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28.10.25

Riyad Idrissi: da Sadali a Cagliari con amore, dedica il gol contro il Verona ai genitori

da https://www.cronachedallasardegna.it/
27\10\2025

Foto: Cagliari calcio
 Riyad Idrissi, vent’anni ieri ha segnato il suo primo gol in serie A con la maglia del Cagliari contro il Verona e lo ha dedicato ai suoi genitori, che per lui hanno fatto tanti sacrifici. Come altri non avrebbero fatto dice.Riyad è di origini marocchine, nato e cresciuto a Sadali e formatosi calcisticamente nelle giovanili del Cagliari calcio, ruolo difensore.Dopo una stagione in serie B nel Modena, esordisce in prima squadra nella partita di Coppa Italia contro la Virtus Entella il 16 agosto 2025 e nel campionato di serie A il 24 agosto contro la Fiorentina.Ieri Fabio Pisacane lo mette in campo titolare dall’inizio della partita e lui ricambia la fiducia del mister segnando la sua prima rete in serie A, che da il via alla rimonta rossoblù contro il Verona al Bentegodi, poi conclusa da Felici.Idrissi gioca sia nella Nazionale U21 italiana che nella Nazionale marocchina. Lo scorso mese ha giocato con gli Azzurri contro il Montenegro e la Macedonia del Nord, portando a casa due ottime prestazioni personali.Amante della Sardegna e dei culurgiones fatti in casa che quando torna a Sadali pare non gli fanno mai mancare, Idrissi rappresenta al meglio il futuro del calcio isolano, fatto di passione, lavoro e sacrificio.Applausi e continua così Riyad.


Maria Vittoria Dettoto

16.9.25

Battocletti vita forte da https://www.dols.it/ di daniela tuscano




C’è stato un momento in cui ho pensato potesse addirittura mangiarsi Beatrice Chebet, come ha fatto con le altre due avversarie Tsegay e Ngetich. Ma se per ora la campionessa keniana rimane imprendibile, sono sicura che in quei pochi istanti in cui la nostra Nadia Battocletti, «StraordiNadia» com’è ormai nota, è giunta quasi a sfiorarla, il brivido l’ha sentito. Chebet ha allungato il passo e chi s’è visto s’è visto ma Nadia l’ha costretta a farlo, non le ha concesso una vittoria «tranquilla».





Nadia è un riscatto. Sarebbe stata splendida pure da quarta con quella falcata precisa, asciutta ma armoniosa, tenace con grazia, da vera trentina. Invece, negli ultimi duecento metri, è balzata, anzi, sbalzata fuori come un bronzo del Cellini e ugualmente bizzarra, impietosa nella sua imprevedibilità, tutta nervi e ossa e muscoli, cuore & cervello. Ma anche consolazione, perché il suo scatto è una parabola della vita. Fino all’ultimo hai la possibilità di cambiare risultato.
Di scontato non c’è nulla, ogni minuto ha un senso. Lei, che è forte, lo è sempre stata, sorprende poiché sa essere fragile. La sua corsa ha qualcosa di sacrale nell’irrompere di un’energia finitima, che non è mai sprazzo o improvvisazione, ma frutto di lavoro silenzioso, invisibile al mondo, eppure continuo. Grazie, Nadia, non solo per l’immensa performance ma per questa parabola sulla vita che hai scritto con le tue gambe, il tuo corpo, la tua testa in un pomeriggio di fine estate, sul nastro arancione di Tokyo.




15.9.25

Dietro la splendida medaglia di bronzo alla Maratona ai Mondiali di Tokyo c’è una storia che merita di essere raccontata.È quella di Illias Aouani

da Lorenzo Tosa

 Dietro la splendida medaglia di bronzo alla Maratona ai Mondiali di Tokyo c’è una storia che merita di essere raccontata. È quella di Illias Aouani, italiano, italianissimo, lui che in Marocco è vissuto appena due dei suoi 30 anni da compiere tra qualche giorno. Commoventi le parole con cui ha raccontato la sua impresa, che arriva davvero dal basso, dalle difficoltà, dalle periferie, dalla dignità di una famiglia umile,
di lavoratori. “È uno di quei momenti che si sognano per tutta la vita. A chi mi dirà che non sono italiano, non me ne frega nulla. Questo bronzo arriva dal nulla, dalle case popolari di Ponte Lambro, a Milano e spero che la mia storia sia di ispirazione per tutti: quando ci credi abbastanza, i sogni si possono realizzare. Mio padre sta per andare a lavorare in cantiere e sarà fiero di me. In questa medaglia c’è di tutto: momenti di sconforto, lacrime versate in macchina da solo, ma ce l’ho fatta”. In tanti avrebbero molto da imparare da questo grande atleta.

Infatti secondo l'unione Sarda del 


15 settembre 2025 alle 08:01aggiornato il 15 settembre 2025 alle 08:06

Mondiali di atletica, l’azzurro Aouani bronzo nella maratona: «Medaglia arrivata dalle case popolari»
Quarto podio per l'Italia a Tokyo. A fine gara: «Quando ci credi abbastanza i sogni si possono realizzare >>


Ancora una medaglia, la quarta, per l'Italia ai Mondiali di Tokyo.
Nella maratona Iliass Aouani si prende il bronzo con il tempo di 2h09:53 
Vince il tanzaniano Alphonce Simbu al fotofinish con una volata mozzafiato, in rimonta sul tedesco Amanal Petros. 
«È uno di quei momenti che si sognano per tutta la vita», dice felice l’azzurro, «Sono stato folle da sognare in grande. Una medaglia che mi rende orgoglioso ma non appaga la mia fame. Sono grato per chi ha creduto in me, felice di alzare il tricolore e di aver reso felici tante persone: la mia famiglia, il coach Massimo Magnani e tutto lo staff che mi segue»,  aggiunge il maratoneta nato in Marocco e trasferitosi in Italia a due anni.
«Al quindicesimo chilometro affioravano voci della mia parte oscura che mi vuole far mollare, però le ho messe subito a tacere»,  ha raccontato. 
Intorno a metà gara, «a uno spugnaggio, ho perso una delle due lenti a contatto ma mi sono detto che me ne poteva bastare una. Sono entrato nello stadio ed è stato bellissimo, puntavo all'oro, ma gli altri stati più bravi di me. L'anno scorso ho vissuto la delusione di non essere stato convocato per le Olimpiadi, gli ultimi due mesi sono stati molto complicati anche per qualche infortunio». «Questo bronzo»,  conclude, «arriva dal nulla, dalle case popolari di Ponte Lambro, e spero che la mia storia sia di ispirazione per tutti: quando ci credi abbastanza, i sogni si possono realizzare. Mio padre sta per andare a lavorare in cantiere e sarà fiero di me. In questa medaglia c'è di tutto: momenti di delusione in cui volevo mollare, lacrime versate in macchina da solo, ma ce l'ho fatta». 





14.9.25

Corsa, fatica e record di maratone . Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia«Ho iniziato a 40 anni, quante emozioni sulle strade di Sidney e New York»

 unione  sarda  14\9\2025


La sveglia, quasi ogni mattina, è alle 6. È attesa da almeno venti chilometri di corsa. Che ci sia pioggia o vento, afa o gelo, prima di calarsi nei panni dell’assicuratrice, mestiere che le dà da vivere, indossa quelli della maratoneta, passione che le nutre lo spirito. E che, benché non più ragazzina, l’ha proiettata nell’olimpo dilettantistico di una disciplina tanto antica quanto carica di suggestione: Silvia Cancedda, 48enne di Carbonia, è la prima atleta sarda ad aver conquistato il riconoscimento speciale: aver disputato le sette più importanti maratone al mondo. In Italia sono solo 28 donne ad aver raggiunto questo risultato.
L’ultima impresa
Pochi giorni fa ha corso la maratona di Sidney. In precedenza ha preso parte, giungendo sempre al nastro finale grosso modo dopo quattro ore di fatica estenuante, a quelle di New York, Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago. E al traguardo, ad attenderla, c’è sempre stata la bandiera dei quattro mori sventolata dal marito Danilo Pes. In sostanza ne ha corso una all’anno, dato che questa avventura atletica è iniziata con l’impresa di New York quando di anni ne aveva 40. Da allora, segue una filosofia: «Il tempo per me non conta: contano le emozioni che ti danno gli spettatori, gli scenari urbani che si attraversano, l’intimità del pensieri con cui si fanno i conti nelle lunghe ore della competizione».
Gli allenamenti
Levataccia all’alba, Silvia Cancedda si allena in prevalenza in città, negli impianti o sulla ciclabile che porta a San Giovanni Suergiu. II suo rapporto col lo sport non è stato immediato: «Ho iniziato attorno ai 20 anni con nuoto e corsa, poi attorno ai 40 la folgorazione per questa disciplina che è un lungo viaggio: inizia durante la preparazione atletica, che in sostanza si può considerare come la vera maratona, e finisce il giorno della gara per poi ripartire quando mi pongo nuovi obiettivi».
Le nuove sfide
Silvia Cancedda non si accontenta perché il limite delle sette maratone più rinomate al mondo potrebbe essere superato: «Si ipotizza a livello internazionale di includerne altre due, se la forma e la salute mi accompagnano ci sarò». Delle sette imprese, due le sono rimaste impresse: «L’ultima a Sidney – rivela – corsa dopo che per giorni ho dovuto fare i conti con la febbre ma ormai indietro non si tornava, e la prima sei anni fa a New York perché è stato l’esordio, è stata la più dura e per il fascino di quella metropoli».Silvia Cancedda non si è limitata a conservare per se stessa questa passione: ha fatto proselitismo: «Batti e ribatti ho convinto alcuni amici a lanciarsi in questa avventura e partiranno per la prossima maratona di New York: un altro pezzo di Sulcis alla conquista dell’America».

9.9.25

Cavani salva la vita alla figlia di un giornalista: manda i soldi in una scatola e paga l’operazione

da fanpage tramite msn.it 



A volte il calcio riesce a regalare storie che vanno ben oltre i gol e i trofei. È quello che è accaduto nei giorni scorsi quando Edinson Cavani, il “Matador” che ha fatto sognare tanti tifosi, si è trasformato in un vero e proprio eroe fuori dal campo. Non con una prodezza sportiva, ma con un gesto di generosità che ha letteralmente salvato la vita a una bambina.
L'ex attaccante di Palermo, Napoli, PSG e Manchester United, che attualmente veste la casacca del Boca Juniors, ha pagato l’operazione al cervello della figlia di un giornalista e le ha salvato la vita: Cavani ha inviato i soldi in contanti in una scatola e grazie a questo intervento i medici hanno potuto operare la ragazzina.
Cavani salva la vita alla figlia di un giornalista
La protagonista di questa vicenda è Ema, figlia del giornalista uruguaiano Rafa Cotelo. La bambina convive fin da piccolissima con una grave malattia cerebrale simile all’idrocefalia, che l’ha già costretta a più interventi: quando le sue condizioni sono peggiorate, la famiglia non ha avuto scelta ed è partita di corsa per Buenos Aires, dove in passato la bambina era già stata operata. Una corsa contro il tempo, segnata dall’angoscia dei genitori e dalla speranza che i medici potessero ancora una volta fare il miracolo.
Arrivati in ospedale, i dottori hanno confermato la necessità di intervenire subito. Ma proprio nel momento più drammatico è comparso un ostacolo assurdo e ingiusto: per dare il via all’operazione serviva il pagamento immediato e in contanti. Cotelo si è trovato davanti a un muro insormontabile. Non c’era tempo, non c’era modo. La vita di sua figlia rischiava di restare sospesa in un limbo burocratico.





Cavani salva la vita alla figlia di un giornalista: manda i soldi in una scatola e paga l’operazione
È qui che entra in scena Cavani. Cotelo, disperato, lo ha contattato chiedendo aiuto. E Cavani non ha esitato un istante. Da lontano, senza clamore, ha trovato la soluzione. Ha incaricato un amico, gestore di una tanguería a Buenos Aires, di portare all’ospedale il denaro necessario. Poco dopo, un uomo si è presentato con una scatola piena di contanti. Ha guardato negli occhi il giornalista e gli ha detto soltanto: "Me l’ha mandato Edi". Tre parole semplici, ma cariche di speranza.
Grazie a quei soldi i medici hanno potuto operare immediatamente la bambina. L’intervento è stato delicatissimo e il chirurgo, appena uscito dalla sala, ha detto al padre: “Starà bene tra tre o quattro ore”. Solo in seguito ha confessato quanto fosse grave la situazione: “Signore, come avrei potuto dirle la verità in quel momento?”. Senza quel tempestivo intervento, senza quel gesto di Cavani, il destino di Ema sarebbe stato molto diverso.
"Me l’ha mandato Edi": la scatola piena di contanti consegnata a Cotelo
La storia è stata raccontata con emozione dallo stesso Cotelo in televisione, al programma ‘Polifonía' condotto da Alejandro Fantino: il giornalista ha ringraziato pubblicamente Cavani che ha dimostrato di avere un cuore enorme, agendo in silenzio e senza farsi pubblicità.
Quello che colpisce di più in questa vicenda è la discrezione. Cavani avrebbe potuto limitarsi a una donazione ufficiale, magari pubblica, con tanto di fotografie. E invece ha scelto la via più umana, quasi clandestina, come se non fosse nulla di straordinario. Ma straordinario lo è, eccome. Perché mentre tanti parlano di solidarietà, lui l’ha messa in pratica in silenzio, restituendo a una bambina e alla sua famiglia la speranza di un futuro.
Edinson Cavani, che tanti tifosi ricordano per i suoi gol spettacolari, verrà ricordato anche per questo: non solo come il Matador del campo, ma come l’uomo che, con una scatola di soldi e un gesto semplice, ha dimostrato che la grandezza non si misura soltanto con i trofei.

5.9.25

Quando un episodio di cronaca provoca grande indignazione e sentimenti vari, guardatevi bene dal seguire la vulgata ed apettate l'evolversi degli eventi . il caso del portiere picchoiato da un genitore della squadra avversaria






ha ragione il mio contatto

Ovviamente se prima il capro espiatorio era il padre aggressore, ora lo diventerà il ragazzo aggredito che però è a sua volta aggressore.
Dal che si deducono due cose:
a) quando si parla di aggressore e aggredito occorre sempre guardare all'intera catena causale (ogni riferimento è puramente voluto);
b) è sempre preferibile resistere all'impulso di sparare sentenze, e comunque non partecipare in nessun caso a quell'orrido rito collettivo che è la lapidazione.
Come dice saggiamente Alcinoo ad Ulisse "meglio avere in tutto misura".


Ecco quindi     che quando un episodio di cronaca provoca grande indignazione e sentimenti vari, guardatevi bene dal seguire la vulgata ed apettate l'evolversi degli eventi . Avete presente la storia del portiere selvaggiamente picchiato da un genitore, che ha ricevuto la solidarietà di tutti e pure di Dino Zoff ?
Ecco. Non giustifico il papà,  lo si condanni  va punito giustamente ( punire per educare come il caso di  Ma giustamente  anche   il portiere s'è beccato un anno di squalifica per aver picchiato un avversario. Quindi solidarietà, ma non è uno stinco di santo: "Ha innescato una rissa e ha colpito con manate e pugni il fianco e la schiena di un giocatore avversario, steso sul terreno di gioco". Qui il problema, e lo ripeterò allo sfinimento, è banalmente culturale: gli allenatori, l'ambiente, i dirigenti devono insegnare ai ragazzini che se osano protestare con l'arbitro non vedranno il campo per settimane e se sfiorano un avversario verranno cacciati dalla squadra. Lo sport deve educare, non far vincere i campionati  o altre  compertizioni  sportive  a
 genitori esaltati e dirigenti affamati. perchè

 

La vera vittoria non è battere l’avversario, ma diventare una versione migliore di te stesso dopo ogni caduta.

27.8.25

A 92 anni corre come una ventenne: il caso straordinario di Emma Mazzenga atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»

  fonti   Corriere.it  del 27\8\2025

Emma Mazzenga, atleta dei record a 92 anni: «Sveglia alle 5 e vino tutti i giorni. Mi studiano, ho l'ossigenazione di una ventenne»

di Alice D'Este

La padovana detiene il record del mondo nei 200 metri per over 90 e ha vinto 11 titoli mondiali: «Un consiglio? Non restare mai dentro casa un giorno intero»

nonna velocista

Il cellulare squilla. Lei, che è in vacanza in montagna, non poteva essere altrove: su un sentiero in salita, direzione rifugio. Col respiro incredibilmente regolare avvisa: «Sentiamoci più tardi». Emma Mazzenga, padovana di 92 anni, è campionessa di atletica e detiene 11 titoli mondiali (ma anche 31 europei e 115 italiani). Corre praticamente da sempre. O meglio, l’ha fatto quando era giovane e poi si è fermata per riprendere a livello agonistico quando di anni ne aveva già 53. Oggi ha un fisico a tal punto invidiabile da essere diventato oggetto di studio di diverse università (la Marquette University di Milwaukee e l’Università di Pavia). «Mi hanno detto che ho i muscoli di una settantenne e l’ossigenazione cellulare di una ventenne — scherza lei — mi sembra incredibile. Una cosa è certa: io ferma non ci sono stata mai».

Ci racconta la sua giornata tipo?
«Ho sempre dormito poco. Quando andavo a scuola (ha insegnato scienze al liceo scientifico, ndr) preparavo le lezioni dalle 5 alle 7 di mattina. E anche oggi, alle cinque, mi faccio il caffè, poi torno a letto a leggere. Faccio colazione alle otto, con un panino al prosciutto. Poi esco».

Dove va?
«A fare la spesa al mercato oppure faccio un po’ di pulizie. Dopo pranzo mi riposo un paio d’ore leggendo e poi esco nuovamente per andare al cinema, al gruppo lettura, per incontrarmi con le amiche o per allenarmi. La sera guardo la televisione, vado a letto verso le 23».

Cosa si mangia per restare così in forma fino a 92 anni?
«Un po’ di tutto. Adesso che sono anziana limito le porzioni. A pranzo mi preparo 30 o 40 grammi di pasta o riso, cui aggiungo un secondo e la verdura cotta. Alterno carne e pesce. La sera invece mi basta un po’ di verdura e un pezzetto di formaggio. Ah, ogni giorno bevo mezzo bicchiere di vino rosso a pranzo e mezzo a cena. E ogni tanto mi faccio qualche ricetta veneta».

Si muove a piedi?
«Sì, quasi sempre. Ma è sempre stato così. Anche oggi adopero l’auto solo due volte a settimana per andare ad allenarmi. La mia vita non è mai stata sedentaria. Con mio marito che era istruttore di roccia d’estate andavamo in montagna, d’inverno a sciare. Perfino durante il Covid correvo nel corridoio di casa mia. Dopo un’ora di allenamento, quando mi faccio la doccia, mi sento benissimo».

E quando piove?
«Non si può usare il meteo come scusa. Ci vuole volontà. Anch’io, a volte, rimarrei seduta sul sofà, ma so che se esco poi mi sentirò benissimo».

E poi vince pure i titoli mondiali.
«Sì, ma diciamocelo, ora ho poche concorrenti (sorride). A gennaio 2024 ho stabilito un nuovo record mondiale nei 200 metri per la categoria W90 (over 90 anni) e a giugno dello stesso anno ho abbassato di oltre un secondo il tempo. Vorrei dirlo a tutti: non è mai troppo tardi!».

Per allenarsi?
«Non solo. Non siamo tutti atleti. Intendo dire che non è mai troppo tardi per la socialità e il movimento. Io sono rimasta vedova a 55 anni, la corsa mi ha aiutato moltissimo. È una questione chimica, sono le endorfine. Ma è anche legato al benessere che ti dà stare con gli altri».

Se dovesse dare un’indicazione per l’elisir di lunga vita?
«Alzarsi dal divano. Non rimanere mai a casa un giorno intero. Stare chiusi tra quattro mura porta tristezza, depressione e non aiuta né la mente né il corpo».

  e    tgcom24  tramite msn.it




A 92 anni non trascorre le giornate sul divano o al telefono con i figli, ma correndo in pista e allenandosi con costanza. Emma Mazzenga non è la nonna che ci si aspetta. Padovana, ex insegnante di chimica, è oggi una leggenda dell’atletica master: vanta 11 titoli mondiali, 31 europei e ben 115 titoli italiani. Il suo spirito competitivo e la sua forma fisica eccezionale hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Un team di ricercatori italiani e statunitensi sta conducendo studi approfonditi sul suo corpo: muscoli, nervi e mitocondri vengono analizzati per comprendere come sia possibile mantenere prestazioni atletiche simili in età così avanzata.
Record e prestazioni da primato La carriera sportiva di Emma è iniziata tardi. Dopo una giovinezza
dedicata allo studio e alla famiglia, ha ripreso a correre con serietà solo dopo i 50 anni. E da allora non si è più fermata. Attualmente detiene quattro record mondiali di categoria e ha recentemente battuto due volte il primato dei 200 metri. “Il segreto è non fermarsi mai” dichiara la nonna dei record.
Secondo uno studio citato dal Washington Post, le sue fibre muscolari sono comparabili a quelle di una settantenne in salute, mentre la sua ossigenazione muscolare è simile a quella di una ventenne. In particolare, la funzione mitocondriale - ovvero la capacità delle cellule di produrre energia - risulta straordinariamente ben conservata.
Il segreto? Mai smettere di muoversi Emma ha sempre creduto nel potere rigenerante dello sport. Nonostante gli impegni familiari e professionali, ha mantenuto un legame costante con l’attività fisica. Oggi si allena regolarmente e invita tutti, soprattutto gli anziani, a non rinunciare mai al movimento, anche nei limiti delle proprie capacità. "Non serve essere atleti agonisti. Basta evitare di restare fermi tutto il giorno chiusi in casa” afferma con semplicità.
Un caso da manuale per la scienza La sua alimentazione è equilibrata ma semplice: pasta, riso, pesce, carne e mezzo bicchiere di vino fanno parte della sua dieta quotidiana. A ciò aggiunge controlli medici regolari e una grande attenzione al proprio benessere interiore, alimentato dal piacere di fare sport. Tra i ricercatori che stanno studiando il "caso Mazzenga" c’è anche Chris Sundberg, coinvolto in una ricerca sul rallentamento dell’invecchiamento muscolare. Secondo lui, Emma rappresenta un esempio raro in cui la comunicazione tra cervello, nervi e muscoli si mantiene attiva e sana, a differenza di quanto avviene normalmente nella popolazione over 90. Anche Marta Colosio, ricercatrice alla Marquette University, si dice sbalordita: “Non ho mai visto nulla di simile. Sta invecchiando, certo, ma riesce a compiere azioni che per altri, alla sua età, sono impossibili”.
Il 3 agosto Emma ha festeggiato il suo 92° compleanno. Ma non ha alcuna intenzione di rallentare. Dopo la prossima gara, in programma a ottobre, sarà nuovamente sottoposta ad analisi da parte degli studiosi dell’Università di Padova e di altri enti statunitensi. Il suo messaggio è chiaro e potente: “Vivo alla giornata, ma mi diverto ancora”.

21.8.25

Il pompiere che ama volare Silvio Zoncheddu ha percorso 116 chilometri col parapendio: record sardo



E pensare che è cominciato tutto per caso. «Era il 1993 e mentre stavamo facendo un’escursione nelle campagne di Dolianova, un amico mi chiese “perché non fai un corso di parapendio?”». E così che Silvio Zoncheddu, 58 anni, vigile del fuoco, ha cominciato a volare e da allora non si è più fermato. Più di trent’anni su nel cielo, inanellando un successo dietro l’altro: l’ultimo qualche giorno fa quando ha stabilito il nuovo record sardo di volo in parapendio percorrendo 116,18 chilometri.
La storia
«Quando il mio amico mi chiese se volessi fare il corso gli chiesi di spiegarmi in che cosa consistesse», racconta. «Lui già era un paracadutista e un deltaplanista, io non sapevo nulla. Mi convinse e feci il corso. Appena toccato questo “giocattolo” rimasi folgorato. Adesso sono 32 anni che volo e sono felicissimo». Dopo il corso, Zoncheddu viaggia per specializzarsi sempre più, «per rapportarmi con piloti più esperti sono andato a Castelluccio, in Umbria, che era un po’ la mecca del volo in quegli anni. Ho iniziato a seguire i veterani e imparare da loro e intanto facevo qualche lavoretto, come il fly taxi, accompagnando i piloti nei loro spostamenti. Tra loro c’era Gimmy Pacher, quello che vinceva tutto. Diventammo amici e oggi per me è come un fratello. Teniamo insieme anche dei corsi sulla sicurezza in volo».
Il lavoro di vigile del fuoco arriva dopo, nel 1996, quando già volava. «Amo il mio lavoro, sono orgoglioso di quello che faccio e ho un rapporto meraviglioso con i colleghi. Ma solo quando volo ho una sensazione di estrema libertà che mi fa stare bene».
Il record sardo di volo lo aveva già stabilito qualche tempo fa arrivando a 108 chilometri. «Ma il 31 maggio sono stato superato da un altro pilota che è arrivato a 109. E siccome sono molto competitivo ho deciso di fare di più e così sono arrivato a 116,18 chilometri». La partenza da Bortigali «studiando il meteo e i venti. Il primo giorno non è andata bene così ci ho provato il successivo quando proprio i venti hanno creato una convergenza particolare con una velocità media superiore a 30 km orari. Così da Bortiogali, sono arrivato a Santu Lussurgiu, da qui sono tornato indietro seguendo la catena del Marghine in direzione Pattada e poi di nuovo a Bortogali».
Fare parapendio in Sardegna non è facile «perché non offre distanze ampie e c’è la variabile dei venti. Diciamo che il discorso è diverso se percorri l’arco alpino». Volare, «ti da una sensazione bellissima ma non direi che è un modo di evadere dalle cose difficili che vedo nel mio lavoro. È importante imparare a gestire tutto.
Di campionati Xc Sardegna, ne ha vinti 16, compreso quello dell’anno scorso e se vincerà quello di quest’anno arriverà a 17. «Quello che mi stimola è la concorrenza con tanti bravi piloti come Marco Spano e Mario Mele, solo per citarne alcuni. Mi stanno con il fiato sul collo e questo mi spinge a impegnarmi per fare sempre meglio e per continuare a volare». Su nel cielo, verso la libertà.

Jakub Jankto ha pagato la scelta di essere libero. La sua omosessualita’.Non gli infortuni…

 concordo   con https://www.cronachedallasardegna.it/

Maria Vittoria Dettoto

19.7.25

uomini grandi non solo nello sport . Pedro Eliezer Rodríguez Ledesma, meglio noto come Pedro e Gian Marco pozzecco

 


Il ct della Nazionale Gianmarco Pozzecco ha fatto qualcosa che spiega ed esemplifica cos’è lo sport nel suo significato più alto e nobile. Pozzecco ha inserito nella lista dei convocati alla preparazione in vista degli Europei di basket anche Achille Polonara, a cui un mese fa è stato diagnosticata una leucemia mieloide.Un atto simbolico di rara umanità e valore per ribadire che Polonara è e resta uno dei pilastri, non solo cestistici, della Nazionale.E lui ha risposto mostrandosi mentre fa le flessioni in ospedale, a Valencia, dove si sta sottoponendo a cicli di chemio in attesa di un trapianto di midollo.Tutto da applausi. Il gesto, la risposta, lo spirito di questa squadra.Un grande esempio.

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Questa foto è una meraviglia  riportata  da  diversi  accout  fb  in particolare  Lorenzo Tosa  da  cui riporto integralmente il post  sotto  .
Essa Ritrae un momento di festa. Una festa a tema Lilo & Stitch con cui Marc, il figlio del calciatore della Lazio Pedro Eliezer Rodríguez Ledesma, meglio noto come Pedro Pedro, ha festeggiato i suoi 8 anni, con tanto di torta, vestito e tiara in testa.
E invece quando il papà l’ha pubblicata su Instagram, questo semplice momento di gioia è stato subissato di una quantità fuori scala di commenti omofobi, sessisti, violentissimi, grondanti odio puro nei confronti del piccolo Marc, di Pedro, della famiglia.
Al punto che Pedro è stato costretto a un certo punto persino a chiudere i commenti.
Questo è il Paese e il mondo in cui viviamo, un Paese al contrario in cui un bambino di 8 anni viene insultato da dei sedicenti adulti per una tiara in testa, perché non rispecchia gli stereotipi del branco, perché non è come loro. Per fortuna!
Però, in questa storia, c’è spazio anche per tanta bellezza. Ed è così che deve finire, con la splendida risposta di Pedro a tutti i miserabili odiatori.È l'unico modo che hanno gli analfabeti funzionali per sfogare le proprie frustrazioni, hanno una vita talmente demmerda che se non trovano qualcuno su cui riversare odio e bile poi rischiano di affogare nella propria miseria. Hanno la sfiga di dover fare tutto con un neurone malandato, neanche se ne rendono conto.
Una sorta di lettera aperta che è un messaggio d’amore per il figlio e un esempio di cosa significhi essere un padre.
"Marc è un bambino fantastico, con una sensibilità fuori dal comune. Ha un modo tutto suo di vedere il mondo, e io ogni giorno imparo qualcosa da lui. Per il suo compleanno ha voluto una festa a tema Lilo & Stitch, con una tiara in testa e un vestitino. Mi ha guardato e mi ha detto: ‘Papà, posso?’ E io gli ho detto sì, ovviamente. Perché dovrebbe esserci qualcosa di sbagliato nel voler essere felice nel proprio giorno speciale?
Le foto le ho pubblicate con orgoglio, com’è giusto che sia. Poi ho visto i commenti, alcuni davvero pesanti. Non tanto per me, ma perché mi fa rabbia pensare che ci siano ancora persone che non sanno vedere oltre i loro pregiudizi. Marc è mio figlio, e io lo amo esattamente per com’è. Non mi interessa se qualcuno storce il naso: io so quanto è speciale, quanto è amato, e quanto è libero. E se c’è qualcosa che voglio insegnargli è proprio questo: che può essere chi vuole, senza paura”.
Che parole straordinarie.
E che uomo straordinario. Molto prima del grande giocatore che è

9.7.25

Arunima Sinha è una giovane atleta indiana che ha subito schiaffi dalla vita . ma si è sempre rialzata

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 Arunima Sinha è una giovane atleta indiana, piena di sogni. Ha giocato a pallavolo a livello nazionale e sta cercando di entrare nelle forze armate, come previsto in India per chi eccelle nello sport. Ha 23 anni e una strada chiara davanti a sé: servire il Paese, diventare qualcuno, rendere orgogliosa la sua famiglia. Ma tutto cambia in una notte.Nel 2011 sta viaggiando in treno per recarsi a un esame d’ammissione. È sola. Durante il tragitto, un gruppo di uomini sale sul vagone per rapinare i passeggeri. Le chiedono soldi e la catenina che porta al collo. Lei si rifiuta, opponendosi con dignità. In risposta, quei criminali la spingono giù dal treno in corsa.Cade sui binari e, pochi istanti dopo, viene investita da un altro treno. Le ruote le tranciano la gamba sinistra. Rimane distesa lì, sanguinante, tra le pietre e le traversine, per tutta la notte. Alcuni racconti dicono che provi a tenersi sveglia contando le stelle, unico modo per non perdere conoscenza. Quando viene finalmente soccorsa, le condizioni sono critiche. La portano in ospedale e le amputano una gamba. Seguono infezioni, dolori lancinanti, depressione. E, come se non bastasse, inizialmente alcuni giornali mettono persino in dubbio la sua versione dei fatti.Ma Arunima, in quel letto d’ospedale, prende una decisione. Quella tragedia non sarà la fine della sua storia. Sarà l’inizio. Mentre è ancora in cura, legge un libro su Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi a scalare l’Everest. In quel momento prende una decisione che suona come pura follia: scalerà il tetto del mondo. Con una gamba sola.Riacquista lentamente forza e mobilità. Si rivolge a Bachendri Pal, la prima donna indiana ad aver raggiunto l’Everest, che decide di allenarla. Arunima inizia così il suo percorso: dalle colline più basse dell’Himalaya ai picchi sempre più alti, imparando tutto da zero. Cade molte volte, si fa male, ma non si ferma mai. Ha una protesi di metallo alla gamba e una determinazione che nessun dolore riesce a incrinare.Dopo oltre un anno di preparazione, nell’aprile del 2013, parte per la spedizione più importante della sua vita. Ogni passo verso la cima è una lotta contro il freddo, l’altitudine, la mancanza d’ossigeno. Ma anche contro il ricordo di quella notte che l’aveva spezzata. Il 21 maggio 2013, Arunima Sinha raggiunge la cima dell’Everest. Pianta la bandiera indiana e un cartello in memoria di sua madre. In quell’istante, l’intera India la guarda con occhi diversi. Non più come una vittima, ma come una conquistatrice.Dopo l’Everest non si ferma: scala le vette più alte di tutti e sette i continenti, diventando la prima donna amputata al mondo a farlo. Fonda un’organizzazione per aiutare le donne vittime di violenza e ustioni. Porta la sua storia nelle scuole, nei villaggi, ovunque possa accendere una scintilla. Parla con forza, senza mai vittimismo. Racconta come si può rinascere anche dopo essere stati spezzati in due.“Non voglio essere ricordata per ciò che ho perso, ma per ciò che ho fatto con ciò che mi è rimasto.”

10.6.25

Calciatore di dieci anni umiliato dell'allenatore e dai compagni di squadra. I genitori ricorrono in tribunale.

la storia riportato oggi conferma la lettera su tali argomentu di una madre di un bambino riportata dal Fq del 5\6\205 e riportata , è il secondo articolo sul nostro  diario di Bordo n126 anno III è il 2 articolo .

fonti Ansa  e  cronache della  sardegna  e non 


genitori di un bambino di dieci anni iscritto a un'associazione calcistica delle provincia di Treviso hanno chiesto il risarcimento della quota annuale (circa 450 euro) denunciando episodi di bullismo da parte dei compagni di squadra e dell'allenatore.
 I familiari - riporta oggi il Gazzettino - si sono rivolti a un avvocato denunciando la società per "inadempimento contrattuale", senza escludere un futuro ricorso al Tribunale dei minorenni.
 Nella lettera si descrive la progressiva esclusione del bambino dalle partite, per la statura fisica "ritenuta insufficiente", e atteggiamenti di bullismo con scherzi pesanti degli altri bambini, anche all'interno dello spogliatoio, evidenziando la mancanza di supervisione.Questo sarebbe contrario allo statuto dell'associazione sportiva, che perseguirebbe lo scopo di un ambiente sano e il diritto di praticare sport in assoluta sicurezza.
L'emarginazione del ragazzino si sarebbe allargata anche ai genitori dei compagni di squadra, che lo avrebbero escluso anche in una canzone dedicata ai componenti della squadra.La storia di Marco ( nome di fantasia) , dieci anni è la storia di tanti ragazzi che non eccellono in uno sport e vengono derisi. Esclusi. Umiliati. Dall'allenatore e dai compagni di squadra. Il "caso" di Marco è diventato di dominio pubblico e da un lato è un bene, perché come lui ci sono tanti altri Marco che soffrono per il suo stesso motivo. Non è normale che in primis un allenatore vessi un suo allievo e che permetta che facciano lo stesso i compagni di squadra. Non è giusto che un ragazzo di dieci anni non venga neanche convocato alle partite, perché non abbastanza bravo rispetto agli altri. Parliamo di campionati tra bambini, ragazzi. Non di Champions League. Tutti hanno diritto di giocare e divertirtsi. Va bene la competizione, non certo il bullismo o la discriminazione. Tanti auguri Marco: questa squadra non ti merita. Sono certa che ne troverai un'altra migliore o uno sport più adatto a te, dove potrai dimostrare quello che vali.

30.1.25

Monica Giorgi, ex tennista anarchica: 'Per gli ideali finii in galera. Lea Pericoli? Gemelle diverse. Ho dato del fascista a Panatta'


  da msn.it 

Se fossi morta, mai avrei cambiato idea». La porta del condominio di Giubiasco, distretto di Bellinzona, si spalanca sugli accadimenti più misconosciuti dello sport italiano. Sulla soglia di questa storia densissima e a tratti drammatica, lei, Monica Giorgi in Cerutti per matrimonio dichiaratamente di


convenienza con un cittadino svizzero, classe ’46, livornese, anarchica, atea, ex talento del tennis immolato all’attivismo politico negli anni in cui per l’ideale si poteva finire in galera con l’accusa (friabile) di aver partecipato a un rapimento di matrice politica. Aveva calpestato i courts con gli amici Lea Pericoli e Adriano Panatta e giocato a Wimbledon quando il 30 aprile 1980, la stagione terribile dell’omicidio di Piersanti Mattarella, del sangue nelle università (Bachelet a Roma, Galli a Milano), per le strade (Tobagi) e della strage di Bologna, Monica venne arrestata. Due anni dentro, sognando il blu delle sue onde («Domani si va al mare» è il bel titolo di un libro appassionato scritto per Fandango con Serena Marchi), una condanna a 12 derubricata per «associazione sovversiva», il capo d’imputazione di cui Giorgi va fiera. «Me lo tengo stretto, non discuto. È quello che volevo fare: sovvertire il potere. Con gli anarchici di Livorno, i volantini, i discorsi, l’attivismo: nulla più. Oggi non sarei così testarda: la vita mi ha cambiata. Non direi più ad Adriano che è un fascista perché ha scelto di andare a giocare la Davis da Pinochet».

Le radici a Livorno contano nel suo romanzo, Monica?
«Eccome! Livorno è la mia carne, il mio sangue, le mie parole. Mi chiedo se dopo tanti anni in Svizzera dovrei tornarci a morire. Dell’Italia mi attraggono gli odori, i sapori, le scritte sui muri. Ci vado volentieri, da quando le mie pendenze con la giustizia sono risolte. Però lascio anche che le cose accadano».


Ne sono accadute di cose, eccome: gli anni gioiosi del tennis, l’avvicinamento ai movimenti non violenti, le campagne a difesa dei diritti dei carcerati, l’esilio in Francia, la tranquillità in Svizzera.


«Le cose più belle sono quelle che capitano. Sono stocastica, aleatoria: qualcosa succederà. Preferisco essere illusa, piuttosto che pregiudizievole. Certo rischio la delusione, ma è da lì che scaturisce consapevolezza. Il processo mi ha fatto scoprire la mia dabbenaggine: siccome sono presuntuosa, ci sono passata sopra. Vede, io penso in livornese, che non è una lingua, è un vernacolo: viene da verna, schiavo, e lo schiavo subisce».


I primi guai quando la Federtennis italiana la squalifica per aver indossato a Johannesburg, in pieno apartheid, una T-shirt con un nero e una bianca che fanno l’amore.

«Indegna di rappresentare l’Italia, scrissero nella lettera con cui mi fermavano un anno. Ci sono cose che sono sfuggite di mano alla gioventù dell’epoca, ma eravamo pieni di entusiasmo. Il libro è stato un lavoro di espiazione catartico: ha riaperto le ferite, lascio che sanguinino. Da ragazza mi piaceva provocare il potere, a 79 anni invece lo comprendo: lo vedo come parte necessaria per cui certe cose devono finire o cominciare. Non mi giudico: ho fatto quello che mi sentivo».


In vacanza con Lea Pericoli imbrattò di escrementi lo yacht del vicino di banchina.
«Lea lo detestava: fu un gesto d’amicizia. La vera ingiustizia di quegli anni è la morte di Pinelli che vola giù dalla finestra della Questura di Milano. Quello è stato il mio ’68. Lea ed io eravamo agli antipodi solo all’apparenza. La divina e Monicaccia, come mi chiamava lei: che coppia»

Cosa vi legava?

«Ti muove quello che non hai. Io ero la parte che Lea teneva sopita. Erano i tempi in cui per farti un complimento ti dicevano: brava, giochi come un uomo. Sarà un uomo che gioca bene come me, ribattevo! Kant scrive che il cielo stellato è sopra di noi ma la donna il cielo stellato ce l’ha dentro. Lea mi chiedeva di Kafka, Gandhi, delle mie letture filosofiche, della rivista anarchica “Niente più sbarre”. Ci siamo volute molto bene. Tra tanti bifolchi qualunquisti, l’unico maschio con cui potevo parlare era Panatta. Quando giocavamo il doppio insieme e ci facevano un lob, fermava la palla: alt, qui lo smash lo faccio solo io!».

A Lea fece un gran regalo: la lasciò vincere in semifinale agli Assoluti ’71. Perché?
«Il regalo lo feci a me: volevo mettermi alla prova. Ero già incasinata con la politica, mi scrivevo con i detenuti anarchici, ritirarmi mentre stavo vincendo fu la mia personalissima protesta contro il sistema. C’era dell’autolesionismo? Non credo. Avevo consapevolezza dei miei limiti: sapevo che la Bassi in finale non l’avrei mai battuta. Lo rifarei mille volte. È un’economia un po’ perversa, lo riconosco. Sono vissuta di ideali, anche alla rovescia. Nell’ideale non c’è un sopra e un sotto, una destra e una sinistra. L’ideale, quando ci credi, è l’eterno. Ecco, io sentivo di dover seguire solo quello».


Ma a chi dava noia, in fondo. Se lo è chiesto?

«Molte volte. Eppure mi bastavano il mio tennis, il mio mare, una motocicletta, i miei libri, 100 mila lire al mese. Andavo a trovare in carcere l’anarchico Fantazzini e mi arrovellavo: che male faccio? Ma a quei tempi la controinformazione infastidiva tantissimo, e io mettevo in dubbio che Pinelli fosse caduto da solo dalla finestra. Sì, davo fastidio. E schiacciando un moscerino di 45 chili come me il potere dimostrò tutta la sua debolezza».


Ci ha messo del suo.

«Ammetto il gusto di esibirmi, anche in campo mi piaceva giocare con il fuoco. Mi chiami a rete? E io ti faccio una palla corta. Le valchirie rimanevano ferme sul posto. Ero agile, velocissima, rimandavo tutto. Per battermi dovevano sopraffarmi con la potenza, ma anche in quel caso le costringevo a farmi il punto due volte».


Da chi ha preso?

«Da mio padre l’estroversione, a costo di fallire per troppa esuberanza. Da mia madre l’essere parca: non tirchia, parca. È lei, con le sue imperfezioni e i nostri conflitti, ad avermi autorizzato a essere libera: se fosse stata perfetta, non me ne sarei mai andata. Invece si lamentava di me, terzogenita dopo due gemelle, in continuazione. Si è resa insopportabile: un dono. Quando lessi “L’ordine simbiotico della madre” di Luisa Muraro fu un’illuminazione».


Qual è stato il giorno più felice della sua vita?

«Il 29 aprile 1982, un giovedì. È il giorno della lettura della sentenza che mi riduce la pena a due anni, già scontati. Nell’aula del tribunale lancio un urlo belluino: domani si va al mareeeeee!».


Come fa a vivere a Bellinzona, tra le montagne?


«Eh ma torno spesso. E poi il mare preferisco andarlo a cercare: quando ce l’ho lì a disposizione, mi viene a noia».


L’incontro più forte?
«Giovanni, il custode della federazione anarchica livornese. Autodidatta, nudo davanti alla vita, miope, ma anche un accademico senza titolo di studio. Fu il primo a parlarmi delle fosse di Katyn, il massacro dell’intellighenzia polacca da parte dell’Urss. Quando morì Francisco Franco si fece un volantino. Volevamo scriverci: viva la morte. Intervenne Giovanni: macché, scriviamo viva la libertà!».


Rifarebbe tutto?

«Paro paro. Forse correggerei la mia ingenuità, ma è un puro esercizio retorico».


Anche le cose che le hanno provocato più dolore?

«Il dolore lo metto nello stesso paniere della felicità».


È vero che nel ’76 in Cile Panatta, memore delle vostre discussioni su Pinochet, propose a Bertolucci di indossare la maglietta rossa nel doppio di Davis anche come omaggio alla militanza dell’amica Monica Giorgi?
«Non lo so, non credo. Dovrebbe chiederlo a Adriano».


E la sua, di maglietta, quella della coppia mista che fece indignare il Sudafrica e la Federtennis, che fine ha fatto?


«Forse era a casa di mia madre ma con la sua morte è andata persa».


Segue il tennis, oggi? Jannik Sinner e i suoi fratelli l’hanno riportato in auge.

«Sì, questa generazione di giocatori mi ha riavvicinata al mio sport. Però non gioco più: mi fanno male le ginocchia. I miei preferiti sono Federer e Alcaraz, che è molto più divertente di Sinner. Adesso non gli serve per vincere, ma Jannik dovrà imparare a scendere di più a rete».


Oltre al tennis, chi è stato il suo più grande amore?

«Manrico, un uomo bellissimo che mai avrei immaginato potesse innamorarsi di uno sgorbio come me. E Maddalena, incontrata in carcere: con lei c’era molto più del sesso, che in una relazione non è necessario».


E la rabbia, motore potente, dove l’ha messa a quasi ottant’anni, Monica?

«Con quel fisichino dove vuoi andare? mi dicevano. Alle feste nessuno mi invitava mai a ballare. Mi sentivo inadeguata: ho fatto di tutto per riscattarmi. Ha ragione, la rabbia è una forza potente. Ma la mia, soprattutto, è stata passione di vivere».

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