camurri insieme a importanti esponenti della cultura italiana  tenta  di rispondere  alla    domande Qual è il ramo d'oro del sapere? Come può la cultura fornire strumenti, concreti, per dare speranza e combattere quello che pare essere un istinto di distruzione ?  Per  volesse la  trova    qui su rai replay
In tale  puntata      si  è provato   e  con buoni risultati   a risalire alle radici della nostra cosiddetta tradizione culturale occidentale per dialogare con la grande sapienza che viene dall'Oriente. Ed  raccontando   i pregiudizi e le fascinazioni reciproche che Oriente e Occidente hanno da sempre avuto l'uno sull'altro, in un gioco di specchi, cercando di capire i diversi modi di conoscere il mondo, che queste due civiltà hanno sviluppato e incarnato. A  farlo    è  stata Grazia Marchianò professoressa di Estetica e di Storia e Civiltà dell'India e dell'Asia orientale all'Università di Siena-Arezzo; curatrice e responsabile del fondo scritti Elémire Zolla. Nella seconda parte   Dal nostro giardino, per la rubrica "I racconti verdi", Alessandra Viola ci parlerà del ficus religiosa, detto anche fico delle pagode, che è considerato una pianta sacra in Oriente per induisti, buddhisti e giainisti. Concordo  in pieno con l'esposizione  della prof  Marchiano  Oriente ed  Occidente  sono   due opposti che  si attraggono   e hanno molte  cose   pur  nella  diversità   cose  in comune   tanto  che  possono essere  in quadrate  in  unico   continente  geografico  Eurasia  . Infatti non capisco  la  esasperata  islamofobia   della destra  piàù estrema  e ormai molto radicata   dopo  una  campagna  mediatico protagonistica  iniziata  come  antipolitica   finendo  per  radicarsi   

 [...]come un'onda, un'onda nera e appiccicosa
che cola dalle TV e dai settimanali rosa
che uccide i nostri pensieri, che ci droga di calcio e sesso
e intanto chi tira le fila insabbia e corrompe e non ha mai smesso  [...]
                     da   Giro  di vite    in arrivo . Mcr 


  al  crollo   non solo politico  ma  anche culturale  di quella  che  viene   chiamata  ( a mio  avviso  impropriamente   visto  che   ancora  l  forma  di governo  è  rimasta   ancora  quella   anche  se  è  cambiata  la legge  elettorale  )   prima repubblica   cioè  il periodo che  va  dal  1947\48  -  1992\3  .   Islamofobia  che  porta  come   successe  quasi  10 anni  fa    a  boicottare  il cioccolato Lindt perché  nella  confezione natalizia   c'era    questa  immagine   


 dii    una  chiesa   cristiana  d'oriente   scambiata     visto  il  forte    sincretismo   culturale    con una  moschea   e quindi   giù  ad  insulti   di islamizzazione  ,  di buonismo  , ecc  solo per  ricordare  quelli  più  educati .

P.s   I
 i   miei commentatori   di fb    che mi chiedono : <<  
Non quella teorizzata e auspicata da Dugin, spero.>>  Si tranquillizzino  e si vedano pure  la  puntata    perché  ciò  non lo  è 

 P.s II
oltre il boicottaggio   citato  
di sera  ho    riprenderò al lettura  del libro Ke origini della seconda  guerra   mondiale   di Richiard  Overy     e  sto iniando a guardarmi  la fiction  di  Netflix  mercoledi    della  famiglia    addams 


6.11.22

a volte anche la banalità può essere preziosa nella lotta all'ignoranza e all'alfabetismo di ritorno ed serve ad affrointare il mondo digitale


Elogio e predicazione della banalità: come affrontare l’epoca digitale

Salvatore Patriarca - su ilriformista di giovedì 3 novembre 2022


Un tratto tipico dei sistemi complessi è che ogni elemento facente parte di tale complessità necessita di comprensione. La cultura e la società rientrano ovviamente in questa sorta di meccanismo metariflessivo. Anzi, in un momento nel quale la complessizzazione diviene il segno distintivo dell’epoca digitale, sembra non ci sia fenomeno che possa considerarsi estraneo alla complessità. E infatti tutto appare essere incluso in questo processo di continua metabolizzazione delle manifestazioni naturali e culturali, reali e simboliche, tecnologiche e virtuali. Almeno finché non si arriva davanti alla barriera che annulla ogni interesse significativo: la predicazione del banale.

SalvatorePatriarca_foto© Fornito da Il Riformista

«È una cosa banale» si dice in ambito oggettivo, oppure «È banale» se il riferimento è situazionale. Ma anche «Sei banale», se l’ambito è quello relazionale, e si potrebbe addirittura sfociare nell’auto-attribuzione di insignificanza: «Sono banale». Al di là delle infinite articolazioni che incontra la predicazione di quest’aggettivo, l’elemento che appare in prima istanza è l’assoluta comprensibilità di esso. Di fronte alla banalità non servono ulteriori commenti: è tutto lì. Qualcosa di autoevidente che non richiede ulteriore sforzo. Si potrebbe affermare, prendendo a prestito un’immagine fumettistica, che la banalità sia la kryptonite della complessità. E come accade a Superman che perde i propri poteri a contatto con il materiale proveniente dal suo pianeta d’origine, così avviene al complesso quando incontra il banale. Smette di essere loquace, non ha più bisogno di declinare se stesso. La comparazione con la kryptonite potrebbe essere svolta ulteriormente, perché anche la banalità rappresenta in qualche modo il passato della complessità. Una specie di complicatezza che ormai ha detto tutto e sulla quale diventa inutile soffermarsi ulteriormente.

E se invece, come la kryptonite che permette di comprendere numerosi aspetti della natura di Superman, il banale fosse uno strumento sinora poco utilizzato per entrare nelle dinamiche che caratterizzano l’attualità digitale e coglierne alcune implicite dinamiche operative, soprattutto rispetto alla costituzione della singolare identità del sé e al conseguente rapporto con la comunità? In altre parole, è forse giunto il tempo di prendere sul serio il banale. Circoscrivere una seppur parziale semantica del banale è un’operazione essenziale, perché permette di cogliere quanto pervasiva sia la presenza del banale nel quotidiano orizzonte di considerazione del vivere; e in tale orizzonte va incluso tanto quello del sé quanto quello comunitario della pluralità dei sé. Emerge da subito uno degli aspetti più particolari e decisivi della banalità o, meglio, della sua predicazione: una componente assiologica e morale. Essere banale, comportarsi banalmente, essere considerati tali sono tutte connotazioni che scivolano via via verso una componente valoriale di negatività. Il banale è una negatività in senso generale. La persona banale è invece una persona che è manchevole in senso specifico, a livello morale, come se non avesse la capacità di realizzare davvero se stessa e il compito che inerisce la propria natura.

Proprio questo squarcio verso la dimensione morale che coinvolge in maniera essenziale il tema della singolarità proietta lo sviluppo della riflessione verso una peculiare relazione che sembra caratterizzare la stessa fondazione dell’identità del sé nella contrapposizione all’essere banale. Si sviluppa un approfondimento che articola il banale e alcuni suoi contraria come la creatività, la novità e la distinzione. Rimane alla fine. come superstite significativa, una singolarità connotata in maniera autoaffermativa che riesce ad essere se stessa solo nella negazione dell’esistente e dell’altro da sé. Questa dinamica si realizza nei fenomeni ormai molto diffusi delle pratiche meditative/comportamentali a sostegno della specificità/differenzialità della singolarità, quanto nel ritorno di un primato della cura del corpo inteso come primaria forma d’espressione dell’eccezionalità del sé. Entrambe queste modalità affermative dimostrano una specifica inclinazione verso una componente metaforica improntata a un linguaggio performativo e a una retorica dell’azione come dell’atto differenziante.

La figura che ne risulta possiede i tratti di quella che potrebbe definirsi come una banalità consumata. È come se il reale, lo spazio comune che eccede la sfera del sé, venga progressivamente eroso dalla dinamica distintiva e venga condannato ad essere il serbatoio di ordinarietà da logorare attraverso il continuo movimento di separazione singolare. A questo primo movimento della banalità che si connota in maniera sottrattiva se ne contrappone un secondo di segno contrario, vale a dire accumulativo. Per cogliere questo processo bisogna rivolgersi ad alcune caratteristiche precipue dell’era digitale. Il primo elemento da prendere in considerazione è l’approccio modulare dell’informatica. Alla base di tutto c’è un dato, singolo, specifico, delimitabile, analizzabile, componibile; esso viene accumulato attraverso le reiterazioni d’uso, il replicarsi del calcolo connettivo, e si sviluppa verso modelli sempre più estesi, inclusivi e predittivi.

A fornire questa elaborazione è proprio la molteplicità dei sé che con l’espressività e la distinzione permettono la definizione di modelli comportamentali ed esperienziali. Si definisce così l’altra dimensione della banalità: l’attitudine accumulativa del digitale. Ogni singolarità diventa strumento di costruzione di un modello generalizzante. La libertà dalla banalità ricercata attraverso la differenziazione espressiva conduce verso un’ulteriore forma di banalizzazione che si nutre dell’accumulazione dei dati e della loro elaborazione. Tanto più il sé consuma il banale esistente, tanto più contribuisce a costruire l’accumulo di banalità del digitale; ogni novità nel mondo digitale è già sempre modello; ogni posizione di creatività già sempre in una diffusiva ordinarietà banale.

C’è inoltre una banalità necessaria che va accettata e trasformata utilmente. L’espressionismo del sé frantuma la comunità e isola la stessa singolarità. Bisogna recuperare gli echi dell’appartenenza comunitaria, e non solamente consumarli in un affannoso movimento distintivo. L’orizzonte comunitario è lo spazio che permette al sé e all’altro da sé di essere nella distinzione proprio perché garantisce l’ordinarietà condivisa. Lo spazio comunitario rappresenta la precondizione per ogni sé sia a livello identificativo sia a livello espressivo. La stessa dinamica di evoluzione della dimensione culturale umana si fonda infatti sui processi di condivisione delle esperienze, sulla sedimentazione di quelle più efficaci, sul contributo di ampliamento che ogni singolo apporta nel processo di evoluzione. Da qui passano l’elogio e l’accettazione necessari della banalità: riscoprire la dimensione partecipativa della costruzione di senso, evitando ogni tentazione totalizzante

2.4.22

in attesa che la storia del vino sia materia obbligatoria Tra i banchi di scuola di uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia si studia l'arte del bere

 In  attesa  che  la  Storia del vino  diventi  obbligatoria a elementari e medie: in arrivo proposta di legge  il  cui  Primo firmatario della proposta che è appena sbarcata in Senato e ha già cominciato a far discutere è Dario Stefàno, presidente della Giunta per le immunità e le elezioni: "Non vogliamo insegnare a bere ai nostri bambini, solo introdurre un ulteriore elemento di sapere nel bagaglio di formazione della scuola italiana. Perché il vino è uno degli elementi identitari del nostro Paese"     riporto l'esperienza    che  aviene  In una scuola di Locorotondo


 in cui si studia vino, dal campo all'imbottigliamento, passando per le analisi gusto-olfattive, quelle in laboratorio e tanto altro. È uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia ed è una cosa seria. 

11.7.21

generazioni a confronto e lotta fra cultura ed incultura

In  sottofondo 
Francesco Guccini - Un altro giorno è andato (Live@RSI 1982)



visto che ormai Oramai il web si è spostato sui  social   riporto qui  una  discussione    su fb   con  un mio  contatto  . Quindi  non riuscendo    a stare  dietro a  blog  e  social   ,   v'invito  ,  se  volte     leggere   altri  miei  interventi (    commenti  ,   stati condivisioni  , ecc )   come   quello  riporto   sotto    a seguirmi   ( su   fb  non è  necessario   essere     fra  i  contatti  per   leggere   e    commentare     , visto  che ho  scelto   di  non mettere  nessun  blocco   privacy ,  l'unico  blocco   per  motivi organizzativi    è  quello di  poter  postare  i  vostri post  \ stati  sulla  mia bacheca  )  sui  miei   social  che  vi   ripropongo sotto  .
  
facebook 
https://www.facebook.com/compagnidistrada/  la  nostra  appendice    dove   quelo che non riusciamo  a  mettere  qui siul blog  lo trovate  qui  

istangram

 twitter  

 
Dopo    questa  comunicazione  di  servizio     veniamo  al  post      d'oggi    

Sminchionando fra   gli  stati  dei miei   contatti facebook       ne  ho trovato    uno interessante      e  di un mio  amico    ed  ex  collega   d'università  

Ora  il  problema  è    rassegnarsi     o  rimanere solo     come   si  può notare   in diversi gruppi fb      del  tipo   : "  noi  cresciuti   negli ani  60\80 "  oppure     passare   dal  dire  al  fare      cioè    insegnare   o  fornire        ai nipoti o figli  la   tua  cultura   ed   integrarla  con quella  sua  ?.
Io  come potete  vedere   anche dalla risposta  che ho dato al suo post  ed    essendo  cresciuto nella generazione  di mezzo tra    gli anni  70 ( periodo  dell'impgno politico  \  culturale   )   e  gli anni  80\90  (  disimpegno  ,  edonismo\  consumismo sfrenato  )  sono  per  un integrazione   d'entrambe  . Cosi    s'evita   di mandare il cervello all'ammasso  e  formare  un ulterore   generazione  di webebeti    e fenomeni   come  quelli descritti    dalla  puntata  citata  delle iene  . Ma  soprattutto    s'evitra  commenti       da parte  delle  vecchie  gnerazioni  chiuse per  lo  pià nela  torr  d'avorio e nel passato , che  si chiedo   ma  chi  ...   è    questo    o  quell'  artiasta    o  pseudo  tale  .  A  chi  mi dice   che sono utopista   ed  un sognatore     rispondo     con una  lettera  inviatami  qualche   tempo  fa   . 

N.b  ovviamente   per  motivi di  privacy  ho  modificato    ( mi veniva   male  a  tagliarli  )   i  riferimenti    a  fatti  e persone   reali  ivi  contenute ma  la  sostanza  non cambia    .


Caro  redbeppe
 il suoi post sui tormentoni mi hanno commossa, perché ho colto un alito di tristezza. No, lei non è vecchio, ha “solo” buon gusto ed  dv'essere  crescxiuto  in  ambiente  pluri culturale. Tempo fa ho chiesto al mio nipotino dodicenne, comela  figlia  di  suo cugino  , che musica gli piacesse. Mi ha risposto: il rap.                                                                          Così gli ho mandato il video di Adriano Celentano che canta “Prisencolinensinainciusol”    Gli è piaciuto moltissimo e non voleva credere fosse una canzone stravecchia  abbiamo dovuto  cercare  su  internet     per  provarglierlo  . Cosi gli ho fatto una bella compilation di Adriano, e poi ho continuato con Rino Gaetano, Bennato, de  andrè , renato zero  (  quello   vecchio  non gli  ultimi  )  addirittura Endrigo. Ho l’impressione che abbia cambiato gusti o  quanto meno  non si  folizzi solo    su musica o musicaccia    dozzinale   . Probabilmente non dirà ai suoi amici a scuola di ascoltare musica del secolo passato, non capirebbero  ma    almeno  avra  una  cultura  musicale  pluralista  e non appiattita    ed   a senso unico  

                                              *******


  con questo è  tutto 

21.5.21

#allamiaetà: L’incredibile storia di Titta Colleoni, sintetizzatori e libertà a cavallo degli anni Settanta

in sottofondo
Layla - Eric Clapton

Spesso anche i grandi hanno  bisogno dei piccoli  per essere  grandi o creare grandi cose   , ma  i media  non lo sanno  o  non gli danno importanza 


da   https://www.ecodibergamo.it/stories/eppen/cultura/musica del 21\5\2021     Grazie  a  #radioGavox per  la segnalazione  


                                      Astrid Serughetti 

 Il ricordo di Franco Battiato, le serate con il batterista degli Area Giulio Capiozzo e un giovane cantante a cui dare una mano come Edoardo Bennato. C’è tutto questo in una chiacchierata con Titta Colleoni, tastierista bergamasco che ha collaborato con i grandi della musica italiana








C’è stato un tempo in cui il meglio della musica alternativa italiana passava da Suisio, suonando al campanello di casa Colleoni. Era lo stesso periodo in cui, come spiega Titta Colleoni, “i produttori facevano ancora i produttori e i talenti li andavano a cercare negli studi di registrazione e nei locali”.
Sembrano passati secoli, eppure si parla degli anni Settanta, di una cinquantina di anni fa, più precisamente nel periodo che va dal 1972, anno dell’uscita di “Fetus” primo album di Franco Battiato, fino al 1976 circa. Anni in cui Titta suonava nei Perdio, trio bergamasco composto da basso, tastiera e batteria e riconosciuto come uno dei pionieri del prog italiano. Ma sono anche gli anni dell’uscita di “Non farti cadere le braccia”, esordio discografico di Edoardo Bennato e di “Arbeit macht frei”, storico disco degli Area.
“Bergamo ha un che di magnetico e speciale per la musica – racconta Titta – un po’ lo fa anche il nostro carattere, il modo di fare dei bergamaschi che non hanno mai troppo la puzza sotto il naso e ci si rende conto dei nostri limiti. Ma all’epoca Bergamo era quella mezza dimensione giusta per i musicisti, abbastanza vicina a Milano, ma meno caotica e più economica per i produttori che dovevano pagare i dischi”.
E ancora: “Perché una volta era così. Non è come adesso che i musicisti devono creare prima il brand e poi il prodotto. Una volta erano i produttori a girare in lungo in largo per cercare musica nuova e se credevano in un progetto pagavano tutto di tasca loro per farlo nascere. Ora, nella maggior parte dei casi se non stacchi un bonifico sostanzioso a chi di dovere non entri nel giro”.
Inutile negare che nelle parole di Titta Colleoni ci sia un po’ di amarezza nel confronto con un mondo musicale che non si può definire solo cambiato, piuttosto è stato trasformato dalle dinamiche dello streaming . Il tastierista bergamasco si permette di dirlo a onor del vero, visto che ancora adesso collabora con tanti giovani artisti, bergamaschi e non solo: “Ogni tanto mi chiamano dallo studio di Suisio, per ascoltare qualcosa e provare a inserire due note o un’idea e non sono tutti ragazzi persi. Ci sono molti bravi artisti all’orizzonte e mi sto adoperando per chiamarne qualcuno, anzi qualcuna, da far esibire in occasione della Festa della Musica di Brescia e, in prospettiva, per Bergamo e Brescia capitali della cultura”.


Alessandro Ducoli, Titta Colleono e Jean-Luc Stote (Foto Tomasz Fiedziuk)



Titta Colleoni, infatti, è tutt’altro che in pensione. Grazie a un altro amico di vecchi data come Jean Luc Stote, storica voce di Radio Onda d’Urto e direttore artistico della Festa della Musica del capoluogo bresciano, una delle più riuscite d’Italia, riesce a mantenere il contatto con molte realtà della nuova musica emergente. Il tutto, conferma, senza provare nostalgia: “Mi viene solo un po’ di invidia perché vorrei entrare dentro il loro progetto, essere parte attiva di qualcosa che nasce”.
Eppure tanto è cambiato dai suoi vent’anni e dal suo fare musica e a spiegarlo è proprio lui, tramite le parole di un grande maestro che ci ha lasciato da poco, Franco Battiato: “Mi ripeteva sempre che serve l’educazione all’ascolto, non al sentire”.
Titta e Franco hanno collaborato insieme durante la prima fase della carriera del cantautore siciliano e in questi giorni la tristezza si mescola con i ricordi: “La prima volta che ci siamo visti è stato a Milano nella sede della casa discografica Bla Bla. Lui stava lavorando al suo primo disco. Poi, una sera noi stavamo suonando all’Auditorium ed è comparso sotto il palco con un tabarro nero come quello che usano gli anziani. Dopo il concerto abbiano iniziato a parlare e da lì ci siamo visti sempre più spesso. Lui ha cominciato a frequentare Suisio e Bottanuco e in sala prova sperimentavamo con i sintetizzatori, ed era tutto nuovo. C’era la possibilità di filtrare gli strumenti e creare variabili infinite maneggiando direttamente il suono. La fantasia poteva agire liberamente”.


Titta Colleoni e Giovanni Salis



Non solo i mezzi tecnici permettevano di provare a comporre con nuove soluzioni armoniche, le occasioni che nascevano con la musica e il fermento di quel periodo davano stimoli continui: “Una sera dovevamo suonare a Casatenovo ed eravamo d’accordo che sarebbe venuto anche Franco. Sulla strada ha incontrato un autostoppista polacco che aveva con sé un violino. Non serve che ti dica com’è andata, alla fine sono saliti entrambi sul palco con noi e il violinista credo abbia anche suonato poi in un suo disco”.
L’album che più di tutti sancisce la collaborazione fra il tastierista bergamasco e Battiato è “Sulle corde di Aries”, terza pubblicazione per l’etichetta Bla Bla del maestro siciliano. Titta ricorda così quell’incredibile tournée: “Abbiamo fatte una serie di date in Sicilia, dove il pubblico era veramente eccezionale. Alcuni concerti magnifici, poi siamo risaliti sulla sua Nsu prinz arancione e in due giorni siamo tornati a Milano, cantando parecchio e ridendo ancora di più. Era un guidatore improbabile”.
Altri anni, altre abitudini, altri modi di sperimentare e vivere la musica. “Una sera invece avevamo un concerto a Bergamo con il Banco del Mutuo Soccorso. Mi si avvicina il loro produttore Sandro Colombini e mi parla di un ragazzo che aveva dei bei pezzi che andavano ‘un po’ tirati insieme’ e dice che me lo vuole affidare”. Il ragazzo in questione è Edoardo Bennato che una settimana dopo arriva a Suisio. “Passavamo le giornate in un’osteria di Città Alta che aveva il pianoforte per arrangiare i pezzi, poi in un alberghetto di Oltre il colle abbiamo lavorato a tutto il disco e infine abbiamo registrato a Milano”.





In quel periodo la frequentazione era assidua anche con gli Area, al lavoro a Zingonia sul loro capolavoro più noto. “A Giulio, il batterista, non piaceva tanto stare a Zingonia e quasi ogni sera veniva da me a Suisio”.
Cosa sia capitato invece ai Perdio che quel successo discografico lo hanno solo sfiorato è lo stesso Titta a spiegarlo: “Ad un certo punto siamo andati a Genova per registrare un Lp per Patty Pravo e Riccardo Fogli. Era il nostro trampolino di lancio, ma volevano farci cambiare una frase di un testo e ce ne siamo andati. Non se ne fece più nulla, in quegli anni avevamo l’idea che dovevamo rifiutare la commercializzazione a ogni costo. Ci abbiamo ripensato tutti, spesso, a quell’occasione persa, forse avremmo dovuto comportarci diversamente, ma in quel momento contava solo mantenere la nostra purezza”.
Titta Colleoni ha vissuto una vita a dir poco intensa, fra alti e bassi e ritorni alla musica. La racconta in “Sette bicchieri quasi uguali”, un volume nel quale si racconta al cantautore bresciano Alessandro Ducoli. Insieme c’è anche un disco, “In The Garden Of Eden” (potete acquistarlo qui).

Titta Colleoni su Wikipedia

8.5.21

La tv di stato sospende il programma “Ulisse di Alberto Angela e lo sostituisce con .....

 
La tv di stato sospende il programma “Ulisse di Alberto Angela di Daniela Bionda
Ho appena saputo che la  televisione di stato “RAI “ ha appena  sospeso il programma di Alberto Angela “Ulisse” rinunciando a fare quello che la televisione di stato dovrebbe fare, ovvero “Servizio Pubblico” che porta la cultura nelle case degli italiani, non importa se molti o pochi, e preferendo affidarsi alla TV spazzatura.
Ma cosa è la TV spazzatura?  eccovi una spiegazione data dal Prof. Francesco Pira, docente di sociologia presso l’università di Messina


Di cosa parliamo quando parliamo di TV spazzatura? Il trash è un fenomeno sempre più diffuso a livello globale, il professor Francesco Pira, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Messina ci ha spiegato il fenomeno della TV spazzatura e quello che ruota intorno a questo universo. 
Cosa è la TV “trash”?
“Per definire la TV trash possiamo prendere a prestito la definizione di spazzatura (trash) della Treccani come: la qualifica attribuita in tono polemico a prodotti ritenuti di cattiva qualità, di breve durata nel tempo, messi sul mercato a basso prezzo al fine di ottenere guadagni immediati; più spesso,
con riferimento al mondo dello spettacolo o dell’editoria, detto di programmi, trasmissioni, pubblicazioni considerati come ricettacolo di volgarità, programmati o diffusi solo per andare incontro ai gusti di un pubblico largo e poco esigente. Nella definizione emerge un elemento che trovo particolarmente significativo, ossia per chi sono confezionati questi programmi, un pubblico poco esigente. Eppure proprio questi programmi ottengono risultati in termini di ascolto particolarmente significativi tanto da avere contribuito alla grande rivoluzione avvenuta nella televisione e storicamente avviata negli anni duemila con l’arrivo di un nuovo format: il reality”. 
Letteralmente, dunque, “spazzatura”: un prodotto di bassa qualità e grottesco. Da anni assistiamo alla nascita e crescita di questo Minotauro fatto di spettacolo e spazzatura, un essere ripugnante ma che piace. Nella TV spazzatura domina il cattivo gusto, le urla, l’oscenità, la violenza, ed il tutto genera una spirale che ipnotizza milioni di telespettatori, ci tiene incollati allo schermo assetati di sapere cos’altro succederà. Perché? 
Perché ci piace questa “spettacolarizzazione del mediocre”?
In un saggio scritto a quattro mani con la collega Cava nel quale analizzavamo l’evoluzione del gossip abbiamo dedicato ampio spazio alla fenomenologia del voyeurismo che proprio un certo tipo di televisione estremizza e potenzia. – spiega il prof. Pira -. Qui la televisione diventa una protesi ottica che alimenta i desideri legati alla pulsione del guardare che stimolano il coinvolgimento emotivo. Una sorta di potere di osservare, senza essere visti, le storie degli altri, immedesimarsi, oppure ergersi a giudici delle vite esposte, dove riconosciamo pulsioni, difetti e miserie.
Penso che la parola chiave sia propria la mediocrità, che diventa il fulcro intorno al quale si costruisce il programma. Basti pensare alla campionessa di ascolti Mediaset, Barbara D’Urso, per la quale ho coniato il termine barbaradursizzazione, riferito ad una forma di devianza del giornalismo, per evidenziare come si sia dato vita a un tipo di televisione che si poggia esclusivamente sull’emotainment, dove questioni intime e private vengono analizzate, ridicolizzate o pietisticamente presentate davanti alle telecamere e poi rivisitate sui social network con commenti molto discutibili. La condivisione dei sentimenti umani diventa così il traino di molti programmi che spingono lo spettatore ad identificarsi con le parti in causa”. 
Perché la TV spazzatura è così attraente? 
“In apertura dell’intervista ho fatto accenno al fenomeno dei reality, ritengo che proprio il successo di questo format abbia nel tempo costruito un rapporto privilegiato proprio con il pubblico giovane e questo per una serie di motivi. In primis lo storytelling specifico, la sceneggiatura del format dove personaggi coinvolti sempre più spesso vip o cosiddetti tali, si cimentano con situazioni dove la patina dell’irraggiungibile si confronta con il ridicolo. Poi la spinta tecnologica, con l’introduzione del satellitare, del digitale terrestre, della televisione via web e on demand, che consente, partendo dalla messa in onda del programma all’interno del palinsesto generalista, di spacchettare, rimodulare, personalizzare la fruizione del programma.
Ed in ultimo ma non per ultimo, l’interattività sempre più spinta, per cui il programma televisivo diventa spunto conversazionale all’interno dei gruppi sui social. Tanto che il format funziona tanto quanto riesce a penetrare nei flussi conversazionali. La fruizione non è più top – down. La televisione non è più al centro, ma diventa elemento che entra in un universo di connessioni, dando vita ad una permeabilità di contenuti e di pubblici e che alimenta l’audience diretta e indiretta. Il tutto con una velocità incalcolabile”.
Quali sono i rischi della TV spazzatura per l’homo videns? È innocente intrattenimento o pericoloso anestetico per le coscienze?
“Non credo alla TV complottista. Di pensare in partenza ad una televisione capace di anestetizzare le masse. Credo però, e questo è un discorso complesso, che la TV commerciale rispetto alla TV in bianco e nero del Maestro Manzi ha avuto esigenze diverse, è nata per catturare il telespettatore e farlo diventare un consumatore orientabile e condizionabile. E la storia della televisione italiana ci consegna un uso dell’infotainment a fini esclusivamente politici. In un’Italia che ha grossi problemi nello smaltimento dei rifiuti, la TV spazzatura rappresenta un ennesimo problema di smaltimento”.
Il professore conclude con una personale riflessione: “In questo momento storico la TV spazzatura in quanto tale non rappresenta la preoccupazione più grande. La televisione sarà vista da un pubblico che sarà composto sempre di più da persone anziane e con un basso livello culturale. E’ molto più preoccupante l’interconnessione tra TV e web concentrata su format on demand, che fanno credere all’utente di poter decidere il finale di qualunque proposta d’intrattenimento. E’ un’illusione, una pura illusione.”

Dobbiamo farcene una ragione, la natura stessa dell’essere umano è cambiata. Nel mondo delle tecnologie iper-invasive l’homo sapiens si evolve in – o regredisce a – homo videns (Sartori, 2007). L’essere umano che sembra dominare la realtà è paradossalmente più vulnerabile ad essa, la realtà è paradossalmente più vulnerabile ad essa, la sua libertà all’apparenza assoluta sembra sciogliersi nei pixel di uno schermo. 




Serena Valastro
Laureata in Lingue e culture europee, amante di cinema, musica, arte, informazione, storie. Scrivere è entrare in nuovi spazi, conoscere qualcosa di nuovo, vivere situazioni e sensazioni sempre diverse per trasmetterle a chi vuole viverle.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...