"I diritti non dovrebbero dividere politicamente", spiega Alessandro Zan ai microfoni di fanpage prima di unirsi
al corteo arcobaleno di Milano, che ritiene "una medicina contro l'invisibilizzazione".
"La notizia della morte di Cloe Bianco, isolata ed emarginata, è il caso emblematico che dimostra quanto sia necessaria una legge contro i crimini d'odio. Una legge non ha solo effetti penali, crea cultura in un Paese. Noi siamo riusciti – nonostante il fermo del ddl Zan – a istituire dei fondi per i centri anti discriminazione e le case rifugio grazie al cosiddetto "decreto Agosto". Ci sono già tantissimi centri in diverse città italiane che proteggono le vittime di violenza e forniscono assistenza psicologica, fiscale, sociale a chi subisce discriminazioni.Si tratta di una rete importante di sostegno, ma bisogna assolutamente lavorare nelle scuole : la scuola forma i cittadini di domani, quella è la base da cui partire. Dando ai bambini la consapevolezza che la differenza è un valore contribuiamo a contrastare l'odio nella società" Alcuni diranno che Combattere x i propri diritti non significa fare pagliacciate, si possono pretendere anche manifestando in modo sobrio . Ma finche c'è rispetto si può fare come suggerisce Lina Nappi : << certo che è possibile, ma noi preferiamo combattere con allegria>>perchè fin quando non insulta l'altro ognuno ha diritto di esprimersi come vuole,se a te sembra una pagliacciata il problema é tuo.
Ecco, guardateli. Guardate gli sposi, quel giovane uomo, quella giovane
donna, osservate quanto sono belli, sono belli da far piangere, ad aver
voglia di piangere per la bellezza. Del resto, quale sposa non è bella
il giorno delle sue nozze, e quale sposo non lo è mentre se la rimira
dall'alto del suo radioso orgoglio. Solo che loro sono belli oltre
misura, Rossella O'Hara diresti di lei, un principe diresti di lui, sono
così belli che riescono persino a imporre unicità alla fotografia più
comune tra tutte le immagini di circostanza; quante centinaia di milioni
di immagini come questa dormono in vecchie scatole da scarpe e
centenari album di famiglia sparsi per tutto il mondo. Non questa,
questa è viva, e i due sposi guardano ancora il mondo e dal mondo si
fanno guardare lassù in alto nella scansia tra le focacce e i pandolci
nel negozio di un fornaio. Continuate a dare un'occhiata ai due sposi
per favore, cercate di indagare nei particolari, perché nei particolari
vive una storia ancora più grande e più bella di come possa sembrare.
Difficile, capisco, l'immagine è rozzamente riprodotta con la fotocamera
di un telefono, i dettagli che contano sono materia nascosta e anche se
fosse evidente, ignota. Il vestito della sposa è di seta, la seta di un
paracadute di un reggimento aerotrasportato inglese, il vestito dello
sposo è di pesante stoffa di lana, la stoffa di una divisa del corpo
delle SS naziste; e il bouquet di fiori della sposa, quel grande bouquet
di così vividi colori, è fatto di fiori di carta, la carta velina della
modulistica dell'ufficio amministrativo del campo di concentramento e
lavoro forzato di Helmstedt, Bassa Sassonia. Il matrimonio è stato
celebrato e certificato il 3 luglio 1945 dal comandante dei
paracadutisti inglesi che lo hanno liberato, confermato due giorni dopo
con rito religioso amministrato da un prete cattolico.
Il forno si chiama da Gianchettu, Bianchetto, perché questo è il nome
del fornaio, e il suo negozio è nel carruggio di un borgo della Riviera
di Levante dove vado a fare i bagni da tempo immemore. Mi piace portarmi
a mare la mattina presto, mi piace essere il primo piede a scompisciare
la spiaggia di ghiaietta che i bagnini hanno appena finito di
pettinare, mi piace nuotare fino a non poterne più, asciugarmi in fretta
e poi passare da Gianchettu a prendermi una fetta di focaccia lunga un
braccio e larga mezzo, mangiarmela su una panca all'ombra scarsa di un
oleandro, leccarmi le dita dell'olio che è olio buono e buttarci dietro
mezzo bicchiere di un qualche vermentino del bar di fronte. Si fa presto
a dire focaccia, ma impastare, lievitare e cuocere una focaccia di
Riviera nell'aria madida di salmastro e non farne venir fuori una
flaccida, aspra, rugginosa lasagna, ma una sfoglia tenera e croccantina,
non è faccenda che ci riescono in tanti. Gianchettu, sì, e quella
focaccia è un gran sollievo alle inappetenze della calura, ai gastrici
dinieghi della macaia. Chissà se lui lo sa che il suo forno è una cura e
un riparo, lui se ne sta là dietro in canottiera e berrettino a
rimestare e infornare. Ma ogni tanto viene di qua per sorridere a sua
moglie che sta al banco, le sorride per riposarsi un po', e gli deve
piacere così tanto che gliene avanza anche per sorridere alla coda che
aspetta scontrosa e sudaticcia la sua fetta di focaccia cadauno.
Gianchettu è un fornaio sorridente, una rarità in assoluto, un'unicità
tra i fornai rivieraschi; lo vedo sorridere a sua moglie da quando passo
dal forno, diciamo vent'anni. E fa bene Gianchettu, non foss'altro
perché la signora Teresa ha due occhi azzurri bellissimi e distanti, e
uno sguardo in quei suoi occhi di quelli che ti viene da pensare che un
principe straniero potrebbe da un momento all'altro prendersela e
portarla chissà dove. Gli occhi della signora Teresa sono gli occhi
della sposa del campo di Helmstedt.
È per via di quegli occhi, e, certo, anche un po' per quella focaccia
così buona, per via del fornaio di Riviera singolarmente sorridente, che
al termine di un ventennale tirocinio mi son preso la confidenza di
chiedere alla Teresa chi fossero mai quei due sposi lassù dietro al suo
banco. Quei due sposi sono suo padre Tullio e sua madre Theresa. E
questo mi ha raccontato Teresa, la moglie del fornaio, nata Leocadia e
detta Lola, che però si chiama Teresa perché ha voluto prendersi il nome
di sua madre che non ha mai conosciuto perché è morta mettendola al
mondo; tutto quello che sa di lei glielo hanno detto le fotografie e le
storie di suo padre.
Dunque mi ha raccontato che sua madre Theresa è nata nella città polacca
di Pabianitz da una cattolicissima famiglia di commercianti. Pabianitz è
una città colpevole, ha inutilmente e sanguinosamente resistito alle
truppe germaniche d'occupazione, e dunque è severamente punita con la
deportazione in massa dei civili; Theresa è prelevata dalle SS
all'uscita da scuola, ha appena finito il corso di dattilografia, ha
ancora da compiere quattordici anni, è destinata al campo di Helmstedt.
Il campo è su una miniera di salgemma, ben in fondo nella miniera ci
sono i laboratori per la fabbricazione di componenti del prototipo di
un'arma segreta della Luftwaffe; il lavoro nella miniera è per i
deportati politici più pericolosi, quello nel laboratorio per i più
specializzati, gli uffici sono destinati alle ragazze come Theresa.
E mi ha raccontato che Tullio è nato nel '17 a Monterosso, in Riviera di
Levante, da una famiglia di sarti e barbieri dove i maschi sapevano
fare l'uno e l'altro mestiere assieme e anche dipingere e scrivere
poesie e anelare alla rivoluzione socialista. Tullio è partito alla
guerra da marinaio e dopo l'8 Settembre se n'è tornato a casa; quando i
fascisti sono andati a prenderlo per arruolarlo nella Repubblica
Sociale, lui si è fatto trovare in casa, era una testa calda. Lo hanno
deportato a Fossoli; di quel campo non ha mai voluto parlarne, solo,
morendo, ha lasciato sul comodino dell'ospedale un biglietto in cui
diceva di un orrore che non poteva dimenticare, per il resto ha solo
raccontato che a salvarlo dalla morte è stato il suo mestiere, un sarto è
sempre di grande utilità in un posto dove ci sono tanti uomini in
divisa, specialmente poi se è anche un barbiere.
Il campo di Helmstedt non è un campo di sterminio anche se c'è
l'edificio per le eliminazioni, il vitto è uguale per tutti, un filone
di pane da dividere tra i sedici componenti della baracca e una patata
con l'acqua di bollitura a testa al giorno; nel campo tutto era proibito
tranne eseguire gli ordini, Tullio ha portato per tutta la vita le
cicatrici delle percosse che ha ricevuto disobbedendo alla regola, il
suo nome era un numero, o altrimenti "tu, merda". Tullio ha raccontato
che il primo ricordo che aveva del campo era il canto di un gruppo di
polacchi, cantavano inni sacri polacchi mentre le guardie lì
picchiavano, prendevano le bastonate e continuavano a cantare, cantare
era proibito, era proibito anche pregare a voce alta. Era proibito
festeggiare anche il Natale, e per questa ragione Tullio ha conosciuto
Theresa; quella polacchetta era una testa calda e nel Natale del '44 era
diventata famosa in tutto il campo perché s'era risaputo che,
rischiando la morte, aveva rubato un rametto da un albero e con la carta
colorata rubata negli uffici aveva allestito un alberello natalizio
nella sua baracca, era furbissima e riusciva a nasconderlo alle
ispezioni giornaliere. Così Tullio si è intestardito di conoscerla la
testa calda polacca, e ci è riuscito trovando il modo di arrivare
all'ufficio dove dattilografava. L'ha vista, era bellissima e piena di
fascino ribaldo, e si è innamorato; e siccome era anche lui un uomo
molto bello e molto affascinante, anche Theresa si è innamorata, così,
in un lampo. Tullio ha raccontato che la cosa strana in quel campo dove
nessuno pensava a altro che a sopravvivere, dove essere buoni d'animo
era come suicidarsi, fu la gran complicità generale per quegli
innamorati, così che riuscirono a scambiarsi persino dei biglietti, e a
promettersi, e a sopravvivere fino alla liberazione.
Naturalmente il vestito della sposa e il suo lì ha tagliati e cuciti
Tullio. Che ha preso la sua sposa e se l'è portata in Riviera, e alla
stazione c'era tutto il paese ad aspettarli, in testa la cara, vecchia
mamma, che per prima cosa si è schiantata sul figlio con uno schiaffone
tremendo, perché, con tutto quello che gli era successo, Tullio si era
dimenticato di aver lasciato al paese una promessa sposa, nientemeno che
la nipote del parroco, e queste cose non si fanno. E poi sono vissuti
felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un'altra, e l'altra è
la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di
lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora
sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un'altra cosa,
sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell'inumanità, nel più
schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è
ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e
eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo
presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.
Una squadra della 36° Brigata Garibaldi (1944 - 1945). Credit: Fototeca Gilardi
I ragazzi che fecero la Rivoluzione
L’ordinamento repubblicano affonda le radici nei
principi dei tanti giovani che scelsero la Resistenza e la libertà. Una
storia che non si può dimenticare
di ALBERTO ASOR ROSA
Quando ho letto le prime trenta-quaranta pagine di questo libro di Giuseppe Filippetta, - L'estate che imparammo a sparare (Feltrinelli, pagg. 302, euro 22) - mi sono detto che sarei andato avanti fino alla fine come un treno. Si tratta, come risulta evidente anche dal titolo, della ricostruzione precisa e circostanziata, ampia ma anche facilmente interpretabile nei suoi significati più profondi, della lotta partigiana in Italia, dalle sue drammatiche e insieme esaltanti origini nel settembre 1943 alla sua conclusione, altrettanto esaltante, fra la primavera del 1945 e il lungo svolgimento del 1946.
Il libro è talmente ricco da esser quasi impossibile una sua sintesi, sia pure rapidamente argomentata e ragionata. Dirò perciò più semplicemente quali sono stati i suoi aspetti che mi hanno colpito di più. Il primo riguarda la presenza prioritaria nel racconto di figure di partigiani autentici, identificabili con nome e cognome, e storie proprie nell'ampio arco della resistenza nazionale, dalla Maiella in Abruzzo alle Alpi, di rango superiore e dirigenziale, oppure, forse anche più spesso, della massa dei militanti comuni, di ogni censo e condizione. Questo vuol dire che, con attitudine anche narrativa estremamente efficace, Filippetta coglie e valorizza nell'originaria scelta partigiana una sorta di rivendicazione, spontanea, della propria identità individuale popolare, contro l'affermazione bruta del diritto alla violenza e alla sopraffazione. Si vedano ad esempio, nelle pagine di esordio, le biografie di due partigiani di zone diversissime d'Italia, Vincenzo Cozzani diMontepulciano in Toscana, e Mario Grisendi di San Polo d'Enza nel Reggiano. Scrive Filippetta: "Nelle scelte di Cozzani e di Grisendi non c'è traccia di Stato e di regni, c'è la decisione sovrana di uomini che, venuto meno ogni ordine, scelgono loro quando, contro chi e per quale scopo fare la guerra e diventano partigiani con l'obiettivo di porre fine alla paura e all'ingiustizia del presente e di aprire a sè e agli altri il futuro".
Quando viene meno l'ordine costituito, - quello bene o male rappresentato in Italia dalla tradizione monarchica, a un certo punto persino intrecciata con un disordine istituzionalizzato e brutale come quello del fascismo, - una quota consistente di giovani italiani non sta lì ad aspettare, inerme, subalterna e servile, che un'altra potenza esterna costruisca un nuovo ordine, cui assoggettarsi, ma prende le armi per costruirlo a modo proprio. Del resto, la ricostruzione storica e il discorso argomentativo di Fileppetta non si fermano qui: tutt'altro. Il segnale della traccia che l'autore segue è indicata con precisione dal sottotitolo dell'opera: "Storia partigiana della Costituzione". E cioè: senza tradire il rispetto delle priorità rappresentate in questa storia dalle scelte di Cozzani e di Grusendi, Filippetta dimostra come, attraverso una scalarità di scelte e di tendenze, si arrivi in quei lunghi mesi di lotta a formulare i primi lineamenti del processo costituente, il voto per la Costituente, i tratti fondamentali della nostra Costituzione. Su questi punti Filippetta non potrebbe essere più chiaro: "La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale". Altrove parla della "Costituzione dei fucili".
"La Costituzione dei fucili"! Nella ricostruzione di Filippetta c'è indubbiamente la traccia di altri autorevoli interpreti di quel passato, da Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, da Guido Quazza a Giovanni De Luna; ma, se non erro il nostro autore porta fino alle ultime conseguenze il discorso. Un tratto significativo, - ma anche commovente - del suo rapporto con questa materia è consegnato alle ultime pagine del libro. Filippetta ricorda che già nel 1946 un maestro del diritto amministrativo, Giovanni Miele, aveva puntato il dito accusatore contro quei numerosi giuristi che tranquillamente si erano adattati al cambiamento dei regimi, dedicando il suo saggio Umanesimo giuridico a due suoi studenti dell'Università di Pisa, caduti nella Resistenza: Francesco Pinardi e Rurik Spolidoro. Sono gli stessi cui ora, - evidentemente con scelta non casuale, - Filippetta dedica il suo libro. Come mai? Anche qui Filippetta è di un'estrema chiarezza. Perché "nella lunga stagione del 1943-1947 il nuovo diritto repubblicano nasce innanzi tutto dalle vite costituenti dei tanti che, insieme a Rurik e Francesco, attraverso le bande partigiane affermano e instaurano con le loro scelte e le loro azioni... I principi e le regole dell'ordine democratico della libertà... Dimenticarlo significherebbe rinunciare al progetto di liberazione e di emancipazione umana che la Costituzione del 1947 ci ha affidato e privarci del nostro futuro di cittadini repubblicani". Sono le ultime parole del libro. Talvolta, quando ci accade anche inconsapevolmente di misurare quelle scelte e quelle giovani vite di combattenti partigiani con il nostro presente di oggi, ci viene da piangere.
Una militanza fatale
Novecento. «Un
amore partigiano», il libro di Mirella Serri che racconta la storia
oscura di Gianna e Neri, uccisi dai loro stessi compagni e scomparsi nel
nulla
La lapartigiana Gianna, vero nome Giuseppina Tuissi
Quella di Gianna e Neri è una storia oscura della Resistenza. La ricostruzione appassionata che ne fa Mirella Serri (Un amore partigiano, Longanesi, pp. 217, euro 16,50) consegna al lettore un’empatia forte con i due protagonisti: lei, all’anagrafe Giuseppina Tuissi, che diventa partigiana dopo che i fascisti uccidono il fidanzato, torturata a sua volta in una prigione di Salò, addetta all’inventario del cosiddetto «oro di Dongo» sequestrato ai gerarchi, accompagnatrice di Claretta Petacci nel suo ultimo viaggio (e l’amante di Mussolini viene dipinta come una donna antisemita, ambiziosa e priva di scupoli, smontando ogni stereotipo assolutorio); lui, vero nome Luigi Canali, a capo della Brigata Garibaldi che arrestò il Duce, secondo qualcuno l’uomo che diede il colpo di grazia al gran capo del fascismo (ma per le cronache l’esecutore materiale fu un altro partigiano, Walter Audisio, che a più riprese ha raccontato come avvenne l’esecuzione). L’autrice ne sposa la causa e aderisce all’idea che tra i due ci fosse più che una comunanza politica, un’ipotesi suffragata dalle parole della vedova di Canali quando, nel 2002, il Comune di Como ha inaugurato una scalinata intitolata ai due combattenti per la Liberazione dal nazifascismo: «Per quel che mi riguarda, Gianna è la donna che mi ha portato via un marito che mi amava». Ma è soprattutto una storia dal tragico finale, che racconta delle opacità e delle durezze di quell’ultima fase della guerra partigiana e soprattutto di quei mesi di interregno seguiti al 25 aprile del ’45. Ne scrisse sul manifesto Rossana Rossanda, nel 1985, ben prima che due lettere del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi Walter Veltroni da segretario dei Ds arrivassero a chiudere una ferita rimasta aperta per settant’anni: «Mi sfilavano davanti le immagini dei compagni uccisi… Questo ricordo, vivo come i colori freddi d’una giornata d’aprile del Nord, e quello immediatamente successivo del Neri e della Gianna, uccisi dai loro, dai miei compagni per una storia oscura e della quale mi si avvertì energicamente che non mi dovevo occupare, fece sì che non mi è riuscito di dire ‘Ai bei tempi della resistenza’». Rossanda ha ripreso la vicenda nella più recente autobiografia La ragazza del secolo scorso. Racconta di quel «comandante favoloso» e di «una ragazza spericolata», della loro condanna e della fucilazione, non crede al collegamento con la scomparsa dell’oro di Dongo, come pure Mirella Serri, e scrive che «nel 1945 nulla di quella storia mi convinse. Ma non mi venne in mente di abbandonare. Non me ne vanto, non me ne pento». Come morirono Gianna e Neri? E per mano di chi? Fu una vicenda «locale», un regolamento di conti all’interno delle bande partigiane comasche o la gravità dei fatti non consente di archiviarla come tale? Erano «traditori», come aveva deciso il Tribunale della Resistenza diramando ai Gap l’ordine di ucciderli, oppure no, come avevano pensato da subito i compagni del Neri, riaccogliendolo nella loro brigata dopo la fuga dal carcere? Soprattutto, perché dare esecuzione a una sentenza di morte quando tutto era ormai finito? «A Milano domandai un’inchiesta. Urtai contro un muro. Tutti coloro che la chiesero urtarono contro un muro. Forse non si volle ammettere l’errore, forse lo si comprese inescusabile», scrive Rossanda. Mirella Serri aggiunge qualche sospetto in più, lasciando intravvedere delle rivalità preesistenti: chi fece la soffiata che fece arrestare entrambi a Lezzeno, sul lago di Como? L’ipotesi è che il comandante Neri, comunista, fosse inviso ad alcuni personaggi della Resistenza comunista comasca, in primis Dante Gorreri, ex Ardito del popolo, collaboratore di Guido Picelli nella resistenza antifascista di Parma nel 1922, segretario del Pci di Como, dopo la guerra componente dell’Assemblea Costituente, poi arrestato con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di Gianna e Neri, scarcerato nel 1953 perché eletto deputato per il Pci e infine amnistiato. E poi a Pietro Vergani, anch’egli senatore nel dopoguerra e poi amnistiato, che da comandante delle Brigate Garibaldi della Lombardia aveva fatto sospendere la condanna a morte dei due partigiani. L’accusa nei confronti di Neri, poi smentita dai fatti, fu quella di essere una «spia» del nemico, fatto fuggire dal carcere per arrestare i compagni. La partigiana Gianna, anch’ella comunista, fu invece sospettata di aver parlato, sotto tortura, rivelando gli indirizzi di alcune basi partigiane e provocando diversi arresti. Fu uccisa e gettata nel lago il 22 giugno del 1945, giorno del suo ventiduesimo compleanno, probabilmente perché non si era arresa alla scomparsa nel nulla di
Luigi Canali, avvenuta il 7 maggio. I loro corpi non saranno mai
ritrovati.