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13.10.24

«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere corriere della calabria 11\10\2024 di emiliano morrone

 Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
Grazie per l'attenzione e cordiali saluti.
Emiliano Morrone 



«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere

Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria

 Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38

         di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale di San Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.

L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio.
La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci.
«Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.


Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali.
Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.

Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica.
Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)

14.7.24

Storie di migranti e andrangheta : da Roccantica a New York. Una storia di famiglia ., DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

 due storie    ua   d'emigrazione  del secolo scorso    un  altra  delle  cause  . che confermano lo studio  de la  società sparente  di  Emiliano morrone  (  wikipedia  e   account  facebook    )

er  approfondire  
emigrati.it - associazione internet degli emigrati italiani


da https://lavocedinewyork.com/people


Storie di migranti: fu così che Vittoria tenne fede al suo nome 1912, da Roccantica a New York. Una storia di famiglia testimonianza dell'esodo

di Luigi Troiani *



Vittoria e il marito Antonio / Per gentile concessione della famiglia Perfetti-Feroli


Nonostante il rarefarsi dei protagonisti dell’esodo dall’Italia nel secolo dell’emigrazione (1861-1970), la memorialistica dedicata al fenomeno continua a godere ottima salute. Se le generazioni che hanno ispirato quelle pagine poco alla volta tendono a scomparire, sono spesso i figli e i nipoti a testimoniare quella che giustamente considerano epopea di famiglia, anche per senso di gratitudine e rispetto.



Nel genere, non tutte le pubblicazioni meritano eguale stima sotto il profilo letterario, ma – quando sincere e documentate – tutte vanno ad arricchire l’elenco dei racconti di vita collettiva e individuale che formano la memoria mai colma, necessaria alle comunità di destinazione e di origine. Solo attraverso quella memoria si possono rinsaldare i legami privati. Ma anche quelli pubblici – istituzionali, culturali ed economici – che tante località italiane hanno costruito con i 



luoghi dove loro ex cittadini sono emigrati.Simone Feroli

Un buon esempio di come questa memoria detta memoria possa essere tramandata, viene da Storia di una emigrata, un lavoro di Simone Feroli che non casualmente porta in premessa una frase di Wang Shu: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.

La narrazione si occupa della vicenda della zia dell’autore, “Vittoria, che nel 1912 partì per una nuova vita negli Stati Uniti”, abbandonando Roccantica, comune della provincia di Rieti, a 26 anni. Siamo all’antivigilia della Prima grande guerra, e la giovane donna parte, come altre centinaia di migliaia di italiani, per il mal operare degli allora governanti, che invece di dedicarsi allo sviluppo delle sacche di povertà del paese, andavano per guerre coloniali nel Mediterraneo, combattendo l’impero turco per sottrargli i territori libici.

Viaggia da sola verso Napoli e prende, come milioni di connazionali, il transatlantico della speranza, che al termine della lunga e faticosa traversata approda vicino a Liberty Statue, inaugurata proprio nell’anno di nascita di Vittoria. Benché debba lasciarsi dietro gli affetti che l’hanno accompagnata dalla nascita, ha deciso di lasciare la vita contadina, tra campagna, mulino e forno, botti di vino e di olio, e sfidare la sorte della vita nel paese sconosciuto ma “favoloso”. Se ne sente attratta e spera che lì possa svoltare.

Non va completamente allo sbaraglio: ad attenderla, come capita a un po’ tutti gli italiani che sbarcano al molo di Ellis Island, ci sarà un parente o un amico di famiglia. Vittoria, dopo il lungo viaggio in mare iniziato il 18 aprile è attesa mercoledì 1° maggio dal cugino Attilio che con la moglie Olga vive a Eastchester nel Westchester newyorkese. Al cugino toccherà trovarle un giaciglio e qualche lavoretto, tanto per cominciare. Poi sarà lei a darsi da fare. L’arrivo ad Ellis il giorno della festa dei lavoratori è comunque di buon auspicio.

A poco più di quattro mesi dall’arrivo, Vittoria andava in sposa a tal Antonio Cinquina, vedovo, con il quale sarebbe rimasta tutta la vita. Adesso era “sistemata” come si diceva allora, aveva casa e famiglia a Tuckahoe e ne era la “padrona”. I coniugi Cinquina si sarebbero presto trasferiti nel Bronx e qui avrebbero allevato i figli che nel frattempo, come usava, il buon Dio inviava copiosi.



Per l’autore ricostruire i fatti della quotidianità, all’interno del progressivo inserimento di Vittoria nella società americana, con il contestuale progressivo distacco dal passato italiano, è obiettivamente difficile, a causa della frammentarietà delle testimonianze orali e scritte e della facilità con cui le une possono entrare in conflitto con le altre. Dal quadro complessivo si ha il relato di una vita sufficientemente armoniosa, costellata di qualche sventura e di tante gioie. Vittoria e Antonio mettono al mondo cinque figli che vanno ad aggiungersi a Michelina, dote del primo letto.
Agli atti del censimento del 1925 il nucleo famigliare figura ancora compatto allo stesso domicilio. Il capofamiglia è operaio in una raffineria di zucchero, Vittoria è casalinga. Nel censimento del 1950, riporta Feroli, “risulta che Antonio di 71 anni e Vittoria di 64 a casa erano rimasti da soli. I figli si erano sistemati, chi più e chi meno.” A parte Enrico, chiamato a combattere nel luglio 1943 -e morto col grado di caporale nel marzo 1945 – quattro giorni prima del ventiseiesimo compleanno – da radio-operatore nel 579th 392th Bomb Group. Lo avrebbero insignito della “Purple Hearth”. Aveva gli anni di mamma Vittoria all’arrivo a Ellis Island.
Tante e belle le foto di Roccantica che, in coda, corredano il libro di una fetta d’Italia sparita.

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Insegna Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American

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DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

Terra di ’ndrangheta Il Comune calabro dove nessuno si è candidato è di nuovo commissariato Tra abbandono e omertà, qui il tempo torna indietro E il futuro non arriva mai

Un vecchio canto della Locride vuole che, da queste parti, in mezzo all’aspromonte, un professore iniziò a sezionare centinaia di banditi morti. Cercava tracce di tanto rancore esploso col brigantaggio dopo l’unità d’italia e poi, più tardi, con l’onorata Società. Molti risultarono ammalati di cuore. I più riportavano invece strani funzionamenti delle ghiandole surrenali: da cui, la ferocia incontenibile. “Li sudditi son tutti immiseriti – suonava il canto – ministri, senatori e deputati fanno communa e vui padre Vittorio (Vittorio Emanuele II, ndr) non guardate. Vui jiti a caccia, fumati e durmiti”.

Ad aver paura di guardare, qui, a San Luca, non è stato solo il re. Alle amministrative, meno di un mese fa, non si sono presentati candidati. Come già nel 2017 e nel 2018. Dopo lo scioglimento per mafia nel 2013, il Comune è stato sempre commissariato. Prima per infiltrazione mafiosa, poi, nel 2015, per il non raggiungimento del quorum dei votanti. E infine perché nessuno si era candidato. “È la nostra protesta contro lo Stato”, dissero i cittadini. Fino al 2019. Quando ad avere il coraggio di presentarsi e a essere eletto fu l’infermiere in pensione Bruno Bartolo, 73enne. Raggiunto oggi da quattro avvisi di garanzia (per ipotesi di reati ordinari, non di mafia), ha deciso di non ricandidarsi. “Nessun condizionamento né pressioni di ’ndrangheta – spiega – le istituzioni non mi hanno aiutato. L’avviso di garanzia è stato un pugno allo stomaco, ma il motivo è la solitudine”. Così il tempo a San Luca è tornato indietro, come solo in Calabria accade. A occuparsi dell’ordinaria amministrazione è tornato un commissario. E, ancora, si è insediata la Commissione d’accesso antimafia, per accertare eventuali condizionamenti nell’amministrazione Bartolo. Ad annunciarla, la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo. Direttamente da San Luca: “È emersa un’inerzia totale dell’amministrazione. Siamo qui per sostenere la speranza di chi non vuole assoggettarsi al mandamento di questo territorio. E abbiamo il compito di dire alle donne e ai bambini che cambiare si può e si deve”.

Visto dall’alto San Luca – assieme a Platì e ad Africo tra i paesi più isolati della Locride, pur essendo coi suoi 105 km² di area montana il secondo Comune della provincia di Reggio Calabria – è una macchia grigio-gialla. Spunta dalla pancia di un vallone che cinge l’aspra montagna, “montagna bianca” in greco. Una fiumara prosciugata, a un fianco, rocce sospese su voragini, dall’altro. Sospese e abbandonate come le vite dei suoi 3.700 abitanti che paiono fantasmi. Qui sono imparentati tutti con tutti. E hanno il cognome pesante: Nirta, Strangio, Pelle, Vottari, Mammoliti. Gli arrestati per 416bis sono 115, 250 quelli per associazione finalizzata al traffico di droga, 50-60 i residenti raggiunti da altre misure cautelari. “Ma non simo tutt’ d’ndrangheta, chiaro?”, dice Don Tonino Saraco, rettore del Santuario della Madonna di Polsi, il luogo sacro finito su giornali e tv di tutto il mondo per i famosi summit di ’ndrangheta in cui i vertici di tutti i “Crimini” o “Province” erano soliti incontrarsi, per alleanze, strategie, riti di iniziazione. Era il 2010 quando le telecamere dei carabinieri li ripresero riuniti attorno a Domenico Oppedisano, capo-crimine di allora, ma esiste traccia di questi incontri dalla fine dell’800. Don Tonino è il religioso scelto per riportare il santuario “all’immagine di ciò che deve essere: luogo di preghiera e di accoglienza dei pellegrini ma anche spazio di crescita sociale e civile che non si concilia con illegalità e malavita”. E, nonostante le intimidazioni, don Tonino, uno di quei calabresi cocciuti e veraci, sta portando avanti la sua missione: ha spostato l’effigie della Madonna adorata dai boss (non c’è bunker per i latitanti che non ne conservi l’immagine o la statua) per far spazio al busto di don Giuseppe Giovinazzo, parroco decapitato nel 1989 proprio all’ombra di Polsi; ha preso con sé a lavorare alcuni detenuti da reinserire; ha collaborato per ripulire l’area mercatale, lì dove ogni bancarella veniva assegnata seguendo gerarchie mafiose. “Eppure non si esce dalla rappresentazione di San Luca come il ‘Locale-mamma’ di ’ndrangheta. Ci manca il coraggio di ribellarci pubblicamente. Per paura, per autodifesa. Ma stiamo facendo, pur se silenziosamente, cose straordinarie”.

È che in certe situazioni, lo sforzo di evitare il conflitto aperto può diventare omertà. E la Chiesa per molti anni, con l’ex parroco di San Luca e del santuario di Polsi, quel don Pino Strangio condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, è stata connivente se non protagonista. Si deve a monsignor Francesco Oliva, vescovo della Locride, un cambio di passo. Al posto di Strangio, ha nominato parroco dell’unica chiesa di San Luca un 35enne al primo incarico, Don Gianluca, che ha aperto l’oratorio che qui non esisteva. Il vescovo ha scritto una lettera alla cittadinanza: “La mancata presentazione di liste è una resa. Conosco le sofferenze e le ferite di questa comunità, ma il governo della Città è nelle nostre mani e non possiamo arrenderci. Altrimenti abbiamo perso tutti, lo Stato e la Chiesa”. Così è nata l’idea di lanciare una scuola di formazione politica, “perché abbiamo bisogno di una buona politica, cosa difficile ma possibile. Alcuni paesi hanno

perso la fiducia nelle istituzioni, credono che non valga la pena andare a votare... non dobbiamo accettarlo”.

A San Luca alle ultime politiche l’affluenza è stata del 22%. È una vecchia storia quella del paese appestato e dimenticato. Da quando – era il 1592 – i pastori montanari dell’antico villaggio di Potamìa, costretti dalle frane, scesero più a valle a fondare San Luca. Cominciò così, tra miseria e sofferenza, la vita errante di questo popolo, con il miraggio di mutevoli terre promesse. Ieri le ricchezze accumulate negli anni dei sequestri. Oggi quelle del narcotraffico mondiale. È qui che passano la droga e le armi che riforniscono le piazze di tutte le mafie. È qui che sono nati e cresciuti i rampolli delle note famiglie – tutti giovanissimi, anni 2000 – tra i latitanti più pericolosi del Paese. Ed è da qui che 16 carabinieri, comandati dall’ottimo maresciallo maggiore Michele Fiorentino, di stanza a San Luca da 21 anni, instancabilmente danno la caccia alle stesse famiglie, agli stessi cognomi, alle stesse persone. Chi, come il brigadiere Carmine Tripodi, anche a costo della vita. “Sono passate le generazioni, ma siamo tornati indietro. Sa cosa si dice qui? Che se non avete un precedente non vi potete sposare...”, racconta con un riso amaro il comandante. “È un gioco delle parti: noi stiamo da una parte, loro dall’altra”.

La gente ha paura di restare, ha paura di venire, ha paura di lavorare a San Luca. Eppure, a colpire sono le tante macchine di cilindrata pesante – con targa tedesca, come un memento di Duisburg – che si muovono su strade deserte in mezzo alle classiche case “non finite” calabresi, coi piani di mattoni in dote per le figlie femmine e i fiocchi ai cancelli per la Madonna di Polsi. Soldi, tanti, ne circolano (leggendario il ritrovamento da parte dei carabinieri di sei milioni di euro sottoterra). Donne in giro non se ne vedono. Solo uomini, anziani, a cercare ombra sotto gli oleandri o seduti sulle ringhiere. Nonostante l’indice giovanile tra i più alti d’italia – 785 ragazzi su 3.700 abitanti – la vita ha mantenuto molti dei vecchi usi, oltre ai principi dell’onore e del rispetto. Le ragazze, per esempio, vengono “scelte” durante la “vetrina” della processione di Pasqua. Si sposano ancora bambine e fanno di media 4-5 figli. Poi vivono in casa, chiuse. È un’italia, se è Italia, di 80-100 anni fa. C’è chi, come il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è convinto che per luoghi “costituzionalmente incompatibili con lo Stato di diritto”, ci sia bisogno di “un progetto che metta in campo strumenti non ordinari, altrimenti il rischio è lo sfiancamento dello Stato”. E lo Stato qui si conosce solo quando viene inaugurata una caserma: allora si vedono ministri e qualche politico locale. Ma quando ha aperto quella ad Africo Nuovo, in un ex villone sottratto ai Morabito, nessun cittadino si è presentato. Anche i bambini con le bandierine tricolori erano scolari di un altro paese. “Queste persone sono rimaste ostaggio di quella agenzia diseducativa che si chiama ’ndrangheta e hanno visto la politica trattare coi propri aguzzini. Facile dire loro ‘ribellatevi’... La strategia qui è da sempre la stessa: siamo al quarto commissariamento. Ma nel frattempo i processi democratici non sono cresciuti né sono stati sgominati i clan, quindi...”. Francesco Mollace è uno di quegli insegnanti che ci crede tanto. Docente di Filosofia e storia e membro del Forum regionale terzo settore e scuola, è il presidente di Civitas Solis, che gestisce, assieme a Save the Children, il “Punto Luce” di San Luca. L’unico spazio di aria – assieme a Libera con la sua referente Deborah Cartisano – per bambini e mamme del luogo. Coi loro progetti, dai corsi di robotica alla musica, dalla ginnastica all’inglese, Francesco e le educatrici dimostrano che, con un’alternativa, è possibile togliere a questi ragazzi lo stigma che suona come una condanna: “Sono di San Luca”. “C’è un enorme potenziale che, se non orientato, prende altre vie. Bisogna che qualcuno ci creda. In Calabria abbiamo, tra gli studenti, il più alto tasso di competenze alfabetiche e numeriche non adeguate e il più basso indice di lettura di libri e quotidiani (4%). Il cancro puoi decidere se curarlo sezionando, tagliando, asportando. Oppure, come sta avvenendo in oncologia, rigenerando i tessuti, con l’immunoterapia”.

Nicola Gratteri, profondo conoscitore di queste terre, ripete in continuazione “meglio una scuola che un carcere”. Ma a San Luca di scuole ce n’è una sola e senza un dirigente fisso da oltre due anni. Il padre di Corrado Alvaro, scrittore che qui è nato, era un maestro. Fece “un patto con l’avvenire. Che quanti figli avrebbe avuti li avrebbe fatti studiare”. Ma l’incitamento continuo era di “abbandonare il paese maledetto”, ricordava il figlio Corrado. Che mai dimentico dei suoi anni a San Luca, scrisse: “L’adolescenza è una riserva per quando la fantasia avrà cessato di parlare”. Ma ci sono luoghi in cui da sempre resta muta. O quasi.

15.5.24

La fretta, l’omologazione dei desideri e lo smarrimento esistenziale dei tempi moderni - Emiliano Morrone

 Tu fretta di vivere qualcosa, e ogni cosa è già un ricordo liso, e adesso la pubblicità». Con questo verso, Claudio Baglioni espresse, a metà degli anni ’80, la voracità del consumismo, che bruciava – e brucia – il futuro e il passato insieme, nell’eterno presente commerciale. Più avanti, nel ’92, il sociologo Roland Robertson avrebbe definito i tratti della nuova era globale come «compressione del mondo e intensificazione della coscienza mondiale in quanto insieme».
Della contrazione del tempo e dello spazio René Guénon si era occupato già nella prima metà del secolo scorso. Nel suo volume “Il regno della quantità e i segni dei tempi”, del ’45, si legge del tempo sempre più accelerato, che «contrae lo spazio e se stesso progressivamente». Dunque, secondo il filosofo francese, «la fretta, caratteristica che accompagna i moderni in ogni cosa, non è altro che la conseguenza dell’impressione confusa che essi provano di questo fatto». “Essere senza tempo” è il libro del filosofo Diego Fusaro, del 2010, che analizza e critica la «filosofia della fretta», inquadrata a partire dall’accelerazione della storia operata dalla prima Rivoluzione industriale. Nel pieno di Industria 4.0, iniziata nel 2011, oggi l’accelerazione della storia è ancora più marcata e sfuggente rispetto alla prima decade degli anni 2000, e la memoria umana appare, nel quotidiano, volatile tipo la Ram. A cena non ricordiamo che cosa abbiamo mangiato a pranzo: la proiezione della mente e della coscienza è verso il domani inteso come giorno dopo, spesso meccanica, priva di progetto, senso, obiettivo.Dalla seconda metà degli anni Novanta, il tempo sembra scorrere più rapidamente. Internet conosce uno sviluppo continuo: aumenta la velocità di connessione, si moltiplicano le offerte del servizio e si allarga l’accesso alla rete: il mondo entra nelle case, di New York come di Pallagorio (Crotone). È la vittoria di un egualitarismo apparente, prodotto dal sistema capitalistico per elevare consumi e profitti: a Simeri Crichi (Catanzaro), per dire, possiedono gli stessi cellulari che girano a Los Angeles; a Scandale (Crotone), per mero esempio, si è visto lo stesso abito indossato dalla diva della tv appena maritata. È il trionfo delle merci, che escono dal mercato della piazza locale – il quale scompare come la partecipazione diretta dei sensi alla compravendita – e giungono ovunque, sono acquistabili in ogni momento, da ogni parte.  Fretta continua, perdita della memoria, omologazione dei gusti e dei desideri e smarrimento cognitivo ed esistenziale sono, come abbiamo visto, le costanti del nostro tempo, che riduce lo spazio, come aveva intuito Guénon; anche perché, aggiungiamo, nel viaggio perpetuo delle merci non esiste più centro né periferia, non c’è geografia fisica né politica. E oggi merci sono pure i dati, che si spostano a velocità impressionante, in quantità smisurate.

Spot Barilla 1986

Allora questo movimento di merci, dati e (ovviamente) capitali determina il dominio di un’antropologia, dell’homo emptor, cioè dell’uomo acquirente, che rimuove e sostituisce usi, costumi e tradizioni locali. Così svanisce il senso della famiglia e della tenerezza che la pubblicità «Dove c’è Barilla, c’è casa», del 1986, l’anno di Černobyl’, racchiudeva e traduceva in 60 secondi nel mostrare il salvataggio di un gattino sotto la pioggia da parte di una bimba con due trecce e l’impermeabile giallo, una Greta Thunberg ante litteram, che per cena ritornava dai genitori dopo aver perduto lo scuolabus e portava con sé quel piccolo amico. Prova a recuperarne il sentimento il recente spot del Mulino Bianco «C’è un mondo più buono», il quale mostra l’autista di uno scuolabus che, senza palesarsi, riporta a una bambina il proprio orsacchiotto, simbolo di tenerezza e fantasia in un mondo che, è il messaggio morale della pubblicità, avrebbe bisogno di credere e sperare, come indica l’occhio che uno spaventapasseri, in un campo di grano biondissimo, strizza al pupazzo della piccola. L’idea è geniale, il contesto è mutato e, a differenza del richiamato spot del 1986, in cui era solito, naturale, che una bimba desse casa e famiglia a un micetto abbandonato, oggi le buone azioni sono ben più rare e i gattini si possono acquistare come i pesciolini, i pappagallini o i criceti, quali riempitivi del vuoto domestico

9.3.24

Vincenzo Mancina, l’artista che ha riprodotto le tavole del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore – di Emiliano Morrone




ne ha dipinto 13, acrilico su tela e con la traduzione in italiano dei testi latini

Pubblicato il: 08/03/2024 – 6:40
di Emiliano Morrone





Le Tavole di Gioacchino tradotte in italiano dall’IA

Dall’interpretazione ai fatti, Mancina ha quindi riprodotto le tavole del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Come amanuense mosso da forza irrefrenabile, d’impulso ne ha dipinto 13, acrilico su tela e con la traduzione in italiano dei testi latini; tranne la spirale di “Mistero della chiesa”, che per intero riporta all’esterno il XII canto del Paradiso, «quale mio omaggio – chiarisce l’artista – a Dante Alighieri». «Per le traduzioni mi sono in parte servito – racconta il nostro interlocutore, cordiale e ospitale come pochi – dell’Intelligenza artificiale, che ho messo a confronto con alcuni libri. Ora Gioacchino è intelligibile dalle persone comuni, perché in ciascuna tavola è presente in lingua italiana la spiegazione che lo stesso abate diede in latino dei propri disegni. Il mio obiettivo è tradurre in altre lingue e portare ovunque la bellezza, la significanza e l’attualità delle opere figurative di questo monaco straordinario, capace di farsi ascoltare dall’imperatrice Costanza d’Altavilla e dai Papi del suo tempo; di costruire nel concreto una comunità di persone sulla base di un modello teologico, assieme urbanistico e politico, riprodotto anche nelle Americhe; di profetizzare uno stato terreno di pace, armonia e giustizia derivato dalla propria esegesi biblica».

L’abate florense e il territorio silano

«Il punto di partenza – sottolinea Mancina – è che Gioacchino concepì qui le sue opere, e noi spesso lo dimentichiamo, presi dalla monotonia quotidiana, dall’ansia del presente, dalla cattiveria che il nuovo capitalismo invisibile trasfonde dentro le coscienze. L’abate lavorò qui, agì qui e da qui si fece conoscere nel mondo. Questa è la più grande ragione di meraviglia, se pensiamo che il suo pensiero resta oggetto di curiosità intellettuale e di studio in tutto il pianeta, mentre il nostro territorio suole mettersi ai margini, ricadere nel vittimismo e nell’autocommiserazione, volgere lo sguardo verso il basso».


Il filosofo Tagliapietra: «Gioacchino introdusse un tempo nuovo»

Che cosa fece l’abate calabrese, qual è il suo merito principale e perché in tanti si innamorano del suo linguaggio e del suo messaggio? Nell’articolo “Gioacchino da Fiore: millennio e utopia”, lo spiega in sintesi il filosofo Andrea Tagliapietra, peraltro fra gli autori della sceneggiatura del film, di Jordan River, “Il Monaco che vinse l’Apocalisse”, dedicato alla vita dell’abate. «Va sottolineato come l’apporto di Gioacchino da Fiore – scrive Tagliapietra – sia stato quello di introdurre un tempo nuovo e una nuova iniziativa storica – il terzo status, la terza età dello Spirito –, che sostituiscono all’agostiniana tensione fra la civitas Dei e la civitas terrena, ovvero fra bene e male e fra trascendenza e immanenza, un conflitto che attraversa l’ecclesia stessa (ecclesia carnalis/ecclesia spiritualis), ma che ha come suo effetto quello di rendere positivo, almeno in parte, il saeculum medesimo».

«Una risposta rivoluzionaria»

«Nell’opera di Gioacchino, nel suo pensare per figurae e nell’impegno di rinnovamento del monachesimo e di ricerca dalla vitae forma apostolica, viene tentata una risposta diversa, autenticamente rivoluzionaria – sottolinea Tagliapietra – seppur interna alla tradizione cristiana, per andare oltre il blocco teologico-politico agostiniano senza necessariamente intraprendere la via della secolarizzazione».


Cristo, Guevara, il cinema e la pubblicità sociale

Nel frattempo, Mancina mostra il suo laboratorio e si sofferma su un quadro datato: un crocifisso con il volto di Ernesto Guevara. «Due figure giganti, Cristo e il Che», commenta, «che hanno sempre ispirato i miei sentimenti e le mie scelte». È «la grande chiesa» cantata da Jovanotti? È una suggestione del globalismo? È il pensiero dell’unificazione teorizzato da Gianroberto Casaleggio nel celebre video “Gaia”? Mancina insiste sul proprio passato per leggere il presente e immaginare il futuro. Nel 1977 era un ragazzo sveglio, curioso, inquieto. Adolescente, allora incominciò a lavorare con il padre al Cinema Eden di San Giovanni in Fiore. Lì gli nacque la passione per le immagini e l’equilibrio ambientale, due caratteristiche del pensiero di Gioacchino. La Rai aveva appena iniziato le trasmissioni a colori, un operaio guadagnava più di 150mila lire al mese, il giornale costava pochi spiccioli, videogiochi e walkmann si affacciavano sul mercato e John Travolta era entrato nel grande schermo con “La febbre del sabato sera”, musiche dei Bee Gees e su tutte Stayin’ Alive. Le arti visuali erano legate all’industria e al commercio. Mimmo Rotella sperimentava frottage, effaçage e plastiforme, poi avrebbe maneggiato le «sovrapitture». Proprio nel ’77, una campagna di “Pubblicità progresso” dedicata all’acqua descriveva inondazioni, frane e smottamenti in metà dei Comuni italiani e avvertiva: «Abbiamo trasformato una fonte di vita in un nemico, che passa, distrugge, uccide».

Fra stragismo e guerra fredda

L’Italia era in mezzo al terrore, alle stragi, ai depistaggi, alle trame della mafia e del potere: dalla sparizione di Mauro De Mauro all’assassinio di Giovanni Spampinato; dall’attentato dell’Italicus all’omicidio di Aldo Moro e di Peppino Impastato; dalla bomba nella stazione di Bologna all’uccisione di Piersanti Mattarella, poi di Pio Latorre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e così via. Questo era il quadro dell’epoca, prima che alla Casa Bianca arrivasse Ronald Reagan con il taglio delle imposte, lo Scudo spaziale per la guerra fredda, la riduzione degli armamenti atomici e, secondo alcuni storici, un ruolo rilevante nel crollo anticipato dell’Unione sovietica di Michail Gorbačëv.

La lezione di pace di Gioacchino

Mancina si formò, dunque, in un contesto di notevole sviluppo economico-sociale, di incertezza e creatività, di fatti angoscianti e massificazione cinematografica, peraltro esposta in dettaglio dal filosofo Slavoj Žižek in una celebre guida. «Lo riconosco: mi hanno molto forgiato, a livello di carattere e visione, le immagini, gli echi, gli effetti e i misteri di quegli anni – confessa l’artista calabrese – di benessere e violenza, di occupazione nell’ambito del lavoro e di precarietà internazionale. Nulla avviene per caso. Mio padre, soprannominato “Bombola nera”, portò il fornello a gas a San Giovanni in Fiore e, ricordo, insegnava a utilizzarlo. Credo che ognuno di noi sia chiamato a illuminare questioni che sembrano marginali, ad aprire argomenti negati alle masse, che seguono mode create, diffuse dal cinema e da ultimo soprattutto dal web. Oggi sono in corso guerre tremende: in Ucraina, nella sponda sudorientale del Mediterraneo e nell’area del Mar Rosso. Viviamo nel mezzo di una crisi totale che può compromettere la vita di ciascuno e la tenuta degli equilibri politici e ambientali del pianeta. È questo, credo, il momento per rilanciare il messaggio di pace e di speranza di Gioacchino, rendendolo il più possibile semplice e chiaro».
Gioacchino, Mancina e il risarcimento nei confronti del presente
«E non c’è modo migliore – conclude Mancina – che tornare ai disegni dell’abate», che, riassume Tagliapietra, sono il «mezzo per continuare a pensare ciò che strutturalmente non può essere inteso mediante concetti e detto ed espresso in parole, se non con formule oscure e da ultimo contraddittorie». Secondo Tagliapietra, «il tempo del terzo status, come mostra icasticamente la figura dei tre cerchi sovrapposti», deve intendersi «come trasformazione qualitativa di qualsiasi istante percorso dalla dialettica fra il tempo e l’eterno». «Vale a dire come tempo messianico in cui, analogamente a ciò che è avvenuto mediante l’Incarnazione, si dà una nuova iniziativa – questo è il passaggio fondamentale dell’analisi di Tagliapietra – dello Spirito nella storia, nell’ordine non solo del compimento rispetto al passato, ma soprattutto del risarcimento nei confronti del presente». (redazione@corrierecal.it)

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26.12.23

una piccola riflessione su un medico e su una sanità di altri tempi. di Emiliano Morrone

Premetto che  non sono  Calabrese    ,   come Emiliano  , ma  avendo passato la mia infanzia  con  questo  tipo   di sistema  sanitario   concordo  con lui . Perchè  certe  cose vannoal di là del regionalismo  e  provincialismo  . 

  da  Emiliano Morrone  Emiliano Morrone



 Buongiorno per tutto il giorno, un caro saluto e rinnovati auguri di buone feste. Qui una piccola riflessione su un medico e su una sanità di altri tempi. Grazie per l'attenzione e cordiali saluti


A San Giovanni in Fiore se n'è andato in silenzio Biagio Guzzo, uno degli ultimi medici della generazione precedente, quella che ha visto nascere il Servizio sanitario nazionale con la grande riforma del '78, della cattolica Tina Anselmi. Del dottore Guzzo hanno scritto in tanti, ricordandone la bravura, l'umanità e l'altruismo. Il ritratto più bello l'ha firmato
Biagio Simonetta, giornalista professionista che con pennellate da maestro ci ha restituito il vissuto e la missione di Guzzo, rimasto medico sino alla fine: vicino ai pazienti, lontano dal denaro, dai media e dal culto di sé. Codeste
microstorie ci aiutano a riflettere sui paradossi della modernità: in Italia avevamo i medici, come Guzzo, che venivano a casa e di ciascuno custodivano in mente il fascicolo sanitario e molto di più. Oggi non abbiamo medici ma spopola la medicina telefonica. Nel '92 la sanità fu aziendalizzata e nel 2001 regionalizzata. Nel 2010, poi, venne introdotta l'autonomia delle università e alle facoltà di Medicina si accede ancora con test spesso assurdi o talvolta truccati, come le cronache hanno riportato. Non mi pare che ci sia stato un apprezzabile guadagno in termini di salute e di eguale disponibilità delle cure. La sanità è ormai per i ricchi e la nostra memoria dura un attimo, mentre la coscienza tace, tra i rumori scomposti del web.


19.4.23

Tamara De Fazio e la sua famiglia. non sono più soli. «Inondati da un affetto meraviglioso»

 

di cosa stiano parlando
 Mariano ha nove anni e a causa di una malattia rarissima pesa 138 chili. Con i propri genitori, il piccolo viaggia per le cure necessarie, ma in Calabria non ha diritti e sua madre deve combattere ogni giorno perché gli siano riconosciuti.   segue  👇
https://ulisse-compagnidistrada.blogspot.com/2023/04/lodissea-di-tamara-de-fazio-e-della-sua.html


Mariano e la sua famiglia non sono più soli. «Inondati da un affetto meraviglioso»

La Regione, il Garante della salute, l’ortopedico Misiti e alcuni consiglieri regionali pronti ad aiutare il bimbo affetto da una malattia rara

 Pubblicato il: 19/04/2023 – 6:42
di Emiliano Morrone
Mariano e la sua famiglia non sono più soli. «Inondati da un affetto meraviglioso»

LAMEZIA TERME Ha smosso le acque la recente intervista del Corriere della Calabria con Tamara De Fazio, la mamma di Mariano, il bimbo calabrese affetto da una malattia rara che l’ha portato a pesare 138 chili all’età di nove anni. 

Anna Maria Stanganelli, Garante regionale della salute, ha contattato subito i genitori del bambino, assicurando il sostegno diretto del proprio ufficio. 
La Regione Calabria si è attivata per gli ausili protesici del caso, «sul presupposto – ci ha chiarito un dirigente del dipartimento Tutela della salute – che le famiglie dei bambini con tali problemi non debbano pagare un centesimo e che agli interessati si debba garantire la massima vicinanza, sicché nessuno può lavarsi le mani davanti a situazioni del genere». La Regione è all’opera per assicurare a tutti i bambini disabili gli ausili gratuiti cui hanno diritto e per l’acquisto della speciale sedia a rotelle di cui Mariano necessita, nello specifico con la collaborazione del distretto sanitario di Lamezia Terme.

Una legge per i minori disabili e l’offerta di Misiti

Inoltre, alcuni consiglieri regionali stanno pensando ad un’apposita legge per aiutare i minori disabili e l’ortopedico Massimo Misiti, già deputato della Repubblica, ha dato la propria disponibilità a vedere il piccolo Mariano, che ha una gamba deformata dal peso, e a contribuire in concreto ad una migliore assistenza dei bambini calabresi con disabilità riconosciuta. «Tutto ciò che è necessario – afferma Misiti, sensibile al tema della salute dei bambini – dobbiamo farlo insieme. Bisogna alimentare reti di solidarietà e di intervento a favore dei piccoli e delle loro famiglie, senza pregiudizi e tentennamenti».

«Mariano andrà in gita con i suoi compagni di scuola»

«Non è stato vano raccontare la nostra storia», dice commossa la signora De Fazio, che anticipa: «Giovedì (domani, nda) Mariano andrà in gita insieme ai suoi compagni di classe. Significa che la scuola ha confermato grande attenzione nei suoi confronti, perciò ha trovato un bus idoneo, con accesso facilitato, che gli consentirà di viaggiare senza problemi e di vivere un’esperienza fondamentale. Si tratta di un pulmino di circa dieci posti col quale una ditta privata si occupa del trasporto di persone disabili. Ho chiesto ai genitori dei compagni di Mariano se fosse stato un problema salire su quella sorta di ambulanza assieme al piccolo. I genitori sono stati solidali e i bambini non hanno esitato un attimo ad esprimere la loro volontà di stare con Mariano. Non c’è speranza più grande in una società che combatte con bullismo e cyberbullismo. È un segnale limpido alle altre istituzioni, che devono preoccuparsi degli spostamenti dei bambini come mio figlio, di cui non possono ignorare i diritti. Lottiamo ogni giorno per cambiare la mentalità e il metodo delle amministrazioni pubbliche».

Stanganelli: «Una battaglia che ci chiama a moltiplicare gli sforzi»

La vicenda di Mariano è diventata simbolica. Ed è significativo l’attaccamento alla vita di questo bimbo, che vede poco ma sa leggere e scrivere benissimo; che a quattro anni ha imparato a camminare benché all’ospedale Gaslini di Genova lo avessero escluso in modo categorico; che, come sua madre e suo padre, non si ferma davanti agli ostacoli della burocrazia, della sanità e della società, spesso lontana dalla comprensione dei problemi altrui. «La battaglia dei genitori del bambino – sottolinea Stanganelli – ci chiama a partecipare in prima persona, a moltiplicare gli sforzi, a coordinarci ad ogni livello istituzionale per abbattere tutte le barriere che impediscono l’assistenza piena dei minori in condizioni di disabilità. Questa battaglia è ora collettiva e generale. Come Garante della salute, continuerò ad impegnarmi, anche insieme al Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Antonio Marziale, perché i bambini e i ragazzi siano al centro dell’assistenza sanitaria e sociale». 

«Abbiamo capito che non siamo soli»

«Dopo l’uscita della mia intervista al Corriere della Calabria, nella nostra piccola comunità di Vena di Maida (Catanzaro) – dice De Fazio – siamo stati inondati da un amore, un affetto, una solidarietà meravigliosi. Sapevamo di essere benvoluti; sapevamo che Mariano era conosciuto e considerato in ambito locale. Tuttavia, ci hanno confortato le condivisioni dell’articolo, i commenti e i messaggi di vicinanza di migliaia di persone. Questo ci ha fatto sentire forti, ci ha fatto capire che non siamo da soli. Sono stata contattata dalla Garante regionale della salute, la quale mi ha riferito di essere rimasta particolarmente colpita dall’articolo, soprattutto in veste di mamma. La professoressa Stanganelli si è resa disponibile, soprattutto per gestire al meglio la problematica della sedia a rotelle che avevo chiesto all’Asp di Catanzaro per mio figlio. Sono stata contattata anche da un dirigente della Regione Calabria, che ha capito immediatamente la situazione e si è già messo all’opera». 

«La Regione vuole evitarci di spendere troppo»

«Ad ogni cambio di stagione – precisa la madre di Mariano – investiamo dai 400 ai 500 euro, perché i piedi di nostro figlio sono particolari. Non sapevamo che l’Asp di Catanzaro poteva anche intervenire per le scarpe, l’abbiamo scoperto dopo nove anni. Le scarpe di nostro figlio vanno realizzate su misura. Lo racconto soltanto per rendere l’idea delle spese che abbiamo dovuto affrontare come famiglia, oltre a quelle per i viaggi della speranza fuori regione. In quanto alla sedia a rotelle, la ditta interpellata ha da ultimo sentito cinque potenziali fornitori e ci ha parlato di una sedia ultraleggera che può sopportare il peso del nostro bambino. I relativi costi si aggirano intorno ai 5mila euro. Si tratta di una somma che non è coperta per intero dall’Azienda sanitaria, che ci ha richiesto di partecipare per l’importo di 1.600 euro. Ma adesso la Regione vuole vederci chiaro ed evitarci di sborsare questi soldi». 

«Abbiamo dovuto combattere anche contro l’ignoranza»

«Quando Mariano era più piccolo e la sua obesità era ancora più evidente e disarmante, ho dovuto combattere – prosegue la signora De Fazio, che di professione fa l’avvocato – con gli ignoranti, con gente che lo fotografava stupita dal suo peso e dal fatto che usasse un passeggino su misura. Eravamo arrivati a limitare le uscite, anche perché l’altro nostro figlio reagiva male alle manifestazioni di stupidità di chi fotografava Mariano. Confesso che avevo perso la fede. A Dio chiedevo perché mi avesse messo alla prova e punito così tanto, perché avesse avuto tanta crudeltà nei nostri confronti. Poi andai a San Giovanni Rotondo, da padre Pio, su insistenza del dottore Saullo, il primario della Pediatria di Lamezia Terme che per primo si era preso cura del nostro bambino. Partii arrabbiata, mortificata, depressa e rassegnata al fatto che avrei cresciuto un figlio su una sedia a rotelle. Ero avvelenata e ritenevo che il nostro viaggio fosse solo un teatro, una buona pagliacciata, perché ormai i giochi erano fatti. Andammo lì con una coppia di amici e caricammo in macchina casse di acqua, pannoloni, il passeggino enorme di Mariano e tutto l’occorrente. Mi presentai davanti a padre Pio con questo bambinone, che oltretutto era come una bambola, fermo, attonito finché i farmaci non facevano effetto. In quel santuario chiesi di avere gli strumenti e la forza mentale necessaria per cavarmela, per sopportare la croce che portavamo da anni. Tornai a casa sempre più avvelenata e angosciata, passarono delle settimane. Una mattina, mentre ero in cucina, sentii dei passetti. Mai avrei potuto immaginare che era il rumore delle scarpe di mio figlio. Credevo che i miei suoceri stessero facendo qualcosa al piano di sopra. Mi girai e vidi Mariano che si era alzato ed era andato ad attaccare al forno della cucina le formine di dolci che avevamo comprato a San Giovanni Rotondo. Restai senza parole per diversi minuti. Mariano mi disse: “Mamma, vedi, le ho attaccate, non bisognava attaccarle qua?”. Poi andò di nuovo alla sua sedia. Mi ripresi e chiamai i nonni, il papà e il dottore Saullo, che commentò: “Io lo sapevo, questo è stato l’amico mio”. L’amico suo era padre Pio». 

«Desidero pedane nei lidi calabresi per i bambini che non possono camminare sulla sabbia»

«Da quel giorno – prosegue la signora De Fazio – credo di essere tornata finalmente serena, pur non avendo trovato un epilogo a questa avventura. Da quel giorno tutto è davvero cambiato. Oggi ho ripreso in mano la mia professione ma sono anche una catechista. Non posso fare a meno di rendermi utile in parrocchia e sono contenta perché Mariano cresce e noi cresciamo con lui. Il bambino si è legato alla parrocchia e quindi ha cominciato le lezioni del catechismo, si è appassionato ai canti e alla musica che ascolta in chiesa, ha voluto servire messa e vuole continuare a farlo da quando ha visto che, senza chiedere nulla, hanno realizzato per lui delle pedane che gli consentono di raggiungere l’altare. Sono dunque molto devota e capisco che non era vero che mi era stato tolto tutto con l’arrivo di Mariano. Mi hanno mandato Mariano ed è venuto meno il superfluo. Adesso ho tutto». 
«Ora desidero – conclude De Fazio – che nei lidi calabresi ci siano delle pedane per i bambini che, come Mariano, non possono camminare sulla sabbia perché hanno la sensazione di muoversi sull’orlo di un precipizio. I bambini vanno portati al mare, che è un luogo di salute della mente, del corpo e dello spirito. E spero che qualche medico ci aiuti per la gamba colpita di Mariano e per ridurre il peso di nostro figlio, magari con degli interventi chirurgici». Il Corriere della Calabria seguirà gli sviluppi della vicenda. La storia di Mariano e la voce di sua madre sono già uscite dal dalla dimensione virtuale del web. (redazione@corrierecal.it)

17.1.22

Un’inchiesta sul desiderio di boss e picciotti di entrare negli ordini cattolici di Emiliano Morrone

 

Un’inchiesta sul desiderio di boss e picciotti di entrare negli ordini cattolici

Duro e “puro”. S’infuria il boss Giuseppe Commisso, odia i Cavalieri di Malta (Sovrano Militare Ordine di Malta, Smom). Il giovane Pietro Futia gli ha chiesto il permesso, una spinta per entrare. Quelli sono una porcheria, ribatte il
capobastone. Lo Smom succede all’antico ordine dei Cavalieri ospitalieri, è soggetto alla Santa Sede e svolge assistenza nel mondo. Perché il ragazzo di ‘ndrangheta ne è affascinato?

di Emiliano Morrone

Pietro è di Siderno (Reggio Calabria), a sud del Sud, dove un picciotto resta sempre tale. Il giovane ci pensa, il futuro gli sembra chiuso: là dal classico rispetto paesano c’è la condanna al banditismo, la fuga, il carcere o la morte sotto casa. Lavorare per «l’onorata società» è un’alea. S’accetta e fine, l’alternativa l’hanno sepolta da un pezzo in Regione. Forse in Calabria è anche peggio millantare l’appartenenza allo Stato. Serve una svolta, dunque. I Cavalieri di Malta portano privilegi, nobiltà e il “mantello” vaticano. L’orizzonte è altro. Il mafioso è un pezzente a vita, invece lì conosci chi comanda davvero, pensa Futia. Sicché puoi inserirti, lanciarti nell’impresa. Commisso lo blocca, poi si lamenta del compare Alessandro Figliomeni – l’ex sindaco «santista» – che ritiene dello Smom: «Ma Sandro se sapevamo che era là lo avremmo cacciato fuori». Due mondi inconciliabili, la cavalleria mafiosa e quella cattolica. Ne è certo il capo sidernese, che rivela coscienza delle cose e una vecchia rabbia. La ‘ndrangheta ha bisogno di onorevoli e faccendieri; loro sanno ottenere i posti e titoli giusti. I killer vanno in galera, i “don” all’ergastolo e i notabili ai Caraibi, rimugina Commisso.Così sarebbe stato per Giulio Lampada, sodale – secondo il gip di Milano Giuseppe Gennari – «di appartenenti alle famiglie mafiose di Reggio Calabria». Ma ogni tanto la sorte ci vede, malgrado le premesse. L’imprenditore calabrese ha un passepartoutFrancesco Morelli (Pdl), già consigliere regionale della Calabria, condannato in Cassazione per rapporti di ‘ndrangheta. È lui che lo fa segnalare in Vaticano. Né come sospetto usuraio, quale risultava ai carabinieri di Milano nel 2001, né come affiliato. Per la Chiesa Lampada è un benefattore. Difatti, il 17 agosto 2009 la Santa Sede lo nomina cavaliere di San Silvestro Papa, l’ordine equestre retto dal pontefice. È lo stesso titolo di Oskar Schindler, «Giusto tra le nazioni» e protagonista di Schindler’s List. Ex aequo per meriti cristiani.La storia racconta altre storie. Cavaliere di Malta fu il pittore calabrese Mattia Preti, scuola Caravaggio e raptus di fede. Ma «tutto scorre come un fiume», e con la globalizzazione nasce in Calabria la scuola della ‘ndrangheta poliglotta, che parla la lingua del denaro, del potere e della nobiltà cristiana. Specie a Roma, dove Vincenzo Alvaro e Damiano Villari provano a conquistare la zona della «Dolce vita» di Fellini. Partono dal Cafè de Paris, toni jazz nella via Veneto di spogliarelli e Mercedes, macchinone e biondone. E, tra un pezzo di Coltrane e un medley di Carosone, incrociano alte sfere della borghesia capitolina. L’unione fa la forza, ma arriva la giustizia. In un filone dell’inchiesta finiscono due membri di spicco dello Smom, il marchese Gian Antioco Chiavari e il tenente della Dia Bruno Giovanni, accusato di favoreggiamento reale nei confronti di Alvaro.Le contiguità tra «santisti» e cavalieri crociati sono diverse, nascoste nell’abisso del silenzio. A volte i primi hanno il double-face, altre mantengono la propria divisa. La «Santa» ha i suoi riti simbolici e religiosi: si richiama al cavalierato degli spagnoli «Osso, Mastrosso e Carcagnosso» e agli arcangeli della milizia divina. La «santità» fonda, avvolge e accompagna l’azione criminale. Tuttavia, il folklore religioso può ingannare, apparire una scriminante tra affiliati integralisti e cavalieri nella Chiesa.In mezzo alla confusione, anche i doc della mala non capiscono e perdono le staffe. Orgoglio identitario, difesa della gerarchia. Domenico Gangemi, al vertice della ‘ndrangheta in Liguria, intercettato sparla di un consigliere comunale di Lavagna (Genova): «Ma sto pisciaturi (insulto) di sto Santo Nucera che non ha il santo, che vada a farsela in culo». Il boss non ne tollera l’autonomia, ancora più assurda senza il grado (della ‘ndrangheta) di «santo». Vicino alla curia, il politico verrebbe da una famiglia di punciuti, secondo il Ros di Genova. Calabrese d’origine, Nucera nega; è cavaliere di Malta, pare su invito del vescovo Alberto Maria Careggio, cappellano dello Smom.Il Nord è La Mecca della ‘ndrangheta, tra appalti, appetiti elettorali e riti vari. Su, gli emigrati calabresi mantengono il trasporto magnogreco, o forse un senso di popolo reietto in terra madre. Naturale, dunque, trattare un conterrano con cavalleria. Succede a Giuseppe Romeo, colonnello dei carabinieri originario di Benestare (Reggio Calabria). Il gip Gennari scrive che l’ufficiale dell’Arma briga con il boss della ‘ndrangheta Salvatore «Strangio per ottenere entrature politiche» in cambio di «favori». Romeo, cavaliere di Malta e di San Silvestro Papa, smentisce.Se la “Padania” è terreno delle ‘ndrine, in Calabria «c’è un tempo per piantare e un tempo per sradicare». Il seme buono – ripete il magistrato Nicola Gratteri – può contrastare la mala pianta dell’illegalità. Oltre alle procure, servirà perseveranza e una borghesia non più rapace, viscida, camaleontica.Tuttavia, giungono segnali opposti. Per esempio l’arresto di Mario Malfarà Sacchini per bancarotta da 2,7 milioni. Quando finisce in manette, il professionista vibonese è da poco cavaliere del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che dipende dalla Santa Sede e opera per i cristiani in Terra Santa. Giovanni Napolitano, luogotenente dell’Ordine per il Sud, commenta: «Non conosco Malfarà Sacchini, la situazione non mi risulta, bisogna domandarlo al preside di Reggio Calabria». E chiude: «I nostri cavalieri firmano una nota per cui scatta l’autosospensione, davanti a pendenze penali». Anche al preside di Reggio Calabria, Aldo Porcelli, «la situazione non risulta». «Va sentito il gran magistero», conclude, cioè Napolitano. Gli ordini cavallereschi di matrice cattolica sembrano cadere nella spirale dell’irrisolto, almeno per i fatti e i drammi calabresi. Il loro corporativismo collide con la necessità di pulizia e trasparenza, vuoto slogan del presente. Roberto Iuliano è il priore della Reale Arciconfraternita dei Cavalieri di Malta ad honorem, con sede a Catanzaro. Spiega che «per gli aspiranti garantisce il parroco».Iuliano confessa che «bisogna riformare la disciplina giuridica della cattedra, l’organo preposto a sospendere o allontanare membri con problemi giudiziari».Finora la cattedra è solo sulla carta. Il caso di Lampada non ha insegnato abbastanza.

Inchiesta uscita su Sette (Corriere della Sera) e ripresa in Vaticano massone. Logge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco, di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti, Ed. Piemme, 2014

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...