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10.7.24

Una busta col pane appena uscito dal forno, offerto dalla panettiera alla nuova residente. È bastato questo per rendere indimenticabile il trasloco a Nuraminis di Emanuela Porcu, bibliotecaria originaria di Ussana, e del compagno Renato.

   da  l'unione  sarda    dei  giorni  scorsi  



Una busta col pane appena uscito dal forno, offerto dalla panettiera alla nuova residente. È bastato questo per rendere indimenticabile il trasloco a Nuraminis di Emanuela Porcu, bibliotecaria originaria di Ussana, e del compagno Renato. «Il sogno», per dirla con le parole di Porcu, «di abitare finalmente in una casa campidanese in ladiri» ha così acquisito il valore aggiunto dello specialissimo benvenuto racchiuso nella busta che Valentina Vargiu, questo il nome della panettiera dal cuore gentile, ha chiuso con un nastro di raso bianco e mezza dozzina di spighe di grano maturo. Dentro: un pane casereccio di semola, un pane integrale e un coccoi, che sono diventati il segno dell’accoglienza e dell’ospitalità di Nuraminis da parte di una donna, la panettiera, che non è di Nuraminis, ma che nuraminese si sente almeno per metà, vista la lunga abitazione del marito Giuseppe Caboni. Fornaio, quest’ultimo, dalla testa ai piedi e rampollo di Ottavio, il padre scomparso qualche anno fa, che ha tirato su una famiglia di panificatori e che a Nuraminis ha vissuto in passato per decenni.«È vero», conferma la fornaia gentile, “mio marito Giuseppe si sente nuraminese ed è devotissimo a San Lussorio, il santo di Nuraminis. Io invece sono di Villasor ma a Nuraminis sono stata accolta molto bene. Donando il pane alla signora non sento di avere fatto nulla di particolare ma solo dato ascolto a quanto mi diceva il cuore in quel momento». Un cuore generoso dato che il rito del pane di benvenuto alla bibliotecaria di Ussana non è stato il primo. «Una donna, molto distinta, mi ha confidato che per la notte era stata la prima in cui avevano dormito nella nuova casa, a Nuraminis», racconta la fornaia che ancora, in quattro e quattr’otto, confeziona la busta col pane con e le spighe di grano («Le conservo sempre nello scaffale perché sono il simbolo di prosperità e di buon auspicio») e lo dona alla donna.Un gesto che sorprende Porcu. «Ma sta scherzando?», è stata la reazione istintiva al dono, al gesto, parole sue, «per nulla scontato». «Da pochi giorni sono residente a Nuraminis. Ho realizzato il sogno di abitare in una casa campidanese in ladiri. Una vita nuova, con la mia famiglia, per la prima volta sono entrata in una delle attività economiche del paese, la panetteria di Valentina Vargiu che, in segno di benvenuto, mi ha donato il pane. Mi sono emozionata per questo gesto che mi fa capire quanto sia fortunata a vivere in un piccolo centro».

14.11.20

benvenuta al sud dal veneto al sud della sardegna la storia di Isabella Ferrigato

colonna  sonora    a me  piace il sud-  rino gaetano

una storia questa di Isabella Ferrigato da Benvenuti al Sud film del 2010 diretto da Luca Miniero, remake del film francese del 2008 Giù al Nord di Dany Boon o Cado dalle nubi   film  del 2009  diretto da Gennaro Nunziante, e interpretato da Checco Zalone


 << [... ] il nord è arrivato nel meridione [...]  >> ( cit I treni per Reggio Calabria - Marini Giovanna )

Una storia interessante , visto che di solito ( vuoi per esperienze dirette ed indirette , vuoi per letture dei media nazionali fatti in maggior parte di luoghi comuni prima negativi ora soo mitizzanti ) al 80\90 % la sardegna non viene raccontata male . Storie come la sua che meritano , cosa che farò prossimamente con le mie chiaccherate \ interviste , d'essere raccontata e fatta rccontare dalla diretta interessata .

20.3.16

C’è ancora un’Italia che lascia la chiave sulla toppa di casa


Di Helmut Leftbuster, da  http://www.qelsi.it

12788076_231517407195232_1338697863_nE vogliamo raccontarvela, consentendovi di accompagnare la lettura con una bella carrellata di immagini consultabili sul nostro blog.
L’Irpinia è una terra ruvida, montagnosa, ma bellissima e densa di tesori storici, artistici e naturalistici: si va da Benevento, popolosa provincia che vanta monumenti importanti come l’arco di Traiano e la chiesa di santa Sofia, alla piccola Altavilla, che già nel nome desta quelle reminiscenze araldiche ghibelline che hanno forgiato la storia Europea, per poi arrivare sino a Castelpoto, il paese della “salsiccia rossa”, sulle cui sponde fluviali riposa Manfredi di Svevia, l’imperatore < > cantato da Dante nel III canto del Purgatorio.
Le sinistre Gole di San Barbato ospitano il “Noce di Benevento”, sabbatico sito arboreo di derivazione longobarda che ispirò musicisti del calibro di Paganini e Sussmayr.
Solopaca è un gioiello di gotico e romanico che si estende per lungo su un crinale del monte Taburno; il lago di Telese, pur minuscolo, è di interesse geologico straordinario per la sua profondità e per il suo complesso sistema di cavità sotterranee. Castelvenere ha una tradizione enologica che risale ai Romani, così come gli acquedotti della zona, parte delle cui vestigia impeccabilmente conservate circondano la basilica di Prata di Principato Ultra, fra le pochissime a constare di catacombe collocate a ferro di cavallo alle spalle dell’abside.
Tocco Caudio è un borgo montano di poche anime ove gli abitanti non rinunciano ad abbellire scorci e fontane con fregi comunali pregni di storia e ove persino i “murales”, anziché descrivere il solito ciarpame esotico, decantano le gesta passate ed i trascorsi del luogo.
Sin qui, solo piccoli cenni delle ricchezze avvistate in questa porzione di Sannio denominata Irpinia; eppure, nonostante tanto valore, prestigio e natura, tale nome, Irpinia, rievoca nell’immaginario comune per lo più malcostume politico, ruberie sui fondi per il terremoto, degrado e immondizia; insomma, il solito nichilismo mediatico partigianamente incapace di vedere il sole dietro qualche nube.
Ebbene, noi l’abbiam visitata di recente, e al di là di quanto già entusiasticamente descritto, siamo rimasti sbalorditi dalla qualità della vita della gente comune.
Naturalmente non ci riferiamo ad auto di lusso o a piscine con idromassaggio; ci riferiamo al potersi ancora immergere in una dimensione umana che temevamo scomparsa per sempre, fagocitata da conformismo e globalizzazione.
Altro che arretratezza; qui i nonni ancora sanno raccontare ai nipoti cosa significasse sudarsi da vivere: osservando le scanalature istoriate sul granitico orlo di un pozzo dallo scorrere quotidiano della corda che reggeva la secchia, ragioniamo su quale brutta strada sia stata intrapresa in nome di quel “progresso” e di quei “progressisti” che l’acqua ce la stanno privatizzando e riempiendo di cloro.
E’ stato sorprendente aggirarci fra i vicoli udendo echeggiare voci di bimbi che corrono dietro ad un pallone felici, esattamente come accadeva nell’Italia di cinquant’anni fa’. Chiedere informazioni e ricevere l’offerta d’essere accompagnati personalmente sino al sito desiderato, è da queste parti ancora realistico, come incrociare paesani accoglienti e sempre pronti ad offrirci un buon bicchiere di vino, o commercianti vogliosi di regalarci assaggi delle loro specialità locali.
Che meraviglia poter fare la spesa dal droghiere “latte e diversi”, dove il pane sa ancora di pane e il formaggio di formaggio, senza doverci smarrire in quegli hangar senz’anima gremiti di “umani” ma deserti di “umanità” che sono gli attuali ipermercati e megastore.
Certo, il cibo genuino, lasciato fuori dal frigo, andrà a male dopo poche ore, cosa alla quale non siamo più abituati: ma forse, anziché stupircene, dovremmo domandarci perché, invece, quello che ci propinano le multinazionali si mantiene inalterato per settimane.
Del resto, prendersi cura dei sudati viveri della nostra dispensa dovrebbe essere mansione a cui riservare più tempo di quello che i “tempi moderni” ci inducono a fare.
La domanda sorge quindi spontanea: c’abbiamo davvero guadagnato, come qualche capra modernista ci bela da mane a sera, a vivere così come ci siamo ridotti a vivere?!
Proseguendo il nostro giro, gli anziani del posto ci salutano e ci sorridono ovunque rivolgendocisi con quel simpatico “voi” di ventenniana memoria, così elegante ed affettuoso al contempo, quanto odioso agli spocchiosi radical-chic metropolitani che preferiscono usare il “lei” per tenere le distanze con chi ha le mani sporche di terra.
Sia ben chiaro, non staremo qui a fare un melenso elogio meridionalista e dal sapore pasoliniano; la nostra vuole solamente essere una riflessione umana e sociologica personale fatta ad alta voce; l’attenta descrizione di uno stato d’animo frutto di percezioni emotive e stimoli culturali regalatici visitando un’Italia inspiegabilmente fuori dalle rotte, eppure ben più italiana di tante mete sponsorizzate dagli apparati turistici fighetti e di regime. Anzi, se dovessimo racchiudere in una esclamazione tali percezioni diremmo: “che bello, sembra di stare in Italia!”
A tal proposito un dettaglio ci ha particolarmente colpito aggirandoci per i borghi irpinici: niente inferriate alle finestre e, sovente, porte socchiuse e chiavi sulle toppe. Ebbene, che cosa può spingere a lasciare la chiave sulla toppa di casa, se non un naturale afflato familiare e fiduciario verso la maggior parte delle persone che transitano fuori? Infondo si tratta comunque di estranei; già, ma all’interno di una comunità coesa e organica alla storia e alla portata dell’abitato, grosse sorprese non dovrebbero essercene, e quand’anche ce ne fossero sarebbero eccezioni a cui far fronte con i gendarmi locali di collodiana memoria. Ebbene, per comprendere la differenza, proviamo a fare un ragionamento del genere su quartieri di Roma, Milano, Genova, Firenze: dove vi sentireste più sicuri a passeggiare? E perchè? E’ bene farsi qualche domanda, ogni tanto, non credete?!
Qualche benpensante obbietterebbe che la chiave qui la lasciano sulla toppa perché tanto non c’è nulla da rubare; beh, nelle città globalizzate, anche quando non c’è nulla da rubare, stuprano, ammazzano e se non trovano nessuno occupano: una bella differenza!

7.3.16

Nardò e gli 11 metri di capitan Vicedomini

leggendo la news che troverete sotto mi soni ritornate in mente oltre i miei classici ricordi d'infanzia : 1)il cartone Holly e Benji, due fuoriclasse ., 2) La Compagnia dei Celestini un romanzo di Stefano Benni, edito da Feltrinelli nel 1992.Da questo racconto è stata liberamente tratta una serie a cartoni animati di co-produzione italo-francese: Street Football - La compagnia dei Celestini  3)   il bar sport  sempre  di Benni e     queste  due  canzoni    che  canticchio  mentre    finisco di  copia ed  incollare  l articolo d'oggi


                                            Carlo Vicedomini, capitano del Nardò

NARDO’- “Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, così Francesco De Gregori, nella celebre canzone “La leva calcistica della classe 1968” descriveva le avventure, le peripezie e le emozioni che il calcio può dare. Gioie, tante, e dolori, insopportabili. I rimpianti del Nardò dopo lo 0-0 di oggi contro il Taranto sono lunghi undici metri, quegli undici metri dai qualiCarlo Vicedomini ha calciato in aria la palla del potenziale 1-0, e del virtuale aggancio in classifica sulla Virtus Francavilla, ancora affetta da “pareggite” in casa contro il Manfredonia nell’altro 0-0 di giornata. Il tiro mandato sopra la traversa, a De Lucia battuto, ha tagliato le gambe alla voglia e alla lucidità di una squadra vogliosa nel conquistare il derby, bissando il successo di tre anni fa, ma con una diversa, più sostanziosa, posta in palio. Un pallone pesante come un macigno caduto rovinosamente sulla strada che portava il Nardò a un importantissimo salto di qualità, sbarrandola proprio al momento del potenziale affiancamento alla macchina Virtus Francavilla, con più cavalli di quella granata ma inceppata in qualche meccanismo in queste ultime uscite.
Vicedomini e il Nardò sono due entità del calcio salentino, e non solo, che sono ripartite insieme. Il centrocampista dopo la vittoria più importante della sua vita e la voglia di disegnare geometrie sui campi da gioco, il Toro rinato dalle proprie ceneri dopo l’onta della radiazione della vecchia Nardò Calcio.
L’occasione era ghiotta, ghiottissima, ma il Nardò ha ancora sette partite per lottare con le altre battistrada del Girone H e credere nel sogno della promozione in Lega Pro, da inseguire con unità d’intenti e con lo spirito giusto, quello tracciato dalla società e da mister Ragno sempre nel corso di questa stagione che, in ogni caso, avrà superato le più rosee aspettative. Dopotutto, chi se lo sarebbe aspettato due anni fa, prima di tracciare e percorrere una nuova storia…

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