| Foto: Cagliari calcio |
Maria Vittoria Dettoto
Nostra patria è il mondo intero e nostra legge è la libertà
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Maria Vittoria Dettoto

unione sarda 14\9\2025
Ovviamente se prima il capro espiatorio era il padre aggressore, ora lo diventerà il ragazzo aggredito che però è a sua volta aggressore.Dal che si deducono due cose:a) quando si parla di aggressore e aggredito occorre sempre guardare all'intera catena causale (ogni riferimento è puramente voluto);b) è sempre preferibile resistere all'impulso di sparare sentenze, e comunque non partecipare in nessun caso a quell'orrido rito collettivo che è la lapidazione.Come dice saggiamente Alcinoo ad Ulisse "meglio avere in tutto misura".
fonti Corriere.it del 27\8\2025
La padovana detiene il record del mondo nei 200 metri per over 90 e ha vinto 11 titoli mondiali: «Un consiglio? Non restare mai dentro casa un giorno intero»
Il cellulare squilla. Lei, che è in vacanza in montagna, non poteva essere altrove: su un sentiero in salita, direzione rifugio. Col respiro incredibilmente regolare avvisa: «Sentiamoci più tardi». Emma Mazzenga, padovana di 92 anni, è campionessa di atletica e detiene 11 titoli mondiali (ma anche 31 europei e 115 italiani). Corre praticamente da sempre. O meglio, l’ha fatto quando era giovane e poi si è fermata per riprendere a livello agonistico quando di anni ne aveva già 53. Oggi ha un fisico a tal punto invidiabile da essere diventato oggetto di studio di diverse università (la Marquette University di Milwaukee e l’Università di Pavia). «Mi hanno detto che ho i muscoli di una settantenne e l’ossigenazione cellulare di una ventenne — scherza lei — mi sembra incredibile. Una cosa è certa: io ferma non ci sono stata mai».
Ci racconta la sua giornata tipo?
«Ho sempre dormito poco. Quando andavo a scuola (ha insegnato scienze al liceo scientifico, ndr) preparavo le lezioni dalle 5 alle 7 di mattina. E anche oggi, alle cinque, mi faccio il caffè, poi torno a letto a leggere. Faccio colazione alle otto, con un panino al prosciutto. Poi esco».
Dove va?
«A fare la spesa al mercato oppure faccio un po’ di pulizie. Dopo pranzo mi riposo un paio d’ore leggendo e poi esco nuovamente per andare al cinema, al gruppo lettura, per incontrarmi con le amiche o per allenarmi. La sera guardo la televisione, vado a letto verso le 23».
Cosa si mangia per restare così in forma fino a 92 anni?
«Un po’ di tutto. Adesso che sono anziana limito le porzioni. A pranzo mi preparo 30 o 40 grammi di pasta o riso, cui aggiungo un secondo e la verdura cotta. Alterno carne e pesce. La sera invece mi basta un po’ di verdura e un pezzetto di formaggio. Ah, ogni giorno bevo mezzo bicchiere di vino rosso a pranzo e mezzo a cena. E ogni tanto mi faccio qualche ricetta veneta».
Si muove a piedi?
«Sì, quasi sempre. Ma è sempre stato così. Anche oggi adopero l’auto solo due volte a settimana per andare ad allenarmi. La mia vita non è mai stata sedentaria. Con mio marito che era istruttore di roccia d’estate andavamo in montagna, d’inverno a sciare. Perfino durante il Covid correvo nel corridoio di casa mia. Dopo un’ora di allenamento, quando mi faccio la doccia, mi sento benissimo».
E quando piove?
«Non si può usare il meteo come scusa. Ci vuole volontà. Anch’io, a volte, rimarrei seduta sul sofà, ma so che se esco poi mi sentirò benissimo».
E poi vince pure i titoli mondiali.
«Sì, ma diciamocelo, ora ho poche concorrenti (sorride). A gennaio 2024 ho stabilito un nuovo record mondiale nei 200 metri per la categoria W90 (over 90 anni) e a giugno dello stesso anno ho abbassato di oltre un secondo il tempo. Vorrei dirlo a tutti: non è mai troppo tardi!».
Per allenarsi?
«Non solo. Non siamo tutti atleti. Intendo dire che non è mai troppo tardi per la socialità e il movimento. Io sono rimasta vedova a 55 anni, la corsa mi ha aiutato moltissimo. È una questione chimica, sono le endorfine. Ma è anche legato al benessere che ti dà stare con gli altri».
Se dovesse dare un’indicazione per l’elisir di lunga vita?
«Alzarsi dal divano. Non rimanere mai a casa un giorno intero. Stare chiusi tra quattro mura porta tristezza, depressione e non aiuta né la mente né il corpo».
e tgcom24 tramite msn.it
| E pensare che è cominciato tutto per caso. «Era il 1993 e mentre stavamo facendo un’escursione nelle campagne di Dolianova, un amico mi chiese “perché non fai un corso di parapendio?”». E così che Silvio Zoncheddu, 58 anni, vigile del fuoco, ha cominciato a volare e da allora non si è più fermato. Più di trent’anni su nel cielo, inanellando un successo dietro l’altro: l’ultimo qualche giorno fa quando ha stabilito il nuovo record sardo di volo in parapendio percorrendo 116,18 chilometri. |
| La storia |
| «Quando il mio amico mi chiese se volessi fare il corso gli chiesi di spiegarmi in che cosa consistesse», racconta. «Lui già era un paracadutista e un deltaplanista, io non sapevo nulla. Mi convinse e feci il corso. Appena toccato questo “giocattolo” rimasi folgorato. Adesso sono 32 anni che volo e sono felicissimo». Dopo il corso, Zoncheddu viaggia per specializzarsi sempre più, «per rapportarmi con piloti più esperti sono andato a Castelluccio, in Umbria, che era un po’ la mecca del volo in quegli anni. Ho iniziato a seguire i veterani e imparare da loro e intanto facevo qualche lavoretto, come il fly taxi, accompagnando i piloti nei loro spostamenti. Tra loro c’era Gimmy Pacher, quello che vinceva tutto. Diventammo amici e oggi per me è come un fratello. Teniamo insieme anche dei corsi sulla sicurezza in volo». |
| Il lavoro di vigile del fuoco arriva dopo, nel 1996, quando già volava. «Amo il mio lavoro, sono orgoglioso di quello che faccio e ho un rapporto meraviglioso con i colleghi. Ma solo quando volo ho una sensazione di estrema libertà che mi fa stare bene». |
| Il record sardo di volo lo aveva già stabilito qualche tempo fa arrivando a 108 chilometri. «Ma il 31 maggio sono stato superato da un altro pilota che è arrivato a 109. E siccome sono molto competitivo ho deciso di fare di più e così sono arrivato a 116,18 chilometri». La partenza da Bortigali «studiando il meteo e i venti. Il primo giorno non è andata bene così ci ho provato il successivo quando proprio i venti hanno creato una convergenza particolare con una velocità media superiore a 30 km orari. Così da Bortiogali, sono arrivato a Santu Lussurgiu, da qui sono tornato indietro seguendo la catena del Marghine in direzione Pattada e poi di nuovo a Bortogali». |
| Fare parapendio in Sardegna non è facile «perché non offre distanze ampie e c’è la variabile dei venti. Diciamo che il discorso è diverso se percorri l’arco alpino». Volare, «ti da una sensazione bellissima ma non direi che è un modo di evadere dalle cose difficili che vedo nel mio lavoro. È importante imparare a gestire tutto. |
| Di campionati Xc Sardegna, ne ha vinti 16, compreso quello dell’anno scorso e se vincerà quello di quest’anno arriverà a 17. «Quello che mi stimola è la concorrenza con tanti bravi piloti come Marco Spano e Mario Mele, solo per citarne alcuni. Mi stanno con il fiato sul collo e questo mi spinge a impegnarmi per fare sempre meglio e per continuare a volare». Su nel cielo, verso la libertà. |
concordo con https://www.cronachedallasardegna.it/
Maria Vittoria Dettoto
da msn.it
Se fossi morta, mai avrei cambiato idea». La porta del condominio di Giubiasco, distretto di Bellinzona, si spalanca sugli accadimenti più misconosciuti dello sport italiano. Sulla soglia di questa storia densissima e a tratti drammatica, lei, Monica Giorgi in Cerutti per matrimonio dichiaratamente di
Le radici a Livorno contano nel suo romanzo, Monica?
«Eccome! Livorno è la mia carne, il mio sangue, le mie parole. Mi chiedo se dopo tanti anni in Svizzera dovrei tornarci a morire. Dell’Italia mi attraggono gli odori, i sapori, le scritte sui muri. Ci vado volentieri, da quando le mie pendenze con la giustizia sono risolte. Però lascio anche che le cose accadano».
Ne sono accadute di cose, eccome: gli anni gioiosi del tennis, l’avvicinamento ai movimenti non violenti, le campagne a difesa dei diritti dei carcerati, l’esilio in Francia, la tranquillità in Svizzera.
«Le cose più belle sono quelle che capitano. Sono stocastica, aleatoria: qualcosa succederà. Preferisco essere illusa, piuttosto che pregiudizievole. Certo rischio la delusione, ma è da lì che scaturisce consapevolezza. Il processo mi ha fatto scoprire la mia dabbenaggine: siccome sono presuntuosa, ci sono passata sopra. Vede, io penso in livornese, che non è una lingua, è un vernacolo: viene da verna, schiavo, e lo schiavo subisce».
I primi guai quando la Federtennis italiana la squalifica per aver indossato a Johannesburg, in pieno apartheid, una T-shirt con un nero e una bianca che fanno l’amore.
«Indegna di rappresentare l’Italia, scrissero nella lettera con cui mi fermavano un anno. Ci sono cose che sono sfuggite di mano alla gioventù dell’epoca, ma eravamo pieni di entusiasmo. Il libro è stato un lavoro di espiazione catartico: ha riaperto le ferite, lascio che sanguinino. Da ragazza mi piaceva provocare il potere, a 79 anni invece lo comprendo: lo vedo come parte necessaria per cui certe cose devono finire o cominciare. Non mi giudico: ho fatto quello che mi sentivo».
In vacanza con Lea Pericoli imbrattò di escrementi lo yacht del vicino di banchina.
«Lea lo detestava: fu un gesto d’amicizia. La vera ingiustizia di quegli anni è la morte di Pinelli che vola giù dalla finestra della Questura di Milano. Quello è stato il mio ’68. Lea ed io eravamo agli antipodi solo all’apparenza. La divina e Monicaccia, come mi chiamava lei: che coppia»
Cosa vi legava?
«Ti muove quello che non hai. Io ero la parte che Lea teneva sopita. Erano i tempi in cui per farti un complimento ti dicevano: brava, giochi come un uomo. Sarà un uomo che gioca bene come me, ribattevo! Kant scrive che il cielo stellato è sopra di noi ma la donna il cielo stellato ce l’ha dentro. Lea mi chiedeva di Kafka, Gandhi, delle mie letture filosofiche, della rivista anarchica “Niente più sbarre”. Ci siamo volute molto bene. Tra tanti bifolchi qualunquisti, l’unico maschio con cui potevo parlare era Panatta. Quando giocavamo il doppio insieme e ci facevano un lob, fermava la palla: alt, qui lo smash lo faccio solo io!».
A Lea fece un gran regalo: la lasciò vincere in semifinale agli Assoluti ’71. Perché?
«Il regalo lo feci a me: volevo mettermi alla prova. Ero già incasinata con la politica, mi scrivevo con i detenuti anarchici, ritirarmi mentre stavo vincendo fu la mia personalissima protesta contro il sistema. C’era dell’autolesionismo? Non credo. Avevo consapevolezza dei miei limiti: sapevo che la Bassi in finale non l’avrei mai battuta. Lo rifarei mille volte. È un’economia un po’ perversa, lo riconosco. Sono vissuta di ideali, anche alla rovescia. Nell’ideale non c’è un sopra e un sotto, una destra e una sinistra. L’ideale, quando ci credi, è l’eterno. Ecco, io sentivo di dover seguire solo quello».
Ma a chi dava noia, in fondo. Se lo è chiesto?
«Molte volte. Eppure mi bastavano il mio tennis, il mio mare, una motocicletta, i miei libri, 100 mila lire al mese. Andavo a trovare in carcere l’anarchico Fantazzini e mi arrovellavo: che male faccio? Ma a quei tempi la controinformazione infastidiva tantissimo, e io mettevo in dubbio che Pinelli fosse caduto da solo dalla finestra. Sì, davo fastidio. E schiacciando un moscerino di 45 chili come me il potere dimostrò tutta la sua debolezza».
Ci ha messo del suo.
«Ammetto il gusto di esibirmi, anche in campo mi piaceva giocare con il fuoco. Mi chiami a rete? E io ti faccio una palla corta. Le valchirie rimanevano ferme sul posto. Ero agile, velocissima, rimandavo tutto. Per battermi dovevano sopraffarmi con la potenza, ma anche in quel caso le costringevo a farmi il punto due volte».
Da chi ha preso?
«Da mio padre l’estroversione, a costo di fallire per troppa esuberanza. Da mia madre l’essere parca: non tirchia, parca. È lei, con le sue imperfezioni e i nostri conflitti, ad avermi autorizzato a essere libera: se fosse stata perfetta, non me ne sarei mai andata. Invece si lamentava di me, terzogenita dopo due gemelle, in continuazione. Si è resa insopportabile: un dono. Quando lessi “L’ordine simbiotico della madre” di Luisa Muraro fu un’illuminazione».
Qual è stato il giorno più felice della sua vita?
«Il 29 aprile 1982, un giovedì. È il giorno della lettura della sentenza che mi riduce la pena a due anni, già scontati. Nell’aula del tribunale lancio un urlo belluino: domani si va al mareeeeee!».
Come fa a vivere a Bellinzona, tra le montagne?
«Eh ma torno spesso. E poi il mare preferisco andarlo a cercare: quando ce l’ho lì a disposizione, mi viene a noia».
L’incontro più forte?
«Giovanni, il custode della federazione anarchica livornese. Autodidatta, nudo davanti alla vita, miope, ma anche un accademico senza titolo di studio. Fu il primo a parlarmi delle fosse di Katyn, il massacro dell’intellighenzia polacca da parte dell’Urss. Quando morì Francisco Franco si fece un volantino. Volevamo scriverci: viva la morte. Intervenne Giovanni: macché, scriviamo viva la libertà!».
Rifarebbe tutto?
«Paro paro. Forse correggerei la mia ingenuità, ma è un puro esercizio retorico».
Anche le cose che le hanno provocato più dolore?
«Il dolore lo metto nello stesso paniere della felicità».
È vero che nel ’76 in Cile Panatta, memore delle vostre discussioni su Pinochet, propose a Bertolucci di indossare la maglietta rossa nel doppio di Davis anche come omaggio alla militanza dell’amica Monica Giorgi?
«Non lo so, non credo. Dovrebbe chiederlo a Adriano».
E la sua, di maglietta, quella della coppia mista che fece indignare il Sudafrica e la Federtennis, che fine ha fatto?
«Forse era a casa di mia madre ma con la sua morte è andata persa».
Segue il tennis, oggi? Jannik Sinner e i suoi fratelli l’hanno riportato in auge.
«Sì, questa generazione di giocatori mi ha riavvicinata al mio sport. Però non gioco più: mi fanno male le ginocchia. I miei preferiti sono Federer e Alcaraz, che è molto più divertente di Sinner. Adesso non gli serve per vincere, ma Jannik dovrà imparare a scendere di più a rete».
Oltre al tennis, chi è stato il suo più grande amore?
«Manrico, un uomo bellissimo che mai avrei immaginato potesse innamorarsi di uno sgorbio come me. E Maddalena, incontrata in carcere: con lei c’era molto più del sesso, che in una relazione non è necessario».
E la rabbia, motore potente, dove l’ha messa a quasi ottant’anni, Monica?
«Con quel fisichino dove vuoi andare? mi dicevano. Alle feste nessuno mi invitava mai a ballare. Mi sentivo inadeguata: ho fatto di tutto per riscattarmi. Ha ragione, la rabbia è una forza potente. Ma la mia, soprattutto, è stata passione di vivere».
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