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10.7.24

Una busta col pane appena uscito dal forno, offerto dalla panettiera alla nuova residente. È bastato questo per rendere indimenticabile il trasloco a Nuraminis di Emanuela Porcu, bibliotecaria originaria di Ussana, e del compagno Renato.

   da  l'unione  sarda    dei  giorni  scorsi  



Una busta col pane appena uscito dal forno, offerto dalla panettiera alla nuova residente. È bastato questo per rendere indimenticabile il trasloco a Nuraminis di Emanuela Porcu, bibliotecaria originaria di Ussana, e del compagno Renato. «Il sogno», per dirla con le parole di Porcu, «di abitare finalmente in una casa campidanese in ladiri» ha così acquisito il valore aggiunto dello specialissimo benvenuto racchiuso nella busta che Valentina Vargiu, questo il nome della panettiera dal cuore gentile, ha chiuso con un nastro di raso bianco e mezza dozzina di spighe di grano maturo. Dentro: un pane casereccio di semola, un pane integrale e un coccoi, che sono diventati il segno dell’accoglienza e dell’ospitalità di Nuraminis da parte di una donna, la panettiera, che non è di Nuraminis, ma che nuraminese si sente almeno per metà, vista la lunga abitazione del marito Giuseppe Caboni. Fornaio, quest’ultimo, dalla testa ai piedi e rampollo di Ottavio, il padre scomparso qualche anno fa, che ha tirato su una famiglia di panificatori e che a Nuraminis ha vissuto in passato per decenni.«È vero», conferma la fornaia gentile, “mio marito Giuseppe si sente nuraminese ed è devotissimo a San Lussorio, il santo di Nuraminis. Io invece sono di Villasor ma a Nuraminis sono stata accolta molto bene. Donando il pane alla signora non sento di avere fatto nulla di particolare ma solo dato ascolto a quanto mi diceva il cuore in quel momento». Un cuore generoso dato che il rito del pane di benvenuto alla bibliotecaria di Ussana non è stato il primo. «Una donna, molto distinta, mi ha confidato che per la notte era stata la prima in cui avevano dormito nella nuova casa, a Nuraminis», racconta la fornaia che ancora, in quattro e quattr’otto, confeziona la busta col pane con e le spighe di grano («Le conservo sempre nello scaffale perché sono il simbolo di prosperità e di buon auspicio») e lo dona alla donna.Un gesto che sorprende Porcu. «Ma sta scherzando?», è stata la reazione istintiva al dono, al gesto, parole sue, «per nulla scontato». «Da pochi giorni sono residente a Nuraminis. Ho realizzato il sogno di abitare in una casa campidanese in ladiri. Una vita nuova, con la mia famiglia, per la prima volta sono entrata in una delle attività economiche del paese, la panetteria di Valentina Vargiu che, in segno di benvenuto, mi ha donato il pane. Mi sono emozionata per questo gesto che mi fa capire quanto sia fortunata a vivere in un piccolo centro».

29.5.24

Mesagne: ecco il «Piccolo cinema Ken Loach», a gestirlo ragazzi dagli 11 ai 18 anni. «Qui l'atmosfera dei cineclub»

A Mesagne (Misciàgni in dialetto salentino) un comune italiano di 26 120 abitanti della provincia di Brindisi in Puglia , privo di cinema capita che nasca er opera di ragazzi adolescienti un cinema . La sala la prima in Italia dedicata al grande autore britannico ed è nata (con il sostegno del Comune) da
associazione Blue Desk e Meff School Lab i cui fondatori nel comune in provincia di Brindisi hanno portato il Messapia Film Festival. Obiettivo: diventare punto di aggregazione . A dare vita al progetto i fondatori del «Messapica Film Festival», di cui il regista inglese è membro onorario. Ai giovanissimi che hanno partecipato al programma «Meff School Lab» la responsabilità di occuparsi della sala. Gli ideatori: «Speriamo che il cineasta venga a trovarci a giugno»





Secondo https://lecce.corriere.it/notizie/cultura-e-tempo-libero/ 30 aprile 2024

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È nato a Mesagne il Piccolo cinema Ken Loach, il primo a essere completamente gestito da ragazze e ragazzi dagli 11 ai 18 anni. Così, in un contesto in cui è lo streaming a fare da padrone e le sale cinematografiche hanno un sapore sempre più novecentesco, in provincia di Brindisi si riparte dai più giovani.
Il Piccolo cinema Ken Loach è dedicato al grande cineasta inglese, che, tra l'altro, è membro del comitato d’onore del Messapica Film Festival, sempre a Mesagne e organizzato dagli stessi fondatori del nuovo cinema, Floriana Pinto e Simone Amendola, ideatori dell’associazione culturale Blue Desk. La sala appena inaugurata, infatti, è il risultato di uno dei progetti di formazione al linguaggio audiovisivo che Blue Desk propone da 15 anni in tutta Italia. Il Piccolo cinema Ken Loach è frutto del Meff School Lab, programma educativo del Messapica Film Festival per l’alfabetizzazione al linguaggio cinematografico nelle scuole, già finanziato nella scorsa edizione del Piano Nazionale Cinema e Immagini per la scuola attraverso il bando indirizzato ai progetti di rilevanza territoriale.
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 Insomma, i ragazzi, dopo aver studiato «la grammatica del cinema», sono diventati loro i gestori della struttura, dalla cura della sala alla scelta della programmazione. E il primo appuntamento ha già registrato il sold out. « Per la città di Mesagne è un grande passo – spiega Floriana Pinto sempre  sul  corriere   -. I ragazzi stessi sottolineano che non si tratta di una sala cinematografica commerciale, ma di un cinema che ricorda i cineclub, in cui la gente si ritrova anche per rivedere film che hanno fatto la storia del cinema. E tutte le proiezioni saranno gratuite ».
Così, teenager ripropongono un modello di cinema inclusivo: «Questa condivisione collettiva non è scontata - continua -. Questa modalità ricrea l’origine del cinema, cioè il culto di guardare i film insieme». Sono proprio gli adolescenti a essere protagonisti e a trascinare coetanei e adulti nella sala in piazza Commestibili, per una nuova proposta culturale e aggregativa che non conosce limiti di età.
E, nel frattempo, gestori e cittadini hanno invitato Ken Loach alla sesta edizione del Meff in programma dal 22 al 28 luglio, per ricreare simbolicamente il taglio del nastro del piccolo cinema a lui dedicato: «Abbiamo inviato al regista un video in cui mandiamo anche un messaggio di speranza, ricreando una grande tavolata come lui fa nel suo ultimo film, che porta il messaggio: “Se mangiamo insieme restiamo uniti” - conclude -. Non a caso, la sala è dedicata a Ken Loach perché ci si ispira ai valori del suo cinema, dall’uguaglianza all’attenzione ai più deboli».

24.9.23

La sfida di restare di mario caabresi

canzone  consigliata 
Paese mio che stai sulla collina...

Si racconta spesso di chi lascia la città per fuggire nella natura. Ma la storia più comune (e meno romantica ) è quella dei piccoli borghi da cui i giovani vanno via. Un fenomeno di spopolamento che continua da un secolo e sembra inesorabile. Ma in alcuni borghi ad esempio a Calascio, in Abruzzo, è nato un progetto per dare un futuro ai ragazzi, per non farli partire. E così sono ricominciati anche a nascere i bambini.

    DA   https://mariocalabresi.com/



Un secolo fa a Santo Stefano di Sessanio vivevano novecento persone, poi è cominciata l’emigrazione verso Belgio e Francia e oggi ci abitano in settanta. A Calascio erano quasi duemila, trent’anni fa resistevano in duecentocinquanta, ora sono rimasti in ottanta. Da qui sono partiti verso Stati Uniti e Canada. Siamo in Abruzzo, a 1.200 metri sul livello del mare, sotto l’altopiano di Campo Imperatore, nel cuore del massiccio del Gran Sasso. Lo spopolamento maggiore è cominciato negli anni Cinquanta e non si è mai fermato. Per secoli gli abitanti di questi luoghi sono stati pastori, vendevano la lana e facevano il formaggio, e agricoltori, lenticchie soprattutto. Poi il loro mondo è finito e se ne sono andati. I paesi sono diventati dei fantasmi silenziosi. In questi anni abbiamo letto e ascoltato storie di persone coraggiose – coppie giovani, qualche straniero, adulti stanchi di un’esistenza dai ritmi insostenibili – che hanno lasciato le città dove sono nati, per andare a vivere in montagna. Storie nobili, ma non fenomeni diffusi, non una risposta alla domanda vera: perché non esiste la possibilità di restare?
Uno scorcio del paesaggio rurale tra Santo Stefano di Sessanio e Calascio (AQ)

Pensavo che non ci fosse una risposta a questa domanda, ma mentre camminavo in quello che il grande antropologo e esploratore Fosco Maraini aveva ribattezzato “Il piccolo Tibet”, sono inciampato in qualcosa che somiglia a una ricetta, che contiene gli ingredienti per un tentativo di soluzione.
Partiamo dall’inizio, quest’estate volevo fare un viaggio di scoperta, in cui camminare nella natura e conoscere posti nuovi, sognavo l’Islanda, poi ho pensato che, a essere onesti, c’era ancora un pezzo d’Italia che non conoscevo bene: le aree interne, quella dorsale appenninica che dall’Abruzzo arriva in Calabria, passando per il Molise e la Basilicata.
Un’ “Italia vuota” per usare il titolo di un bel libro scritto da Filippo Tantillo.
Così mi sono comprato una cartina e sono partito. È stata un’esperienza meravigliosa, ho negli occhi panorami e luoghi che non immaginavo e mi sono portato a casa incontri indimenticabili. Impensabile fare l’elenco, ho fatto 18 tappe e percorso 1.600 chilometri, vi suggerisco solo l’Abbazia di Bominaco, con un ciclo di affreschi del tredicesimo secolo; la città romana di Sepino; le piccole Dolomiti lucane a Castelmezzano; i calanchi di Aliano – il paese della Basilicata in cui venne mandato al confino dal Fascismo il pittore Carlo Levi, che ci ambientò il suo romanzo: Cristo si è fermato a Eboli – un paesaggio a metà tra la Cappadocia e le rocce dell’Arizona, dove ho partecipato a un festival immaginifico organizzato dal poeta Franco Arminio.
Gli affreschi dell’Abbazia di Bominaco
Il parco archeologico di SepinoIl Comune di Castelmezzano, in provincia di Potenza
Uno scatto dal festival “La Luna e i Calanchi” di Aliano, giunto quest’anno alla tredicesima edizione. La direzione artistica del festival è del poeta Franco Arminio

In Abruzzo, la regione che mi ha stupito di più per l’estensione dei boschi e dei paesaggi, ho fatto alcuni cammini con Lorenzo Baldi, una guida di Roma che vive a Calascio da quasi trent’anni. Mentre salivamo in una lunga vallata per raggiungere Rocca Calascio (in due ore non abbiamo incontrato nessuno tranne due caprioli maschi che combattevano per il controllo del territorio) mi sono fatto raccontare la storia di quella terra. Ho provato a immaginare quale potesse essere il panorama nel Cinquecento, quando in quest’area c’erano centomila pecore, e per controllare nemici e pericoli alla torre centrale quadrata di epoca normanna ne vennero aggiunte altre quattro e una cinta muraria.

Rocca Calascio, dove ambientarono parte del film Ladyhawke con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer, aveva visto andare via il suo ultimo abitante nel 1956 e non aveva più avuto una luce accesa finché un romano non decise di ristrutturare un rudere per le vacanze, che nel 1992 diventò il luogo dove restare e mettere su famiglia. «Quel pazzo romano – mi ha raccontato Lorenzo – si chiama Paolo ed è mio fratello. Ha fatto la scommessa di poter vivere di turismo. Ha sistemato un altro rudere e lo ha trasformato in un rifugio con una camerata con i letti a castello, poi da una vecchia casa ha tirato fuori tre camere e così, piano piano, è nato un piccolo albergo diffuso. Oggi Rocca Calascio ha sette abitanti: mio fratello, sua moglie e i loro cinque figli».



La rocca di Calascio e uno scorcio dal paesaggio che si può osservare dal suo interno

Lorenzo è arrivato nel ‘94, dopo aver fatto l’alpino a L’Aquila e aver preso il brevetto come pilota di aerei, ma senza riuscire ad essere assunto dall’Alitalia. Così ha iniziato a lavorare in montagna, facendo un progetto di ripristino e manutenzione delle antiche mulattiere (quelle che mi ha fatto percorrere). Con il tempo ha gestito un piccolo rifugio a Campo Imperatore, sulle piste dello sci di fondo, e poi ha cominciato ad accompagnare i turisti in montagna e nei boschi. «In questi anni mi ha salvato l’inglese, sono stati gli stranieri i primi a capire questi territori, e la cosa più bella che faccio è la salita in cima al Corno Grande nelle notti di luna piena per vedere l’Adriatico all’alba». Anche lui si è sposato e vive con due figli nel paese di Calascio (poco a valle della Rocca).
Il più grande cruccio di Paolo e Lorenzo era quello di dare un futuro a quei figli nati in un posto dove non nasceva più nessuno, di non vederli obbligati ad andarsene come accade da un secolo. Così nel 2020 hanno fatto nascere una Cooperativa di comunità (un modello di innovazione sociale che nasce per creare lavoro nei piccoli borghi e frenare lo spopolamento) che si chiama “Vivi Calascio”.I ragazzi della cooperativa “Vivi Calascio”, fondata da Paolo e Lorenzo Baldi nel 2020

È nata nel momento in cui c’è stato un aumento del turismo e sono cresciute le necessità dell’accoglienza. «In questa cooperativa adesso ci lavorano 14 persone dai 16 ai 30 anni per sei mesi all’anno. Alla metà di loro riusciamo a garantire il contratto tutto l’anno. Fanno accoglienza turistica, gestione dei bus navetta, biglietteria, servizio informazioni, gestiscono il parcheggio delle auto, la torre di Rocca Calascio e il negozio di souvenir. Abbiamo reinvestito i primi utili comprando 20 biciclette elettriche e formando i ragazzi come guide cicloturistiche».
Il problema però è l’inverno, allora la cooperativa ha cominciato a lavorare anche nella cura del verde pubblico, nelle manutenzioni comunali e dei sentieri e nella pulizia dalla neve: «Per tenere le persone a vivere qui bisogna dargli uno stipendio tutti i mesi: questa la nostra sfida e ce la faremo». Una delle ragazze della cooperativa si è sposata e ha due bambini piccoli: la prima nuova famiglia nata qui.Il Battistero di Santa Maria della Pietà visto dalla Rocca di Calascio

Ma ora, grazie anche ai fondi del PNRR, a Calascio pensano ancora più in grande: vogliono aprire un ostello, un campeggio, un rifugio in montagna e una scuola di pastorizia. Oggi ogni turista che si ferma qui vorrebbe provare il pecorino locale e nella testa di questi due fratelli e di queste ragazze e ragazzi c’è la speranza che questi immensi prati tornino anche ad essere dei pascoli (per la gioia dei lupi…).


13.3.22

I cercatori di luoghi abbandonati: viaggio con gli esploratori urbani che visitano l'Italia dimenticata



"Prendi solo fotografie e lascia solo impronte". La frase che ai più può sembrare senza logica

per gli urbexer di tutta Italia è come un vero e proprio mantra: "Vuol dire che il luogo deve essere amato e rispettato e nulla va toccato o portato via".

Questo  è quello    che    fanno  gli autori  di   https://ascosilasciti.com/it/

In sintesi da   https://ascosilasciti.com/it/chi-siamo/




ASCOSI LASCITI, IN “PAROLE POVERE”

Il progetto Ascosi Lasciti nasce nel 2010, dall’occhio del regista ed autore TV Alessandro Tesei (fondatore). Il suo tema principale è l’abbandono di infrastrutture, trattato in tutti gli aspetti. Si sviluppa grazie al lavoro di squadra di un team ramificato sul territorio, coordinato da Davide Calloni (amministratore), e prende la sua forma finale grazie alla sinergia tra gli esperti web di Passionlab e Subwaylab. Nel 2020 il progetto si fa associazione culturale grazie all’impegno di Cristiano La Mantia (presidente) e dei soci fondatori (E. Bai, M. Montaperto, L. Licciardi et al.). A capo della parte editoriale, i due redattori (F. Coppari, G. Imburgia) che si avvalgono del supporto di un gruppo di reviewers.
Le pagine “social” del progetto sono tra le più seguite in Italia ed in Europa su questo tema. I responsabili (M. D’odorico, L. Rosa, M. De Leonibus, V. Genco e A.Ciampalini et al.) ne curano quotidianamente i contenuti fotografici e divulgativi.
Tra gli autori più attivi spiccano i nomi, in ordine di maggior apporto, di J. Della Giacoma, V. Fanelli, E. Macchiavelli, C. Catinello, C. Goffi.; senza contare la preziosissima collaborazione con i gruppi nazionali di Tesori Abbandonati, PLAI, tra i più seguiti in Italia, e i gruppi territoriali più attivi di Derive Suburbane, Obiettivo Uno, Liotrum e Ascosi Lasciti Marche.
Il collante di un gruppo così numeroso? L’amore per l’urbex (esplorazione urbana), volta alla riscoperta di luoghi dimenticati.

Il Team Di “Ascosi Lasciti“..
Qui Trovate La Nostra Pagina INSTAGRAM…
…E Qui La Pagina FACEBOOK
PER CONTATTARCI : info@ascosilasciti.com



 "Non si tratta solo di fare l'intruso in un mondo che non possiamo più vedere - raccontano esploratori urbani esperti - Ma è anche riportare in vita attraverso fotografie quei posti che ormai sono stati dimenticati da tutti".
Negli ultimi anni in Italia sono nati sempre più gruppi urbex con l'intento di documentare tutti quei posti abbandonati che ci sono nel nostro paese. Tra i primi a portare avanti questa professione c'è ascosi lasciti: un progetto nato per "condividere le esplorazioni e le storie dei più suggestivi luoghi nascosti in Italia e nel mondo - raccontano gli autori - Oltre i luoghi abbandonati, vogliamo documentare attraverso i nostri reportage ciò che ruota attorno alle città fantasma, i relitti e i sotterranei. L'intento è quello di prendere coscienza dell'immenso patrimonio immobiliare sommerso ma anche quello di raccontare aneddoti e di informare

22.10.21

il cibo ed i prodotti locali posso essere l'incipit contro lo spopolamento dei piccoli borghi . il caso fare la festa" alle mele dell’Appenino. di Castel del Giudice, [ Isernia ]

Cazzeggiando in rete e cercano storie \ fatti curiosi per il blog ho appreso che  : Sabato 9 e domenica 10 ottobre i coltivatori di mele e prodotti bio di Abruzzo e Alto Molise si sono ritrovati a Castel del Giudice, un comune italiano di 311 abitanti della provincia di Isernia, in Molise. Fino al 1790 il suo territorio era ancora parte integrante dell' Abruzzo Citeriore secondo quanto risulta dalle Carte della Calcografia Camerale e di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, per "fare la festa" alle mele dell’Appenino.


 Oltre a degustazioni, visite guidate ai meleti e al birrificio agricolo, escursioni nella natura a piedi e in e-bike, esperienze a contatto con le api per grandi e piccoli, raccolta delle mele 



e delle patate viola, c'era  in programma anche l'esposizione fotografica itinerante a cura del fotografo Emanuele Scocchera, spettacoli di divertenti buskers, street band e laboratori.
Tale  manifestazione    è stata un’occasione unica per scoprire il simbolo della rinascita di un borgo che vuole contrastare lo spopolamento delle aree interne dell’Appennino. 

Parliamo della mela di Castel del Giudice, paese dell’Alto Molise ad 800 metri di altitudine al confine con l’Abruzzo, ad un passo da Castel di Sangro Roccaraso. Qui i filari di mele, che si differenziano per eclettiche varietà, occupano circa 50 ettari di superficie. Un tempo in stato di abbandono ed esposti a rischio idrogeologico, questi terreni sono stati recuperati grazie ad un progetto pubblico-privato che ha visto in prima linea il comune e alcuni imprenditori locali.
<< In particolare >>  da quel che siu egge  su  repubblica  del 8\10\2021    l'evento è    <<  nato nel 2003 riqualificando circa 20 ettari di meleti con l’idea di coltivare nel rispetto della biodiversità del territorio, il meleto biologico Melise è diventato motivo di sviluppo per quest’area di montagna a rischio spopolamento. Promosso dall’agronomo Michele Tanno e dalla sua associazione Arca Sannita, il “Giardino delle mele antiche” custodisce, a sua volta, circa 60 varietà di mele dell’Appennino molisano-abruzzese che rischiavano l’estinzione. Tra queste, mele dalle cultivar resistenti alla ticchiolatura, ideali per la montagna. Come la Limoncella, la più antica del meleto, o la Zitella, dal sapore dolce e dal colore giallo con sfumature rosa. Autoctona è anche la Gelata, caratterizzata da alcune parti vetrose, e la Tinella, molto piccola e piatta con la facciata rosa. Oltre alle autoctone, c’è la mela Florina, dal colore rosso, e la Dolorina, dalla forma più allungata e dal colore rosso brillante. Poi ci sono ancora la Primiera, le Golden LasaGolden DelicusGolden OrangeGala SansaGala Galaxi, Fuji kukuRedChiefRed Canada Renette Canada.>>

23.6.21

anche con la birra si può fare del bene e creare lavoro il caso della birra del "Il progetto Cacciatori di briciole e della birra messina

da repubblica del 23\6\201 e dalla pagina https://www.repubblica.it/il-gusto/argomenti/Le_storie c'è ancora chi resiste al calo dei consumi e alle pressioni delle multinazionali \ colossi esteri che dopo aver iniziato a fare acquisti in italia con le Peroni e le Ichnusa. 




Poi hanno puntato ad acquisire quelle artigianali. Vista la resistenza italiana ora cambiano strategia. E si travestono

repubblica  del  23\6\2021

Cacciatori di briciole: una birra buona capace di fare del bene


Nata dall'associazione Volontarius di Bolzano, viene prodotta da pane nero altoatesino riciclato e i proventi delle vendite vanno a finanziare i servizi a finanziare i progetti del gruppo di volontari

Un gruppo di persone e una vocazione, quella di aiutare gli altri. Una vocazione che non permette di stare fermi, con le mani in mano, di chiudere gli occhi davanti alle difficoltà del mondo e che porta sempre a nuovi passi, nuovi progetti, nuovi tentativi di cambiare le cose. "Il progetto Cacciatori di briciole è nato così, da un'idea, dalla
voglia di continuare ad aiutare e a fare di più, magari uscendo dalle nostre bellissime montagne per andare ancora oltre". A parlare sono Christian Bacci e Irene Gillio Meina, Vicepresidente dell'Associazione Volontarius di Bolzano lui ed entrambi referenti del progetto che, prendendo spunto dalla raccolta e redistribuzione quotidiana che l'associazione attua di cibo (che altrimenti andrebbe buttato) presso i meno abbienti, ha portato alla creazione di una birra che fosse allo stesso tempo antispreco e solidale. Perché tutti i proventi della vendita della birra andranno a finanziare le attività dell'associazione. Un doppio goal, che è uffialmente partito e arrivato nei mercati il 4 giugno 2021, dopo una piccola conferenza stampa che ha già fatto tanto rumore. 
La loro Cacciatori di briciole prende la sua forza dal pane, quello riciclato e donato a Volontarius (che opera sul territorio altoatesino dalla fine degli anni '90) "da un'azienda che vuole restare anonima. La beneficenza come pubblicità non gli interessa" sottolina Bacci, "ha a cuore solo la possibilità di aiutare chi ne ha bisogno" ed è nata grazie alla visione di un documentario. "Abbiamo scoperto così, per caso, che la birra veniva prodotta già ai tempi dei Sumeri con il pane, principalmente da una farina mista di orzo e farro; il prodotto veniva fatto macerare con l'acqua e si trasformava poi in una bevanda considerata una proto birra. Avendo già dei contatti con un birrificio locale gli abbiamo presentato", nel mese di febbraio 2021 l'idea. "Ovvero di utilizzare un prodotto estremamente territoriale, il pane nero altoatesino, per una birra. Il birrificio (Batzen di Bolzano, uno dei più antichi della città, ndr) ha sposato subito il progetto e le sperimentazioni sono partite immediatamente. Siamo stati fortunati, perché la prima prova era già organoletticamente perfetta". Le bottiglie della prima cotta sono 4200 e sono serviti oltre 50 chili di pane per poterle portare sugli scaffali di botteghe e supermercati, "per ora solamente del nostro territorio, ma dalla prossima produzione contiamo di aumentare i numeri e oltrepassare i nostri confini. Sarebbe un grande successo". 

Christian Bacci e la birra Cacciatori di briciole 

  Una birra, Cacciatori di briciole, che vuole essere un megafono per le attività dell'associazione che da sempre si "occupa di servizi alla persona. In tutto i progetti dell'associazione sono più di 40", ma la birra è strettamente legata all'attività più vecchia di Volontarius. Ovvero quella del riutilizzo e del riclo del cibo avanzato alle attività di ristorazione. "All'inizio giravamo con il camper una volta a settimana e portavamo un panino, un tè e una brioches ai senza tetto della città, del circondario, ma a lungo andare abbiamo visto che tutto questo non bastava più: i soldi che ci venivano erogati erano sempre meno e le persone che ne avevano bisogno sempre di più". Così è nata l'idea di andare a recuperare il cibo mancante, rispetto alle necessità, "da bar e panifici che altrimenti lo avrebbero buttato. Compreso il panificio che oggi ci fornisce anche del necessario per la produzione di Cacciatori di briciole", nome che assume un significato in più quando si va appena appena al di là delle apparenze. Non semplicemente un gioco di parole rispetto all'ingrediente principale, quindi, ma un rimando reale al lavoro che decine di volontari fanno, ogni giorno, sul territorio.

Il tutto grazie, spiega Irene Gillio Meina, "all'ampliamento della Legge Gadda contro lo spreco alimentare. Varata nel 2016 e ampliata nei suoi poteri nel 2019, poco prima dell'avvento del Covid, è una legge unica in Europa, che ha permesso non solo un crollo del volume del cibo sprecato quotidianamente in Italia, ma anche una crescita della consapevolezza" e soprattutto un cambio di mentalità rispetto al concetto consumistico degli acquisti di cibo e dei conseguenti sprechi. "La vera novità è che non agisce tramite sanzioni (come la normativa precedente, ndr), ma attraverso un incentivo che avviene sottoforma di importanti sgravi fiscali e di una sensibile semplificazione burocratica". Una legge che, di fatto, finalizza "all'inclusione sociale il recupero dei beni considerati primari per la vita di un essere umano", dal cibo ai medicinali, passando anche per la cancelleria. "E che di riflesso si sposa alla perfezione con le nostre finalità come Associazione". Ha aiutato infatti, spiegano i volontari, non solo nella realizzazione della birra solidale, ma anche in quella del Briciole Market: "un market in cui abbiamo superato il concetto di pacco solidale, in cui le persone potrebbero ritrovarsi prodotti che per attitudini, necessità o religione non possono utilizzare. Invece diamo ai nostri assistiti dei punti spesa a seconda del reddito familiare, che possono essere spesi come se fossero veri e propri soldi, acquistando dagli scaffali in totale autonomia". Un metodo per aiutare le persone ad avere quello di cui veramente hanno bisogno, che richiede una copertura del territorio di recupero dei beni capillare, permessa appunto "dalla Legge Gadda di cui" sottolinea sorridendo la volontaria, "sono diventata esperta mio malgrado, studiandola per aiutare noi e le aziende che ci aiutano". Una legge, tanti esseri umani di buona volontà e un progetto - fra i tanti - bello e buono, che vuole aiutare in due modi: incamerando soldi da investire in buone pratiche e raccontando queste buone pratiche a chi ne era lontano a causa di questo mondo frenetico, sempre meno solidale. 




La birra a Messina è una storia che risale al 1923, ma quella che rappresentava una tradizione nella storia produttiva della Sicilia rischiava di scomparire nel 2011, quando a causa dei modelli dominanti di economia fu chiuso lo storico stabilimento, ancora oggi dismesso e vandalizzato, con i dipendenti che rimasero senza lavoro. Dopo un anno e mezzo di presidi da parte dei lavoratori e vedendosi negare anche la possibilità di un prestito è intervenuta la Fondazione Comunità di Messina che non solo ha fatto da garante agli ex 15 operai, ma ha attratto importanti investimenti. Nel 2013 nasce così la cooperativa Birrificio Messina, con un nuovo stabilimento dove oggi viene prodotta La birra dello Stretto e la Doc15. A tramandare la ricetta “segreta” sono generazioni di mastri birrai che qui lavorano e hanno combattuto per salvare quella che a Messina è molto più che una tradizione.


22.4.21

Ortueri, tra vitigni e graniti nel borgo che non si arrende allo spopolamento



leggi anche   sempre  di repubblica  


Al centro della Sardegna, nella Barbagia del Mandrolisai, si trova  Ortueri   paese (  unico  dei pochissimi  che  ancora   le mantengono )   con case di pietra e tradizione artigiana di una comunità che si rinnova con un'amministrazione giovane. Sugherete, asinelli e retaggio romano

da  repubblica   del 22\4\2021  per i video   e il resto della  galleria  fotografica lo trovate in qui  
Tra i vigneti e le foreste di sughero e lecci del Mandrolisai, sorge l’antico borgo medievale di Ortueri. Il paese, rinomato in tutta l’isola come la capitale degli estrattori di sughero, preserva con cura i saperi e il saper fare del passato contadino. Tuttora, presenta un ricco tessuto di attività agricole, zootecniche, vitivinicole, enogastronomiche e artigianali.



ORTUERI (Nuoro) - Qui l’azzurro non è quello del mare. La macchia di blu che si attraversa per arrivare a Ortueri, lasciata la strada statale 131 verso Abbasanta, è il fiume Tirso, il più importante della Sardegna. Ha piovuto tanto nei mesi scorsi, come non succedeva da anni, e il fiume è grosso, la strada che, passato Ula Tirso, si inerpica sulle colline della Barbagia del Mandrolisai si snoda in mezzo a un’esplosione di profumi e colori. La ginestra è già fiorita, il pero selvatico chiazza di bianco la campagna dove si intravvedono le vigne basse che fanno la fortuna di questa zona. Il panorama già vale il viaggio.
In questo giorno luminoso di zona arancione, sembra di entrare in un paese disabitato: il parcheggio semivuoto vicino al comune esibisce con orgoglio una grande fotografia con le maschere tipiche del carnevale, Is Sonaggiaos e S’Urzu, con campanacci e pelli di montone che richiamano le tradizioni agropastorali del borgo. Sonaggiaos e Urzu qui non si lanciano nelle loro forsennate scorribande soltanto a carnevale (a proposito, un carnevale in Barbagia è un’esperienza indimenticabile) ma anche durante la festa di Sant’Antonio Abate, nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, una delle ricorrenze più sentite del paese.
Sa limba de mesanias
Un vicolo stretto tra case di pietra porta al Comune. Per via del Covid la segretaria si affaccia alla finestra bassa per parlare con una signora, il loro botta e risposta è in limba, la lingua sarda, nella variante conosciuta come limba de mesania, cioè “lingua di mezzo”. Maurizio Virdis, docente di linguistica sarda all’università di Cagliari, spiega che nel 2000 si era individuata nella limba de mesania la varietà che potesse rappresentare l’intera Sardegna, poiché ha caratteristiche sia del Sud, sia del Nord dell'isola (Ortueri è una sorta di “ombelico sardo”) e che “La lingua della Carta de Logu, la raccolta di leggi promulgata da Eleonora di Arborea nel 1392, si avvicina a questa variante”. “Oggi - dice ancora il professor Virdis – i parlanti sardo sono sempre meno e c’è una fortissima italianizzazione del lessico:  

tuttavia, se all’inizio della carriera chiedevo ai miei studenti se sapevano parlare il sardo, e in genere erano in grado, si risentivano un po’. Adesso, se lo chiedo la risposta è ‘Purtroppo no’
L'artigianato che diventa azienda
L’aneddoto di Virdis guida a capire la chiave per scoprire il meglio di Ortueri, cioè una radicata appartenenza al territorio, tipica del centro Sardegna, sfruttata con vivacità imprenditoriale. Con fatica, certo: dal 2000 al 2020 il paese ha perso il 25% dei suoi abitanti per invecchiamento o emigrazione, ma a governare i 1074 rimasti, dopo alcuni anni di commissariamento del Comune, ora c’è un sindaco, Francesco Carta, la cui lista Animu Ortueri ha un’età media di 33 anni. La vivacità del borgo la si scopre nella zona artigianale, dove i fratelli Crobu hanno trasformato l’arte di fabbro e ferratore di buoi, asini e cavalli del padre in un’azienda di infissi con 20 dipendenti, showroom a Oristano e Olbia e commesse ovunque. Mostrano uno dei loro lavori, un cancello in ferro con motivi ornamentali




Ortueri, le immagini del borgo, del suo territorio e delle sue tradizioni































Foto di Pierluigi Dessì


grande bellezza, e dicono con orgoglio di lavorare tutto lì, nel capannone, riuscendo a mantenere prezzi competitivi anche se la loro filiera è tutta italiana.
Case di pietra e progetti per il futuro
I graniti, appunto. La bellezza del paese è in questa pietra e nei basalti con cui si costruiscono le case basse, con cortili interni. Qui veniva anche il grande scultore Pinuccio Sciola per farsi intagliare i graniti da scolpire, e la punta di Pedrarba, su cui svetta Sa conca ‘e s’Isteddu, è lì a ricordare quanto è antica questa terra, quanto è vicino, in questa giornata limpida, il massiccio del Gennargentu, con Punta Lamarmora, la vetta più alta della Sardegna, che si scorge all’orizzonte. Sul paese si staglia invece il campanile della chiesa parrocchiale di San Nicolò, di cui dicono con orgoglio: “Con i suoi 38 metri è il secondo più alto della Sardegna, superato soltanto da quello di Mores, alto 47 metri”. Delle origini medievali del borgo resta poco, così come non ci sono significativi resti di epoca nuragica, ma sono molte le testimonianze di una stabile presenza romana. A tre chilometri dall’abitato la necropoli di Pedra Litterada, dove fu ritrovata anche una pietra con dedica agli dei Mani, è emblematica di quanto avvenuto in molti siti romani della Sardegna, saccheggiati per recuperare materiale da costruzione.E infine, la bellezza di questo, come di tanti altri borghi sardi, sta nella sua gente. Non è necessario aspettare le manifestazioni come Cortes apertas tra settembre e ottobre, o Autunno in Barbagia, qui le persone, anche se ti hanno appena conosciuto, ti invitano in casa e ti fanno assaggiare gli asparagi selvatici appena colti e s’ortau, una variante del salsiccione da cuocere, aromatica e profumatissima, mettono in tavola il pane fatto in casa a forma di mezzaluna dicendo con orgoglio che il lievito madre era della nonna e ha più di cento anni di vita. La bellezza sta nella passione con cui i ragazzi dell’amministrazione raccontano che sono tornati dagli studi universitari “in continente” per prendersi cura del borgo e mostrano con orgoglio, all’interno del parco dell’asino sardo di Mui Muscas, le strutture per le quali hanno progetti turistici sostenibili.  E quel “noi”, con cui parlano dei loro progetti, risuona dell’antica cultura comunitaria dei pascoli sardi e di una nuova consapevolezza della ricchezza della loro terra. 


26.3.20

storie d'italia fra corona virus e e spopolamento dei piccoli paesi \ borghi

    da  https://www.valsusaoggi.it/ e     da    del https://torino.repubblica.it/cronaca/ 25\3\2020



VALSUSA, È NATA AURORA MARIA: UNA NUOVA RESIDENTE A MONCENISIO

La piccola Aurora Maria, bimba di Moncenisio
MONCENISIO – “Questa notizia è bella in questo periodo, ma lo sarebbe stata comunque: la bimba è la 40esima residente di Moncenisio, il segno che il paese è vero e vitale”. Con queste parole il sindaco Mauro Carena commenta la nascita della piccola Aurora Maria, venuta al mondo all’ospedale di Rivoli dall’amore di mamma Jonica e papà Enrico. Dopo 7 anni di attesa, Moncenisio ha così una nuova residente. “Il papà è il capo degli antincendio boschivi – aggiunge il sindaco – ed è stato l’ultimo alunno a da andare da solo nella scuola comunale. Questa è una storia di gente che ci crede, e dimostra che qui ci sono radici”.E’ una bella notizia la nascita di una nuova bimba della Valsusa, ma soprattutto per il piccolo villaggio di Moncenisio. Un raggio di sole in mezzo a queste giornate di difficili, che ci fa capire ancora una volta che la vita vince sempre e che la speranza a volte ha gli occhi bellissimi, proprio come quelli di Aurora Maria

Nel secondo paese più piccolo d'Italia nasce una bimba dopo sette anni: Aurora
con la  madre 
Aurora Maria pesa tre chili e mezzo ed è il raggio di luce che ha illuminato Moncenisio, il secondo più piccolo comune d'Italia, al confine della Francia che, dato Istat 2019, prima della sua nascita registrava 39 abitanti. E da sette anni non vedeva nascere un bambino. Aurora, per molti un simbolo di speranza in un un momento difficile in cui tutto il Paese sta combattendo l'emergenza Coronavirus, è nata martedì notte, intorno alle 2, nel giorno del 37esimo compleanno di suo padre Enrico. "È stato il mio regalo", dice sorridendo. È venuta alla luce all'ospedale di Rivoli dove la mamma Jonida è stata trasportata (e non a Briancon come da programma proprio le limitazioni degli spostamenti). Il padre ha dovuto attendere a lungo prima di vederla, sta aspettando la sua famiglia a casa, tra la neve a 1.500 metri di quota: hanno già fatto scorte e preparato tutto per l'arrivo di Aurora Maria con la felicità di viversi il momento nonostante la difficoltà di farlo in questi giorni complicati. "È la nostra prima bimba, spero già venerdì di portarla a casa - spiega il padre Enrico Perottino -. Mi hanno fatto entrare in sala parto per poco, poi ho dovuto aspettare fuori. Siamo molto felici"."È una bellissima bambina che rappresenta un avvenimento particolarmente felice per la famiglia e per tutto il nostro paese. Un segno di vitalità di Moncenisio - sottolinea il sindaco Mauro Carena - e una grande gioia in un momento in cui abbiamo ancor più bisogno di raccontare cose belle. Un bel segnale che si inserisce in un progetto che c'è per il nostro Comune, una realtà vera specie oggi dove si sta riscoprendo la natura". Ora la comunità l'aspetta a braccia aperte, vicinanza virtuale perché dovrà attendere ancora a lungo prima di festeggiarla ma la bella notizia ha fatto in poche ore il giro della decina di casa, dando a tutti un segnale di speranza
la seconda  storia   invece  è    tratta  dalla  nuova  sardegna   e   dall'ansa  sardegna  e nazionale  dei  gioirni  scorsi   a  Meana sardo un piccolo paese  all'interno della sardegna    dove   ancora  qualcuno  va   a  cavallo all'asino  . 

Marco Dessì: "Dobbiamo stare attenti, non ho mai visto una cosa così"

8.7.19

non sapevo che giocare in piazza a pallone facesse più male di una base in cui si fanno esercitazioni con armi nucleari ad uranio impoverito. il caso di Perdasdefogu, vietato giocare a pallone in strada: "Pericoloso e disturba"

http://www.lamiasardegna.it/perdasdefogu.htm
http://www.aserramanna.it/2016/09/giocavamo-a-pallone-in-strada-racconto-completo/

le solite cose italiane . dove un pallone disturba, i veleni dei poligoni militari no (  trovate  approfondimenti   nel link sopra  fra  cui  il  bellissimo racconto   di Davide Batzella in cui descrive    come   una  volta  si poteva   giocare in piazza    ) ... tanti complimenti al sindaco per l'originale trovata   come  quello  riportata  sotto   da

 da   https://youtg.net

Perdasdefogu, vietato giocare a pallone in strada: "Pericoloso e disturba"

Pallone-vietato-piazza
PERDASDEFOGU. Vietato giocare a pallone in piazza. A meno che non sia abbiano meno di sei anni, ma solo se accompagnati dai genitori. Perdasdefogu, 1800 anime in Ogliastra, paese dei centenari ma anche, come tanti in Sardegna, malato di spopolamento. Succede che il sindaco Mariano Carta emette un'ordinanza che nega ai pochi bambini rimasti di fare ciò che il 99 per cento dei coetanei ha fatto: portare in strada un pallone e giocare. A quanto pare c'è un problema di ordine pubblico: le partite di piazza hanno scatenato lamentele. Danno fastidio.  Lì, nel tranquillo paese che da 60 anni convive con le esercitazioni militari del poligono interforze. A leggere il testo del documento firmato dal primo cittadino c'è da rimanere spiazzati. In premessa si sottolinea che "al comando di polizia locale sono pervenute e pervengono numerose segnalazioni da parte di cittadini, con la quale si denuncia la pratica diffusa di utilizzare le piazze quale luogo per lo svolgimento di giochi con il pallone e lancio di oggetti che  possono arrecare molestie e disturbi". E questo è sempre successo: a Perdasdefogu,  a Pirri e forse anche a Timbuctù. I ragazzini giocano, i grandi si lamentano per il chiasso. Il sindaco aggiunge inoltre che spesso si sia giocato a pallone  sull'erba di piazza Europa, e il verde pubblico si deteriora. Poi l'aggiunta, che ha un sapore un po' surreale: si rileva che" l’utilizzo del pallone rappresenta un potenziale pericolo per gli stessi utilizzatori del gioco poiché il pallone finisce nelle vie pubbliche con alta densità di circolazione stradale causando potenziali rischi di incidenti stradali". Ecco: alta densità di circolazione stradale, che sicuramente è sfuggita al servizio pubblico di Onda verde, che monitora il traffico a livello italiano e non ha mai parlato di Perdasdefogu. Sulla base di questi presupposti, e del disturbo arrecato dai ragazzini col pallone, il sindaco Carta ordina che "in tutte le Piazze, strade pubbliche e in tutti gli spazzi pubblici è vietato, se non diversamente segnalato, il gioco del pallone in tutte le forme e modalità di svolgimento".Restano non punibili i bimbi fino a sei anni. E per chi trasgredisce c'è pronta una multa che va dai 25 ai 500 euro. Chissà cosa ne pensano tutti colore che giovani e meno giovani quest'anno in paese festeggiano i 50 anni del Perdas Calcio, la squadra orgoglio di una comunità. 





concordo con il commento di


    Giuseppe Sanna Si infatti meglio con gli occhi fissi sullo smartphone come zombi...!!! Il calcio in strada da piccolo era bello x quello, anche x così dire disturbare e farsi perdonare dai vecchi il giorno dopo.. Ordinanza VERGOGNOSA.


Infatti sembra che siano ammessi solo giochi di guerra con l'utilizzo di uranio.: non sono pericolosi e non disturbano il quieto vivere.Inoltre certi paesi già spopolati di se . sesi continua a mettere divieti ,e sara ancora più spopolato.  concludo  con il commento  di


Maurizio Spiga Non si sa mai che il pallone possa esplodere come le bombe di Perdasdefogu! Ma quelle portano benessere e salute, mica come il pallone, eh.



28.4.16

come si vive senza internet nel 2016 ? Facebook di strada e Whatsapp a gettoni in Molise e più precisamente a Civitacampomarano, paesino di 400 abitanti in provincia di Campobasso

  da    http://milano.repubblica.it/cronaca  del 28.4.2016
 
Come si vive nel 2016 senza Internet? Per scoprirlo, lo street artist milanese Biancoshock si è trasferito per un periodo in Molise e più precisamente a Civitacampomarano, paesino di 400 abitanti in provincia di Campobasso dove la scarsa copertura di rete rende complicato navigare sul web e utilizzare qualsiasi dispositivo elettronico. Così è nato il progetto "Web 0.0", realizzato in occasione del festival CVTà Street Fest: Biancoshock ha applicato i loghi di alcuni dei più noti siti e social network ai loro equivalenti offline, usati quotidianamente dagli abitanti di Civitacampomarano. La cassetta postale è la loro Gmail, la donna più anziana  [  vedere  foto  sotto  per le  altre  qui ]

del paese fa le veci di Wikipedia perché ci si rivolge a lei per avere qualunque informazione, invece di twittare si spettegola su una panchina e la bacheca virtuale di Facebook torna alle origini identificandosi con lo spazio delle affissioni comunali. Ma ci sono anche la cabina telefonica Whatsapp, il furgoncino WeTransfer e così via. "È una sorta di Internet in the real life, che dimostra come le dinamiche virtuali che molti di noi ormai ritengono fondamentali per la vita di tutti i giorni siano in realtà sempre esistite e possano essere replicate anche senza computer e smartphone" spiega l'artista (Lucia Landoni)

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...