Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta emiliano morrone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta emiliano morrone. Mostra tutti i post

3.12.25

DUE PAROLE ALLA POLITICA IN TEMA DI GIOVANI di Emiliano morrone

 Ma noi li abbiamo visti, sentiti, capiti i ragazzi, i giovani, i rappresentanti dell'ultima generazione? Ci siamo chiesti il perché della loro incertezza, della loro mancanza di controllo, di autostima, di obiettivi? Per quali ragioni riflettono, nel volto, nelle movenze, nei discorsi confusi, questo presente privo di riferimenti, sostanza, regole e orizzonti? C'è un motivo per cui si sfondano di alcol, cercano l'annebbiamento a ogni costo oppure l'eccitazione artificiale? Abbiamo capito perché spesso non riescono a relazionarsi con i loro coetanei, non
hanno un credo, un senso, un sistema di regole e soprattutto il rispetto della propria persona e dignità? Li abbiamo gratificati? Siamo intervenuti per sostenerli, guidarli, aiutarli a camminare verso la socialità, il senso critico, la capacità di giudizio, il coraggio e la libertà personale?
Abbiamo idea di che cosa facciano, di come trascorrano il loro tempo e la loro esistenza? Fino a che punto l'istruzione e la scuola attuale riescono a formarli, orientarli nella lettura della vita e del mondo, della storia e del futuro? Quanto si parlano tra di loro? E che cosa si dicono? In che modo li considera la componente politica? Che cosa pensa e prevede per la loro crescita? Quanto si preoccupa per loro, a partire dalla cura del corpo e della mente, dall'alimentazione, dalla salute e dal benessere psicofisico, dall'educazione e dall'istruzione, dalla cultura e dalla prevenzione, dalla salubrità ambientale e dell'universo digitale? Quanto, per tutti questi aspetti, è attivo e presente lo Stato? Quanto lo sono i Comuni con i loro organi esecutivi, di controllo e di amministrazione, con le giunte, i Consigli e gli uffici?E gli eletti a palazzo non sono tante volte genitori? Ecco, le domande poste ci servono a introdurre, non soltanto in questo spazio, il tema politico dell'infanzia e dell'adolescenza, oggi intermittente nel dibattito pubblico e molte volte inquadrato in maniera frammentata e parziale.




Nei Comuni ci sono al riguardo delle consulte, degli organi e luoghi in cui discutere – istituzioni e famiglie – in ottica convergente e progettuale? Il futuro dei più giovani deve essere un punto fondamentale dell'attività politica, dell'elaborazione di un pensiero politico che abbia la forza e l'onestà di contestare e contrastare i modelli imposti dal capitalismo onnivoro e spregiudicato, l'organizzazione del sistema bancario e finanziario, i condizionamenti sociali e antropologici che i centri di potere reale determinano nel breve, medio e lungo periodo.Vogliate perdonarmi se non pongo l'attenzione su questioni fuorvianti: se non attacco i privilegi dei papponi della casta, i compensi dei parlamentari nazionali o regionali, gli sprechi amministrativi e la posizione delle statue in 100 metri lineari di demanio pubblico.

20.11.25

spesso. tipi consideratri strani ci danno lezioni di altruismo vero il caso di Giandomenico Oliverio e ladislav di Emiliano Morrone

 Ora Ladislav ha una casa, una famiglia e un'identità. Dovevo raccontare questa storia di umanità privata e di attendismo pubblico. Nella quale, ancora una volta, lo "strano" Giandomenico Oliverio, quel ragazzo dei cani sequestrati, dà lezione di altruismo molto raro. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.



eco l'articolo corriere della calabria 20\11\2025


la storia a lieto fine

Il ragazzo che salva i cani… e le persone: Ladislav rinasce grazie a Oliverio

Partito da San Giovanni in Fiore verso Roma, il 65enne ottiene un documento dopo mesi vissuti ai margini. A sostenerlo il ragazzo che dormiva in roulotte con 30 animali


SAN GIOVANNI IN FIORE Notte. L’autobus parte da piazza Antonio Acri, diretto a Roma da San Giovanni in Fiore. Dal finestrino un passeggero ignoto guarda la strada macinata con animo sollevato. Si tratta di Ladislav Tomlein, 65 anni, slovacco di Levoča. Sul sedile accanto siede Giandomenico Oliverio, il giovane sangiovannese che molti conoscono per il suo amore verso gli animali, i cani in particolare. Non è una gita, perché l’anziano ha bisogno come il pane di un documento di identità. Per mesi ha infatti vissuto come nell’ombra, riconosciuto soltanto dai calabresi che l’hanno accolto e confortato ogni volta.
Ladislav approda in Calabria in silenzio, con un cane bianco e una piccola tenda. Giunge a San Giovanni in Fiore senza documenti e riferimenti, dorme all’aperto e affronta il freddo con il proprio amico a quattro zampe. Alcuni cittadini gli danno una mano, tra questi Giovanni Spataro, che continua a sostenerlo con la presenza e qualche aiuto economico. Ma la svolta arriva quando il signor Tomlein incontra Oliverio, che vive in una roulotte a San Leonardo di Caccuri (Crotone), mentre provvede ai propri 13 cani e ai 17 di suoi parenti; tutti i quadrupedi sequestrati l’anno scorso su provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Oliverio non chiede alcunché: ospita Ladislav nella propria roulotte, gli dà un tetto e dei pasti per vivere. Dopo il sequestro degli animali e del terreno, Oliverio lo porta con sé a San Giovanni in Fiore, a casa sua. In sette mesi e passa, Ladislav entra nella sfera familiare del giovane. Non è un ospite né costituisce un peso. Sta lì come presenza stabile; «come uno zio», racconta Giandomenico.
Intanto le istituzioni appaiono sfuggenti. Nessuna struttura pubblica prova a farsi carico di Ladislav, che continua a vivere senza un documento e in teoria senza sanità e gli altri diritti di base. Dell’uomo si occupa anzitutto Oliverio, che intanto deve affrontare un procedimento per presunto canile abusivo e mancata ottemperanza a provvedimenti amministrativi. Le accuse sono ancora in corso ma non cancellano il dato: c’è un pezzo di mondo che rimane fermo mentre il ragazzo, che in giro sembra strano, accoglie senza utili un uomo in difficoltà.
Poi matura la decisione di andare a Roma. Nella notte scorsa salgono sul bus per la Capitale. Stamani, al Consolato della Repubblica Slovacca, Ladislav riceve un documento provvisorio che gli consente finalmente di curarsi, muoversi in libertà e lavorare se ne avrà l’occasione. Nei prossimi mesi il suo Paese gli darà il documento definitivo.

Oliverio e Ladislav


Per Ladislav è la fine di un limbo lungo quanto ingiusto. Per Oliverio è l’ennesimo gesto che parla da sé: dopo aver salvato decine di cani da abbandono e fame, assiste un essere umano lasciato al destino imprevedibile e a un immobilismo pubblico all’italiana. La domanda nasce spontanea: chi ha fatto il minimo indispensabile, le istituzioni o un ragazzo che viveva in roulotte?
Oggi Ladislav scende dal bus con un foglio che gli apre, volendo parafrasare Franco Battiato, «un’altra vita». L’aspetta il suo cane bianco, affidabile, paziente, affettuoso. E in mezzo c’è sempre Oliverio, che continua a muoversi secondo la voce della coscienza. Quella che nessun giudizio “direttissimo” potrà mai irretire.

18.7.25

Il coraggio di Francesco Crispo di San Giovanni in Fiore (Cosenza),Scacco matto alla resa. La “restanza” di Francesco contro lo spopolamento di Emiliano Morrone

Il coraggio di Francesco CrispoSan Giovanni in Fiore (Cosenza),Scacco matto alla resa. La “restanza” di Francesco contro lo spopolamento di Emiliano Morrone su https://www.corrieredellacalabria.it/  del 17\7\2025



in sintesi \ per chi ha fretta

Francesco Crispo, ristoratore di San Giovanni in Fiore (Cosenza), ha vissuto il Covid come un'opportunità professionale. Con sua moglie, allora si rimboccò le maniche e portò pizze e pasti a tante persone obbligate a stare in casa per il lockdown. Così pagò i debiti e sopportò le perdite degli anni successivi. Ora ha cambiato il volto al suo locale e va avanti sostenuto dalla moglie Rossella, dai sorrisi della figlia Helèna, nata durante la pandemia, e dall'affetto dei propri genitori. Ho voluto raccontare questa storia per significare che la volontà, l'inventiva e il coraggio permettono di superare grossi problemi, anche in aree in cui si brama il posto pubblico a tutti i costi ed è forte la tendenza a imporre livellamento e omologazione



SAN GIOVANNI IN FIORE Restare non è facile. Come molte aree interne, San Giovanni in Fiore (Cs) si spopola. Dall’anno 2000 qualche migliaio di abitanti ha lasciato la città. Le famiglie si smembrano e i ragazzi crescono con l’idea che il futuro sia altrove. La crisi demografica è un problema serio. E c’è pure un’altra questione pesante, radicata, sottaciuta: l’idea, alquanto diffusa, che la politica debba garantire posti e stipendi fissi nel pubblico, piuttosto che sospingere l’intraprendenza e l’attività privata. Allora un pezzo del corpo sociale si è abituato all’attesa, al favore, all’omologazione.
Fare impresa a queste latitudini vuol dire scegliere la strada dell’autonomia e scongiurare la
partenza, il kafkiano «via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta».
A chi sceglie la restanza tocca spesso affrontare il vuoto intorno, la diffidenza, il peso delle consuetudini. Eppure, qualcuno ci prova. Francesco Crispo era un pizzaiolo. Aveva imparato il mestiere da dipendente, talvolta anche al prezzo di umiliazioni economiche. Dietro al forno a legna, però, aveva pensato alla sua strada: aprire il proprio locale a San Giovanni in Fiore. Negli anni, mise quindi i soldi da parte: non aveva risorse, padrini, appoggi, scorciatoie. Lavorò da mattina all’alba, sicché acquisì i segreti del mestiere. Una volta pronto, presentò domanda a Invitalia per un finanziamento. Aveva preparato il progetto, i preventivi e la documentazione. Per un anno intero, mentre aspettava risposta da Invitalia, pagò il fitto del locale che aveva fermato, come richiesto dall’apposito bando. Per fortuna, il proprietario gli praticò un prezzo sostenibile, ma un giorno giunse la bocciatura della sua pratica, proprio quando morì la nonna, ancora giovane. Due colpi duri: uno al cuore, l’altro alla fiducia. Francesco si fermò giusto per qualche giorno. Capì poi che doveva reagire. Chiese aiuto al padre, si fece garantire un prestito bancario e andò avanti. Sistemò il locale che aveva in uso e aprì d’orgoglio i bandoni: una mossa secca contro la paura e la rinuncia.
Il suo ristorante partì nel 2015 con annessa pizzeria. Intanto c’erano state la crisi dei mutui subprime e la lettera di Trichet-Draghi. Il clima era ancora instabile ma la gente tornava allo svago, a sedere ai tavoli. Il locale si fece conoscere, la pizza era buona e la cucina onesta. Francesco lavorava tanto. Spesso chiudeva da solo, con le braccia stanche e gli occhi rossi per le infornate. Ma era il suo posto, la sua scommessa, il suo orizzonte.
Come un fulmine, poi arrivò inatteso il Covid. Tutto chiuse, senza indizi di previsioni incoraggianti. Francesco e sua moglie Rossella rimasero invece lì, operativi, al ristorante. Lei possedeva già il titolo di parrucchiera, ma aveva rinunciato all’attività per collaborare con il marito. Nell’incertezza generale e
Al lavoro con la moglie all’epoca del Covid
assoluta, i due si organizzarono per consegnare cibo a domicilio. Rossella impastava, lo chef Antonio cucinava e Francesco portava in macchina pizze, primi e secondi, bevande e dessert. Così riducevano le spese mentre, si può dire, alimentavano la comunità locale.La voce si sparse. I clienti aumentarono soddisfatti, in un periodo nero, attraversato da un senso cupo di oppressione e d’impotenza. Quel servizio, invece, svolto in silenzio e con l’anima vera, aiutò tante famiglie. Compresi Francesco e la moglie, che ripagarono parte dei debiti. Il giovane lo racconta con gli occhi lucidi e un sorriso misurato: la pandemia gli valse a tenere in piedi un’economia familiare quando il mondo pareva franare. E, per inciso, i coniugi non ebbero mai il Covid, secondo il responso dei numerosi tamponi eseguiti per ragioni di sicurezza.
Nel 2022 il ristorante iniziò a risentire dei cambiamenti intercorsi. Sua moglie, intanto, aprì finalmente il proprio salone. Avevano due attività e una figlia piccola, ma il mondo si trasformava ancora. La pandemia svanì ma il mercato mutò basi, mezzi e ritmi. I consumi calarono, la clientela divenne più incerta. Si faticava.
Francesco, che non aveva preso contributi pubblici, cominciò a usare i risparmi per coprire le perdite, con l’affetto e il sostegno immancabile della madre e del padre. Dopo gli arrivarono proposte da fuori. In Abruzzo lo cercarono per aprire un nuovo locale. Ci pensò, ma sua moglie aveva già il salone avviato e la figlia iniziava a camminare e parlare. Trasferirsi avrebbe significato ricominciare da capo, da zero. Ancora una volta. Decise allora di restare, di provarci, di reinventarsi e rischiare come prima. Ridusse quindi i coperti e puntò sulla qualità.
A un certo punto, Francesco sperimentò un particolare impasto di successo e rivide il menù. Soprattutto, aggiunse il pesce, scelta rara in Sila, dove si mangiano carne, salumi, pietanze dai sapori forti. Il ristorante cominciò a proporre antipasti di mare, primi leggeri, secondi più curati. Alcuni clienti storsero il naso, altri apprezzarono. I numeri iniziarono a migliorare: meno tavoli, più margini.
Oggi il locale del giovane è diverso. Intanto, ha una clientela più esigente. Francesco continua a investire: in cucina, nelle materie prime, nel miglioramento. E si muove con il giudizio di chi ha imparato a non sprecare nulla. Ha una figlia che cresce, una moglie che lavora accanto a lui. E la volontà è immutata: restare, nonostante tutto.
Rimanere a San Giovanni in Fiore non è affatto una scelta romantica. È invece una battaglia quotidiana contro un’inerzia che aleggia e, non di rado, una mentalità soffocante. È costruire qualcosa in un luogo in cui vi è la tendenza a livellare, appiattire, spegnersi. È un segnale che il territorio può ancora dare, se qualcuno ci mette le mani, la testa e il cuore. Francesco ci ha provato, non molla ed è felice. Scacco matto.Nel gennaio 2021 nacque la loro bambina, Helèna. Francesco la vide solo per pochi istanti. Erano le regole di allora: distanza, bardatura speciale, disinfettante, compressione degli affetti. Fu un attimo, tra gioia e smarrimento. Dopo tornò subito al lavoro.


Emiliano Morrone


13.7.25

Il Taekwondo si basa su cinque princìpi: cortesia (Ye Ui), integrità (Yom Chi), perseveranza (In Nae), autocontrollo (Guk Gi) e spirito indomito (Baekjul Boolgool). di EmilIano Morrone

 Buona domenica per tutta la domenica. Il Taekwondo si basa su cinque princìpi: cortesia (Ye Ui), integrità (Yom Chi), perseveranza (In Nae), autocontrollo (Guk Gi) e spirito indomito (Baekjul Boolgool). Guk Ci, come le altre, è una qualità che si apprende, si allena e si esercita. Consiste nel non reagire impulsivamente alle provocazioni. Molti che ignorano la disciplina possono scambiare per paura o subordinazione il garbo, il rispetto e il distacco di una persona che pratica questi princìpi. Una lezione sublime la diede il gran maestro di Taekwondo Park Y. G., che, dopo aver percorso da saggio la strada della ragionevolezza, scacciò con due mosse un gruppo di praticanti di un'altra arte marziale che avevano preteso una sfida con lui, peraltro immediata, nella sua palestra. Non si dovrebbe mai essere arroganti e presuntuosi. Soprattutto, non si dovrebbero imporre combattimenti innaturali.

1.6.25

diario di bordo n 125 annno III Un negozio di abiti da sposa di Nuoro ha deciso di dirlo così, che non vuole il genocidio a Gaza, con eleganza e intelligenza.Non è più accettabile non esporsi.(Giulia Acerba ) , l’agonia silenziosa dell’identità e il sentiero dell’alternativa ( emiliano Morrone ) ,l'insegnate non è solo uno che tende al posto fisso ( mario. Mariù sanna )

per problemi di tempo riunisco qui in questo n del diario di bordo gli scritti social di alcuni compagnidistrada \ di viaggio che per vari motivi non possono scrivere direttamente sul blog ma che condividono anche se non direttamente il mio percorso



Un negozio di abiti da sposa di Nuoro ha deciso di dirlo così, che non vuole il genocidio a Gaza, con eleganza e intelligenza.Non è più accettabile non esporsi.
Trovo vile chi non si espone e ancora di più chi ha tanta visibilità e non si espone. Jovanotti 20 anni fa gridava Il mio nome è mai più, era un paladino di Emergency e ora sui suoi social (con 2 milioni di follower) e nelle sue canzoni solo occhi a cuore.
Mi sono anche un po' rotta di chi mi dice "non riesco a guardare quelle immagini".
Se non si riesce a guardare si può leggere, se non si riesce a leggere si può andare ad ascoltare chi parla. Se, per motivi vari, non si riesce a guardare, leggere, ascoltare, si può esporre una bandiera della Palestina.
Se non si riesce a guardare, leggere, ascoltare, esporre una bandiera beh allora uno può anche dire: di quello che sta succedendo fuori dal mio orticello non me ne frega nulla.
Se non si riesce a pensare a cosa succede fuori dal proprio orticello bisogna però con umiltà levarsi alcune spillette che si pensa di avere addosso: cristiano,cattolico,catto comunista e compagnia cantante. Perchè le spillette non sono solo per bellezza, doverebbero anche essere monito per agire, a un certo punto.Palestina libera 

Infatti Giulia  ha  ragione   Non  c'è  solo Jovanotti, ad  essersi venduto  al sistema   la lista è lunghissima. Solo qualcuno ora si sta svegliando ma anche solo fino a 2 settimane fa erano veramente 4 gatti gli artisti, intellettuali, giornalisti e, mettiamoci pure gli influencer, che si erano esposti. Un silenzio allucinante che abbiamo il dovere di non dimenticare.

--------
Lo so  che   Emiliano  parla della calabria   , ma tale discorso  lo si può  e lo si deve  fare  per  tutto  il Sud 

la lente di emiliano

Calabria globalizzata, l’agonia silenziosa dell’identità e il sentiero dell’alternativa

È qui che la politica, tutta, senza steccati ideologici o appartenenze di bandiera, dovrebbe fermarsi e riflettere. Perché non si tratta di nostalgia, ma di necessità
 Pubblicato il: 30/05/2025 – 6:25


Nella globalizzazione dei consumi è (quasi) sparita l'identità umana e profonda delle aree montane della Calabria. Sino ai primi anni '90 si comprava la verdura locale portata dall'asino alla corda. E a San Giovanni in Fiore si ordinavano le cassette personalizzate al Triangolo di Antonio e Biagio. Ora il ballo delle merci ci ha levato l'autenticità, il piacere dell'attesa e della
convivenza. Qualche eccezione rimane: l'associazione Donne e Diritti prova sul posto a recuperare la socialità: insegna a impastare il pane, a ricamare come una volta. E mentre la politica litiga inutilmente, sfugge dallo sguardo la necessità di uscire dal mondo virtuale, di tornare alla piazza, alla cucina col fuoco acceso: allo stare insieme. In quale programma elettorale della regione troveremo, come punto a costo zero, l'impegno di favorire le pratiche di comunità? ..... 
https://www.corrieredellacalabria.it/2025/05/30/calabria-globalizzata-lagonia-silenziosa-dellidentita-e-il-sentiero-dellalternativa/

                           Emiliano Morrone 
----

Al contrario di certe persone che vedono l'insegnamento come una missione o una vocazione, ho sempre ammesso che prediligo fare altre cose.Ma l'insegnamento non è mai stato un ripiego o un lavoro da svolgere solo per lo stipendio o l'agognato "posto fisso".Mi sono sempre piaciute le sfide e ho insegnato in ogni ordine e grado della Scuola Italiana. Praticamente mi manca solo l'esperienza della docenza nelle scuole "carcerarie".
E pazienza se probabilmente resterò un precario "a vita", del resto anche la vita è precaria. Oggi ci sei e magari domani magari ti viene un infarto e parti all'altro mondo.Lavoro con professionalità, studio, mi aggiorno, mi confronto, sbaglio e talvolta vado a sbattere contro dei muri di gomma.Ma vado avanti, a testa alta e senza scorciatoie. Il ciclismo mi ha insegnato che non c'è salita che dopo non abbia la discesa.


                           mario Mariu Sanna


9.5.25

Minori e social: la disintegrazione della realtà, del corpo e dell’amore Occorre ripartire dal corpo come luogo di incontro e di dignità. Prima che l’amore diventi una notifica di Emiliano morrone





da https://www.corrieredellacalabria.it/  del  9 maggio 2025  025/05/09/

la lente di emiliano
Minori e social: la disintegrazione della realtà, del corpo e dell’amore
Occorre ripartire dal corpo come luogo di incontro e di dignità. Prima che l’amore diventi una notifica, e il nostro futuro soltanto un archivio di contenuti consunti, passati, inattuali
Pubblicato il: 09/05/2025 – 7:15



                                      di Emiliano Morrone
Sara ha tredici anni, un telefono nuovo, una connessione stabile e una madre che lavora da mattina a sera in un call center. La minore ha capito presto come funzionano TikTok, Instagram, Telegram. Ha imparato che un sorriso inclinato, un’ombra di trucco e un taglio obliquo della webcam attirano like e messaggi diretti. Di recente, un utente con la foto del profilo falsa le ha scritto: «Se apri un canale ti pago. Facciamo soldi facili, fidati». Sara non ha risposto, ma ci ha pensato. È qui che si gioca il dramma del nostro tempo: nell’ambiguità tra virtuale e reale, in cui il corpo si trasforma in merce e la relazione in simulacro, il desiderio non è più incontro ma algoritmo e l’amore scompare nell’archivio dei contenuti suggeriti.
I social media – lo dicono anche gli studi dell’American Psychological Association e del Pew Research Center – stanno modificando profondamente la percezione della realtà nei minori. I più giovani trascorrono fino a otto ore al giorno online, in uno spazio in cui la corporeità è filtrata, la parola ridotta a codice e l’altro diventa funzione del proprio bisogno momentaneo di conferme. Non è solo alienazione, è una vera e propria ridefinizione dell’identità, che avviene fuori dalla relazione reale, nel regno della performance permanente.
Tra video brevi, selfie iper-editati e “challenge” che vanno dalla danza erotizzata al pericolo fisico, si innesta un concetto distorto della sessualità, privo di profondità emotiva, depurato dell’esperienza reciproca, privato di pudore e di attesa. L’innamoramento, quel lento, fragile, irriducibile processo di scoperta dell’altro, oggi appare un’anomalia: non serve più in un sistema che propone il corpo come prodotto, l’interazione come automatismo e la relazione a portata, ritmo e valore di click.
Eppure, non è finzione narrativa. Anzi, è già realtà quotidiana. Il National Center for Missing and Exploited Children ha denunciato un’impennata del materiale sessuale autoprodotto da minorenni, diffuso su piattaforme dove, tra le pieghe dell’intrattenimento, si promuovono accessi a contenuti per adulti con link mimetizzati e linguaggio accattivante. Il fenomeno si chiama “sextortion” e, nel 2024, ha coinvolto centinaia di adolescenti italiani, spesso incapaci di denunciare per vergogna o ricatto.
Le falle del Codice penale italiano
Sul piano del diritto, le falle sono enormi. Il Codice penale italiano all’articolo 600-quater punisce la detenzione di pornografia minorile, ma resta incerta la qualificazione dei contenuti in cui i minori sono autori e protagonisti. I social, per parte loro, si rifugiano nelle clausole di responsabilità limitata e nell’alibi del controllo algoritmico. Le famiglie spesso non capiscono; le scuole non riescono a contenere il fenomeno; lo Stato tace. Il punto è che non siamo arrivati fin qui per caso. La televisione commerciale aveva già aperto la strada, dagli anni Ottanta, trasformando il corpo in superficie da monetizzare. “Drive In” – la trasmissione-manifesto di un’Italia che scopriva il varietà volgare – è stato l’inizio della seduzione come strategia pubblicitaria, della donna come provocazione comica, della sessualità come linguaggio mainstream, sfruttato, normalizzato, venduto a pacchetti pubblicitari. Il web non ha inventato nulla. Ha solo accelerato, amplificato e personalizzato il modello. Ora ognuno può diventare protagonista della propria televendita erotica. Basta uno smartphone. E se hai meno di diciotto anni, poco importa. Le transazioni sono legittime, i circuiti bancari funzionano, le piattaforme incassano e ringraziano.
Il caso di “Ika D’Auria”
Emblematico è il caso di “Ika D’Auria”, una giovane italiana diventata una celebrità digitale. Il suo profilo Instagram conta oltre 839mila follower e diversi milioni di visualizzazioni ogni mese, con foto e video della ragazza che alternano ironia, sensualità e uno stile di vita ostentato. Questa instagrammer costruisce attorno a sé una narrazione che mescola autenticità simulata e strategie di engagement apprese in rete. Nulla è lasciato al caso: pose, luci, filtri, sottotitoli. È una regia continua, finalizzata a ottenere attenzione, consenso, lucro. Il corpo, anche qui, è il mezzo e il messaggio. Alla fine, è questo il cuore del problema: l’accettazione totale del corpo come merce; anche quando, spesso, si tratta di un corpo in formazione, di un volto ancora impacciato, di un’identità fragile. Il capitalismo contemporaneo, nella sua versione digitale e sregolata, non ha limiti morali o simbolici: se qualcosa può essere venduto, sarà venduto. Se può generare traffico, sarà promosso. Se può essere pagato, sarà normalizzato. L’essenziale è che esista una transazione, un numero di carta, una banca pronta a mediare tra domanda e offerta.
Un problema che riguarda tutti
Così si perdono i confini tra il gioco e il pericolo, tra l’espressione e la manipolazione, tra la libertà e il ricatto. Così si perde l’altro, nella sua alterità irriducibile, nella sua complessità, nella sua corporeità irripetibile. Così si perde l’amore, non quello retorico da fiction televisiva, ma quello reale, imperfetto, che passa dallo sguardo incerto, dalla parola tremante, dal rispetto dei tempi altrui. E si perde anche il sesso, ridotto a protocollo commerciale, privato del suo mistero e del suo potere trasformativo. È un problema che riguarda tutti: genitori, docenti, politici, imprenditori, giornalisti. È la grande questione culturale e civile del nostro tempo. Non possiamo più fingere di non vedere. La tutela dei minori non va lasciata alle regole d’uso di una piattaforma americana o al filtro casuale di un’app. Serve una presa di coscienza collettiva. Occorre ripartire dal corpo come luogo di incontro e di dignità, dalla scuola come spazio di educazione affettiva e critica, dalla politica come argine e visione. Prima che l’amore diventi una notifica, e il nostro futuro soltanto un archivio di contenuti consunti, passati, inattuali.

13.10.24

«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere corriere della calabria 11\10\2024 di emiliano morrone

 Buongiorno per tutto il giorno. Oggi su LA LENTE parliamo di giovani rientrati in Calabria dal Centro-Nord, di restanza, di promozione del patrimonio di natura e cultura della regione. Lo facciamo raccontando una bella iniziativa promossa a San Giovanni in Fiore dal gruppo "I spontanei". E chiediamo alla politica di ascoltare le istanze dei ragazzi che lavorano per mostrare una Calabria diversa. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria.
Grazie per l'attenzione e cordiali saluti.
Emiliano Morrone 



«Mamma Calabria», c’è molto da cogliere e raccogliere

Una serata organizzata da “I spontanei” a San Giovanni in Fiore ricca di spunti di riflessioni e belle storie di Calabria

 Pubblicato il: 11/10/2024 – 6:38

         di Emiliano Morrone
«Mamma Calabria» è il titolo di un libro di Alessandro Frontera e Danilo Verta appena discusso in profondità nella biblioteca comunale di San Giovanni in Fiore, soprattutto grazie alle domande stimolanti della giornalista Maria Teresa Cortese. Già residente a Milano, Alessandro, l’autore del testo, è una guida ambientale escursionistica, un influencer rientrato in Calabria per promuovere natura, cultura e tradizioni della regione: dal Tirreno allo Ionio, dal Pollino alla Sila, dalle Serre vibonesi all’Aspromonte.

L’appuntamento è stato promosso dall’associazione “I spontanei”che da qualche anno propone incontri e dibattiti sull’esigenza di ridurre l’emigrazione giovanile, di creare impresa, lavoro e progresso partendo dai punti di forza e debolezza dell’area silana: suggestiva ma in parte isolata e sconnessa, bucolica ma ancora periferica, ispiratrice di slanci creativi ma in un contesto socioculturale alquanto condizionato da invidia, rassegnazione, attendismo, doppiezze, mancanza di coraggio.
La Sila ha una storia di peso – dalle utopie di Gioacchino da Fiore alla Riforma agraria del ’47, dalla vecchia emigrazione operaia a quella intellettuale del presente –, oggi più che mai minata dal capitalismo dell’era digitale, che cancella le identità locali, uniforma storie, usanze e posizioni, struttura e impone il mercato assoluto delle merci.
«Mamma Calabria» è anche il motivo comune degli interventi di quattro giovani che, durante la presentazione del volume di Frontera, hanno raccontato le loro storie di restanza oppure di rientro dal Centro-Nord nel periodo drammatico della pandemia. La mamma è per statuto naturale riferimento e rifugio, richiamo e modello; è la figura che, anche nella dimensione simbolica, alimenta, cura, compatisce; è il genitore che induce all’esperienza fuori dallo spazio domestico e intuisce i problemi, i bisogni della prole.


Così, la metafora «mamma Calabria» è valsa a inquadrare, a chiarire il legame di ciascuno degli intervenuti con i luoghi delle origini: forte, continuo, vitale; capace di riaccendere la luce della speranza in un clima oltremodo tormentato, di riaprire il campo delle possibilità, di sostituire le illusioni con le motivazioni personali. Si tratta di quattro ragazzi che provengono da esperienze diverse ma affini: Anna Stefanizzi ha inventato il Cammino dei monaci florensi; come “Esperiandanti”, Luigi Candalise mostra su prenotazione i posti della Sila, in bici, a piedi, a cavallo; Ivan Ariella organizza festival d’arte e richiamo; Maria Costanza Barberio porta, con il collettivo “Fiori florensi”, la ludopedagogia nelle piazze e nelle istituzioni, fra bambini e rispettive famiglie. Questi giovani hanno più di 30 anni e meno di 40, indole ambientalista, una dote d’idealismo proveniente dal loro vissuto nel mondo analogico, una robusta volontà di ritagliarsi spazi autonomi in Calabria, intanto professionali e sociali.
Sono giovani che parlano un linguaggio poetico fuori del tempo; che leggono romanzi intramontabili, diari di viaggio e saggi sulla conservazione della memoria; che con video, post e immagini evocative sanno comunicare le loro attività e trasmettere emozioni, divulgare buone pratiche ed esempi positivi. E sono giovani che, come accade altrove nel pianeta, rivendicano le ragioni della propria terra, cercano di collegare la tipicità locale con l’universalità umana, chiedono ascolto alla politica e impegno per la sostenibilità, l’eguaglianza, i diritti irrinunciabili. «Facciamo politica con il gioco, abituando i bimbi alla libertà di espressione e di giudizio», ha detto Maria Costanza. «La Calabria ha tre Parchi nazionali e uno regionale, noi dobbiamo credere nelle nostre radici, nelle nostre potenzialità», ha osservato Luigi, che ha aggiunto: «Da fuori iniziano a guardarci con altri occhi». Ciò perché diversi giovani calabresi hanno espresso talento e capacità; perché da un pezzo la narrazione dominante, ferma al tragico, a lamenti e semplificazioni di comodo, è contrastata da racconti di vicende edificanti, che iniziano a piacere, a diffondersi, a generare interesse, apprezzamento, consenso. «Per restare in questa terra, ognuno deve fare un cammino dentro di sé», ha osservato Luigi, che ha sottolineato: «Il 30 per cento della biodiversità europea è nelle nostre montagne. Se devo fare dei sacrifici, preferisco farli a casa mia». «Siamo quello che camminiamo», ha chiosato Anna. Stefano “Intour” Straface – che a Torino insegnava nella scuola pubblica e ha scelto di rientrare per promuovere via social eventi e prodotti calabresi – ha infine posto l’accento sulla «necessità che gli imprenditori siano formati per capire quanto valga l’impatto nel web, quanto esso sia utile a lavorare in tutti i mesi dell’anno e non soltanto d’estate o nelle vacanze di Natale». È un altro tema che merita ampia riflessione nelle sedi della politica, in parte assente rispetto alle istanze di giovani che lavorano con la cultura, l’arte e gli strumenti tecnologici.

Nelle parole di questi ragazzi c’è molto da cogliere e raccogliere, ma il punto è che la politica, non tutta, non ne comprende la complessità, la finalità, l’utilità. Però, ha obiettato il fotografo e regista Emilio Arnone, instancabile sperimentatore di linguaggi artistici d’avanguardia, «bisogna smetterla con impostazioni sfacciatamente celebrative, serve equilibrio e uno sguardo d’insieme». È sempre l’autenticità, secondo l’intellettuale, che fa la differenza. Insomma, ovunque ci sono storie illuminanti, quindi bisogna stare attenti a non cedere, come capita sui social, a lusinghe facili, «all’apologetica d’ufficio» di certa pubblicistica.
Diventa difficile costruire reti di collaborazione, se non ci sono basi e contenuti comuni, hanno concluso Alessandro, Anna, Luigi, Ivan e Maria Costanza. E spetta alla politica, che dovrebbe affinare lo sguardo e ampliare gli orizzonti, favorire il compito e la collaborazione dei ragazzi che raccontano l’altra Calabria, quella della bellezza, delle tradizioni, del grande patrimonio culturale e ambientale. (redazione@corrierecal.it)

14.7.24

Storie di migranti e andrangheta : da Roccantica a New York. Una storia di famiglia ., DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

 due storie    ua   d'emigrazione  del secolo scorso    un  altra  delle  cause  . che confermano lo studio  de la  società sparente  di  Emiliano morrone  (  wikipedia  e   account  facebook    )

er  approfondire  
emigrati.it - associazione internet degli emigrati italiani


da https://lavocedinewyork.com/people


Storie di migranti: fu così che Vittoria tenne fede al suo nome 1912, da Roccantica a New York. Una storia di famiglia testimonianza dell'esodo

di Luigi Troiani *



Vittoria e il marito Antonio / Per gentile concessione della famiglia Perfetti-Feroli


Nonostante il rarefarsi dei protagonisti dell’esodo dall’Italia nel secolo dell’emigrazione (1861-1970), la memorialistica dedicata al fenomeno continua a godere ottima salute. Se le generazioni che hanno ispirato quelle pagine poco alla volta tendono a scomparire, sono spesso i figli e i nipoti a testimoniare quella che giustamente considerano epopea di famiglia, anche per senso di gratitudine e rispetto.



Nel genere, non tutte le pubblicazioni meritano eguale stima sotto il profilo letterario, ma – quando sincere e documentate – tutte vanno ad arricchire l’elenco dei racconti di vita collettiva e individuale che formano la memoria mai colma, necessaria alle comunità di destinazione e di origine. Solo attraverso quella memoria si possono rinsaldare i legami privati. Ma anche quelli pubblici – istituzionali, culturali ed economici – che tante località italiane hanno costruito con i 



luoghi dove loro ex cittadini sono emigrati.Simone Feroli

Un buon esempio di come questa memoria detta memoria possa essere tramandata, viene da Storia di una emigrata, un lavoro di Simone Feroli che non casualmente porta in premessa una frase di Wang Shu: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.

La narrazione si occupa della vicenda della zia dell’autore, “Vittoria, che nel 1912 partì per una nuova vita negli Stati Uniti”, abbandonando Roccantica, comune della provincia di Rieti, a 26 anni. Siamo all’antivigilia della Prima grande guerra, e la giovane donna parte, come altre centinaia di migliaia di italiani, per il mal operare degli allora governanti, che invece di dedicarsi allo sviluppo delle sacche di povertà del paese, andavano per guerre coloniali nel Mediterraneo, combattendo l’impero turco per sottrargli i territori libici.

Viaggia da sola verso Napoli e prende, come milioni di connazionali, il transatlantico della speranza, che al termine della lunga e faticosa traversata approda vicino a Liberty Statue, inaugurata proprio nell’anno di nascita di Vittoria. Benché debba lasciarsi dietro gli affetti che l’hanno accompagnata dalla nascita, ha deciso di lasciare la vita contadina, tra campagna, mulino e forno, botti di vino e di olio, e sfidare la sorte della vita nel paese sconosciuto ma “favoloso”. Se ne sente attratta e spera che lì possa svoltare.

Non va completamente allo sbaraglio: ad attenderla, come capita a un po’ tutti gli italiani che sbarcano al molo di Ellis Island, ci sarà un parente o un amico di famiglia. Vittoria, dopo il lungo viaggio in mare iniziato il 18 aprile è attesa mercoledì 1° maggio dal cugino Attilio che con la moglie Olga vive a Eastchester nel Westchester newyorkese. Al cugino toccherà trovarle un giaciglio e qualche lavoretto, tanto per cominciare. Poi sarà lei a darsi da fare. L’arrivo ad Ellis il giorno della festa dei lavoratori è comunque di buon auspicio.

A poco più di quattro mesi dall’arrivo, Vittoria andava in sposa a tal Antonio Cinquina, vedovo, con il quale sarebbe rimasta tutta la vita. Adesso era “sistemata” come si diceva allora, aveva casa e famiglia a Tuckahoe e ne era la “padrona”. I coniugi Cinquina si sarebbero presto trasferiti nel Bronx e qui avrebbero allevato i figli che nel frattempo, come usava, il buon Dio inviava copiosi.



Per l’autore ricostruire i fatti della quotidianità, all’interno del progressivo inserimento di Vittoria nella società americana, con il contestuale progressivo distacco dal passato italiano, è obiettivamente difficile, a causa della frammentarietà delle testimonianze orali e scritte e della facilità con cui le une possono entrare in conflitto con le altre. Dal quadro complessivo si ha il relato di una vita sufficientemente armoniosa, costellata di qualche sventura e di tante gioie. Vittoria e Antonio mettono al mondo cinque figli che vanno ad aggiungersi a Michelina, dote del primo letto.
Agli atti del censimento del 1925 il nucleo famigliare figura ancora compatto allo stesso domicilio. Il capofamiglia è operaio in una raffineria di zucchero, Vittoria è casalinga. Nel censimento del 1950, riporta Feroli, “risulta che Antonio di 71 anni e Vittoria di 64 a casa erano rimasti da soli. I figli si erano sistemati, chi più e chi meno.” A parte Enrico, chiamato a combattere nel luglio 1943 -e morto col grado di caporale nel marzo 1945 – quattro giorni prima del ventiseiesimo compleanno – da radio-operatore nel 579th 392th Bomb Group. Lo avrebbero insignito della “Purple Hearth”. Aveva gli anni di mamma Vittoria all’arrivo a Ellis Island.
Tante e belle le foto di Roccantica che, in coda, corredano il libro di una fetta d’Italia sparita.

*



Insegna Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American

........

DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

Terra di ’ndrangheta Il Comune calabro dove nessuno si è candidato è di nuovo commissariato Tra abbandono e omertà, qui il tempo torna indietro E il futuro non arriva mai

Un vecchio canto della Locride vuole che, da queste parti, in mezzo all’aspromonte, un professore iniziò a sezionare centinaia di banditi morti. Cercava tracce di tanto rancore esploso col brigantaggio dopo l’unità d’italia e poi, più tardi, con l’onorata Società. Molti risultarono ammalati di cuore. I più riportavano invece strani funzionamenti delle ghiandole surrenali: da cui, la ferocia incontenibile. “Li sudditi son tutti immiseriti – suonava il canto – ministri, senatori e deputati fanno communa e vui padre Vittorio (Vittorio Emanuele II, ndr) non guardate. Vui jiti a caccia, fumati e durmiti”.

Ad aver paura di guardare, qui, a San Luca, non è stato solo il re. Alle amministrative, meno di un mese fa, non si sono presentati candidati. Come già nel 2017 e nel 2018. Dopo lo scioglimento per mafia nel 2013, il Comune è stato sempre commissariato. Prima per infiltrazione mafiosa, poi, nel 2015, per il non raggiungimento del quorum dei votanti. E infine perché nessuno si era candidato. “È la nostra protesta contro lo Stato”, dissero i cittadini. Fino al 2019. Quando ad avere il coraggio di presentarsi e a essere eletto fu l’infermiere in pensione Bruno Bartolo, 73enne. Raggiunto oggi da quattro avvisi di garanzia (per ipotesi di reati ordinari, non di mafia), ha deciso di non ricandidarsi. “Nessun condizionamento né pressioni di ’ndrangheta – spiega – le istituzioni non mi hanno aiutato. L’avviso di garanzia è stato un pugno allo stomaco, ma il motivo è la solitudine”. Così il tempo a San Luca è tornato indietro, come solo in Calabria accade. A occuparsi dell’ordinaria amministrazione è tornato un commissario. E, ancora, si è insediata la Commissione d’accesso antimafia, per accertare eventuali condizionamenti nell’amministrazione Bartolo. Ad annunciarla, la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo. Direttamente da San Luca: “È emersa un’inerzia totale dell’amministrazione. Siamo qui per sostenere la speranza di chi non vuole assoggettarsi al mandamento di questo territorio. E abbiamo il compito di dire alle donne e ai bambini che cambiare si può e si deve”.

Visto dall’alto San Luca – assieme a Platì e ad Africo tra i paesi più isolati della Locride, pur essendo coi suoi 105 km² di area montana il secondo Comune della provincia di Reggio Calabria – è una macchia grigio-gialla. Spunta dalla pancia di un vallone che cinge l’aspra montagna, “montagna bianca” in greco. Una fiumara prosciugata, a un fianco, rocce sospese su voragini, dall’altro. Sospese e abbandonate come le vite dei suoi 3.700 abitanti che paiono fantasmi. Qui sono imparentati tutti con tutti. E hanno il cognome pesante: Nirta, Strangio, Pelle, Vottari, Mammoliti. Gli arrestati per 416bis sono 115, 250 quelli per associazione finalizzata al traffico di droga, 50-60 i residenti raggiunti da altre misure cautelari. “Ma non simo tutt’ d’ndrangheta, chiaro?”, dice Don Tonino Saraco, rettore del Santuario della Madonna di Polsi, il luogo sacro finito su giornali e tv di tutto il mondo per i famosi summit di ’ndrangheta in cui i vertici di tutti i “Crimini” o “Province” erano soliti incontrarsi, per alleanze, strategie, riti di iniziazione. Era il 2010 quando le telecamere dei carabinieri li ripresero riuniti attorno a Domenico Oppedisano, capo-crimine di allora, ma esiste traccia di questi incontri dalla fine dell’800. Don Tonino è il religioso scelto per riportare il santuario “all’immagine di ciò che deve essere: luogo di preghiera e di accoglienza dei pellegrini ma anche spazio di crescita sociale e civile che non si concilia con illegalità e malavita”. E, nonostante le intimidazioni, don Tonino, uno di quei calabresi cocciuti e veraci, sta portando avanti la sua missione: ha spostato l’effigie della Madonna adorata dai boss (non c’è bunker per i latitanti che non ne conservi l’immagine o la statua) per far spazio al busto di don Giuseppe Giovinazzo, parroco decapitato nel 1989 proprio all’ombra di Polsi; ha preso con sé a lavorare alcuni detenuti da reinserire; ha collaborato per ripulire l’area mercatale, lì dove ogni bancarella veniva assegnata seguendo gerarchie mafiose. “Eppure non si esce dalla rappresentazione di San Luca come il ‘Locale-mamma’ di ’ndrangheta. Ci manca il coraggio di ribellarci pubblicamente. Per paura, per autodifesa. Ma stiamo facendo, pur se silenziosamente, cose straordinarie”.

È che in certe situazioni, lo sforzo di evitare il conflitto aperto può diventare omertà. E la Chiesa per molti anni, con l’ex parroco di San Luca e del santuario di Polsi, quel don Pino Strangio condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, è stata connivente se non protagonista. Si deve a monsignor Francesco Oliva, vescovo della Locride, un cambio di passo. Al posto di Strangio, ha nominato parroco dell’unica chiesa di San Luca un 35enne al primo incarico, Don Gianluca, che ha aperto l’oratorio che qui non esisteva. Il vescovo ha scritto una lettera alla cittadinanza: “La mancata presentazione di liste è una resa. Conosco le sofferenze e le ferite di questa comunità, ma il governo della Città è nelle nostre mani e non possiamo arrenderci. Altrimenti abbiamo perso tutti, lo Stato e la Chiesa”. Così è nata l’idea di lanciare una scuola di formazione politica, “perché abbiamo bisogno di una buona politica, cosa difficile ma possibile. Alcuni paesi hanno

perso la fiducia nelle istituzioni, credono che non valga la pena andare a votare... non dobbiamo accettarlo”.

A San Luca alle ultime politiche l’affluenza è stata del 22%. È una vecchia storia quella del paese appestato e dimenticato. Da quando – era il 1592 – i pastori montanari dell’antico villaggio di Potamìa, costretti dalle frane, scesero più a valle a fondare San Luca. Cominciò così, tra miseria e sofferenza, la vita errante di questo popolo, con il miraggio di mutevoli terre promesse. Ieri le ricchezze accumulate negli anni dei sequestri. Oggi quelle del narcotraffico mondiale. È qui che passano la droga e le armi che riforniscono le piazze di tutte le mafie. È qui che sono nati e cresciuti i rampolli delle note famiglie – tutti giovanissimi, anni 2000 – tra i latitanti più pericolosi del Paese. Ed è da qui che 16 carabinieri, comandati dall’ottimo maresciallo maggiore Michele Fiorentino, di stanza a San Luca da 21 anni, instancabilmente danno la caccia alle stesse famiglie, agli stessi cognomi, alle stesse persone. Chi, come il brigadiere Carmine Tripodi, anche a costo della vita. “Sono passate le generazioni, ma siamo tornati indietro. Sa cosa si dice qui? Che se non avete un precedente non vi potete sposare...”, racconta con un riso amaro il comandante. “È un gioco delle parti: noi stiamo da una parte, loro dall’altra”.

La gente ha paura di restare, ha paura di venire, ha paura di lavorare a San Luca. Eppure, a colpire sono le tante macchine di cilindrata pesante – con targa tedesca, come un memento di Duisburg – che si muovono su strade deserte in mezzo alle classiche case “non finite” calabresi, coi piani di mattoni in dote per le figlie femmine e i fiocchi ai cancelli per la Madonna di Polsi. Soldi, tanti, ne circolano (leggendario il ritrovamento da parte dei carabinieri di sei milioni di euro sottoterra). Donne in giro non se ne vedono. Solo uomini, anziani, a cercare ombra sotto gli oleandri o seduti sulle ringhiere. Nonostante l’indice giovanile tra i più alti d’italia – 785 ragazzi su 3.700 abitanti – la vita ha mantenuto molti dei vecchi usi, oltre ai principi dell’onore e del rispetto. Le ragazze, per esempio, vengono “scelte” durante la “vetrina” della processione di Pasqua. Si sposano ancora bambine e fanno di media 4-5 figli. Poi vivono in casa, chiuse. È un’italia, se è Italia, di 80-100 anni fa. C’è chi, come il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è convinto che per luoghi “costituzionalmente incompatibili con lo Stato di diritto”, ci sia bisogno di “un progetto che metta in campo strumenti non ordinari, altrimenti il rischio è lo sfiancamento dello Stato”. E lo Stato qui si conosce solo quando viene inaugurata una caserma: allora si vedono ministri e qualche politico locale. Ma quando ha aperto quella ad Africo Nuovo, in un ex villone sottratto ai Morabito, nessun cittadino si è presentato. Anche i bambini con le bandierine tricolori erano scolari di un altro paese. “Queste persone sono rimaste ostaggio di quella agenzia diseducativa che si chiama ’ndrangheta e hanno visto la politica trattare coi propri aguzzini. Facile dire loro ‘ribellatevi’... La strategia qui è da sempre la stessa: siamo al quarto commissariamento. Ma nel frattempo i processi democratici non sono cresciuti né sono stati sgominati i clan, quindi...”. Francesco Mollace è uno di quegli insegnanti che ci crede tanto. Docente di Filosofia e storia e membro del Forum regionale terzo settore e scuola, è il presidente di Civitas Solis, che gestisce, assieme a Save the Children, il “Punto Luce” di San Luca. L’unico spazio di aria – assieme a Libera con la sua referente Deborah Cartisano – per bambini e mamme del luogo. Coi loro progetti, dai corsi di robotica alla musica, dalla ginnastica all’inglese, Francesco e le educatrici dimostrano che, con un’alternativa, è possibile togliere a questi ragazzi lo stigma che suona come una condanna: “Sono di San Luca”. “C’è un enorme potenziale che, se non orientato, prende altre vie. Bisogna che qualcuno ci creda. In Calabria abbiamo, tra gli studenti, il più alto tasso di competenze alfabetiche e numeriche non adeguate e il più basso indice di lettura di libri e quotidiani (4%). Il cancro puoi decidere se curarlo sezionando, tagliando, asportando. Oppure, come sta avvenendo in oncologia, rigenerando i tessuti, con l’immunoterapia”.

Nicola Gratteri, profondo conoscitore di queste terre, ripete in continuazione “meglio una scuola che un carcere”. Ma a San Luca di scuole ce n’è una sola e senza un dirigente fisso da oltre due anni. Il padre di Corrado Alvaro, scrittore che qui è nato, era un maestro. Fece “un patto con l’avvenire. Che quanti figli avrebbe avuti li avrebbe fatti studiare”. Ma l’incitamento continuo era di “abbandonare il paese maledetto”, ricordava il figlio Corrado. Che mai dimentico dei suoi anni a San Luca, scrisse: “L’adolescenza è una riserva per quando la fantasia avrà cessato di parlare”. Ma ci sono luoghi in cui da sempre resta muta. O quasi.

Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

 Il linguaggio del corpo da solo non basta a prevenire femminicidi o violenze, ma può essere un segnale precoce utile se integrato con educ...