Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
21.6.23
NAUFRAGI DI SERIE A E DI SERIE B
27.7.22
25.3.22
Studiare da rifugisti: l'academy è in montagnaUn verso per TikTok, la poesia si fa social.,Missione arance: lotta contro mafia e spreco.,
I gestori di Brioschi e Rosalba lanciano un percorso formativo per aiuto-rifugisti
Gratuito, per un massimo di sei candidati, per imparare il lavoro in rifugio
LECCO – Un lavoro bello ma decisamente duro quello del rifugista, perché la vita in montagna ha il suo grande fascino ma è una sfida personale e, in questo caso, anche professionale.
Il territorio lecchese offre anche questa opportunità di impiego ed oggi c’è anche un percorso formativo per imparare il mestiere: si tratta della ‘Capanat Academy’ di aiuto-gestori di rifugio che ha lo scopo di assumere nuove leve, rivolto a chi vuole intraprendere una esperienza di lavoro in rifugio.
E’ la proposta lanciata da ‘Brialba’, che si occupa si occupa della gestione dei rifugi “Rosalba” e “Brioschi” entrambi sul gruppo delle Grigne, con il patrocinio del Cai di Milano, in collaborazione con guide di montagna e Resinelli Tourism Lab.
Il percorso, completamente gratuito, si svolgerà presso i rifugi Brioschi e Rosalba e prevede la partecipazione di massimo 6 candidati/e ai quali, al termine del percorso, verrà rilasciato oltre che un attestato di frequenza, un attestato corso HACCP.
Ai partecipanti verrà attivata un’assicurazione idonea per attività nel rifugio sponsorizzata da “https://www.quadrifoglio.srl/”L’unico obbligo per i partecipanti sarà attivare l’assicurazione attività individuale del CAI.Al termine della Capanat Academy verranno valutate eventuali opportunità di assunzione e saranno anche promosse attività di segnalazione (liste) anche a beneficio di altri rifugi interessati. Il programma si svolgerà nei week end di apertura dei rifugi tranne il modulo “Mountain Experience” che prevede due giornate infrasettimanali di uscita in ambiente con le Guide Alpine di Mountain Dream Guide
13.5.17
con droghe o senza droghe , con soldi e senza soldi ,senza o con tecnologie si è sempre viaggiato e sempre si viaggia e tutto viaggia
viaggiare per conoscere
my play list
Stamattina Camminando perr andare fare il mio cosueto turno di volontariato alla bottega del commercio equo , sono capitato davanti all'agenzia di viaggi , e poi poco fa
« Gli occidentali hanno curiosamente limitato la storia del mondo raggruppando il poco che sapevano sull'espansione della razza umana intorno ai popoli di Israele, Grecia e Roma. Così facendo hanno ignorato tutti quei viaggiatori ed esploratori che a bordo di navi hanno solcato i mari della Cina, l'oceano Indiano, l'oceano Pacifico e i mari artici, e che in carovane, hanno attraversato le immense distese dell'Asia. In verità la parte più cospicua del globo, con culture diverse da quelle degli antichi Greci e Romani è rimasta sconosciuta a coloro che hanno scritto del loro, piccolo, mondo con la convinzione di scrivere la storia e la geografia del mondo. »
( Henri Cordier 1849 – 1925 )
o attivamente si sente sempre il desiderio di viaggiare perchèViaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.[Louis-Ferdinand Céline ~ Viaggio al Termine della notte]
- con la fantasia o osservando la natura che viaggia continuamente
- viaggiando a ritroso del tempo e nel passato come faccio o almeno ci provo riportando storie e ho fatti curiosi
- viaggiare per : conoscere scoprire, sognare .
- viaggiare con gli occhi e con il cuore
- dentro di se come questa canzone
- fisicamente o cercando di vedere uno stesso posto in prospettive diverse .
La metropolitana di New York: un viaggio nel viaggio
La metropolitana di New York è un vero viaggio nel viaggio, una sorpresa ogni giorno
da http://www.ioacquaesapone.it/articolo.php?id=2473 Ven 24 Feb 2017 | di Testo e foto di Roberto Gabriele | Mondo
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Come in "Into the Wild", la straordinaria avventura di Eliott

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3.6.13
Il trenino verde e il sogno arrugginito
Il trenino verde e il sogno arrugginito
27.3.11
guardare al futuro senza scordare da dove veniamo e chi siamo la storia de La bambina e il gruccione Gabriella Belloni,di Santulussurgiu laurea in Filosofia che ha traformato la sua casa natale in un albergo

Il Gruccione è anche sede periferica dell'università di Scienze gastromiche (la centrale è a Pollenzo, in Piemonte), braccio operativo dello Slow Food, associazione che sostiene il consumo dei prodotti locali e manifesta una forte ideo-allergia (ideo in senso di ideologica) nei confronti dell'industria alimentare di massa. Tutto questo per dire che sarebbe banale definire il Gruccione una locanda: basta metter piede nel minuscolo giardino d'ingresso per capire che qui si respira un altro mondo dove neppure per un attimo ci si può sentire intruppati, sia pure intruppati di lusso.
Gabriella Belloni, classe 1950 portata con leggerezza e distacco, indossa una kefiah verde-libico in tinta con gonna e maglione. Il giovanissimo chef (Roberto Flore, che è poi suo genero) ha invece la kefiah tradizionale bianconero-arafat su jeans e camicia. Insieme alle figlie - Lucilla e Carolina - l'albergatrice filosofa si è lanciata in una sfida difficile. Sfida che per il momento sta vincendo: mai crisi salvo due brevi momenti morti dell'anno: novembre e metà gennaio
«Studiavo la storia della Scienza tra '500 e '600. La scoperta del telescopio e del microscopio ha mostrato un mondo nuovo e fino allora invisibile. Per approfondire questo tema mi sono trasferita in Germania con una borsa di studio. Era la fine degli anni '70 e Monaco il simbolo di un Paese in straordinaria crescita».
Perché abbandonare, allora?
«La mia stagione tedesca, che definisco aurea, è durata sei anni. È stata un'esperienza indimenticabile. A ogni scadenza di contratto ero combattuta, rimandavo la partenza: il fatto è che avevo fidanzato a Milano».
In Italia non c'era possibilità di lavoro?
«Non creiamo equivoci: io non sono una intellettuale precaria, un cervello in fuga, un'emigrata della cultura. Ho voluto andare all'estero per approfondire: era una scelta, non una strada obbligata. Al rientro in Italia ho continuato a lavorare per la Treccani e per l'Istituto degli studi filosofici di Napoli».
Com'è che ha deciso poi il trasloco in Sardegna?
«È questa casa che ha deciso, non io. Mio fratello non era interessato a tenerla ( che ce ne facciamo di una proprietà in un luogo così lontano dalla nostra vita?). Io non me la sentivo di venderla: qui, le tante volte che mi capitava di venire da bambina, stavo bene. È la casa dov'è nata mia madre, dove i miei nonni mi ospitavano d'estate. Grande quanto basta (ottocento metri quadrati) per tenere in piedi una continuità della memoria fitta fitta».
Insomma, s'è fatta prendere dalle intermittenze del cuore.
«In un certo senso, sì. Alla fine degli anni '90 l'Unione europea ha pubblicato i bandi per la creazione degli alberghi diffusi e per la prima volta mi sono ritrovata a pensare di cambiare radicalmente esistenza».
Stufa dell'altra vita?
«No. Roma, Monaco e Milano mi hanno dato moltissimo. Quando però si è trattato di fare il salto e trasferirsi a Santulussurgiu, nel 2002, ho digerito tutto quello che c'era da digerire».
In che senso?
«Mi sono vaccinata mentalmente contro la nostalgia, contro il fantasma di un possibile ripensamento, insomma contro tutti i rischi che l'operazione comportava».
Impresa titanica fare di una casa un albergo.
«Complessa. Sono stati necessari quattro anni. Le pratiche richiedono tempi lunghi che possono sembrare eterni. Non dico che sia stata un'impresa titanica ma certamente non indolore».
Al limite dell'impossibile.
«Quasi. Per realizzare un progetto come questo occorrono determinazione e spinta ideale. La determinazione ti orienta ad andare avanti quando la burocrazia s'incattivisce, la spinta ideale è quella che ti suggerisce di mettere in pratica un'idea d'amore anziché parlarne e basta. In fondo, si tratta di uscire dalla logica dei mi piacerebbe, se potessi... ».
Non si rischia di restare tramortiti nel passaggio da Milano a Santulussurgiu?
«Per nulla. Non mi chiedo mai cosa può dare un luogo ma come posso scoprirlo. Amo imparare a conoscerlo, capire pian piano i meccanismi che ne regolano la vita quotidiana. A Santulussurgiu ho scoperto il cielo, le stelle che lo riempiono di notte, la terra dove metto i piedi. Non me n'ero mai accorta quando stavo fuori».
Eppoi ci sono i gruccioni.
«C'erano anche quando ero una bimba. Mi sono rimasti nell'anima, non li ho mai persi di vista. Ecco perché questa casa si chiama Antica dimora del gruccione».
Seminari universitari sul casizzolu, sulla carne sardo-modicana (il bue rosso): da queste parti non arrivano solo escursionisti, bikers, mitteleuropei che sperano (sbagliando) di trovare una rete aggiornata e ragionata di sentieri, itinerari segnalati con tempi di percorrenza e lunghezza. Da queste parti arriva anche chi ha un arretrato di libri da leggere, chi vuol scoprire il fascino delle stradine intorno alla chiesa del paese, le case strette e alte di un popolo che fa pochissimo rumore. Gabriella Belloni spiega ai suoi allievi la cultura del territorio, il rapporto tra lavoro e produzione, la necessità di salvarsi scegliendo la qualità. Nel suo “hotel” una camera costa 45 euro a persona (colazione compresa), con la mezza pensione si arriva a 70. Da quando ha aperto i battenti è andato tutto molto bene. «Clientela internazionale», dice lei. Ossia viaggiatori ben informati, che non si muovono a caso. E che pretendono, giusto perché non guasta, che al prezzo pagato corrisponda qualità e servizio inappuntabile. Logica slow food, per capirci: tutto può anche sembrare casuale ma non lo è mai.
Lei parla di turismo sostenibile e integrato: che vuol dire?
«Il punto di partenza è operare in un centro storico che non abbia subito modifiche. Se è intatto diventa una sorta di presidio, di bandiera del territorio. A questo aggiungiamo i cibi e le ricette locali scartando il prodotto indifferenziato dell'agroindustria».
Un turismo tendenza Smeralda dunque le fa orrore?
«Per istinto corporativo non direi mai male dei miei colleghi albergatori. L'orrore non c'entra. Il mio tipo di ricettività ha un'altra logica, un altro stile, un rapporto molto stretto con l'ospite».
Cioè?
«Niente a che vedere con un grande hotel che deve trattare una clientela molto più ampia e differente. Non sono un industriale delle vacanze. Io vorrei semplicemente che questa attività mi consentisse di lavorare onestamente e mi desse una prospettiva».
Gliela sta dando?
«Sono impegnata insieme alle mie figlie e al fidanzato di una di loro. La cosa comincia a girare, funziona insomma. Se il territorio avesse già sviluppato una certa sensibilità saremmo a buon punto».
Critiche e mugugni del paese.
«Non ce ne sono che io sappia, ma è la cultura dell'albergo diffuso che deve crescere. Per quanto mi riguarda ho una stagione di quasi dodici mesi l'anno. Sotto Carnevale ho dovuto rifiutare molti ospiti».
Secondo lei, i sardi sanno cosa sia il turismo?
«C'è molto da fare: la distanza fra sardi e turismo resiste. Manca soprattutto il coraggio di mettersi in gioco, c'è la paura di sbagliare, sentirsi sotto esame».
E di essere professionali.
«Io parlo per me, non ho titoli per fare le bucce agli altri. Quando dico, ad esempio, che proponiamo prodotti locali non bleffo».
In certi agriturismi la carne è polacca, il prosciutto slavo...
«Quello che io garantisco al cliente lo metto per iscritto. In mancanza di prodotti locali, faccio capo al mercato equo e solidale. Mi rifornisco a Cagliari. Proposte chiare, rapporto leale col cliente: l'unico vero segreto è questo».
Scusi, la sua è ricettività di sinistra?
«Nel mio albergo chiunque è benvenuto. Uno che fa il mio mestiere non può fare differenze fra destra e sinistra, ci mancherebbe».
Non ha risposto, signora.
«Chiarita la premessa, non posso negare che ci sia una certa visione del mondo che incide sul modo di essere e di proporsi».
Camere tutte diverse, tocco radical chic, no?
«Fossi una radical chic non sarei venuta ad abitare a Santulussurgiu. L'albergo diffuso è qualcosa di particolare, non è un hotel con stanze vista mare oppure no ma comunque fatte tutte in serie e tutte uguali».
Cosa le manca?
«Niente. Lavoro volentieri con l'università di Scienze gastronomiche. Non mi sento sola: il confronto quotidiano con una clientela sempre diversa mi arricchisce».
Fatta salva la poesia dei gruccioni, tornando indietro?
«Non ho cambiato vita da un giorno all'altro. Ci ho pensato a lungo, ne ho discusso con le mie figlie. Ho valutato, verificato, ponderato. Dopo, soltanto dopo, mi sono corazzata contro il timore di un pentimento tardivo».
E quindi?
«Scegliere mi ha reso serena».
4.3.08
mammografia
Il sito on-line della ricerca contro il cancro al seno e' in difficolta' perche' non ci sono abbastanza persone che accedono al sito ogni giorno per raggiungere un numero di accessi che permetta loro di ottenere, dagli sponsor, una donazione per almeno una mammografia gratis per donne che non se la possono permettere. Ci vuole meno di un minuto per andare sul sito e cliccare sul bottone 'donating a mammogram' SENZA NESSUNA SPESA. (E' il bottone rosa nel mezzo della pagina con scritto it's free)
Non vi costa nulla. Gli sponsor che sostengono il sito usano il numero di accessi giornalieri per donare una mammografia in cambio della pubblicita' che appare sul sito.
Questo e' il sito. Fate girare tra la gente che conoscete.
http://www.thebreastcancersite.com/
18.2.07
L'isola dei 300 vulcani
Leggi integralmente....
Un grande ingresso alle caverne vulcaniche si formò durante la preistoria, in seguito ad eruzioni del cratere Corona, che domina il paesaggio a nord dell'isola. Questa via attraverso le caverne, lunga circa 10 km, finisce sotto il livello del mare ed è interrotta verso l'alto in più punti del suo decorso.
Su una parte di questa zona vulcanica è intervenuto l'artista Cèsar Manrique, che l'ha resa accessibile ai visitatori con passaggi, terrazze, e giardini con bar e ristoranti. Il paesaggio non ne è risultato in alcun modo compromesso.
Ne sono buona prova i Jameos del Agua, nella parte settentrionale di Lanzarote, alle falde del vulcano Monte de la Corona (la cui ultima eruzione risale a 3.000 anni fa) un intricato labirinto di grotte e tubi vulcanici tra le più interessanti del mondo, un vero paradiso per i sensi, dove c'è posto per lo svago e la cultura.
Jameos del Agua fu il primo centro turistico di Lanzarote creato dall'artista canario. Fu realizzato da Jesús Soto y Luis Morales nel 1968 e terminato nel 1987 con la creazione dell' auditorio.
Jameo è un vocabolo aborigeno che designa la parte d'un tubo vulcanico, dal quale s'è sfaldato il tetto, a causa di esplosioni provocate della pressione dei gas, che generano aperture circolari che lasciano entrare la luce nel sottosuolo. Due di questi orifici ed il canale di scorrimento della lava sono la base della costruzione di Jameos del Agua.
All'entrata, infatti, troviamo il "jameo chico" trasformato in un bar-ristorante e pista da ballo cui si accede attraverso una scala a chiocciola, di pietra.
Comunica con il "jameo grande" attraverso una vasta area che contiene anche il famoso laghetto dalle acque trasparenti, dove abita il "jameito", una specie di granchio minuto, cieco, albino, sensibile ai rumori, di origini sconosciute ed unico al mondo! E' diventuto il simbolo di questo luogo.
Il Jameo Grande è stato convertito in un bellissimo giardino con specie vegetali tropicali ed un'esuberante piscina turchese. Al termine di questo spazio è stato creato un auditorio che contiene fino a 600 persone che gode di una straordinaria acustica (qui ha luogo il Festival de Música Visual di Lanzarote).
L'ultima porzione di grotta accessibile al pubblico è il Jameo de la Cazuela dal cui estremo sgorga una fonte d'acqua salata.
Un'esperienza unica è la visita a Jameos del Agua, nelle ore notturne per godere dello spettacolo dell'illuminazione calda e intima, in piena sintonia con l'armonia e la magia di questo luogo.
25.1.07
Senza titolo 1598
Mille liguri nell'ottobre del 1541, al seguito dei Lomellini, Signori di Pegli (Genova), approdarono a Tabarka, isola della Tunisia, per dedicarsi alla pesca del corallo.
All'inizio del '700, per le ripetute incursioni dei pirati barbareschi e per l'impoverimento dei banchi coralliferi, i Tabarkini accettarono l'invito di Carlo Emanuele III di Savoia, re del regno Sardo Piemontese, e si trasferirono nell'isola di S.Pietro allora disabitata; fondarono quindi la città di Carloforte in onore del sovrano (17 aprile 1738).
Nell'isola di S.Pietro essi proseguirono le attività di sempre dedicandosi alla pesca del tonno e del corallo.
Alla fine del '700 Carloforte subì due invasioni, la prima ad opera dei francesi e la seconda, ben più drammatica, da parte dei pirati tunisini che ripartirono per l'Africa con oltre 800 persone come ostaggi.
Solo dopo cinque anni vennero finalmente liberati grazie al re Carlo Emanuele IV.
Nella seconda metà del secolo scorso Carloforte conobbe un grande sviluppo, favorito dal trasferimento dei minerali estratti nel vicino Iglesiente-Guspinese e trasportati nell'isola con imprenditoria e manodopera locale, per essere imbarcati verso destinazioni lontane.
Con la crisi delle miniere ripresero vigore le attività tradizionali:
pesca, artigianato, marittimi.
Pochi posti al mondo isolati dalla loro madrepatria, hanno saputo conservare per 250 anni, cultura, abitudini e dialetto della terra d'origine, la Liguria (Pegli -Genova-), come a Carloforte.
Questa originalità è motivo di interesse non solo per la Liguria, ma anche per gli studiosi di tradizioni popolari.
Il carattere allegro dei Tabarkini si rivela sopratutto in Carnevale, quando nel cineteatro
Cavallera si tengono veglioni danzanti che durano fino all'alba, nelle serenate nei carruggi, nelle chiacchere in piazza, nel fare casciandra con gli amici.
A Carloforte è possibile trovare nel lavoro dei pescatori, dei naviganti, dei maestri d'ascia (elogiati dall'Ammiraglio Nelson nel suo diario di bordo, dopo una sosta nel porto per riparare alcune navi della sua flotta), lo spirito più autentico di forti tradizioni conservate con zelo. Continua...
26.11.06
Mi piace l'idea
E questo blog di "viaggi" nella vita e nella società pare proprio averne compiuti parecchi, pertanto non posso che ringraziare di cuore per l'invito che mi è stato rivolto.
Mi piace iniziare questo nuovo viaggio insieme con una segnalazione ed una proposta di solidarietà: ho appena realizzato, con le foto ed i racconti del mio ultimo viaggio in Mozambico un e-book liberamente scaricabile dal sito del mio editore, è una sorta di taccuino di viaggio caratterizzato da libere impressioni, evocative fotografie e preziose illustrazioni realizzate da Enrico Guerrini.
In realtà l'e-book fa parte di un progetto che si completa con il Calendario 2007 dal titolo Il Mozambico per la testa, nel quale attraverso un sintetico reportage fotografico cerco di dare un senso dell'universo femminile di questo splendido paese dell'Africa centrale, proponendo essenzialmente acconciature ed una incisiva selezione di ciò che le donne sono solite trasportare sulla testa.
Sia nel caso dell'e-book che in quello del calendario abbiamo pensato ad un "atto di cuore" dedicato all'aiuto di chi è meno fortunato: devolvere parte del ricavato del calendario e richiedere una donazione libera e facoltativa (nel caso dell'e-book) per aiutare Medici Senza Frontiere nelle loro meritorie opere di solidarietà.
Se vi piace godetevi l'e-book, scaricatelo, stampatelo, copiatelo, speditelo e fatelo circolare: è un modo come un altro per assaporare la bellezza del mondo.
26.9.05
Senza titolo 823
la nuova del 27\9\2005 Pagina 44 - Cultura e Spettacoli
La Barbagia apre le sue «Cortes» Sino a gennaio artigianato e gastronomia in mostra a Nuoro e in 24 paesi Bitti, Oliena e Orani le prime tappe di un lungo viaggio nella tradizione e nell’antica ospitalità
«Camminare tra le case di pietra dei centri storici, assistere alle lavorazioni artigiane, assaporare prodotti tipici dai sapori genuini, scoprire i segreti di una cultura millenaria nello splendido scenario di una natura incontaminata». Romolo Pisano, presidente della Camera di Commercio di Nuoro, illustra così la filosofia alla base di «Autunno in Barbagia», la manifestazione che da alcuni anni si propone come vetrina delle zone interne dell’isola e che attrae migliaia di visitatori ad ogni sua tappa. Venticinque i centri della provincia di Nuoro, capoluogo compreso, che da settembre sino a metà gennaio propongono al pubblico un’offerta che ha nella nota ospitalità barbaricina il suo punto forte. «Autunno in Barbagia» è nata per riunire le manifestazioni dal nome «Cortes Apertas» che da diversi anni l’Aspen, l’azienda speciale della Camera di Commercio, organizza in collaborazione cone le varie amministrazioni comunali. A queste da quest’anno si aggiunge la seconda edizione di «Mastros in Santu Predu» (18-19-20 novembre), dedicata ad artisti e artigiani del quartiere più antico di Nuoro, ma anche la tradizionale Sagra della castagne e delle nocciole di Aritzo (28-29-30 ottobre), o «La montagna produce» di Desulo (dal 31 ottobre al 2 novembre). «Autunno in Barbagia» si è aperta ai primi di settembre con le «Cortes» di Bitti, Oliena (una delle più suggestive), e poi Orotelli e Orani, che si è chiusa proprio domenica scorsa. I prossimi appuntamenti sono in programma a Sarule e Ollolai (dal 30 settembre al 2 ottobre), dove si svolgeranno le «Cortes Apertas». A Tonara, il 1° e il 2 ottobre tocca invece alla sagra «Sonaggias e turrones, teruddas e taggeris». L’appuntamento successivo è a Gavoi (dal 7 al 9 ottobre) con «Ospitalità nel Cuore della Barbagia», cui segue Osidda (dal 14 al 16 ottobre) con le «Dommos Antigas». Il 15 e il 16 ottobre ci si sposta a Lollove, l’unica frazione di Nuoro, un borgo di pastori che conserva intatte, forse un caso unico nell’isola, le abitazioni tradizionali. La manifestazione ha per titolo «Vivilollove». Poi è di scena Orgosolo (21-22-23 ottobre) con «Gustos e Nuscos», e Belvì, negli stessi giorni con «Giochi e sapori in Barbagia». A Sorgono, il 22 e il 23 ottobre si svolge «Sa Innenna». Ottobre chiude con la sagra di Aritzo e le «Cortes Apertas» di Dorgali (28-29-30). Tra fine ottobre e inizio novembre Desulo ospita «La Montagna Produce», vetrina dei prodotti del Gennargentu che ogni anno richiama migliaia di visitatori. «Tappas a Mamoiada» e l’appuntamento dal 4 al 6 novembre, mentre a Ovodda (dall’11 al 13 novembre) le «Cortes Apertas» diventano «Ungrones de bidda». Un discorso a parte merita «Mastros in Santu Predu», la manifestazione che dal 18 al 20 novembre si svolge a Nuoro, dove non era mai stata realizzata una «Cortes Apertas». Due anni fa, in modo spontaneo e senza alcuna sponsorizzazione pubblica, un gruppo di artisti e artigiani del quartiere San Pietro, il nucleo storico della città, aveva dato vita a un percorso, «Le vie di San Pietro», che per un’intera giornata attirasse i visitatori nelle loro botteghe. L’iniziativa ebbe successo e l’anno dopo diventò «Mastros in San Predu», curata dall’associazione Traccas con la collaborazione dell’Aspen. Quest’anno è alla sua seconda edizione. «Autunno in Barbagia» prosegue ad Atzara (26-27 novembre), poi a Olzai (2-3-4 dicembre), Fonni (9-10-11 dicembre), Orune (17-18 dicembre), Tiana (16-17-18 dicembre), e si conclude a Teti (16-17 genanaio 2006). (p.me.)
dalla nuova sardegna del 26\9\2005
Pagina 5 - Sardegna
A Nule gli artigiani custodi della storia e dell’economia
Per il sindaco è un paese povero ma nella capitale sarda del tappeto decine di persone producono e vendono
Per il sindaco, Angelo Crabolu, ingegnere, capo di una giunta di centro destra, «Nule è un paese povero». Può darsi che abbia ragione perché tra Barbagia e Goceano sono poche - o del tutto inesistenti - le isole di vero benessere economico (e sociale). Però in questo paese di granito e molti gerani sui balconi, ai piedi del castello «Santu Lesèi» (Sant’Eliseo), in un territorio dominato da quaranta siti archeologici, non ci sono possessori di panfili e di jet ma un patrimonio belante di ventimila pecore che però rappresentano una cifra superiore ai due milioni di euro. Tra i 1550 abitanti (meno di 400 i nuclei familiari) non ci sono gioiellieri né industriali, ma di questi ultimi è tutta la Sardegna a non poter tracciare identikit.
In quest’altra capitale sarda del tappeto - tra boschi, pascoli, sorgenti e rocce d’incanto - diverse decine di artigiani producono bene e vendono. Non c’è casa senza telaio, con o senza partita Iva. Ma soprattutto, c’è un’azienda, la «Tessile Crabòlu» che è riuscita nel miracolo di rivitalizzare un capannone quasi a mille metri sul livello del mare, nell’altipiano che porta a Bitti, zona archeologica di «Romanzesu». Per raggranellare miliardi a gogò dalla Regione era sorto alla fine degli anni Settanta, quando qualcuno - non ancora scottato dai cloni dei Nino Rovelli e brigate varie - credeva che bastasse un anonimo signore della Brianza a creare sviluppo tra i nuraghi. Nacque la Betatex, ci avrebbero dovuto lavorare cento ragazze soprattutto di Bitti ma erano state solennemente buggerate. Imprenditori da codice penale. Volevano lavorare nell’altipiano di San Giovanni la lana che arrivava addirittura dal Camerun. Fu un fallimento totale. Fino a quando sono emersi alcuni capitani coraggiosi locali. Cognome doc, Crabolu, che più sardo e bucolico non si può. I Crabolu di Nule acquistano lo stabilimento con i macchinari semimarci e arrugginiti. E gli ridanno vita. Sono loro a realizzare il sogno industriale, di trasformazione su larga scala dei prodotti locali. Creando l’unica azienda che utilizza la lana sarda, quella delle tosature delle pecore, raccolta in tutta la Sardegma, dal Sulcis alla Gallura. E da qui la lana esce in tappeti con lavorazione di pregio. Tra i clienti Porto Raphael di Perugia e altri bei nomi del bon ton tessile italiano e degli States. Un miracolo. Perché oggi a San Giovanni trovate montagne di sacchi di lana sarda che qui viene selezionata, pulita, filata in matasse o in rocche. Ci lavorano 18 persone di Nule e Bitti. Con professioni e macchine che ricordano la prima fase della rivoluzione industriale inglese. Ci sono i tessitori: Giovanni Pietro e Giuseppe Manca, Gianfranco Mellino, Davide Cancellu e Luca Sechi. Con loro i cardatori: Antonio Mellino (noto «Dentone») e Giuseppe Cossu. I filatori sono Mario e Giuseppe Manca, Antonello Bella e Mario Farre. Angelo Scanu, sassarese, è ritorcitore, prepara le rocche che poi vanno a finire sui telai. Biagio Masala è aspatore, segue alle macchine il confezionamento delle matasse. E poi il terzetto dei roccatori con Andrea Coratza, Gianfranco Mellino e Angelo Scanu. Macchinari computerizzati, quasi tutti nuovi. Se a San Giovanni si lavorano le lane (tra i 15 e i 18 mila quintali), in paese ci sono i laboratori. In mani femminili naturalmente. Qui vengono rifiniti i tappeti in cotone e in lana, tovaglie, tende, centrini, copriletto, tutto quanto è necessario e tutto quanto i clienti richiedono. Col lavoro manuale e creativo di Maria Antonietta Zoroddu (“madre di due figlie disoccupate”), Lucia Masala (altre due figlie, ancora a scuola), Maria Rita Manca e Manuela Mellinu. Due lavorano part time: Antonio Dessena e Simone Zoroddu. Il fatturato? Il 4 per cento in Sardegna, il resto tra Italia e mondo. Tutto avviene a Nule paese da export dove la lavorazione del tappeto tradizionale è nel dna di ogni ragazza che nasce sotto Punta Ameddaris. Continua a essere una grande tessitrice la madre dei Crabolu, Pietrina Cocco, 76 anni che aveva imparato “da zia Gavina”. C’è anche un decisivo innesto continentale. Il marito di Pietrina è Benedetto Crabolu, noto Initeddu, pastore di pecore nella solitudine delle campagne di Taspìle. Con la seconda guerra mondiale finisce in Grecia, sta per essere deportato in un campo di concentramento dei tedeschi, riesce a scappare dal treno in compagnia del suo tenente, bellunese. Initeddu resta quasi alla macchia perché qui, in Alta Italia, i tedeschi non perdonano. Fino a quando il tenente riesce a trovargli un lavoro clandestino in una filanda di Belluno. Initeddu vede i processi di lavorazione e giura che appena rientrato in Sardegna creerà a Nule un’azienda simile. Detto fatto. Initeddu e Pietrina si sposano il 22 agosto del 1953. Nel’64 nasce il primo laboratorio con personale di famiglia. «Ma facevamo solo la filatura», ricorda la signora Pietrina. La svolta è degli anni Ottanta. La Betatex va in malora. Subentrano i figli di Initeddu. Vanno in giro per fiere in Italia e all’estero, vanno a vedere aziende tessili in Italia e all’estero fino a quando la «Tessile Crabolu» decolla. Festa grande a San Giovanni. Dove oggi Giuseppe Luigi Crabolu, 47 anni, è presidente e amministratore unico con i fratelli soci: Biagio di 45 anni, direttore commerciale e Angelo, 41 anni (sindaco del paese). I punti di forza ?
«Usare prodotti locali, sicuri, facciamo noi la raccolta ovile per ovile. Abbiamo tecnici di alto livello, veramente professionali e affiatati, fanno gioco di squadra. Rispettiamo la tradizione facendo un prodotto sicuramente industriale ma di alta qualità. E la clientela è affezionata», dice Biagio. E i punti di debolezza? «Quelli di tutte le zone interne della Sardegna: la difficoltà dei trasporti, l’alto costo dell’energia, l’Adsl è un miraggio. Ma ci misuriamo con negozi che apprezzano la qualità: che è la nostra forza». Tappeti industriali e tappeti tradizionali. Le tessitrici attive sono oltre cinquanta ma quelle in regola con le leggi sono appena cinque: la cooperativa Madonna del Rimedio, collegata all’Isola che qui ha creato un buon nucleo di tessitrici rispettose della tradizione senza tralasciare gli effetti positivi delle nuove tecnologie. Ci sono Giovanna Chessa e Giovanna Maria Campus che propongono pezzi di pregio, hanno una clientela scelta, raffinata. Ghitta Dore ha una bella casa a «Su tronu» dove mostra tutti i suoi lavori con i colori caldi del tappeto di Nule. Ha una bottega museo Pina Crasta, ha l’arte e il commercio nel sangue, sulla porta d’ingresso trovate il suo nome in ceramica e in ceramica c’è anche il numero di telefono di casa e il cellulare. Lavora spesso con le sorelle Maria e Lucia. Di lei parlano le riviste specializzate. «Nei miei tappeti - dice - ci sono i miei sogni, i miei desideri, tutti i desideri, e li realizzo con la tecnica delle dita storte, sos poddighes trotos». Su Traveller le hanno fatto raccontare la tecnica di s’ambisue, la sanguisuga, «una sorta di patchwork di grande effetto cromatico». Da Pina Crasta ieri c’erano molti turisti. Decisamente incantati Giovanni Grieco di Rionero in Volture (Basilicata) dipendente di un’azienda telefonica e Saturnino Norcini, bancario genovese. Arrivavano dalle Terme di Benetutti in compagnia di due amici sardi, Lorenzo de Martin di Villagrande e Franco Loddo di Muravera.
Ma non di soli tappeti vive Nule. L’artigianato garantisce reddito a diverse famiglie. Eugenio Bitti e il figlio Giampiero mandano avanti una bottega da falegnami e il lavoro, come capita ovunque a tutti i bravi «maestri del legno», non manca. Antonello Mellino si ingegna con creazioni in ferro battuto, Antonio Giuseppe Manca si industria con l’alluminio. Tre le imprese edili con Francesco Cocco, Giuseppe Manca e Marco Pintori. Due calzolai moderni, Giuseppe Dore e Franco Campus con clientela affezionata sparsa in tutta la Sardegna. Giuseppina Leoni ha un calzificio che sforna calze in lana sarda per pastori, per trekking, per cacciatori. E c’è una piccola azienda, la «M.N», Manifattura Nulese, dove dal polipropilene si produce «filo tecnico», cioè filo per corde, cinture di sicurezza per le macchine e per mille altri usi. La materia prima si poteva comprare a Ottana, adesso giunge da Oltretirreno. Il titolare è Giovanni Crabolu.
Anche l’agroalimentare comincia a ritagliarsi fette e nicchie di mercato ancora modeste ma promettenti. Tre i panifici mandati avanti da Francesco Mellino, Alfredo Mellino e Mario Mela con i fratelli. Due i negozi di pasta alimentare fresca (Marina Coloru e Silvana Zoroddu) e altri due di dolci tipici (Angelo Mellino e Maria Luisa Cocco). Da un anno è attivo il «Consorzio del formaggio dell’altipiano di Nule» per produrre un pecorino che è già riconosciuto «prodotto tipico» ora in attesa del Dop, denominazione di origine protetta. È un formaggio assolutamente eccellente, ottimo sapore, buona la pasta, bello l’aspetto. Sono già attivi quattro laboratori artigianali di trasformazione, non sono minicaseifici ma vere e proprie aziende che seguono metodi tradizionali di lavorazione proprio per conservare una tipicità che non deve andare dispersa. Questo consorzio (presidente Giuseppe Crabolu) coinvolge un po’ tutto il paese, dai Manca (Giuseppe, Rosalia, Andrea) a Maria Maddalena Mellino, Antonio Dettori, Giuseppe Dessena, Antonio Dore e Piero Mulas. È una attività che può prosperare soprattutto se alla bontà del prodotto si affiancherà un sistema agile ed efficiente di commercializzazione. Le pecore sono poco più di ventimila, un numero sufficiente per consentire agganci anche con la grande distribuzione specializzata. «Ma va spezzato l’isolamento della campagna, sono necessarie strade di penetrazione agraria agevoli», dice l’assessore all’Agricoltura Salvatore Mellino. Hanno da fare anche gli altri assessori. Ornella Manca, ragioniera in cerca di lavoro, ha la responsabilità del Bilancio, Giuseppe Luigi Mellino - dipendente del ministero di Giustizia - la delega per i servizi sociali, Raimondo Satta - ingegnere - è ai servizi generali. C’è tanto «sommerso». Ma Nule potrebbe produrre molto di più se anche le altre istituzioni capissero quali e quante sono le risorse dei paesi della Sardegna di dentro, dei paesi - dice il sindaco - «senza santi in paradiso». Perché Nule «è parte del Goceano ma ai suoi margini, è parte del Monte Acuto ma - ha scritto Giovanni Michele Cossu - ai margini del Monte Acuto, non fa parte della Barbagia ma confina con essa, tanto vicina da averne subìto gli influssi». Le carte da giocare non mancano. L’economia del tappeto confezionato casa per casa, quella dei prodotti alimentari, l’artigianato avrebbero maggiore fatturato se esistesse una calamita che sapesse attirare più visitatori. Forse bisogna specializzarsi di più, rischiare di più. Qualche esempio positivo Nule lo ha dato. Sono attesi gli emulatori.
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Un tesoro di tessuti e ricami nella mostra di Casa Garau
Per due settimane a Thiesi, nell’antica abitazione al centro del paese, in esposizione indumenti e abiti di gala risalenti al periodo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento
THIESI. Se l’abito non fa il monaco, certamente è uno specchio rivelatore - e neppure troppo segreto - dei percorsi storico-culturali di una comunità distinta fra molte come quella di Thiesi. Per due settimane la casa Garau - un palazzotto nobiliare del centro storico, edificato quattro secoli fa in quella che attualmente si chiama via Vittorio Emanuele, rione «Sos Cavaglieris» - ha ospitato una mostra di indumenti e abiti di gala thiesini risalenti a un periodo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. All’interno di questa casa antica «tutto sembra paralizzato - hanno scritto gli organizzatori della Pro Loco nella presentazione -, senza dimensione temporale, come se la maga cattiva abbia disteso il velo del sonno su tutto». La maga buona, invece, è Giovanna Chesseddu, un’insegnante di lettere dagli occhi chiari e dall’eloquenza naturale, che le si esalta ancora di più quando parla in sardo, per l’uso straordinario che riesce a far della lingua resistenziale: limbazu lichitu, parlata di estrema eleganza. Con Salvatore Ferrandu e Stefano Ruiu, Giovanna è l’anima dell’iniziativa messa in moto dalla Pro Loco.Negli anni Sessanta i proprietari hanno abbandonato Thiesi», ricorda Ferrandu, ex-sindaco del paese oltre che insegnante e animatore dei maggiori eventi culturali. «Ma la figlia ritorna sempre, da noi, e si prende cura della casa. Teresina Garau ci ha dato la possibilità di esporre e ha esposto anche lei. Guarda che roba! Ha conservato perfino le scatole dei magazzini Printemps di Parigi. Qui c’è un tesoro. Fra un anno si potrà aprire per far visitare anche la casa, con i mobili, l’arredamento». Il professor Ferrandu conosce tutto a menadito: «Questi pezzi sono del 1900: una mantella-scialle, corsetti con il vitino cosiddetto da vespa, ornamenti vari tipo le piume da inserire nei cappellini, borse, borsette e borsellini. Ogni pezzo va esposto con grazia. Quest’altro è un prendisole del 1800.Teresina è la depositaria di tutti i ricordi familiari, dunque della nostra comunità intera». Anche Giovanna-maga-buona si è documentata alla perfezione: «Questa è una cuffia della belle époque», inizia a mostrare. «Ed ecco sas bértulas, le bisacce con l’albero della vita, lo stesso disegno che ritroviamo poi nelle camicie. La mostra racconta l’abbigliamento a Thiesi, tutto: il feriale e il festivo. Eravamo partiti dall’idea del solo vestire quotidiano, ma il materiale era poco. Abbiamo fatto venire qui Gian Mario Demartis, etnografo della Sovrintendenza, per evitare de nàrrere calchi machine, di dire sciocchezze. Soprattutto per le datazioni. Questi coritos, giubbonetti, come li chiama l’Angius, hanno gli stessi disegni delle bisacce e delle camicie che puoi vedere esposte, una simbologia comune: figurava praticamente in tutti i capi». In sardo logudorese la camicia maschile si chiama bentone e il sostantivo è di genere maschile, per l’appunto. Ite sun custos bentones, Juanna? «Queste camicie», risponde la professoressa, «sono un rifacimento di quelle più antiche, senza colletto». Nel periodo spagnolo - aggiunge Salvatore Ferrandu - «questa tipologia ha preso piede, come camicia più importante, la Sardegna aveva il simbolo protettivo dell’albero della vita: non contava solo la bellezza dell’indumento, ma l’albero serviva anche a proteggere chi lo indossava. Simboli apotropaici, come dicono i dotti». Vengono poi le gonne, che a Thiesi si chiamano bunneddas quando sono di fattura ordinaria e tùnigas quando si tratta di pezzi importanti. Spiega Giovanna Chesseddu: «Questa è la gonna gialla d’orbace, per il lutto». Come, un lutto tinto di giallo? «Sì, alla fine dell’Ottocento il lutto esterno era di quel colore», precisa. «Il fazzoletto-copricapo, su mucaloru, nel lutto serviva anche a nascondere il volto. Ma non c’era la civetteria del nodo, il fazzoletto veniva tenuto insieme da una spilla che nascondeva anche il petto. Sa tùniga groga era poverissima, molto adatta per esternare il dolore dal momento che non ostentava nulla. Quest’altra era una gonna di gala, forse. C’è un abito di una donna ricca del 1880. Lo studioso Gian Mario Mario Demartis, che se ne intende, dice che tutta questa ricchezza non si ritrova in altri centri. Roba antica e moderna e abbigliamento di transizione. Nel primo decennio del secolo scorso abbiamo scialli alla veneziana e scialli ottocenteschi, perché qui c’era gente che vestiva all’antica e contemporaneamente altra gente che vestiva a sa tzivile, secondo criteri moderni».
Incorniciata su una parete, una foto di Don Enrico, «il capostipite dei Garau che un bel giorno vendette tutti i suoi possedimenti ad Arbus e comprò a Thiesi: terre e case dai feudatari», come racconta Salvatore Ferrandu. Si gira per le sale. Giovanna Chesseddu mostra su gabaneddu frunidu, il pastrano d’orbace ricamato in nero e foderato perché doveva essere comodo. Qui di ricostruito non c’è quasi nulla. Queste sono gonne di una che è morta al suo terzo o quarto parto, nel 1898: le sue gonne mostrano elementi di transizione come il ricamo a punto raso, importato a Thiesi dalle suore».
Si possono ammirare altri coritos, di fidanzate vicine alle nozze. «Ce n’è uno - spiega ancora Giovanna Chesseddu - usato dalla moglie del poeta improvvisatore Andria Nìnniri il giorno del matrimonio. Non è vero che il costume fosse uguale, le varianti dipendevano, sì, dalle possibilità economiche, ma anche dall’abilità nel ricamo di questa o quella donna thiesina». Su una sovracoperta da letto matrimoniale (sa fàuna) in lino tessuto al telaio c’è una scritta: «Viva Gesù Nostro Amore e Maria Nostra Speranza dopo Gesù, donna Giovanna Livesi nata Gutierrez anno Domini 1764». La parola nata «è scritta con due t», osserva un visitatore. Un altro risponde: «No ti nd’ispantes, non meravigliarti: ancora oggi ci sono personaggi importanti, anche se non nobili, che con l’italiano hanno parecchie difficoltà». E fa il nome di un notissimo uomo politico. Chissà chi lo sa, avrebbe detto Febo Conti. Un’altra sovracoperta in lino reca la data del 1883, più avanti si può ammirare un reggiseno da giovinetta nubile, ma già predisposto - da un apposito bottone anteriore - per il tempo tempodell’allattamento. «Vivo bene questo impegno - confida Giovanna -. Ci siamo stancati, abbiamo anche litigato, ma ci serviva fare uscire queste perle dalle casse, far conoscere alla gente ciò che aveva in casa. Personalmente, è un piacere, oltre che un dovere nei confronti del paese. Anche noi abbiamo diritto al bello. Il costume di Thiesi non è quello che presentano i gruppi folk, tutti precisini ma sempre identici a sé stessi». Parla Stefano Ruiu, che ha il doppio impegno della mostra e della tesi di laurea in filologia romanza sui poeti di Thiesi: «Una bella esperienza - dice - anche se mi dispiace non aver potuto dedicarle tutto il tempo che avrei voluto, ma grazie a Giovanna e anche a Salvatore...». Dal fondo della sala una voce lo interrompe: «Come, anche? Salvatore può essere tutto, fuorché un’anche. Vogliamo scherzare»? Il Salvatore in questione è Ferrandu, che interviene: «Loro due, Giovanna e Stefano, erano già in sintonia, io sono entrato dopo». L’onore dei grandi è l’umiltà.
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Il fascino dell’abito di gala
La descrizione dell’abate Vittorio Angius nel 1846
THIESI. Quel cronista memorabile che risponde al nome dell’abate Vittorio Angius nell’anno di grazia 1846 scriveva così del costume di Thiesi: «Le donne del popolo seguono l’antica moda e amano il colore giallo nella gonnella di panno (sa tùniga groga), dal quale sono nei paesi vicini riconosciute fanciulle o donne di Thiesi. Il petto copresi in parte da un busto di velluto o di altra stoffa di color arbitrario e un giubbonetto (su coritu) con le maniche, nell’inverno». Questo nell’ordinaria amministrazione dell’uso. Per le solennità, ovviamente, il discorso cambia e l’abate-cronista-storico lo documenta perfino nei dettagli. «Quando sono in gala - distingue il curatore del dizionario del Casalis - allora le gonnelle gialle cedono a quelle di scarlatto (sas tùnigas rujas) - il busto di velluto a quello di broccato in oro od in argento; lo scarlatto serve anche di giubbone, nelle cui maniche pendono e suonano sei od otto grossi bottoni sferici di filigrana d’argento o d’oro con molti anelli, bei pendini pendinie collane di corallo incastrate nell’oro o nell’argento che si posano sul mezzo petto nudo, sopra i bottoni d’oro o d’argento, che chiudono la camicia ricamata sulle mammelle».Ausonio Spano, in una poesia intitolata «Sa thiesina» ricorda Giovanna Chesseddu, dice che le nostre antenate avevano scoperto assai presto sas artes de sas signorinas, le arti delle damigelle. Arriva l’ora dei primi bilanci. La mostra ha raggiunto quota mille e trecento presenze documentate dalle firme nel registro apposito. Ma si calcola che un numero di visitatori oscillante tra il quindici e il venti per cento non abbia firmato. «Noi siamo contenti, la gente è addirittura meravigliata», commenta ancora Giovanna. «Chi conosceva queste cose ha avuto modo di ricordarle e di rifletterci sopra, chi non le conosceva ha imparato qualcosa di nuovo». Le fa eco Stefano Ruju: «La collaborazione dei nostri compaesani è stata buona. La popolazione ha risposto molto bene: quando la gente vede un interessamento vero e capisce che tutto questo può servire alla comunità collabora volentieri. All’inizio, magari, c’è stata una qualche titubanza, poi abbiamo avuto una risposta piena». Ma il bello - o il brutto, a seconda dei punti di vista - deve ancora venire.
Annuncia Giovanna Chesseddu: «Occorrerà documentare tutto questo fervore di iniziative con una pubblicazione che rimanga negli anni a testimoniare un patrimonio di valore fuori dal comune. Speriamo di essere all’altezza». Intanto, sempre per iniziativa della Pro Loco e del suo presidente Juanne Uneddu, sta per essere pubblicata una raccolta di versi di Juanne Antoni Cossu, poeta thiesino vissuto tra il 1897 e il 1972, dal titolo «Chentu poesias», con contributi di Salvatore Tola, Tonino Rubattu, Stefano Ruju, Giovanna Chesseddu e Angela Cossu, la figlia del poeta. E non sarà sicuramente dimenticato un altro artista di virtù elevata, il grande cantore estemporaneo Antoni Piredda, nato a Thiesi nel 1905 e morto a Sassari nel 1984.Tiu Piredda è stato uno degli estemporanei di maggior talento nella storia della poesia cantata in piazza, protagonista di ardite battaglie in versi con i più famosi cantadores logudoresi: Barore Tucone, Barore Sassu, Remundu Piras e Peppe Sozu in testa. Un onore che il paese renderà volentieri a chi ha fatto conoscere il nome di Thiesi nei più lontani villaggi della montagna sarda: un guerriero sui palchi, una persona amabile fuori dagli agoni poetici, un uomo vero.
emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello
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