fonti https://www.sportoutdoor24.it/viaggi/ e wikipedia.it e la copilot
Il gotico non è solo un’epoca artistica: è un modo di guardare la realtà. Ombre, guglie, simboli e misteri che si intrecciano con la luce. Insomma, c’è un motivo per cui sempre più turisti cercano il luoghi gotici, dark e misteriosi in Italia per esperienze fuori dell’ordinario.
L’Italia è famosa per il Rinascimento, ma nasconde ovunque una bellezza gotica profonda e viscerale, dai chiostri delle cattedrali del Nord ai borghi di montagna dove ancora si raccontano storie di fantasmi.I luoghi in Italia dove il gotico è un sentimento
Dalle cripte sotterranee ai campanili che sfidano le nuvole, il gotico in Italia non è solo architettura: è un modo di sentire. È la ricerca di ciò che sfugge alla luce, il desiderio di scoprire la bellezza che si nasconde nell’ombra. Un invito a viaggiare con occhi diversi — e magari, ogni tanto, a lasciarsi spaventare. In senso buono.ecco una rassegna \ un viaggio tra i luoghi gotici più suggestivi da visitare in Italia.
Castello di Montebello - EMILIA ROMAGNA - Lungo la via che unisce Rimini, Bologna e Parma, si incontra una rete di manieri carichi di leggende. Il Castello di Montebello, vicino a Torriana, è famoso per il fantasma di Azzurrina, una bambina scomparsa nel 1375 e che, secondo i racconti, riappare ogni cinque anni.
Santuario di San Bernardino alle Ossa - LOMBARDIA - A Milano, pochi lo conoscono, uno spettacolo di teschi e scheletri.
Chiesa della Gran Madre - TORINO Secondo una tradizione infondata, la chiesa sorgerebbe sul luogo ove, nell'antichità, si trovava un tempio dedicato alla dea egizia Iside, conosciuta anche come "Grande Madre".Secondo le cronache storiche narrate dal Cibrario, nel corso dell'Ottocento davanti alla chiesa venivano esposti i cadaveri dei mendicanti o degli sconosciuti in attesa di riconoscimento; essi venivano precedentemente esposti di fronte al Palazzo Reale.Una delle due statue ai lati della scalinata, quella di sinistra, rappresenta una donna che tiene nella mano destra un libro aperto e con la sinistra leva un calice. Per gli amanti dell'esoterismo tale statua, rappresentante ufficialmente la Fede, non sarebbe altro che la stessa Madonna, con in mano il Santo Graal, e indicherebbe un punto che dovrebbe portare al ritrovamento del prezioso calice, il che indurrebbe a pensare che la leggendaria reliquia si trovi proprio in questa città.
Triora - LIGURIA - Oggi conserva ancora il suo aspetto medievale, fatto di vicoli stretti e pietre scure, e ospita un Museo della Stregoneria che racconta superstizioni e credenze popolari.
Catacombe dei Cappuccini - PALERMO, SICILIA - Migliaia di mummie — tra frati, nobili e bambini — sono esposte in silenzio.
San Galgano - Accanto, nella cappella di Montesiepi, è custodita una spada conficcata nella roccia, che secondo la leggenda apparteneva a un cavaliere diventato eremita. Essa è situata tra Siena e Massa Marittima, è descritta come una delle immagini più iconiche del gotico in Italia. La sua struttura è senza tetto, aperta al cielo, e questo dettaglio non è solo architettonico: diventa metafora visiva di una spiritualità che si fonde con la natura, della ricerca di luce attraverso le rovine.
🗡️ Accanto all’abbazia, nella cappella di Montesiepi, si trova la celebre spada nella roccia, che secondo la leggenda fu conficcata da Galgano Guidotti, un cavaliere che rinunciò alla vita mondana per diventare eremita. Questo gesto è carico di valore simbolico: la spada non è solo un’arma, ma un atto di pace, una rinuncia al potere e alla violenza.
Nel contesto della pagina di https://www.sportoutdoor24.it/viaggi/ da cui ho preso la galleria fotografica e parte delle informazioni , San Galgano rappresenta:Un punto di convergenza tra leggenda e spiritualità.
Un esempio di come il gotico italiano sia esperienza emotiva, fatta di ombre, misteri e bellezza che sfugge alla luce.
Un invito a viaggiare con occhi diversi, cercando il sublime nell’incompiuto, il sacro nel silenzio.
Palazzo Ducale - VENEZIA, VENETO - Il gotico veneziano è unico al mondo: raffinato, scintillante e inquietante allo stesso tempo.
Ieri ad Aggius come annunciato nel post precedente ho partecipato a Frequenze per G4z4 e ho visto questi due film : The Embroiderers \Le ricamatrici di Maeve Brennan e Gaza Fights For Freedom" di Abby Martin . Mi ha colpito molto il primo film / corto metraggio di cui trovate sotto due video con i sottotitoli in inglese e con sottotitoli in italiano .
Prima di lasciarvi ai video e agli articoli che ho trovato in rete per approfondire le mie curiosita sull'argomento vorrei dire alcune cose . Non sapevo o quanto meno non immaginavo che anche ago e filo fossero un potente strumento di resistenza culturale insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante stia come sembra testimoniare il secondo articolo diventando moda . Ma nonostante tutto esso è « [....] Rinomato per la sua complessità, il tatreez è l’arte di ricamare a mano motivi a punto croce con fili dai colori vivaci sugli abiti. Molto diffuso nella società palestinese, esprime un patrimonio di conoscenze e abilità che si caratterizzano come una «pratica sociale e intergenerazionale», spiega l’Unesco, che il 15 dicembre scorso ha incluso l’arte del ricamo palestinese nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Con tale riconoscimento l’Unesco cerca di dare maggiore visibilità e di tutelare i vari elementi del patrimonio culturale del genere umano che possono essere minacciati. Simbolo dei legami familiari Tradizionalmente le donne palestinesi si riuniscono nelle case dell’una o dell’altra per ricamare e cucire insieme, spesso accompagnate dalle figlie. Questa abilità manuale (ma non solo), che simboleggia i legami familiari, si trasmette essenzialmente di generazione in generazione. Oggigiorno le donne possono anche incontrarsi nei centri sociali, dove hanno anche modo di commercializzare i loro lavori. [...] da : Il ricamo palestinese è patrimonio dell’Umanità di Terrasanta.net ».
Ma ora bado alle ciancie a voi i video e gi articoli in questione buona visione e lettura
Per chi non mastica bene l'inglese ecco la versione con sottotitoli in italiano
insieme a un'antichissima tecnica di ricamo - mantiene viva la memoria e l'identità palestinese, oltre la distruzione e la diaspora, e ci consegna un messaggio importante. Nonostante stia come sembra testimonia il secondo articolo diventando moda .
All’inizio, il ricamo sugli indumenti veniva utilizzato per adornare gli abiti dell’élite dominante e delle figure religiose di alto rango e incorporava metalli come l’oro e l’argento nella seta e in altri tessuti per imprimere e abbellire gli indumenti. Con il tempo, il ricamo si è diffuso nei villaggi grazie alle religiose che hanno formato ragazze economicamente svantaggiate nel ricamo per creare abiti per figure religiose. Successivamente, le ragazze trasferirono queste pratiche nei loro villaggi. Questa transizione ha permesso più libertà alla forma d’arte di fiorire, diventando in seguito una pratica popolare che era distinguibile in base alla cultura, alla comprensione della natura e alle credenze di ogni villaggio. Il ricamo è diventato una pratica continua e sostenibile che collega gli abitanti del villaggio con l’eredità, le pratiche, le storie trovate sui simboli e motivi dell’epoca. Le donne palestinesi dei villaggi e delle comunità beduine hanno portato avanti questa tradizione, sviluppandola ulteriormente e permettendole di evolversi nel corso degli anni, utilizzando tessuti di seta, lino e cotone per creare i loro capi. Queste donne erano generalmente note per indossare una vasta gamma di indumenti, da abiti pesantemente ricamati (indossati ai matrimoni e in occasioni speciali) agli abiti di tutti i giorni leggermente ricamati. Tutti sono stati decorati con una miriade di tecniche di ricamo, in particolare il punto croce e il rivestimento di Betlemme. Questi punti si sono uniti in uno spettro di colori vivace e ampio che sono stati combinati con tecniche altamente qualificate per creare capolavori colorati in diversi tagli, riflettendo la bellezza e la modestia del villaggio e delle sue donne.
La parte posteriore di un abito di Al-Ramleh che condivide elementi con gli abiti dei villaggi di Yibna, Bashit e Al-Basheer, spopolati nel 1948. I primi campioni di abiti palestinesi ricamati risalgono al diciannovesimo secolo. Prima di allora, abbiamo solo una descrizione di questi pezzi basata sulle osservazioni dei viaggiatori. Solo pochi orientalisti e viaggiatori avevano descritto l’abbigliamento palestinese in relazione al loro interesse religioso per la Terra Santa, dove il loro disprezzo e disdegno per la popolazione locale era evidente attraverso la loro descrizione della popolazione locale “primitiva”.
Gli indumenti ricamati palestinesi sono conservati nelle collezioni di John Whiting, la Church Missionary Society (CMS), Rolla Foley, Dar Al-Tifl Al-Arabi, Widad Kawar, il Museo di Israele e il Museo della cultura beduina.
Missionari, orientalisti e viaggiatori acquistavano ricami per interessi religiosi oltre che economici. Per alcuni la priorità era collezionare ricami, per altri vendere gli articoli in Europa e negli Stati Uniti per sponsorizzare i loro progetti in Palestina. Questi pezzi ricamati sono entrati a far parte delle collezioni di individui o chiese e alla fine sono finiti nelle collezioni dei musei etnografici nel ventesimo secolo, formando la base delle collezioni museali di abiti tradizionali palestinesi.
The John Whiting Collection: in qualità di manager del negozio American Colony nella Città Vecchia di Gerusalemme, John Whiting parlava correntemente l’arabo e conosceva bene le tradizioni locali. Era anche molto appassionato di acquistare abiti tradizionali palestinesi dai vari villaggi che ha visitato. La sua collezione comprendeva alcuni pezzi che risalgono al 1840 Quando John Whiting morì negli Stati Uniti nel 1951, la sua collezione fu inizialmente passata a sua moglie e in seguito finì al Museum of International Folk Art di Santa Fe. La sua collezione di 26 pezzi è diventata il fulcro della collezione del museo di abiti tradizionali palestinesi, che è stata successivamente integrata dal sostegno di Widad Kawar che è stato in grado di colmare le lacune nella Collezione Whiting.
Il pannello posteriore di un abito di Ni’lin, un villaggio a ovest di Ramallah.
Collezione della Church Missionary Society (CMS): Sheila Weir ha collaborato con il British Museum nella selezione di una collezione di abiti tradizionali palestinesi dalla Collezione CMS che era stata portata dalla Palestina. Tra il 1967 e il 1968, Weir ha condotto un’indagine attraverso la Palestina storica per documentare la Collezione CMS, per apprendere il vocabolario del ricamo e i nomi di elementi, motivi e punti e per identificare le caratteristiche distintive dei pezzi in base al loro luogo di origine .ra il 1969 e il 1970, Sheila Weir ha ampliato la sua indagine per includere la Giordania e i campi profughi palestinesi e ha acquisito un gran numero di pezzi che le donne nei campi profughi avevano conservato dopo la Nakba e la Naksa . Weir ha anche acquisito telai da Al-Majdal da aggiungere alla collezione etnografica in espansione del British Museum. A ciò è seguita l’istituzione del Museum of Mankind a Londra che ha avviato le sue attività con una mostra sulla tessitura in Palestina e sugli abiti tradizionali palestinesi.
La manica di un abito di Ramallah che è eccezionale perché è stata ricamata con un rivestimento in stile Betlemme.
The Rolla Foley Collection: Rolla Foley è stato un insegnante di musica americano che dal 1938 al 1946 ha lavorato presso la Friends School di Ramallah, dove è stato responsabile del programma musicale in Palestina, Libano, Giordania orientale e Siria. Ha pubblicato diversi libri sulla musica in inglese, francese, arabo e armeno e ha fondato un festival di musica folcloristica che comprendeva il suo interesse per la produzione culturale e artistica locale, in particolare il ricamo. Durante il suo soggiorno in Palestina, Foley collezionò ricami palestinesi, dipinti e ceramiche prima di tornare negli Stati Uniti nel 1946. Foley tornò in Palestina nel 1952 per completare la sua ricerca di dottorato sulla musica folcloristica palestinese, dove si trovò di fronte al fatto che i suoi amici di Yafa erano diventati rifugiati a Ramallah dopo la Nakba.. Avevano perso le loro case e la maggior parte dei loro beni. Foley ha riconosciuto che a causa degli sfollamenti forzati, il ricamo palestinese era minacciato di cancellazione, quindi ha avviato una collezione diversificata che includeva abiti, giacche e cuscini ricamati. All’inizio degli anni ’60 fondò anche un piccolo museo a Oakland, Illinois, ma a causa della sua prematura scomparsa nel 1970 il museo fu chiuso. La sua collezione passò ad Hanan e Farah Munayer, con una descrizione dettagliata di ogni pezzo, inclusa la storia del pezzo stesso, la data di acquisizione, il nome del proprietario e il villaggio da cui aveva avuto origine. Questa accurata documentazione ha permesso di tramandare questo patrimonio alle generazioni future e ha fornito preziose informazioni sui pezzi della collezione. All’inizio degli anni ’30, i collezionisti palestinesi iniziarono a creare le proprie collezioni di ricami nel tentativo di preservare questo patrimonio e garantirne la continuità per le generazioni future. È importante menzionare qui due raccolte principali. Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi: Hind Al-Husseini iniziò a collezionare abiti palestinesi come parte della Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi negli anni ’30, per poi ampliare la collezione dopo la Nakba del 1948 . La sua risposta è derivata dalla sua convinzione nell’importanza di salvaguardare il patrimonio palestinese dall’essere spazzato via di fronte all’occupazione. Questo è stato in aggiunta al suo lavoro filantropico, dove ha fornito alloggi ai bambini rifugiati nella sua fondazione, Dar Al-Tifl Al-Arabi. Dopo la Naksa del 1967 , la Collezione Dar Al-Tifl Al-Arabi si espanse ulteriormente per includere la collezione di ricami del Museo di arte popolare palestinese.
La manica del vestito di Al-Ramleh.
La collezione Widad Kawar: qualche tempo dopo, Widad Kawar ha iniziato un viaggio che ora l’ha portata ad acquisire migliaia di pezzi dalla Palestina, dalla Giordania e da altre parti del mondo arabo. Ha iniziato la sua collezione con un abito affascinante del villaggio di Aboud e oggi possiede una collezione che ha viaggiato per il mondo portando il messaggio della Palestina. Widad Kawar ha anche fondato il Tiraz Center ad Amman, in Giordania, per mostrare la sua collezione speciale di abiti palestinesi in un ambiente interattivo ed educativo. Ha anche contribuito notevolmente alla produzione di libri e materiali di valore inestimabile per documentare e preservare questo patrimonio. La sua collezione e i suoi sforzi hanno ispirato e incoraggiato la creazione di diverse collezioni individuali e organizzative.Altre collezioni di ricami palestinesi sono detenute da istituzioni palestinesi, tra cui la Birzeit University e il Museo Palestinese, e da individui palestinesi che cercano di preservare e documentare l’eredità e la storia palestinese. Ci sono anche collezioni di abiti e gioielli ricamati palestinesi, tra molti altri oggetti palestinesi, che si trovano oggi nei musei e nelle collezioni private israeliane. Nel 1948 Israele cancellò dalla mappa più di 400 villaggi palestinesi e trasferì le loro popolazioni nei paesi vicini. I collezionisti israeliani hanno successivamente accumulato un gran numero di costumi e strumenti tradizionali palestinesi nel tentativo di trovare un collegamento tra questi oggetti e la presunta storia israeliana nella regione.
Il retro di un abito di Hebron con elementi tipici anche degli abiti di Al-Faluja, Iraq al-Manshiyya e Beit Jibrin, villaggi spopolati nel 1948.
Parallelamente agli sforzi in corso dello stato israeliano per cancellare la Palestina e i palestinesi dalla mappa e dalla memoria, i musei israeliani hanno paradossalmente raccolto abiti e strumenti tradizionali palestinesi in modo implacabile nel corso degli anni. I seguenti sono alcuni esempi. The Israel Museum: il museo è stato fondato nel 1965, quando il ricercatore e curatore antropologico Ziva Amir era responsabile della raccolta in massa di abiti tradizionali palestinesi. Amir ha approfittato dell’estrema vulnerabilità dei palestinesi dell’epoca e ha sfruttato questa situazione per acquisire ricami palestinesi dai rifugiati palestinesi impoveriti. Amir ha pubblicato diversi libri e articoli sull’argomento, concentrandosi sulla traccia dell’Antico Testamento attraverso questi pezzi raccolti, senza menzionare nemmeno la Palestina oi palestinesi.
Pannello laterale di un abito Ramallah bianco di rumi (lino) dei primi del Novecento.
Il Museo della cultura beduina: la collezione del museo risale alla sua istituzione nel mandato britannico della Palestina nel 1938. Documenta la vita dei beduini ad Al-Naqab e comprende una vasta gamma di pezzi che includono vestiti, strumenti, tende, tappeti e tessuti intrecciati Questa storia e la realtà odierna sottolineano l’importanza di sviluppare ed espandere le collezioni di ricami di proprietà palestinese. Oltre a salvaguardare una forma d’arte tradizionale palestinese che è stata violentemente interrotta a causa della Nakba e dell’occupazione in corso, queste collezioni possono anche preservare una parte essenziale del nostro patrimonio immateriale. Le storie che raccontano non comprendono solo gli indumenti stessi, ma anche il modo di vivere che sono stati progettati ad arte per accogliere. Di fronte alla brutale macchina dell’occupazione, preservare e celebrare la nostra identità culturale è fondamentale per garantire la continuità della nostra cultura per le generazioni a venire.Visualizza PDF
Il tatreez è più di una semplice decorazione. È un modo di raccontare storie, preservare il patrimonio culturale ed esprimere la nostra identità». Mi spiega Yasmeen Mjalli fondatrice e direttrice creativa di Nöl Collective, brand di abbigliamento basato a Ramallah, in Cisgiordania. «Ogni punto ha un significato, ogni motivo racconta la storia familiare, l’identità regionale o eventi significativi nella vita di chi lo indossa».
Una camicia di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.
Una gonna di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.
Una felpa di Nöl Collective ricamata a mano con la tecnica del tatreez. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective.
Abeer Dajani, fondatrice di Taqa Clothing aggiunge: «La parola tatreez (تطريز) significa "abbellimento" in arabo. Ma oltre a essere una decorazione, è sempre stato un modo per le donne palestinesi di esprimere la propria identità, le esperienze e il patrimonio regionale attraverso motivi e disegni. Storicamente, è stato un linguaggio a sé: alcuni punti e colori potevano raccontare da dove veniva la donna che il indossava, il suo stato civile e persino la sua storia personale».
Praticata da oltre 3.000 anni, questa forma di ricamo tradizionale viene trasmessa di generazione in generazione, da madre a figlia, in Palestina così come nelle comunità di emigranti palestinesi in tutto il mondo. Sebbene la sua origine risalga alle zone rurali, oggi la tradizione di cucire e indossare abiti ricamati è diffusa sia nei villaggi che nelle città, e i diversi motivi rappresentano le diverse regioni della Palestina storica.
Il thobe, abito tradizionale palestinese ricamato con trateez, nell'interpretazione contemporanea di Taqa Clothing. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.
«Molti motivi tradizionali del tatreez rappresentano elementi della terra - fiori, alberi, animali -simboli del paesaggio unico della Palestina – mi spiega ancora Mjalli di Nöl Collective - Alcuni motivi rappresentano piante specifiche come i rami di ulivo, i fiori selvatici o i melograni, che hanno un significato culturale significativo, mentre altri raffigurano elementi della vita palestinese legati alla terra, come la kefiah o la famosa Cupola della Roccia. Questi motivi non sono semplicemente belli, sono una forma di resistenza, un modo per mantenere viva la memoria di una terra e della sua biodiversità di fronte alla diaspora, all'occupazione e alla distruzione»
Dichiarato nel 2021 dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale e intellettuale dell’umanità, il tatreez è simbolo di resistenza culturale. Mantenere viva quest’arte significa preservare una parte fondamentale dell’identità e della cultura palestinese, in un momento in cui le radici culturali rischiano di essere cancellate. «Il tatreez offre un modo per archiviare e conservare ciò che sta per essere cancellato - continua Mjalli - Preserva le storie della terra, storie che non possono essere distrutte da bulldozer o da confini. Tessendo questi motivi nei nostri design, stiamo attivamente proteggendo la memoria di un paesaggio che potrebbe presto essere dimenticato dal mondo, ma che vivrà sempre nei nostri fili».
Un capo di Nöl Collective realizzato con la tecnica di tessitura majdalawi. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nol Collective.
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Un tessitore che Nöl Collective ha aiutato a evacuare in Egitto. Courtesy of Yasmeen Mjalli/Nöl Collective
l thobe, ampio abito tradizionale indossato dalle donne palestinesi, è il capo di abbigliamento più comunemente ricamato. Ma sono diversi i designer che integrano il tatreez in creazioni dal design contemporaneo, producendo abbigliamento e accessori in grado di parlare anche al resto del mondo. Questo è particolarmente evidente nel lavoro di Yasmeen Mjalli che mixa le tradizioni della sua terra di origine con una visione contemporanea e internazionale della moda.
Nata negli Stati Uniti da genitori palestinesi emigrati, la giovane designer è tornata in Cisgiordania dopo la laurea in North Carolina e nel 2017 ha fondato Nöl Collective a Ramallah. Mjalli integra nel suo lavoro tecniche indigene, come la tintura dei tessuti con coloranti naturali derivati da piante locali, radici e insetti, l’utilizzo di metodi tradizionali di tessitura come il majdalawi, e il coinvolgimento di una rete di artigiani locali per ricamare a mano gli abiti, creando una combinazione unica di silhouette e tagli contemporanei e decori tradizionali palestinesi.
Una gonna di Taqa Clothing decorata con ricamo tatreez. Courtesy of Abeer Dajani/Taqa Clothing.
Lo stesso fa Abeer Dajani con Taqa Clothing, seppure lontana dalla sua terra, tra Sidney, in Australia, e Riyad, in Arabia Saudita. Dopo aver studiato modellistica per abbigliamento femminile all'Istituto di Moda Burgo di Amman, in Giordania, con l'obiettivo principale di avviare una linea di moda ispirata al patrimonio palestinese, nel 2017 Dajani ha fondato Taqa, che lei stessa definisce un'esplorazione dell'arte indossabile, pezzi che raccontano storie, cultura e identità, rimanendo moderni e versatili.
«La moda è uno strumento potente di rappresentazione. Pensate alla kefiah, è diventato un simbolo globale di resistenza, identità e solidarietà. Allo stesso modo, il tatreez non è solo ricamo, è storia indossabile. Ogni punto porta con sé una narrazione, una connessione con il passato e un senso di appartenenza. Indossando questi pezzi, le persone si connettono a una storia più grande di loro. Vedo tutto ciò come parte di un cambiamento più ampio: le persone stanno rivendicando le arti indigene, valorizzando l'artigianato rispetto alla produzione di massa e trovando modi per esprimere la loro identità attraverso la moda».
La storia di queste e delle tante altre designer, tessitrici, ricamatrici palestinesi, che fanno della moda un mezzo di preservazione della storia, si colloca in un movimento globale che sta coinvolgendo il mondo della moda: non solo l'artigianalità (e la sostenibilità) di ciò che indossiamo comincia ad acquisire importanza, ma anche le mani che lo creano hanno rilevanza, così come la storia che si cela dietro a ogni capo e accessorio. Soltanto così la moda diventa energia creativa, forza propulsiva che sospinge verso il futuro. Nonostante le guerre, nonostante tutto.
«La creatività è una forma di resistenza, un modo di affrontare e persino di guarire - sono le parole di Yasmeen Mjalli - è una risposta al dolore, un modo per reclamare bellezza e dignità in uno spazio dove sono costantemente minacciate. Per me, essere creativa in questo contesto significa onorare il passato e il presente, ma anche immaginare un futuro, un futuro in cui i palestinesi possano vedere le possibilità di una vita più luminosa e libera. È una miscela di cuore spezzato e speranza, e il lavoro porta con sé quel peso emotivo. È un promemoria che anche nei momenti più bui, c'è ancora spazio per la creazione, per l'espressione e per reclamare la nostra narrazione».
Dal campo alla tavola in pochi minuti. Al rifugio “La Mestà” le patate – dissotterrate dagli orti della zona e modellate una ad una, si trasformano in gustosi gnocchi. Così i fagioli giallorini, la farina di granturco ottofile servita con il baccalà, il coniglio cucinato alla cacciatora (da queste parti dicono in umido), la caciotta della Garfagnana cotto al forno. Franca offre agli avventori le paste fritte, Gleb, un russo arrivato da pochi anni, porta il formaggio di capra. Ai funghi pensa Modesto Mancini, esperto micologo, che ha casa a 50 metri dal rifugio. Basilio Cinquini, detto Enciclopedia, cuoco in pensione, intrattiene i clienti con aneddoti su piatti e paese. E a servire a tavola, pensa… il sindaco. È una bella storia di resilienza quella che viene da Trassilico, antico borgo della lucchesia. Alla sommità del paese – 720 metri sul livello del mare – i ruderi di una rocca con vista mozzafiato su due panie (la Pania della Croce e la Pania Secca) e sul monte Forato, dal cui foro, nei giorni intorno a San Martino e alla Candelora, si vede scendere il sole al tramonto, spettacolo nello spettacolo. «Quella rocca – ricostruiscono Pietro Rocchi e Italo Pierotti, due storici del paese – esisteva già ai tempi dei longobardi, poi fu presidiata dai lucchesi, infine dagli estensi di Modena». Fu smembrata e molti dei suoi pezzi furono venduti, anche ai paesani. Nella rocca abitavano il castellano, gli armigeri e il notaro. A due passi, nella «casa del capitano» – nel 1661 – nacque lo scienziato Antonio Vallisneri, figlio del podestà Lorenzo.. Ed è intitolata proprio a Vallisneri la via principale che taglia il borgo. Oggi i residenti a Trassilico sono 72. Erano assai di più, nel 1947, quando fu declassato da sede di comune a semplice frazione prima di Fabbriche di Vallico e poi di Gallicano. La frazione ha quattro chiese (la parrocchiale è intitolata ai santi Pietro e Paolo e, secondo la tradizione, è delle cento chiese costruite dalla contessa Matilde di Canossa). Ma il prete – don Fiorenzo Toti, pievano di Gallicano - qui celebra una sola volta al mese, delegando per le altre domeniche il diacono o un lettore. L’ultima campanella alla scuola elementare ha suonato nel 1983. Lo può testimoniare l’ultima maestra del paese, Sandra Rebechi. Nonni tanti, bambini pochi. Il fiocco rosa più recente risale a due anni fa, quando nacque Luna, figlia di una coppia italo-austriaca. Suo fratello, Noah, è del 2021. Prima di loro: Geremia, ha già nove anni, Emili nove, suo fratello Valerio undici. Quando, dodici anni fa, nacque Tommaso, Mario Mastromarino, un imprenditore pisano che a Trassilico ha la seconda casa, piantò un leccio beneaugurante. Sotto un arco di una casa abbandonata, troviamo l’immagine di sant’Anna. La vecchia proprietaria, non restando incinta, aveva chiesto la grazia: ottenutala, fece mettere l'effigie in modo che tutte le donne desiderose di maternità o partorienti potessero visitarla. L’ufficio postale ha chiuso nel 2001. Uno degli ultimi portalettere, Canzio Galanti, dopo la pensione si è dedicato alla falegnameria. Ha fatto le porte per mezzo borgo. Ora ha 95 anni. A Trassilico c’erano una macelleria, una pensione con ristorante, un paio di negozi di generi alimentari. Tutti chiusi. Anche Natale Rebechi ne teneva uno sotto casa. A luglio Natale festeggerà 101 anni. L’unico luogo pubblico rimasto è il rifugio “La Mestà”. Il nome richiama un’antica nicchia contenente una Maestà che si trovava sulle mura del castello, dov’è oggi la chiesa di San Rocco. Quattro camere per un totale di 8 posti letto (con un bagno in comune), un ristorante ed un bar. La sua gestione fu presa, anni fa, da Andrea Trolese, venuto con la moglie da Desenzano sul Garda a bordo della loro Panda: e subito rimasto «folgorato» da questo paese. Prese casa. Costituì una cooperativa. Cominciò a produrre vino e marmellate. Poi Trolese ha avuto una nuova opportunità di lavoro: è volato a Dubai e, per il rifugio, le cose si sono messe male. Il socio Luca Emilio ha chiesto aiuto all’associazione paesana. Insieme hanno bussato alla porta del sindaco di Gallicano, David Saisi, sempre attento alle esigenze della frazione. «Sapevano che prima di fare il sindaco gestivo una casa vacanze e un ristorante – racconta ad Avvenire –. Mi hanno chiesto di entrare nella cooperativa, che altrimenti avrebbe potuto chiudere. Non ho saputo dire di no». Fuori dagli impegni istituzionali, ecco allora il primo cittadino salire su fino alla frazione, infilarsi nel rifugio, raccogliere prenotazioni, preparare le camere. E, all’occorrenza, servire il caffè, portare i piatti a tavola, pulire il locale. Curiosità e sorpresa tra gli avventori: «Non è da tutti farsi servire dal sindaco». «La Mestà» ha ripreso vita. I trassilichini respirano. «Nessuna intenzione di mollare» dicono Stefano Franchi presidente dell’associazione paesana e la sua vice Manuela Bonetti. Che invitano tutti già da adesso alla prossima festa patronale di san Pietro e Paolo il 29 di giugno. E alla XX edizione della sagra del pane e il biroldo, salume tipico della lucchesia, in programma ad agosto a cavallo della festa dell’Assunta.
Dimentica Santorini: in Italia c’è una città identica che costa la metà
La Grecia è da sempre uno dei sogni estivi per eccellenza: casette bianche a picco sul mare, cupole blu che si stagliano contro il cielo e tramonti infuocatida guardare con un bicchiere di vino in mano. Santorini, in particolare, incanta ogni anno migliaia di viaggiatori con il suo fascino da cartolina. Ma non è tutto oro quello che luccica: raggiungerla non è sempre semplice, soprattutto durante l’alta stagione. I voli direttiscarseggiano o hanno prezzi esorbitanti, e una volta arrivati bisogna fare i conti con un costo della vita non proprio amichevole. Ristoranti, hotel, noleggi: tutto tende ad avere tariffe dadestinazione vip.
Ma se ti dicessimo che esiste una località italiana che le somiglia incredibilmente, dove è possibile spendere la metà? Una città dove il bianco abbagliante delle case si mescola al blu del cielo, i vicoli profumano di fiori e cucina mediterranea, e la vista regala scorci che non hanno nulla da invidiare alle isole Cicladi. Unameta perfetta per chi cerca l’atmosfera di Santorini senza dover prendere un volo internazionale, fare scali o rinunciare a metà del budget in una sola settimana. No, non è un sogno: è molto più vicino di quanto pensi. Sembra una piccola isola greca ma è un bellissimo angolo d’Italia La “Santorini italiana” esiste davvero, e si trova nel cuore della Puglia: è Ostuni, la splendida “Città Bianca” che si erge su tre colli affacciati sulla Valle d’Itria e sul mare Adriatico. A renderla così simile all’iconica isola greca sono proprio le sue case, interamente tinte di calce bianca, che riflettono la luce del sole e creano un effetto quasi abbagliante, soprattutto al tramonto. I vicoli stretti e sinuosi, le scalinate e le terrazze con vista sul blu del cielo e del mare: tutto ricorda le atmosfere delle Cicladi, ma con un’anima autenticamente italiana.stuni non è solo bella da vedere: è anche una meta accessibile. I voli per la Puglia sono generalmente più economici, e una volta arrivati si può scegliere tra b&b caratteristici, masserie immerse negli ulivi e appartamenti con vista a prezzi decisamente più contenuti rispetto a quelli di Santorini. Per non parlare dei treni che, soprattutto per chi risiede lungo la costa adriatica, consentono di raggiungere la città senza problemi. In breve: Ostuni è la scelta perfetta per chi sogna una vacanza mediterranea da sogno, ma senza spendere una fortuna. E magari, sorseggiando un bicchiere di Primitivo al tramonto, ti verrà da chiederti: ma davvero non siamo in Grecia?
La scomparsa , come ho già scritto nel titolo , di Sebastião Salgado, fotografo di fama mondiale,
segna una grande perdita per il mondo della fotografia e della cultura .
Salgado era noto per il suo lavoro documentaristico, in particolare per le sue potenti immagini in bianco e nero che raccontavano storie umane e sociali .
La sua eredità vivrà attraverso le sue opere, che continueranno a ispirare generazioni di fotografi e appassionati d'arte . un ottimo fotografo . viidi per la prima volta le sue foto e conobbi la sua storia e la sua tecnica fotografica al corso organizzato all'associazione fotografica la sardegna vista
da vicino - Seguitata prima dal diìocumentario il sale della terra e poi dalla mostra sul suo lavoro genis tenutasi al palazzo diucale di genova nel lontano 2016 . Nelle sue opere e nella sua attività sono state frutto di uno sguardo appassionato, teso a sottolineare la necessità di salvaguardare il nostro pianeta, di cambiare il nostro stile di vita, di assumere nuovi comportamenti più rispettosi della natura e di quanto ci circonda, di conquistare una nuova armonia. Un viaggio alle origini del mondo per preservare il suo futuro.La mostra di Genesi che visitai a Genova è nata da quello che ricordo della lettura dell panello espositivo da un viaggio alla scoperta della bellezza nei luoghi più remoti del Pianeta, durato 8 anni e il frutto di questa curiosità sono le oltre 200 fotografie esposte in mostra, opere d’arte che ci raccontano con sguardo straordinario ed emozionante luoghi che vanno dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia.
Ha descritto Il mondo come era, il mondo come è. La terra come risorsa magnifica da contemplare, conoscere, amare. Questo è lo scopo e il valore del suo straordinario progetto . Confermo quanto ho detto da qualche parte su quyesto blog : << E' come trovarsi in quei luoghi e con quella persone ed animali che lui ha fotografato . Egli è riuscito a bloccare il mondo e la sua diversità prima della sua distruzione e della scomparsa >> . Un uomo d'immensa generosità . Infatti , sono cose che capitano una volta su un milione nella vita , egli ha regalato gratuitamente 100 foto per inaugurare il locale . « Sono Salgado, so che mi state cercando. Cosa posso fare per voi?». È iniziata così la telefonata con cui uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi ha regalato a tre giovani un sogno impossibile: esporre nel nascituro caffè letterario Binario 49 di Reggio Emilia 100 foto tratte da una sua retrospettiva che racchiude 30 anni di reportage realizzati nell’Africa sub-sahariana. Scatti mai visti prima in Italia, che immortalano gli effetti devastanti di guerre, carestie, malattie e deforestazioni.
Tematiche molto care a Salgado, che ha preso a cuore il progetto di Claudio Melioli, Khadija Lamami e **Alessandro Patroncini **di creare un incubatore di economia solidale in un quartiere - quello della stazione di Reggio - da sempre zona franca; un guazzabuglio di emarginazione e disillusione in cui gravitano balordi, pusher e giovani extracomunitari senza identità e futuro.
«Quando ho visto la chiamata da Parigi non capivo chi fosse» ci ha raccontato Claudio. «Salgado si è presentato e ci ha chiesto di spiegargli il nostro progetto. È nata subito una buona energia. Siamo rimasti in contatto e, quando eravamo a buon punto per l’inaugurazione del Binario 49, ci siamo risentiti. E ora eccoci qui, pronti per la mostra, che si chiamerà Africa, e si è tenuta dal 9 febbraio al 24 marzo del 2019 ».Dopo 10 anni da ricercatore astrofisico all’Università di San Paolo, Claudio Melioli è tornato in Italia, nella sua città natale, con tanta voglia di fare. Poco più di un anno fa ha deciso di partecipare a un bando pubblico indetto dal Comune di Reggio per la bonifica e riqualificazione degli spazi abbandonati al 49 di via Turri, coinvolgendo l’associazione «Casa d’altri». È così che ha conosciuto Kadija Lamami, marocchina di origini e italiana d’adozione: «Il nostro obiettivo era quello di rigenerare uno ambiente urbano e creare reti sociali. Arrivati qui abbiamo rimesso in piedi tutto, usando per gli arredi vecchie strumentazioni delle ferrovie regalateci dalla Regione Emilia-Romagna. Volevamo sanare un quartiere dalla pessima reputazione e fare in modo che l’integrazione arrivasse anche in periferia». ...... continua su : Se il più grande fotografo di viaggi ti regala 100 foto per inaugrare il locale di Vanity Fair Italia
di cui riporto qui sotto il loro comunicato sutale evento
Si è spento il cuore di una delle prime persone che ha creduto, dopo di noi, in Binario e nel quartiere stazione.Binario49 non sarebbe questo luogo se non fosse iniziato tutto da questa idea folle di portare la sua bellezza, i suoi occhi e la sua passione, a Reggio Emilia. Non possiamo che ringraziare infinitamente oggi, come allora, Salgado e tutta la sua famiglia.Oggi è una giornata doppiamente brutta per questo mondo.