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12.11.25

ignoranza della storia e della storia della politica dei giovani di forza italia e di destra che denunciano i giovani del pd per un pugno chiuso

 I giovani di Forza Italia si sono svegliati e hanno denunciato pubblicamente - ohibò - i pari età dei Giovani democratici, rei, secondo loro, di aver fatto il pugno chiuso durante il Congresso Nazionale a Napoli.Apriti cielo. Scandalo, vergogna, “comunisti”.Faccio sommessamente notare ai giovani berluschini che, tanto

per cominciare, il pugno chiuso non è solo un simbolo comunista ma libertario ed antifascista oggi Il saluto a pugno chiuso, con il braccio sinistro alzato, è considerato come espressione e manifestazione di solidarietà, di forza o di sfida. un gesto internazionale di resistenza e di lotta ovunque ci sia un diritto da difendere .Ma anche se lo fosse stato? Se anche fosse stato il pugno chiuso comunista? E quindi?Come se davvero potesse essere paragonato a un saluto romano.Nella loro sconfortante ignoranza i giovani di Forza Italia ignorano:

1. Che sulla Costituzione italiana c’è anche la firma di Umberto Terracini, fondatore e membro di spicco del Partito Comunista.
2. Che l’Italia non ha mai avuto un regime comunista, mentre per un ventennio è stata soffocata, massacrata e, infine, distrutta da una delle dittature più feroci, razziste e sanguinarie della storia dell’uomo. Per cui fare il saluto romano - quello sì - è illegale, oltreché criminale.
3. Che, al netto di tutte le enormi storture e contraddizioni, il Manifesto di Marx ed Engels su cui poggia il comunismo era un ideale (tradito e  utopistico) di riscatto ed emancipazione delle classi oppresse, mentre il fascismo e, in particolare il nazismo, si basano sull’idea stessa della superiorità di una razza su un’altra, sulla soppressione dei diritti elementari, sull’eliminazione fisica degli oppositori, degli ebrei, degli “impuri”, dei fragili, dei deboli, degli omosessauli, dei “diversi”.
4. Che, se il fascismo in Italia è stato sconfitto e cancellato, lo dobbiamo anche e soprattutto ai comunisti.
5. Perché, se questo Paese ha leggi e conquiste degne di un Paese civile (dal suffragio universale al divorzio, dall’aborto ai diritti dei lavoratori), lo dobbiamo anche ai comunisti.
6. Perché il fascismo e il nazismo sono durati  nei rispettivi aesie  nei  aesi  simpatizzanti   circa un ventennio e sono inscindibili dai rispettivi regimi e dittatori, mentre il comunismo ha oltre 150 anni di Storia, si è diffuso in tutto il mondo, in Italia è stato per un secolo simbolo,  anche  se    con delle  ambiguità , di   : civiltà, progresso, democrazia, uguaglianza, senza mai governare, e l’orrore prodotto dal comunismo al potere non è stata la sua essenza ma una catastrofica - e forse -inevitabile  degenerazione.
7. Che l’Italia è il Paese di Gramsci e di Berlinguer.
Per tutte queste ragioni, e anche molto di più, alzare il pugno in Italia non solo non è motivo di vergogna, ma anzi, per milioni di persone, di profondo orgoglio.
Invece che di un pugno chiuso, mi preoccuperei dei vostri alleati che fanno il saluto romano, si fanno ritrarre davanti ai busti del duce e indossano magliette della X Mas.


E non lo dice un comunista, che anche solo per un fatto anagrafico non sono mai stato in  quanto   avevo  13   anni  quando  era  cauto il  muro  e  poi  l'urss  . Solo uno che  cono-sce  in quantro    vissuto  a  i. tempi della  guerra  frefdda  e    ha  vissuto  lo scontro  ideologico  familiare    tra  fascismo  e  comunismo   ed   ha studiato, letto  e sentito   entrambe   le  forme  di ideologia  e  di pensiero  conosce e rispetta la Storia.
È ora che lo facciate anche voi. Siete giovani. Non è mai troppo tardi.

1.7.25

Una galleria d’arte per cambiare vita., La biblioteca di Chiaramonti? Si sposta al mercato La biblioteca di Chiaramonti? Si sposta al mercato Un incontro tra libri, ambiente e comunità per comunicare iniziative di lettura

  fonti unione  sarda  e  nuova  sardega  del 1\7\2


C’è una nuova luce tra le pietre secolari di Villasalto: è quella che filtra dal grande portone di Su Crociu e accende le sale dell’ex falegnameria diventata “Sa Buttega”, galleria d’arte contemporanea nata dall’iniziativa di Angelica Manca e del marito Paul Frank Wagner, una coppia che si è trasferita in paese dagli Stati Uniti. Un progetto di vita prima ancora che culturale, cominciato con l’acquisto dell’immobile nel gennaio 2023, un anno di restauro meticoloso e il t
rasferimento definitivo nel febbraio 2024
La scelta
«Desideravamo un paese raccolto e autentico, ricco di tradizioni, un luogo da poter chiamare casa e dove dare radici a nostro figlio Kai, di 11 anni», dice Angelica Manca. L’incontro con Villasalto è stato un colpo di fulmine: l’edificio, incastonato fra le strade acciottolate a pochi passi da piazza Italia, custodiva ancora i segni del suo passato artigiano. «Attraverso il grande portone si accede a un cortile rigoglioso, ogni pietra porta i segni del tempo come se custodisse storie dimenticate». Da qui l’idea di un restauro rispettoso — pietra locale e làderis di terra cruda — che conservasse la memoria del luogo trasformandolo in spazio culturale aperto. “Sa Buttega” oggi vuole essere «un punto di riferimento, prima per Villasalto e poi per il Sud Sardegna, dedicato alla condivisione, alla creatività e alla valorizzazione delle identità locali». Mostre, laboratori e residenze d’artista si intrecceranno con le feste del paese: la sagra di Santa Barbara, Su Sinnadroxiu dove il latte diventa formaggio, Is Animeddas coi suoi scambi di dolci. L’obiettivo è «usare il linguaggio universale dell’arte per raccontare l’autenticità».
La comunità
«Siamo stati accolti dalla popolazione e dalla pubblica amministrazione, entrambe entusiaste delle nostre idee» raccontano, aggiungendo di sentirsi «specchi e finestre»: specchi che riflettono la bellezza già presente, finestre che la collegano al mondo esterno. Uno dei momenti più significativi è quando il figlio Kai, dieci anni all’arrivo, ha colto l’essenza del progetto: «Mamma, ora capisco perché siamo venuti a vivere qui. Se non ricordiamo la bellezza di questo luogo, rischia di essere dimenticata per sempre». Guardando avanti, la posizione strategica di Villasalto — porta del Gerrei a mezz’ora da Cagliari — può attrarre viaggiatori in cerca di esperienze genuine. «Oggi, più che mai, abbiamo bisogno dell’autentico». Radicati in un paese «ricco delle cose essenziali: tradizioni, cultura, amicizia, ospitalità e solidarietà », i Manca non pensano ad altri traslochi: «Villasalto è diventata la nostra casa ».

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La biblioteca di Chiaramonti? Si sposta al mercato



Un incontro tra libri, ambiente e comunità per comunicare iniziative di lettura soprattutto sui temi dell’ecologia e della sostenibilità

Chiaramonti Ha riscosso un notevole successo venerdì mattina la prima giornata dell’iniziativa “La biblioteca al mercato”, svolta nel mercato rionale in piazza Costituzione nell’ambito del progetto “Impronte leggere – Un passo alla volta per cambiare il mondo” promosso dalla biblioteca comunale in collaborazione con lo Sbangl (Sistema bibliotecario dei Comuni dell’Anglona e della Bassa Valle del Coghinas), la Comes (Cooperativa mediateche sarde) e l’Unione dei Comuni dell’Anglona.
Un incontro tra libri, ambiente e comunità per comunicare iniziative di lettura soprattutto sui temi dell’ecologia e della sostenibilità. Un’occasione anche per divulgare le attività della biblioteca e coinvolgere il maggior numero di persone. «All’inizio ero un po’ scettica _ ha detto la responsabile Caterina Marrone _, invece le persone hanno risposto benissimo. Nonostante il caldo, in tante si sono avvicinate al nostro banchetto, chiedendo informazioni e suggerimenti di lettura per l’estate. Molte hanno preso libri in prestito e abbiamo addirittura fatto nuove iscrizioni». L’iniziativa della biblioteca al mercato, che in diversi luoghi è già una consuetudine consolidata e si accompagna ad altre iniziative delle biblioteche appartenenti allo Sbangl per il progetto “Impronte leggere” (dai laboratori eco di Laerru a quelli di Bulzi e Tergu), è stata anche occasione per distribuire la “Guida ai servizi” con una breve storia della biblioteca, ora al numero 16 di via Vittorio Emanuele, e una descrizione di tutte le attività adatte a qualsiasi tipo di lettore, da quello tradizionale a quello più social e interattivo. Per info: tel. 079 568025; e mail chiaramonti@sbangl.it - o  bibliochiaramonti@tiscali.it, su Facebook e Instagram. 


22.4.25

diario di bordo n 117 anno III ormai anche i cantautori si vendono alla pubblicità .,Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me» ., Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»

  Concordo    con   l'intervento  pubblicato il   19\4\2025   dal il  Fatto    quotidiano  ma

Sempre più frequentemente il cantautore, un tempo rigidamente schierato contro la commercializzazione della sua musica, rompe il confine fra tradizione e tradimento e vende i suoi diritti alla pubblicità riducendo brani storici a jingle per aziende.
Niente di nuovo, lo fece anche Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, prestandola a Fiat e Alitalia.
Ma quella di De Gregori, Vecchioni, Ligabue, e indirettamente Gaber, è una rivoluzione copernicana non tanto per questioni di opportunità di monetizzazione ma perché toglie alla più nobile canzone d’autore il ruolo di sentinella e testimone del nostro tempo, così come proprio loro l’avevano sempre voluta intendere e trasmettere.
È precipitato improvvisamente il senso critico, quel fare
le pulci alla Storia che connotava nel profondo il loro verbo e la loro azione. L’indignazione e la protesta hanno lasciato il posto a teneri e rassicuranti sguardi sul mondo.
Forse i nostri cantautori si sono distratti, ma i percorsi storici delle aziende con le quali flirtano sembrano per loro improvvisamente essere solo costellati di operai di buona volontà che illuminano case al crepuscolo, di automobili romantiche custodi dei primi amori giovanili e di grandi strade sulle quali sfrecciano famiglie felici verso le vacanze.Tali itinerari invece sono stati anche spesso illuminati dai riflettori della cronaca e della magistratura. L’associazione così leggera di frasi come“la storia siamo noi”, “sogna ragazzo sogna” o “la libertà è partecipazione” a percorsi tanto controversi, sorprende non poco.Gli eredi di quelli che a buona ragione Umberto Eco definiva “cantacronache”, sembrano aver perso la loro stella polare e quel rigore nel procedere in “direzione ostinata e contraria” indifferente all’hit parade.Vasco Rossi tempo fa fece “mea culpa” dopo aver concesso due brani alla pubblicità, ricordando che la canzone non è solo di chi l’ha scritta ma anche di tutti coloro che l’hanno amata e magari impugnata in stagioni complicate per il nostro Paese.Forse questo messaggio nessun grande cantautore che abbia avuto il merito di non allinearsi dovrebbe mai dimenticarlo.

aggiungo     che    bisogna     distinguere     fra     chi    fa  il canta autore   o  cantante   per  mestiere  cioè vive solo  di  quello  e  è  quindi  è costretto a  prestare  il suo  ingegno  per  opere  d'indubbio gusto e   a

 [...] Colleghi cantautori, eletta schiera
che si vende alla sera per un po' di milioni
voi che siete capaci fate bene
a aver le tasche piene e non solo i coglioni
Che cosa posso dirvi? Andate e fate
tanto ci sarà sempre, lo sapete
un musico fallito, un pio, un teorete
un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!
Guccini  -L'avvelenata  


e   fra    quelli   che    lo  fanno  per hobby  e passione    che posso o  essere   coerenti   o totalemente    cioè  a non vendersi   e imanete indietro o di nicchia oppure   ad  aprirsi al   al mondo circostante   cercando    di.  farlo  in maniera  etica    come  i caso  di  Blowin' in the wind' di Bob Dylan diventa uno spot  :  « [... ] della pubblicità del Co-operative Group; è la prima volta che Dylan concede un suo brano al mercato pubblicitario britannico. Il Co-operative Group gestisce vari servizi, tra i quali viaggi e pompe funebri, ma anche una rete di supermarket simile a quella delle Coop italiane; il rappresentante di Dylan ha riferito che la scelta dell'artista è stata influenzata dalla politica del Co- operative Group, che pone l'accento sul mercato equo e solidale e sull'impatto ambientale. »

Quindi attenzione  ⚠️  a giudicare un opera o un cantante

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Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre: «Una rivincita per me»


La sua è una resurrezione metaforica dall'inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione «frequentando» l'università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell'università di Siena.
Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell'intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: «La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero». La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario.
Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell'isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l'ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni dei carceri più duri della penisola.
Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all'esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell'università un'alternativa di vita capace di restituirgli la speranza.
Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all'università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche.
Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l'ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l'ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto.Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c'è un'ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. «Ma quello che mi ha emozionato di più – racconta il docente – è stato l'impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell'operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico al verità. Al suo posto non ce l'avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia».
Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c'erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all'università, l'anziano padre, i fratelli e i nipoti. L'altra figlia doveva affrontare l'ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario.
C'è stata anche una festicciola con i parenti, l'hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. «Ce l'ho fatta - tra le sue poche parole – ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale».
Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: «Di recente – spiega – il Dap (il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nei carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all'università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto».




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Storia di un ragazzo adottato: «Così ho saputo tutto sulla donna che mi abbandonò»



Questa storia inizia a Bologna, anno 2018. Michael Petrolini compie 25 anni. È l’età, secondo la legge n.184/83, in cui ogni figlio adottato riconosciuto alla nascita può richiedere informazioni sui genitori biologici. Michael, quei nomi, li vuole sapere. Ma ci tiene soprattutto a
sapere che cosa abbia spinto sua madre a lasciarlo. Fa richiesta al tribunale per i minorenni di Bologna. Sul sito sono riportati i costi: 27 euro per la marca da bollo più 98 euro contributo unificato per la pratica. Lui paga, compila i moduli e aspetta: giorni, mesi. «Le tempistiche sono bibliche. Dopo quasi un anno, il tribunale finalmente mi contatta per dirmi che ho la possibilità di accedere al fascicolo. Vado e sembra di essere in edicola, ricevo un papiro di fogli con le informazioni sul mio passato e stop… Aiuti psicologici? Zero. Assistenti sociali? Zero. Dovevo cavarmela da solo, ero io e il mio passato».


In quei fogli, Michael rintraccia parte della sua infanzia. Scopre il nome di sua madre e quello di suo padre. Scopre che sua madre è napoletana, suo padre tunisino e non lo ha riconosciuto. Scopre di avere due fratelli e due sorelle. Racconta: «In quel momento ho completato un piccolo pezzo di puzzle, era pura curiosità sapere le mie origini, però si era aperto un altro capitolo. Mi chiedevo: e adesso, che cosa devo fare?». Fino a quel momento Michael-adulto conosce poco di Michael-bambino piccolo: sa che è nato a Torino, che ha vissuto con la madre biologica due anni e poi in una casa di accoglienza. Si interroga sulle sue origini già a scuola quando i compagni gli domandano: «Sei nordafricano? Sei brasiliano?». Lui è consapevole di avere dei lineamenti diversi, ma non risponde altro che «sono di Parma», città dove abita allora con i genitori e una sorella. Spiega agli amici che è stato adottato e ne va fiero.
Iniziare un viaggio dentro (e fuori) sé stesso significa sentire meno quel vuoto, che lui definisce durante l’intervista «buco da colmare». Come lui, sono in tanti e tante a chiedersi il perché dell’adozione. Un’indagine dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e Regione Toscana inquadra il fenomeno prima del Covid. I dati risalgono al 2019. Non ci sono studi recenti a livello nazionale, assicurano a 7. Delle 226 persone che si sono rivolte allo sportello Ser.I.O. – il Servizio per le informazioni sulle origini – 140 sono uomini e donne adottate.
Il motivo prevalente: ricerca dell’identità familiare e la comprensione delle ragioni dell’abbandono (153 persone su 226 contatti). Altre ragioni: sapere l’identità della madre biologica (53 persone), conoscenza di eventuali fratelli e sorelle (12 persone), ricerca del luogo/regione di provenienza della famiglia (6 persone). Altre ancora: indicazioni sul padre «che non si è fatto carico del suo ruolo» (2 persone). Oltre a conoscere la famiglia naturale, in molti chiedono l’anamnesi familiare. Domandiamo a Michael perché è stato così importante per lui ricercare le origini. «Ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è per costruire la sua identità, non mi sentirei mai completo se non sapessi che cosa è successo nel mio passato, è un buco da colmare che rimarrebbe vuoto, mentre obiettivamente la madre biologica lo sa, conosce le motivazioni per cui ti ha lasciato». Adesso sente di aver chiuso il cerchio? «Non del tutto, ma so che cosa è successo nei primi tre anni della mia vita, non è banale».
Per scoprirlo, appena riceve il fascicolo, Michael va a uno degli indirizzi segnati. Parte da Bologna e arriva a Reggio Emilia. Si ricorda che lì si trova anche la sua casa di accoglienza. La via riportata nel documento però non esiste più. Lui entra in un bar del quartiere e chiede se qualcuno conosce sua madre. Un tizio si ricorda di lei e della sorella. Dice a Michael di aspettare un altro cliente del bar. Questo signore arriva, lo riconosce, gli dice che lo guardava sempre da bambino, che conosce sua zia e sua madre. «Quel signore mi dà il contatto di mia zia, io la chiamo e in 20 minuti lei si precipita al bar». Sua madre è l’ultima persona che Michael incontra. Lei si presenta con il figlio più piccolo. «Non avevo ricordi insieme a lei, non me la ricordavo. Mi ha fatto piacere sapere come fosse fatta fisicamente. I miei parenti biologici per me erano stranieri, degli estranei, mi sono difeso molto a livello emotivo», ammette.
Michael abbassa appena la voce, fa un accenno su suo padre - «uno spacciatore di Reggio Emilia, che entra ed esce di galera» - e si sofferma invece a lungo su sua madre: «Le somiglio molto. Ho gli occhi, il naso e la bocca uguali ai suoi. Lei è una senzatetto, vive in una roulotte abbandonata, è cresciuta a Scampia e ha fatto parte della camorra. Mi hanno prelevato gli assistenti sociali perché vivevamo in mezzo alle macchine. Mia madre ha cinque figli da cinque uomini diversi, solo il minore è rimasto con lei, gli altri sono tutti stati adottati. Vive a Torino. Ora mia madre ce l’ha a morte con gli assistenti sociali, ancora crede che avrebbe potuto tirarmi su da sola. Però lei è una persona buona, cresciuta in un contesto disagiato, e questo aspetto mi ha fatto avvicinare». Vi sentite? «Abbiamo instaurato un rapporto, se la vedo ci abbracciamo, mi sono affezionato. Mi scrive per chiedermi soldi per pagarsi le visite o la ricarica telefonica. Io se posso l’aiuto, altrimenti no. Le ho fatto capire sin da subito che non sono qui per darle supporto economico». Michael spesso va a Torino a trovarla, lui è un regista e sta facendo le riprese per un documentario sulla sua storia.
Cita spesso i suoi genitori «che sono quelli adottivi». «Mi hanno fatto sentire amato, mi hanno lasciato spazio per indagare sul mio passato. Da loro ho preso l’umiltà e l’educazione. Ma ho preso tanto senza volere anche da mia madre biologica: il bisogno di spostarmi, la creatività, l’adattamento in situazioni difficili». Anche sua sorella aspetta di conoscere i nomi dei genitori biologici. Ricorda: «Sono quasi tre anni che è in attesa del fascicolo dal tribunale per i minorenni di Bologna. C’è molto menefreghismo. Si parla tanto dell’accompagnamento alle famiglie, ma dovrebbe esserci anche un percorso per i giovani-adulti alla ricerca delle proprie origini».
Quest’altra storia invece comincia a Bergamo, anno 2021. Sara (nome di fantasia) cerca le sue origini vari anni dopo la morte dei genitori. È per loro che ci chiede di proteggere la sua identità con l’anonimato, «una questione di rispetto». In tutta l’intervista ripete molte volte di essere fortunata. «Ho avuto una storia adottiva felicissima». Lei, il vuoto descritto da Michael, non lo ha mai sentito. «Non mi sono mai sentita abbandonata, i miei genitori mi hanno adottata neonata e mi hanno detto quel poco che sapevano sulla famiglia d’origine». Il suo è stato un parto in anonimato, sua madre biologica non l’ha riconosciuta quando è nata. Varrebbe il comma 7 dell’articolo 28 della legge 184 del 1983 che impedisce a figli e figlie di conoscere il nome della madre biologica che ha deciso di «non voler essere nominata», a meno che la madre non sia deceduta.
Ma quanti sono i bambini abbandonati alla nascita? In Italia se ne contano quasi 300 ogni anno, secondo un vecchio studio della Società italiana di Neonatologia. Contattata da 7, la Sin evidenzia che adesso «non ci sono dati abbastanza aggiornati» e quei numeri non comprendono i neonati lasciati fuori dalle strutture ospedaliere.
Il caso di Sara pone sotto un cono di luce una questione molto discussa: il diritto della madre di non voler essere nominata prevale sul diritto del figlio di conoscere le proprie origini? Nel 2012, la storia di Anita Godelli, che a 69 anni si oppone al divieto della legge 184 di conoscere l’identità della madre, segna un prima e un dopo nella giurisprudenza. In quell’anno, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione, definendo la normativa italiana più a favore della tutela dell’anonimato della madre biologica. L’anno dopo, un’altra sentenza della Corte costituzionale dichiara in parte illegittima la legge perché non consente al figlio di fare interpello.
Nel 2024 l’associazione ItaliaAdozioni (italiaadozioni.it) depone una proposta di legge in Senato per modificare la normativa sulle adozioni. Tra i vari punti c’è anche quello di uniformare gli iter in tutti e 29 tribunali per i minorenni e consentire l’interpello della madre biologica nei casi non riconosciuti alla nascita. «Adesso chi è nato con parto in anonimato e vuole andare alla ricerca della propria storia può recarsi in tribunale e chiedere di interpellare la madre biologica per sapere se è ancora intenzionata a mantenere l’anonimato. Questa però non è una legge, è una soluzione che hanno trovato i tribunali e si applica in modo diverso da Regione a Regione», spiega Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni. Poi sottolinea: «Adesso in tanti portano avanti ricerche sulle proprie origini in totale autonomia. Vanno sui social e cercano nomi e cognomi dei familiari. Questa pratica è pericolosa, potrebbe diventare un gesto violento nei confronti di chi non vuole essere rintracciato. Online si possono comprare anche i test genetici che fanno scoprire le provenienze. Che cosa si aspetta a cambiare la legge italiana? Ormai è anacronistica».
A 51 anni Sara vuole chiudere il cerchio. Quando avvia la ricerca assicura di non avere nessuna urgenza. Da Bergamo parte per Milano, città dove è nata. «Vado all’archivio storico e chiedo di accedere ai miei dati personali per ragioni sanitarie. Non mi interessavano i dati sensibili di mia madre o di un eventuale padre. L’archivista mi dà il fascicolo sanitario e mi propone di fare la domanda al tribunale per i minorenni. Mi dice: “La vedo così risolta che dovrebbe provarci”». Sara usa più volte le parole «risolta» ed «equilibrata» quando si descrive. «Risolta» ed «equilibrata» glielo dice anche la giudice onoraria con cui fa il colloquio conoscitivo al tribunale per i minorenni di Brescia (il tribunale di riferimento per chi vive nella provincia di Bergamo).
«A quella giudice racconto della mia vita felice di figlia adottiva, le dico che essere adottata non era né un assillo, né un problema. E le preciso anche che vorrei sapere le circostanze per le quali mia madre biologica avesse deciso di lasciarmi», racconta. Sara aspetta due anni prima di avere delle risposte, la sua pratica rimane a lungo nei cassetti del tribunale. Lei chiede aiuto a un avvocato. «Loro ti dicono che non serve un legale, invece io lo consiglio: al tribunale si erano dimenticati del mio caso perché la giudice era stata trasferita. Poi si sono scusati». Nel 2023 ottiene il fascicolo e scopre che sua madre biologica è lombarda ed è morta molti anni prima che lei iniziasse la ricerca. Scopre che lei, Sara, è nata in casa e quando sua mamma è rimasta incinta lavorava fuori dal paese e non era coniugata.
Sara abbassa gli occhi per leggere qualche appunto che tiene sotto il mento. Dal fascicolo scopre di avere un fratello più grande, anche lui deceduto molti anni prima. Le chiediamo quali emozioni le abbia suscitato. Risponde prima «dispiacere», poi «gratitudine»: «Dopo un po’ di tempo sono andata al cimitero del paese di mia madre e le ho portato un fiore sulla tomba, almeno ho visto una sua foto. Un gesto così vuol dire doppia gratitudine, significa grazie per avermi dato la vita potendo decidere diversamente e grazie per avermi permesso di avere i miei genitori».

6.7.24

L’amore per il latino e per la vita Così Marco Remedia,ha vinto la malattia

 Un brutto male diagnosticato alla nascita l’ha costretto a lottare fin da subito. E lui ne è uscito più forte e intenzionato a mettere a disposizione degli altri le proprie qualità. «Sogno di diventare insegnante»L’amore per il latino e per la vita Così Marco ha vinto la malattia

avvenire  6\7\2024
ROBERTO 
MAZZOLI

Pesaro
«Ragazzi, studiate il latino e scoprirete voi stessi». Sono le parole di Ivano Dionigi, pesarese, già Magnifico rettore dell’Università di Bologna e per lunghi anni a capo della Pontificia Accademia della Latinità. Parole che evidentemente hanno fatto breccia nel cuore di Marco Remedia, 14 anni, che quest’anno ha concluso brillantemente il primo anno al liceo classico “T. Mamiani” di Pesaro, ottenendo il massimo dei voti in tutte le materie d’indirizzo. 
Inoltre lo scorso 26 maggio ha ricevuto la palma del vincitore alla 33^ edizione di “Latinus Ludus”, manifestazione riservata alle giovani eccellenze italiane nello studio dei classici. « È stata la mia insegnante, Alessandra Massent, a iscrivermi e ho partecipato con grande entusiasmo alla prova che consisteva in una traduzione del “Ratto delle Sabine” di Tito Livio». Quel giorno su centinaia di partecipanti da tutta Italia, Marco consegna la sua traduzione per primo. È molto soddisfatto del suo lavoro e lo stupore della commissione è grande, anche perché sono trascorsi appena 50 minuti delle tre ore concesse. A casa per festeggiare il novello Cicerone ci sono mamma Francine e papà Filippo, le due sorelle maggiori Holly e Carolina e la nonna Maria Rosa, già maestra elementare e innamorata del latino. « La passione di Marco per questa lingua non ha niente di snob – dice il suo parroco don Mario Florio – e questo premio ha coronato il suo percorso che gli auguro lungo e fecondo». Sembra tutto facile per Marco, in realtà la sua vita si è rivelata un vero dramma fin dalla nascita. A seguito di una peritonite meconiale non riconosciuta al momento del parto, Marco subisce un ictus ischemico e sarà costretto ad un delicato intervento presso l’ospedale di Rimini dove verrà dimesso dopo un lungo ricovero di quasi due mesi. « Da quell’esperienza sono uscito anche con un superpotere – scherza Marco – infatti mi è rimasto un udito molto più sensibile della norma cosa che, se da un lato è positiva, d’altra parte è penalizzante perché amplifica ogni minimo rumore, impedendomi di concentrarmi come vorrei». Le gravi conseguenze motorie subite alla nascita, resteranno inoltre per tutta la vita, costringendolo a nuovi e complessi interventi chirurgici. L’ultimo esattamente un anno fa, quando è stato sottoposto all’allungamento dei tendini più importanti delle gambe: il semitendinoso e il gracile, che nel suo caso erano rimasti pari all’estensione di quelli di un bambino di tre anni. «Sono stato contento di essermi operato durante i mesi estivi, subito dopo l’esame di terza media perché, anche se ho patito parecchio caldo e sofferenza, almeno non ho perso giorni di scuola; non sarei stato in grado di dedicarmi allo studio, per me così importante, perché era già faticoso anche solo alimentarsi». Parlare con Marco è come dialogare con un adulto. Ha le idee ben chiare sul suo futuro: «Sogno di potermi iscrivere alla Facoltà di Lettere classiche e di diventare un insegnante ma spero di non sentirmi mai superiore agli altri, perché non c’è niente di più bello che comunicare la propria conoscenza ». Del resto comunicare deriva dal latino communicare: cum (insieme) e munus (dono), e Marco è un vero dono anche per la sua classe che ha festeggiato la sua vittoria portandolo in trionfo e facendogli sentire tutto l’affetto della vera amicizia. « A scuola mi trovo bene come in famiglia, mi piace studiare ma anche divertirmi come un qualunque ragazzo della mia età: leggo i fumetti manga, gioco alla playstation e vado all’oratorio parrocchiale». Come premio per il riconoscimento ottenuto, oltre a numerosi libri, potrebbe arrivare anche un regalo speciale della famiglia: un viaggio a Roma. « Non sono mai stato nella capitale e per me sarebbe un sogno viaggiare nel tempo alle origini della lingua che tanto mi affascina». E a proposito di sogni: la madre dice che nel sonno Marco parla in latino. Forse è proprio vero quel che dice Dionigi. Il latino ci consente di risalire al significato originario delle parole, di riconoscere il loro volto, di ripercorrere la loro storia. Perché le parole, come le persone, hanno un’origine, un volto e una storia.

1.8.23

Marco Ruffa, l'anarchico dei tatuaggi: "Serve più cultura e romanticismo"



Parla Marco Ruffa: "Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea" da  https://www.ilgiornale.it/news/arte/ del 30 Luglio 2023 - 14:44


                      DI Matteo Carnieletto




“L'anarchia non è fare quello che ti pare, l'anarchia è darsi delle regole prima che te le diano gli altri”. Così parlò De Andrè, Faber, e fabbro della parola. Un aedo del Novecento. Era, quella, un’idea che poco o nulla a che fare con quello che vediamo oggi. L’anarchico di ieri poteva anche essere un terrorista. Un criminale. Ma, prima di tutto, era un idealista. Un romantico, in definitiva. Uno ciò che metteva un’idea, giusta o sbagliata che fosse, al di sopra di tutto. Anarchico e romantico è ancora oggi Marco Ruffa, tatuatore presso T-Shock, in corso di Porta Ticinese a Milano. Carattere ruvido, ma capace in poco tempo di spalancare le porte all’amicizia, mette subito le cose in chiaro: “Giornalista e de ilGiornale. Mio padre lo leggeva, io ho preso una strada diversa: ho fatto il volontario del Leoncavallo, poi mi hanno deluso. Dei tuoi colleghi ne apprezzo solo uno: Massimo Fini”. Sorrido ed estraggo il telefono, perché devo difendermi. Il rischio di essere bollato come pennivendolo è dietro l’angolo. Cerco la mail di cui ho bisogno, l’ultima scritta dall’eterno ragazzo che ora non vede più, e che si conclude con quella che è per me una medaglia al valore: “Finiano di stretta osservanza”. Marco legge e si convince. L’intervista può cominciare. Anzi: prima i preliminari. Estrae un libro e, orgoglioso, dice: “Questo è il quaderno che contiene una parte dei miei lavori dal 1988 ad oggi. Ora è tutto su Instagram e su quelle cagate lì. Ma un libro è fisico, lo si può toccare”. Cominciamo a inquadrare la persona, che ci tiene subito a precisare: “Io e Michele (Tartaglia, ndr) siamo tattooer e non tattoo artist. Loro dicono: ‘Faccio solo questo’. Noi invece portiamo avanti l’idea di una storia: quando una persona entra in studio, eseguiamo quello che ci viene chiesto, senza fare i fighi”. Tutti gli stili, tranne il realistico, precisa: “Perché se non viene fatto bene, dopo due o tre anni fa schifo”.





Qual è lo stile che ti piace tatuare di più, quello insomma che ti dà maggiore soddisfazione?


Sono i tatuaggi grandi. Quelli grossi, perché mi piace andare a mano libera. Uno dei miei fari illuminanti è stato Hanky Panky, il tatuatore olandese Schiffmacher, che fra l'altro ho anche conosciuto. È un “pazzo” che, vedendolo lavorare, mi ha indirettamente insegnato come il tatuaggio debba essere una linea che entra nel corpo. Una linea semplice, pulita, veloce. Che puoi anche permetterti di sbagliare, perché poi dopo riempi con il nero. Personalmente, a me piace fare i tribali. Ho girato tutto il sudest asiatico: Borneo, Malesia, India, Indonesia. Sono andato a studiare queste tecniche abbastanza grezze, soprattutto in India, dove in alcuni posti tatuano in mezzo alla strada con zero igiene.

A questo punto, Ruffa mi indica una fotografia appesa a una parete.

Questa è Higan. Ho conosciuto questi indigeni sul fiume Skrang in Borneo. Ti racconto un episodio: sono arrivato il lunedì e non c'erano bambini nel villaggio. Dopo cinque giorni ho chiesto il motivo. Allora mi hanno portato nel villaggio principale, dove mi hanno mostrato la scuola con i banchi, i libri e i bambini che studiavano. “Possiamo insegnare a scacciare le scimmie ma i bambini vogliono andare nella civiltà e devono studiare”, mi hanno risposto i capi. Mi stavano dicendo che avere la conoscenza era un fattore importantissimo.

L'italiano medio pensa che il tatuatore sia una persona un po' rozza, quasi un criminale senza cultura..


Il tatuatore, se è veramente serio, se è un professionista, è una persona di altissima cultura. Perché il tatuaggio c'è da sempre, nasce nella storia dei tempi. I tatuatori sono persone con le quali puoi parlare ore di conoscenza, di antropologia.


Il centro di questo mestiere è l'uomo con i suoi sogni, le sue paure, insomma...


Esatto. Quando le persone vengono nel mio studio, è importante che lascino fuori l'ignoranza e si aprano. Perché io li tocco. Devono quindi raccontarmi le loro storie e capire l'importanza di ciò che stanno facendo: tatuarsi.


Essendo eterno, il tatuaggio non può essere una cosa stupida.


Certo. Molte volte mi capita di avere dei clienti attempati, 50-55 anni, che mi chiedono di rimettere in ordine alcuni loro vecchi tatuaggi. Io mi rifiuto, dico di no anche se potrei guadagnarci. E questo perché quel tatuaggio che mi chiedono di coprire era un momento di una loro storia risalente a tanti anni prima. Non bisogna mai rinnegare il passato. No remorse.

Hai iniziato a tatuare alla fine degli anni Ottanta, tra il 1988 e il 1989. Hai avuto come riferimento il grande maestro Gianmaurizio Fercioni. Poi chi altro?


Non solo lui. Anche Marco Leoni, Marco Pisa, Gippi Rondinella. I primi ad aver avuto il coraggio di iniziare questo tipo di lavoro.

Erano tutte persone che uscivano dall'Accademia delle Belle Arti...


Io faccio parte di un'idea proletaria, non sono figlio di persone ricche o di borghesi. Ho fatto fatica. Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea. Ricordo che diverse volte mio papà mi ha portato a vedere il suo lavoro. Lavorava in una ditta: disegnava e vendeva le guarnizioni degli altiforni. Quando avevo 12-13 anni, lui tornava a casa e mi diceva che non gliele compravano. Sai perché? Perché funzionavano e quindi è morto arrabbiato. Voleva inoltre che facessi il suo lavoro. Io invece mi sono tolto questa sua rabbia.


Il mestiere del tatuatore è cambiato?


Certo. Sta seguendo il cambiamento del mondo globalizzato. Una volta c'erano tre o quattro studi di tatuaggi, adesso ce ne sono 300mila. Dentro questo numero ci sono anche giovani umili e in gamba, ma anche una grande fetta di sbarbati che vogliono soltanto fare “i fighi”. Servono poi determinate qualità. Noi tatuatori tocchiamo e facciamo male a persone che non conosciamo. Quindi loro si aprono e si raccontano. Siamo una specie di psicologi.

Tu dici che il fenomeno del tatuaggio si è globalizzato. C'è il rischio di una uniformazione, in senso negativo del termine, del tatuaggio?


Si è un po' perso il linguaggio dei tatuaggi. Sarà colpa anche della Torre di Babele. Alla fine tutti parlano in modo diverso. Mentre prima quei pochi tatuatori che c'erano parlavano allo stesso modo, forte e romantico, ora ognuno parla una lingua diversa. E rimarca il fatto che la sua sia la lingua più bella. Invece dovrebbe essere come una volta, con tanto romanticismo. Rispetto i tempi che cambiano, sia chiaro. Ho fatto il giudice di varie tattoo convention, e sto vedendo da vicino i cambiamenti del settore. Penso che, anche se qualcuno decide di disegnarsi un piccolo infinito sulla pelle, il suo gesto sia uguale a quello che decide di farsi un tatuaggio che ricopre l'intera schiena. In entrambi i casi stiamo sempre parlando di mettere un po' di nero sulla pelle. Bisogna solo fermarsi, andare piano. Dovrebbe rimanere una cosa delicata. E invece adesso anche il salumiere sotto casa mia ha chiuso la vecchia attività per fare quella di tatuatore. Con pessimi risultati, per altro, visto che ha già chiuso.


Hai citato tante volte la parola romanticismo. Cosa significa?

È semplice. È la risposta alla domanda sul perché ho scelto di tatuare. Quando ero ragazzino sono sempre stato un ribelle. Quando avevo dieci anni e vedevo gli uomini, ex galeotti o muratori, con addosso tatuata una rosa dei venti, ero affascinato. Quel disegno mi portava a Salgari, al viaggiare con la mente in altri posti. Penso che sia questa una delle cose più importanti. Romanticismo vuol dire anche convivere con dei sogni, gli stessi che poi, magari quando si avverano, non sono più belli. Ecco: il tattoo è un sogno che dovrebbe rimanere tale. Non dovrebbe essere realtà, anche se quel che faccio è reale. Il romanticismo sta all'inizio della realizzazione di un lavoro. È quel punto in cui ho davanti una persona che non ha tatuaggi e inizia a realizzare qualcosa di romantico e incredibile. Io non salvo vite. Non sono un medico. Però produco felicità e sogni.

Mi colpisce quello che dici perché oggi l'idea del tatuaggio è sempre più distante dal romanticismo e associata alla moda. Non serve una rieducazione al tatuaggio?


Domani verrà qui, nel mio studio, una ragazzina che è la figlia della mia prima fidanzatina. La madre mi ha telefonato per raccomandarsi: “Non sono d'accordo con la sua scelta. Convincila a fare un disegno non esagerato”. Mi chiama poi la figlia tutta entusiasta: “Non vedo l'ora di tatuarmi”. Vedi, il discorso del tatuaggio si pone all'interno della famiglia, nei rapporti tra figli e genitori e via dicendo. Secondo me riguarda anche un discorso di ribellione, fermo restando che adesso sono quasi più ribelli quelli che non hanno tatuaggi. Però, ripeto: anche avere solo un puntino, vuol dire essersi predisposto ad accettare il fatto che una persona che non conosci, il tatuatore, ti tocchi e ti faccia male.


Il tatuaggio è sempre stato un rito di iniziazione.

Oggi questo rito è andato perso. Io tatuo varie cose... Sono passato a fare disegni che riguardano le isole del Pacifico. Dopo anni che le ho riprodotte, le persone a cui le ho realizzate non sono mai state neanche sull'Adriatico. Per questo sono in un momento un po' di stasi. Sono un po' “stanchino”. Io tatuo tutti. Però, su dieci persone che entrano nello studio, io sono felice quando ce ne sono due o tre che vengono a chiedermi dei lavori, che rimarranno sulla loro pelle, e che sanno cosa vogliono e quello che fanno. Al giorno d'oggi la gente non sa cosa vuole.

Ti sei mai rifiutato di fare un tatuaggio?


Mi son rifiutato di tatuare simboli politici, come la svastica o la falce e martello. La mia politica è che se da quella porta entra un ragazzino di 18 anni, senza tatuaggi, e mi chiede di tatuarsi la faccia e le mani, io non lo tatuo. Gli parlo e gli spiego. Se, invece, entra un 60enne interamente tatuato e mi chiede lo stesso, allora accetto senza problemi. Ti racconto un episodio. Nel mio vecchio studio è venuto Sfera Ebbasta, che fa parte di questa nuova generazione di trapper. Gli ho chiesto chi fosse il suo manager e mi ha risposto in modo tosto: “Sono io il mio manager”. È un tipo in gamba, non c'è che dire. Ma ad un certo punto gli ho detto che mi piace Tupac, un tipo che sparava con la pistola vera, mentre lui, a Cinisello Balsamo, spara con la pistola ad acqua. In quel momento c'erano lui, la sua guardia del corpo - che mi guardava già male - il driver e un quarto tipo che non ho mai capito chi fosse. ​La società di oggi è materialista e capitalista. Si guarda solo al materiale. Ti fai i denti con mille diamanti e poi non sai nemmeno che quei diamanti arrivano da posti dove la gente muore per estrarli.

30.1.23

San Giovanni Bosco Lo spazio è curato da un insegnante in pensione In chiesa una biblioteca di periferia «La lettura per riunire il quartiere»

dal sassarese una storia in cui la chiesa rimedia o almeno ci prove alle deficenze dello stato

 

Sassari
Lo stanzone dell’oratorio è colorato dalle copertine di migliaia di libri. La parrocchia di San Giovanni Bosco ha la sua biblioteca e don Franco Manunta, il parroco, parla di un atto politico. Perché la lettura è educazione e condivisione e lo è ancora di più quando viene promossa nel cuore di un quartiere con le sue difficoltà ben radicate. Dopo aver mosso i primi passi ormai un anno fa, la biblioteca dell’oratorio della parrocchia che si affaccia su via Washington sarà inaugurata ufficialmente domani pomeriggio, proprio nel giorno in cui si festeggia don Bosco. Ricca di libri e volumi di ogni genere, è nata grazie alla passione e alla buona volontà di un insegnante di musica in pensione. Si chiama Tonino Satta e tra gliscaffali divisi per sezione sta portando avanti una vera missione.
Tonino Satta ha insegnato una vita alle scuole medie. Alla numero 5 aveva anche messo su una piccola biblioteca di mille libri. «Una volta andato in pensione, ho pensato di donare la mia dotazione alla parrocchia – racconta Satta –. Don Franco Manunta mi ha risposto che, insieme ai libri, serviva però anche un bibliotecario. E così è nato questo spazio. Nel giro di poco tempo sono stati donati tanti altri
Il bibliotecario volontario Tonino Satta
libri, adesso ne contiamo circa ottomila». La biblioteca, che sarà inaugurata domani alle 16.30, nasce proprio in una parrocchia intitolata a un santo che ha dedicato la vita ai giovani e all’educazione. «Qui non è stata spesa una lira – spiega Tonino Satta –. Ma anche in povertà si possono fare delle belle cose. Questo è un progetto della parrocchia e io sono solo al servizio». Anche altri volontari stanno dando la propria disponibilità per tenere aperte le porte la biblioteca, alla quale si accede da piazza Fondazione Rockefeller. Diversi i servizi garantiti: consultazione, prestito, aiuto alla ricerca, interscambio e anche consegna a domicilio per le persone con disabilità. I libri sono numerosi e per tutti i gusti: sezione ragazzi, religione, saggistica, narratori stranieri, narratori italiani, arte e poesia. Atto politico Quella dell’oratorio della parrocchia di San Giovanni Bosco è una biblioteca di periferia. Prende infatti forma in un quartiere alle porte della città, in un luogo privo di altri servizi di questo tipo. Un quartiere con le sue problematiche e anche le sue diversità. «Secondo me la biblioteca ha un valore politico – commenta il parroco della chiesa di via Washington, don Franco Manunta –. Io insegnavo filosofia e mi riferisco al senso platonico. E quindi al riunire il demos, il popolo, la gente. Questa biblioteca nasce in un quartiere con molte forme e tante identità e, credo, anche poco conosciuto dal resto della città. C’è la parte delle case popolari, quella delle cooperative e poi una parte più borghese. Zone che, spesso, neanche comunicano tra loro». Secondo il parroco è dunque importante che la biblioteca sia stata aperta proprio qui. «La biblioteca è formazione, istruzione, è porsi delle domande – aggiunge il sacerdote –. Per questo dico che ha una funzione politica. Il mio desiderio è che questo spazio diventi un punto di riferimento. Penso per esempio ai ragazzi che abbandonano la scuola perché non si sentono coinvolti: leggere significa pensare e riflettere».

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                                          don Gaetano Galia
Sassari 
Il 31 gennaio è la festa di san Giovanni Bosco, un grande educatore. Ne approfittiamo per riflettere su una tematica educativa a lui molto cara: il valore della riconoscenza. Don Bosco cita spesso nei suoi dialoghi e nei discorsi ai suoi ragazzi questo contenuto. Mi piace proporre questa riflessione che attiene sia alla sfera dell’etica laica che religiosa. Di fatto il grazie è sempre più merce rara. Sa dire grazie solo chi è sensibile, chi si coglie bisognoso degli altri, chi sa che la relazione è il segno del nostro
la chiesa intitolata a San Giovanni Bosco
      e il cappellano del carcere di Bancali don Gaetano Galia  autore  
dell'articolo 
limite, il sigillo della necessità della complementarità con l’altro. L’uomo è relazione e non può vivere da solo ma si   completa con l’altro. La riconoscenza, allora, consiste nel saper individuare il bene ricevuto. Si richiedono alcuni passaggi fondamentali: è necessario uscire dall’io, dal narcisismo, da quell’istinto naturale all’autosufficienza che regna in ciascuno di noi, dal nostro smisurato egocentrismo. Non può essere riconoscente chi è supponente, arrogante, superbo e quindi non percepisce il valore di ciò che gli viene donato. È un problema culturale: siamo nel tempo del tutto è dovuto e tutto è scontato. Forse dovremmo sdoganare maggiormente questo meraviglioso sentimento e ringraziare più frequentemente genitori, medici, insegnanti, negozianti, badanti, meccanici… Non dice grazie chi, con i soldi, crede di poter comprare tutto, e una volta pagato, non sente il bisogno di ringraziare! Chi crede di poter comprare anche l’amicizia, l’amore, la stima, l’affetto, Dio. Chi disprezza gli altri non ha bisogno di nessuno. Ci si accorgerà solo nel momento della sofferenza che non aver coltivato le relazioni con i propri simili porta alla solitudine e all’isolamento. Facciamo un esame introspettivo: cosa avvertiamo quando doniamo qualcosa e ci viene detto grazie? Ci sentiamo valorizzati, apprezzati, riconosciuti, incoraggiati, stimolati a fare sempre più del bene. Quando, al contrario, facciamo un bel gesto, un regalo e non veniamo ringraziati, ci percepiamo tristi, delusi, scoraggiati e perdiamo l’entusiasmo di essere generosi. È fondamentale riproporre a livello educativo la bellezza della meraviglia e del desiderio. Se i nostri figli desiderano solo oggetti e non si meravigliano più del mistero della vita, del fascino delle relazioni, dell’incanto delle emozioni, formiamo persone infelici. Persone che ricercano la felicità nell’ultimo oggetto proposto dal mercato per poi stancarsi e rincorrere il prossimo. Meravigliarsi delle cose semplici, dà un senso alla vita e gli adulti devono educare a questo, più che correre essi stessi verso l’ultimo prodotto. Dobbiamo educare i nostri figli alla riflessione e ad approfondire l’origine dei doni, il valore dei doni, l’affetto che c’è dietro un dono. Elementi che richiedono meditazione e silenzio. La fretta, la velocità, il mondo virtuale non consentono di apprezzare ciò che riceviamo. La gratitudine, quindi, è un sentimento positivo perché aumenta la nostra sensazione di benessere, di vitalità, ci aiuta a fidarci degli altri e a “donarci” al prossimo. Se prendessimo l’abitudine di usare con più frequenza la parola “grazie”, vedremmo che anche i nostri interlocutori avrebbero un atteggiamento ispirato alla cortesia, alla gentilezza, alle buone maniere, in quanto la gratitudine è un gesto che apre a rapporti umani, non formali, ma carichi di umanità. La riconoscenza è contagiosa. Ma anche non aspettarsi il grazie è un elemento di grande saggezza: il dono più bello è quello non opportunistico o strumentale, ma gratuito. L’apice della generosità matura! Il meccanismo è molto evidente nel rapporto genitori-figli. Per una parte della vita i ruoli sono chiari: i genitori danno, i figli ricevono. Poi è solo il senso di gratitudine che spinge i figli a a invertire i ruoli e a diventare a loro volta genitori di padri e madri invecchiati. Ma proprio per questo, più che mai bisognosi del nostro aiuto, della nostra riconoscenza, del nostro affetto. E della nostra gratitudine. Grazie! *cappellano del carcere di Bancali

29.11.22

[ 10 giorni senza mondiale ] OCCIDENTE E ORIENTE si attraggono e quindi una contrapposizione io non la vedo


canzone  consigliata

Tomorrow Never Knows - the  Beatles   qui  notizie  ed  aneddoti    sulla  canzone  

Oggi  ho visto  anzi rivisto  , visto  con rai replay   puntata  d'ieri  della   trasmissione    alla  ricerca del  ramo  d'oro  (  foto sotto al lato  ) perchè  mentre  guardavo  la  puntata    stavamo facendo l'aerosol  a  gatto ,  la puntata  d'ieri  della  trasmissione   Alla scoperta del ramo d'oro  di   un ottima  trasmissione   di rai  3   Alla scoperta  del  ramo d'oro  uno  delle poche  occasioni  di servizio pubblico in rai .

La  trasmissione  di   Edoardo Camurri insieme a importanti esponenti della cultura italiana  tenta  di rispondere  alla    domande Qual è il ramo d'oro del sapere? Come può la cultura fornire strumenti, concreti, per dare speranza e combattere quello che pare essere un istinto di distruzione ?  Per  volesse la  trova    qui su rai replay
In tale  puntata      si  è provato   e  con buoni risultati   a risalire alle radici della nostra cosiddetta tradizione culturale occidentale per dialogare con la grande sapienza che viene dall'Oriente. Ed  raccontando   i pregiudizi e le fascinazioni reciproche che Oriente e Occidente hanno da sempre avuto l'uno sull'altro, in un gioco di specchi, cercando di capire i diversi modi di conoscere il mondo, che queste due civiltà hanno sviluppato e incarnato. A  farlo    è  stata Grazia Marchianò professoressa di Estetica e di Storia e Civiltà dell'India e dell'Asia orientale all'Università di Siena-Arezzo; curatrice e responsabile del fondo scritti Elémire Zolla. Nella seconda parte   Dal nostro giardino, per la rubrica "I racconti verdi", Alessandra Viola ci parlerà del ficus religiosa, detto anche fico delle pagode, che è considerato una pianta sacra in Oriente per induisti, buddhisti e giainisti. Concordo  in pieno con l'esposizione  della prof  Marchiano  Oriente ed  Occidente  sono   due opposti che  si attraggono   e hanno molte  cose   pur  nella  diversità   cose  in comune   tanto  che  possono essere  in quadrate  in  unico   continente  geografico  Eurasia  . Infatti non capisco  la  esasperata  islamofobia   della destra  piàù estrema  e ormai molto radicata   dopo  una  campagna  mediatico protagonistica  iniziata  come  antipolitica   finendo  per  radicarsi   

 [...]come un'onda, un'onda nera e appiccicosa
che cola dalle TV e dai settimanali rosa
che uccide i nostri pensieri, che ci droga di calcio e sesso
e intanto chi tira le fila insabbia e corrompe e non ha mai smesso  [...]
                     da   Giro  di vite    in arrivo . Mcr 


  al  crollo   non solo politico  ma  anche culturale  di quella  che  viene   chiamata  ( a mio  avviso  impropriamente   visto  che   ancora  l  forma  di governo  è  rimasta   ancora  quella   anche  se  è  cambiata  la legge  elettorale  )   prima repubblica   cioè  il periodo che  va  dal  1947\48  -  1992\3  .   Islamofobia  che  porta  come   successe  quasi  10 anni  fa    a  boicottare  il cioccolato Lindt perché  nella  confezione natalizia   c'era    questa  immagine   


 dii    una  chiesa   cristiana  d'oriente   scambiata     visto  il  forte    sincretismo   culturale    con una  moschea   e quindi   giù  ad  insulti   di islamizzazione  ,  di buonismo  , ecc  solo per  ricordare  quelli  più  educati .

P.s   I
 i   miei commentatori   di fb    che mi chiedono : <<  
Non quella teorizzata e auspicata da Dugin, spero.>>  Si tranquillizzino  e si vedano pure  la  puntata    perché  ciò  non lo  è 

 P.s II
oltre il boicottaggio   citato  
di sera  ho    riprenderò al lettura  del libro Ke origini della seconda  guerra   mondiale   di Richiard  Overy     e  sto iniando a guardarmi  la fiction  di  Netflix  mercoledi    della  famiglia    addams 


6.11.22

a volte anche la banalità può essere preziosa nella lotta all'ignoranza e all'alfabetismo di ritorno ed serve ad affrointare il mondo digitale


Elogio e predicazione della banalità: come affrontare l’epoca digitale

Salvatore Patriarca - su ilriformista di giovedì 3 novembre 2022


Un tratto tipico dei sistemi complessi è che ogni elemento facente parte di tale complessità necessita di comprensione. La cultura e la società rientrano ovviamente in questa sorta di meccanismo metariflessivo. Anzi, in un momento nel quale la complessizzazione diviene il segno distintivo dell’epoca digitale, sembra non ci sia fenomeno che possa considerarsi estraneo alla complessità. E infatti tutto appare essere incluso in questo processo di continua metabolizzazione delle manifestazioni naturali e culturali, reali e simboliche, tecnologiche e virtuali. Almeno finché non si arriva davanti alla barriera che annulla ogni interesse significativo: la predicazione del banale.

SalvatorePatriarca_foto© Fornito da Il Riformista

«È una cosa banale» si dice in ambito oggettivo, oppure «È banale» se il riferimento è situazionale. Ma anche «Sei banale», se l’ambito è quello relazionale, e si potrebbe addirittura sfociare nell’auto-attribuzione di insignificanza: «Sono banale». Al di là delle infinite articolazioni che incontra la predicazione di quest’aggettivo, l’elemento che appare in prima istanza è l’assoluta comprensibilità di esso. Di fronte alla banalità non servono ulteriori commenti: è tutto lì. Qualcosa di autoevidente che non richiede ulteriore sforzo. Si potrebbe affermare, prendendo a prestito un’immagine fumettistica, che la banalità sia la kryptonite della complessità. E come accade a Superman che perde i propri poteri a contatto con il materiale proveniente dal suo pianeta d’origine, così avviene al complesso quando incontra il banale. Smette di essere loquace, non ha più bisogno di declinare se stesso. La comparazione con la kryptonite potrebbe essere svolta ulteriormente, perché anche la banalità rappresenta in qualche modo il passato della complessità. Una specie di complicatezza che ormai ha detto tutto e sulla quale diventa inutile soffermarsi ulteriormente.

E se invece, come la kryptonite che permette di comprendere numerosi aspetti della natura di Superman, il banale fosse uno strumento sinora poco utilizzato per entrare nelle dinamiche che caratterizzano l’attualità digitale e coglierne alcune implicite dinamiche operative, soprattutto rispetto alla costituzione della singolare identità del sé e al conseguente rapporto con la comunità? In altre parole, è forse giunto il tempo di prendere sul serio il banale. Circoscrivere una seppur parziale semantica del banale è un’operazione essenziale, perché permette di cogliere quanto pervasiva sia la presenza del banale nel quotidiano orizzonte di considerazione del vivere; e in tale orizzonte va incluso tanto quello del sé quanto quello comunitario della pluralità dei sé. Emerge da subito uno degli aspetti più particolari e decisivi della banalità o, meglio, della sua predicazione: una componente assiologica e morale. Essere banale, comportarsi banalmente, essere considerati tali sono tutte connotazioni che scivolano via via verso una componente valoriale di negatività. Il banale è una negatività in senso generale. La persona banale è invece una persona che è manchevole in senso specifico, a livello morale, come se non avesse la capacità di realizzare davvero se stessa e il compito che inerisce la propria natura.

Proprio questo squarcio verso la dimensione morale che coinvolge in maniera essenziale il tema della singolarità proietta lo sviluppo della riflessione verso una peculiare relazione che sembra caratterizzare la stessa fondazione dell’identità del sé nella contrapposizione all’essere banale. Si sviluppa un approfondimento che articola il banale e alcuni suoi contraria come la creatività, la novità e la distinzione. Rimane alla fine. come superstite significativa, una singolarità connotata in maniera autoaffermativa che riesce ad essere se stessa solo nella negazione dell’esistente e dell’altro da sé. Questa dinamica si realizza nei fenomeni ormai molto diffusi delle pratiche meditative/comportamentali a sostegno della specificità/differenzialità della singolarità, quanto nel ritorno di un primato della cura del corpo inteso come primaria forma d’espressione dell’eccezionalità del sé. Entrambe queste modalità affermative dimostrano una specifica inclinazione verso una componente metaforica improntata a un linguaggio performativo e a una retorica dell’azione come dell’atto differenziante.

La figura che ne risulta possiede i tratti di quella che potrebbe definirsi come una banalità consumata. È come se il reale, lo spazio comune che eccede la sfera del sé, venga progressivamente eroso dalla dinamica distintiva e venga condannato ad essere il serbatoio di ordinarietà da logorare attraverso il continuo movimento di separazione singolare. A questo primo movimento della banalità che si connota in maniera sottrattiva se ne contrappone un secondo di segno contrario, vale a dire accumulativo. Per cogliere questo processo bisogna rivolgersi ad alcune caratteristiche precipue dell’era digitale. Il primo elemento da prendere in considerazione è l’approccio modulare dell’informatica. Alla base di tutto c’è un dato, singolo, specifico, delimitabile, analizzabile, componibile; esso viene accumulato attraverso le reiterazioni d’uso, il replicarsi del calcolo connettivo, e si sviluppa verso modelli sempre più estesi, inclusivi e predittivi.

A fornire questa elaborazione è proprio la molteplicità dei sé che con l’espressività e la distinzione permettono la definizione di modelli comportamentali ed esperienziali. Si definisce così l’altra dimensione della banalità: l’attitudine accumulativa del digitale. Ogni singolarità diventa strumento di costruzione di un modello generalizzante. La libertà dalla banalità ricercata attraverso la differenziazione espressiva conduce verso un’ulteriore forma di banalizzazione che si nutre dell’accumulazione dei dati e della loro elaborazione. Tanto più il sé consuma il banale esistente, tanto più contribuisce a costruire l’accumulo di banalità del digitale; ogni novità nel mondo digitale è già sempre modello; ogni posizione di creatività già sempre in una diffusiva ordinarietà banale.

C’è inoltre una banalità necessaria che va accettata e trasformata utilmente. L’espressionismo del sé frantuma la comunità e isola la stessa singolarità. Bisogna recuperare gli echi dell’appartenenza comunitaria, e non solamente consumarli in un affannoso movimento distintivo. L’orizzonte comunitario è lo spazio che permette al sé e all’altro da sé di essere nella distinzione proprio perché garantisce l’ordinarietà condivisa. Lo spazio comunitario rappresenta la precondizione per ogni sé sia a livello identificativo sia a livello espressivo. La stessa dinamica di evoluzione della dimensione culturale umana si fonda infatti sui processi di condivisione delle esperienze, sulla sedimentazione di quelle più efficaci, sul contributo di ampliamento che ogni singolo apporta nel processo di evoluzione. Da qui passano l’elogio e l’accettazione necessari della banalità: riscoprire la dimensione partecipativa della costruzione di senso, evitando ogni tentazione totalizzante

2.4.22

in attesa che la storia del vino sia materia obbligatoria Tra i banchi di scuola di uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia si studia l'arte del bere

 In  attesa  che  la  Storia del vino  diventi  obbligatoria a elementari e medie: in arrivo proposta di legge  il  cui  Primo firmatario della proposta che è appena sbarcata in Senato e ha già cominciato a far discutere è Dario Stefàno, presidente della Giunta per le immunità e le elezioni: "Non vogliamo insegnare a bere ai nostri bambini, solo introdurre un ulteriore elemento di sapere nel bagaglio di formazione della scuola italiana. Perché il vino è uno degli elementi identitari del nostro Paese"     riporto l'esperienza    che  aviene  In una scuola di Locorotondo


 in cui si studia vino, dal campo all'imbottigliamento, passando per le analisi gusto-olfattive, quelle in laboratorio e tanto altro. È uno dei 9 istituti enologici storici d'Italia ed è una cosa seria. 

11.7.21

generazioni a confronto e lotta fra cultura ed incultura

In  sottofondo 
Francesco Guccini - Un altro giorno è andato (Live@RSI 1982)



visto che ormai Oramai il web si è spostato sui  social   riporto qui  una  discussione    su fb   con  un mio  contatto  . Quindi  non riuscendo    a stare  dietro a  blog  e  social   ,   v'invito  ,  se  volte     leggere   altri  miei  interventi (    commenti  ,   stati condivisioni  , ecc )   come   quello  riporto   sotto    a seguirmi   ( su   fb  non è  necessario   essere     fra  i  contatti  per   leggere   e    commentare     , visto  che ho  scelto   di  non mettere  nessun  blocco   privacy ,  l'unico  blocco   per  motivi organizzativi    è  quello di  poter  postare  i  vostri post  \ stati  sulla  mia bacheca  )  sui  miei   social  che  vi   ripropongo sotto  .
  
facebook 
https://www.facebook.com/compagnidistrada/  la  nostra  appendice    dove   quelo che non riusciamo  a  mettere  qui siul blog  lo trovate  qui  

istangram

 twitter  

 
Dopo    questa  comunicazione  di  servizio     veniamo  al  post      d'oggi    

Sminchionando fra   gli  stati  dei miei   contatti facebook       ne  ho trovato    uno interessante      e  di un mio  amico    ed  ex  collega   d'università  

Ora  il  problema  è    rassegnarsi     o  rimanere solo     come   si  può notare   in diversi gruppi fb      del  tipo   : "  noi  cresciuti   negli ani  60\80 "  oppure     passare   dal  dire  al  fare      cioè    insegnare   o  fornire        ai nipoti o figli  la   tua  cultura   ed   integrarla  con quella  sua  ?.
Io  come potete  vedere   anche dalla risposta  che ho dato al suo post  ed    essendo  cresciuto nella generazione  di mezzo tra    gli anni  70 ( periodo  dell'impgno politico  \  culturale   )   e  gli anni  80\90  (  disimpegno  ,  edonismo\  consumismo sfrenato  )  sono  per  un integrazione   d'entrambe  . Cosi    s'evita   di mandare il cervello all'ammasso  e  formare  un ulterore   generazione  di webebeti    e fenomeni   come  quelli descritti    dalla  puntata  citata  delle iene  . Ma  soprattutto    s'evitra  commenti       da parte  delle  vecchie  gnerazioni  chiuse per  lo  pià nela  torr  d'avorio e nel passato , che  si chiedo   ma  chi  ...   è    questo    o  quell'  artiasta    o  pseudo  tale  .  A  chi  mi dice   che sono utopista   ed  un sognatore     rispondo     con una  lettera  inviatami  qualche   tempo  fa   . 

N.b  ovviamente   per  motivi di  privacy  ho  modificato    ( mi veniva   male  a  tagliarli  )   i  riferimenti    a  fatti  e persone   reali  ivi  contenute ma  la  sostanza  non cambia    .


Caro  redbeppe
 il suoi post sui tormentoni mi hanno commossa, perché ho colto un alito di tristezza. No, lei non è vecchio, ha “solo” buon gusto ed  dv'essere  crescxiuto  in  ambiente  pluri culturale. Tempo fa ho chiesto al mio nipotino dodicenne, comela  figlia  di  suo cugino  , che musica gli piacesse. Mi ha risposto: il rap.                                                                          Così gli ho mandato il video di Adriano Celentano che canta “Prisencolinensinainciusol”    Gli è piaciuto moltissimo e non voleva credere fosse una canzone stravecchia  abbiamo dovuto  cercare  su  internet     per  provarglierlo  . Cosi gli ho fatto una bella compilation di Adriano, e poi ho continuato con Rino Gaetano, Bennato, de  andrè , renato zero  (  quello   vecchio  non gli  ultimi  )  addirittura Endrigo. Ho l’impressione che abbia cambiato gusti o  quanto meno  non si  folizzi solo    su musica o musicaccia    dozzinale   . Probabilmente non dirà ai suoi amici a scuola di ascoltare musica del secolo passato, non capirebbero  ma    almeno  avra  una  cultura  musicale  pluralista  e non appiattita    ed   a senso unico  

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  con questo è  tutto 

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...