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Catturati nel Donbass, Slavyk e Serhiy sono passati dalle carceri russe a quelle cecene. Ora, dopo uno scambio di soldati alla frontiera, sono in una clinica ucraina per la riabilitazione dei prigionieri di guerra. E sono inseparabili

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repubblica del 2\72023 Sente ancora le mani che non ha più. Assorto nel ricordo della trincea riempita di neve sporca del suo stesso sangue, muove i monconi delle braccia per indicare a chi ascolta il punto da cui è sbucato il carro armato russo. Sferra cazzotti immaginari ai suoi aguzzini, quando il filo della memoria lo trascina di nuovo nel pozzo di disumanità che è stata la prigione dei separatisti a Donetsk. Il cuore di Slavyk si è rassegnato, il cervello no: continua a ingannarlo, facendogli percepire gli arti. Pure adesso che vuole grattarsi la testa, le sinapsi gli trasmettono la sensazione dell’articolazione del polso, del metacarpo, delle dita, e il tentativo va a vuoto di qualche centimetro. Ma quest’uomo non si deprime mai. Sorride, come a dire: tu che mi fissi con lo sguardo contrito, rilassati, non mi serve la tua compassione, mi serve solo il tempo per abituarmi a un corpo più corto. Infatti, eccolo che prende le misure e riesce strusciarsi sopra l’orecchio, sc