a chi mi dice che ricordo solo i crimini italiani e dei nazisti nei balcani replico cosi riportando qiuesta intervista trovata in rete . anche questi sono stati dei criminali e la prova provante è quello che hanno subito alcune famiglie
Avvenire
«A Pola seppellii il mio tesoro. Tornerò in quell'orto a cercarlo»
«Da anni cerco di entrare nella mia casa di bambino a Pola e recuperare il tesoro sepolto nell’orto prima di partire. Ma in passato mi hanno cacciato via e quest’anno ho trovato tutto sbarrato. Ora vorrei tanto ricomprare la mia casa...». Bruno Blascovich, classe 1940, piccolo imprenditore piemontese, è tra gli esuli istriani che lasciarono in massa la città morente, ineluttabilmente condannata a diventare Jugoslavia e al feroce regime del maresciallo Tito. Un destino comune a 350mila giuliano-dalmati, dunque, ma la storia di Blascovich è diversa a partire dalla fuga da Pola, che non è avvenuta con l'esodo del ’47 ma anni dopo, in piena dittatura comunista, fino all’ultimo minuto con il fiato sul collo della polizia segreta di Tito.
Una fuga rocambolesca. Come mai non partiste con gli altri polesani nel ’47 a bordo della nave “Toscana”, sotto protezione degli inglesi?
Proprio nel settembre del ’47 mio padre Giovanni era sparito nel nulla. Mia madre, Paola Bencich, e noi sei bambini saremmo potuti partire con gli altri, ma avremmo dovuto abbandonarlo. Faccio un passo indietro: prima della guerra papà alle dipendenze di un possidente austriaco dirigeva le squadre di polo a cavallo sull’Isola di Brioni, a nord di Pola, i ricconi d’Europa venivano lì con gli aerei privati a gareggiare. Ma dopo il ’43 a causa della piega che aveva preso la guerra il turismo sparì e lui fu assunto dalla milizia locale come guardiano di Brioni. Noi bambini eravamo tutti nati lì, in una splendida casa con le fondamenta nel mare, tra il vento e le pinete abitate dai cervi. Fino al 15 settembre del 1947 Pola era ancora un’enclave libera, protetta dagli angloamericani, dentro un territorio già tutto jugoslavo, ma quel giorno anche la nostra città fu consegnata al dittatore e il 20 settembre i militari di Tito arrivarono anche a Brioni: mio padre, 37 anni, fu incatenato con altri due e portato via. Per molti mesi non sapemmo se fosse vivo o lo avessero gettato in foiba o fucilato, io con le mie cinque sorelline e la mamma aspettavamo chiusi in casa. Lo vedemmo tornare alla fine del ’48: avevo 8 anni ma non capii che era lui, era partito di 90 chili e ne pesava la metà, la mamma lo riconobbe dagli occhi. Brioni divenne la residenza di lusso di Tito, vietatissima e blindata, e noi con i nostri mobili fummo scaricati sul molo di Pola, dove entrammo in una delle migliaia di case lasciate vuote dai polesani fuggiti. Tutta Pola era una città fantasma e Tito la riempiva facendo arrivare macedoni, montenegrini, bosniaci, serbi dalla Jugoslavia.
Dov’era sparito suo padre in quei mesi?
Solo dopo anni ci raccontò che era stato internato a Goli Otok (Isola Calva), il gulag in pieno Adriatico. L’inferno in terra. Ma appena tornato, nel '48, fu deportato per anni ai lavori forzati all'interno della Jugoslavia, naturalmente senza stipendio, in schiavitù. Tutto questo durò fino al 1952, quando finalmente anche lui ebbe il permesso di venir via con noi.
Chi tornava da Goli Otok – sempre che avesse ancora il senno – non ne faceva parola per tutta la vita.
Bastava il sospetto di aver raccontato qualcosa e si veniva rispediti a Goli Otok. Lì migliaia di schiavi spaccavano pietre per spostarle da una parte all’altra dell’isola e poi viceversa, fino a impazzire. Non esistevano i bagni ma pozzi larghi dieci metri e tutti intorno a defecare, chi non era veloce veniva colpito alla schiena e lasciato cadere dentro il pozzo. Mio padre vide compagni di sventura morire negli escrementi. Mangiavano una volta al giorno una tazza di brodo di verza con dentro farina gialla e una galletta: la speranza era la pioggia, allora uscivano le lumache e le inghiottivano così com’erano. Tutto era top secret, solo la Ozna, la polizia politica di Tito, aveva la lista dei prigionieri (ancora oggi occultata) e il numero dei morti si stabiliva contando le gavette abbandonate. Ma tutto questo papà lo ha raccontato solo a 57 anni, prima di morire per le conseguenze delle torture: era il 1967, la guerra era finita da 12 anni, e noi eravamo ancora in campo profughi a Cremona. Intanto il resto d’Italia si godeva il boom economico.
Come vivevate a Pola, nei lunghi anni in cui vostro padre era ai lavori forzati?
Mia mamma accettò un lavoro che non voleva nessuno, faceva le pulizie nel reparto tubercolotici, ricordo noi sei in fila seduti sul muretto ad aspettarla a fine turno, quando la notte usciva dall’ospedale con gli avanzi dei malati. Fingeva sempre di non avere fame e dava il meglio a noi... Ma era troppo poco, così io e una mia sorellina andavamo a nostro rischio nei cantieri navali con un carretto a grattar via la corteccia dai tronchi usati per la costruzione delle navi, e questo ci permetteva di scaldarci e cucinare. Poi alla stazione dei treni raccoglievamo da terra con una spazzolina i residui di zucchero, farina, caffè usciti dai sacchi, mentre nelle caserme cercavamo i rifiuti per portarli a una donna che aveva i maiali in cambio di due uova, un mazzetto di radicchio e un po’ di lardo. Vivevamo nella paura, pensi che mia mamma per proteggerci esponeva come tutti alla finestra la grande foto di Tito con scritto “Zivio Tito, sloboda narodu, smrt fašizmu”, viva Tito libertà al popolo morte al fascismo. Con un marito ai lavori forzati! Altro che libertà al popolo, era una dittatura feroce. Io non ho mai avuto un’infanzia, le elementari le ho finite a 16 anni e proprio a scuola avvenne il dramma delle mie due identità, uno sdoppiamento che mi perseguita ancora oggi.
In che senso lei ha due identità?
Sono nato Bruno Blasco e così mi chiamavo nel 1946 in prima elementare. Dall’anno dopo – arrivati i titini – ero Blascovich, cognome slavizzato, ma io bambino ero confuso: perché avevo due pagelle con cognomi diversi? Chi ero io? E perché ora ero sbattuto sempre in ultima fila, chiamato “il fascista”, con le braghe e le scarpe bucate, accerchiato e pestato dai nuovi compagni arrivati da regioni lontane della Jugoslavia? È un incubo ancora ricorrente nelle mie notti e d’altra parte ancora un mese fa in Piemonte l’addetto al rinnovo della mia carta d’identità mi ha chiesto se fossi un extracomunitario, visto il cognome. Poi vedendo la sigla PL di Pola mi ha segnato come polacco. Abbiamo tanto penato per raggiungere la nostra Italia e ancora peniamo.
Nel 1952 l’addio definitivo a Pola e alla casa. Che cosa ricorda?
Due guardie di Tito, armate e con la stella rossa sul berretto, aspettavano che consegnassimo le chiavi di casa e intanto litigavano per chi si sarebbe preso il grammofono. Fuori casa c’era già un gruppo di bosniaci pronti ad occupare i nostri letti, gli armadi, le care stanze. La porta che si chiude, con l’addio per sempre alle mie cose, è l’altro incubo che mi insegue. Ci impedirono di prendere qualsiasi oggetto, persino le foto appese al muro del matrimonio dei miei e di papà Granatiere a cavallo a Roma durante il servizio militare. Io allora avevo 12 anni e chiesi a mia mamma perché dovessimo lasciare lì le nostre cose, ma lei fingendo mi assicurò che saremmo tornati, così corsi nell’orto, sfilai dal muretto a secco una pietra ben precisa e dietro ci nascosi il mio unico tesoro, tre s’cinche, in dialetto istriano le biglie di vetro che avevo sempre in tasca, e con cui giocavo. Poi tutti e otto andammo mestamente a prendere il treno, ognuno di noi tratteneva l’angoscia per non rattristare gli altri, ricordo che mi chiusi in un vespasiano di fronte alla stazione per guardare l’Arena romana dall’inferriata e poter piangere in pace.
Ma fino all’ultimo fu terrore vero...
Furono momenti concitati. Le guardie cercarono di tirare giù dal convoglio papà, che per difesa prese in braccio due mie sorelline, poi finalmente il treno si mosse. Va detto però che per noi bambini era anche un’avventura eccitante: non eravamo mai saliti su un treno! Ricordo che la mamma durante il viaggio chiese dove fossimo e io, guardando dal finestrino, le risposi che eravamo a “Chlorodont”: era un famoso dentifricio, ma vedevo per la prima volta i cartelloni pubblicitari e credevo fosse il nome di un paese.
Finalmente l’arrivo a Gorizia, nella famosa Stazione Transalpina dove dal 1947 era stato eretto un “muro” come a Berlino.
È vero, di là l’Italia e la libertà, di qua la Jugoslavia e il comunismo. Ed ecco il terzo ricordo che torna nelle mie notti: appena superato il confine, a metà piazza papà si buttò a terra a piangere come un bambino, era riuscito a portare in salvo i suoi figli. Da lì andammo per cinque mesi a Udine nel campo di smistamento profughi, poi fummo mandati all’Aquila per tre anni, dove ricevemmo una balla di fieno per riempire i pagliericci. Dividevamo con altre famiglie lo stanzone di una caserma dismessa, non avevamo sedie né tavoli, mangiavamo seduti sul giaciglio, minestra, mortadella, frutta… le assicuro che per me quello era un hotel a cinque stelle, anche se invece di andare a scuola lavoravo per aiutare la famiglia. Poi finimmo al campo profughi di Cremona altri tre anni, dove ho fatto il calzolaio, il fruttivendolo e le corone da morto per il fioraio, e a 16 anni sono entrato in fabbrica. In seguito a Cremona fondarono il Villaggio Istriano e finalmente avemmo un tetto: lì vivevamo benino, tutti si parlava il nostro amato dialetto e grazie a quel suono meraviglioso potevamo illuderci di essere ancora a Pola. Pensi che dopo i vent’anni, ormai “piemontese” e realizzato, andavo in ferie a Trieste solo per stare seduto in silenzio nelle osterie a sentire il mio dialetto, ero ingordo di quella musica.
Quando tornò la prima volta nell’Istria jugoslava?
Era il 1965, in Piemonte mi ero innamorato della mia futura moglie e volevamo sposarci, ma ce lo impediva la questione dei due cognomi, ero Blascovich o Blasco? Così sono andato a Fasana a recuperare il certificato di battesimo. Da lì guardavo col canocchiale la mia casa di Brioni, a rischio di essere arrestato. Ci andava Sofia Loren ospite di Tito e non potevo io! Poi ho bussato alla mia casa di Pola per chiedere la cortesia di riprendermi le s’cinche 13 anni dopo la partenza, ma mi hanno scacciato, «Cos ti vol? Va’ via, fascista»... Ma questo è il passato, oggi sono un padre e un nonno felice, con le mie sole forze ho assicurato un futuro ai miei cari, ho dato lavoro a tanti dipendenti e tutti mi hanno voluto bene.
Ha mai provato odio per i vostri persecutori?
Mai, sono un uomo di pace. La cosa che mi manda in bestia oggi è quando mi danno del fascista in quanto esule istriano: a parte che ero solo un bambino, ma poi tutta l’Italia era sotto il fascismo, mica solo l’Istria, dunque tutti gli italiani di oggi sarebbero fascisti? Il peggio è che coloro che neofascisti lo sono davvero ci considerano dei loro, ci prendono a braccetto, ci usano. Insomma, da una parte e dall’altra siamo ancora strumentalizzati. Non mi interessa la politica, ma senza Mussolini oggi io sarei nella mia casa in Istria e non dovrei raccontare questa tragedia.
Cosa prova quando vede tanti bambini nei nuovi campi profughi di oggi?
Mi immedesimo totalmente in loro, chi ha conosciuto la miseria sa bene cosa significhi non avere infanzia, essere disprezzati, considerati stranieri, non andare a scuola. Per questo, aiuto sempre le famiglie di bravi immigrati che hanno bisogno.
A 84 anni qual è il sogno nel cassetto?
Uno l’ho già esaudito: nel 2019 dopo 70 anni ho riunito le mie sorelle, che abitano all’estero, davanti alla casa di Brioni. Non siamo riusciti ad entrare perché oggi è la residenza estiva del presidente della Repubblica croata, ma l’emozione è stata indescrivibile, quanti pianti! L’ultimo desiderio ora è chiedere che mi vendano la mia casa di Pola, sfilare quella pietra nell'orto e recuperare le s’cinche. Senza dubbio sono ancora là e non esiste per me tesoro più grande. E poi incastrata sotto il fondo della scrivania avevo anche nascosto la prima lettera d’amore della mia vita perché le sorelline non la leggessero... se i nostri mobili ci sono ancora, c’è anche lei.