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21.3.25

Fu il prof napoletano Vincenzo Mario Palmieri a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato

N.b
Per chi ha tempo e vuole saperne di più oltre all'introduzione , ai siti riportati a fine post , e all'articolo riportato integralmente dal IL FOGLIO in cui racconta in maniera più dettagliata la vicenda e sul fango gettatogli addosso per evitare che parlasse di ciò . Ringrazio  il  libro : C'era  una  volta  in  Italia   gli  anni sessanta      di Enrico Deaglio  per  aver     fatto  conoscere  tale  storia 


Per le storie d'oggi vi propongo la storia di prof. Vincenzo Mario Palmieri (nato a Brescia il 16.07.1899 e deceduto a Napoli il 23.12.1993) che fu docente di medicina legale presso l’ateneo napoletano dal 1940 al 1969 e sindaco di Napoli tra il 1962 ed il 1963. Il prof. Palmieri fu componente di quella che potremmo definire la prima commissione internazionale nominata per l’accertamento di crimini di

guerra durante la seconda guerra mondiale. “Vincenzo Mario Palmieri, il medico napoletano che smascherò la bugia di Katyn, viene ricordato in Polonia come un eroe”, attesta Alfonso Maffettone che è stato corrispondente dell’Ansa a Varsavia per sei anni, dal 1993 al 1999, e mantiene tuttora contatti in quel Paese… “Non solo contribuì con la sua perizia alla rivelazione di uno dei più grandi crimini di Stalin”, aggiunge il giornalista (che per l’agenzia di stampa internazionale ha lavorato anche da New York, Tokyo, Singapore), “ ma ebbe la forza, sottolineano i polacchi, di resistere alle persecuzioni e alle minacce degli agenti del servizio segreto russo (Nkvd e Kgb) che, sotto falsa identità, venivano a Napoli per farsi consegnare dal medico una dichiarazione con la smentita ufficiale dei suoi studi da cui emergeva la responsabilità dei sovietici del massacro di Katyn”. Palmieri era pedinato, minacciato, anche affinchè non fosse divulgata la sua testimonianza “scomoda”. Si parla della strage di 22mila ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn, nei pressi della città di Smolensk (Russia) durante la seconda guerra mondiale. I cadaveri furono scoperti nel 1943 e, dopo uno scambio di accuse tra Russia e Germania sulle responsabilità dell’eccidio, si riuscì ad accertare la verità soltanto in seguito alle perizie di una commissione internazionale di scienziati indipendenti nella quale ebbe un ruolo determinante proprio il medico legale, docente della Federico II, Vincenzo Mario Palmieri appunto .

da il foglio

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.





Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte


Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.


Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni

C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.


Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini

Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
https://www.simlaweb.it/crimini-guerra-katyn/
https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Mario_Palmieri
siti consultati
https://www.quotidianonapoli.it/notizie-in-primo-piano-della-citta-di-napoli-e-della-sua-provincia/e-considerato-un-eroe-in-polonia-quel-medico-napoletano-che-smaschero-la-bugia-di-katyn-due-testimonianze/
Fu un napoletano a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato | Il Foglio





e per finire il foglio di cui riporto integralmente l'articolo

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.

10.2.24

perchè le foibe ed l'esodo fanno parte della nostra storia ma ancora non sono digerite e assimilate e vengono ancora usate come strumento ideologico

 Oggi  10  febbraio   che  altro   dire  altre  a quello che  ho  già  riportato nel precedente post o  a quanto    detto  nella  bella  puntata del 9\2\2024    della   trasmissione rai   di passato e presente    dove   con lo storico  

  da  https://it.wikipedia.org/wiki/Guido_Rumici


Guido Rumici (Gorizia, 27 settembre 1959) è uno storico e saggista italiano. Studioso della storia del confine orientale italiano ed esperto di storia della Venezia Giulia e della Dalmazia, Rumici è autore di numerosi saggi sull'argomento, cui ha dedicato più di un decennio di ricerche e documentazione.Professore di Economia aziendale e di Storia ed Economia regionale, Rumici è cultore di Diritto dell'Unione Europea e di Diritto Comunitario presso l'Università di Genova nonché relatore e conferenziere per conto dell'Università Popolare di Trieste e su mandato del Ministero degli Affari Esteri nelle Comunità degli Italiani dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia. Giornalista, è autore di volumi divulgativi e documentari di approfondimento. [...]

 si provato a parlare  nel  breve tempo   (  circa  una mezzora   )    a  disposizione     delle  foibe  e  dell'esodo   fino  all'istituzione  del la  giornata  del ricordo   nel 2004 inquadrandolo  (  come   si  dovrebbe   fare  e d  invece  non sempre  viene  fatto   )  nel contesto dela  questione  adriatica  . Unico   neo  è  che  ,  e  qui  ne  parlo anch'io scusandomi   per  non averne parlato  nel mio pot  precedente  ,   delle  cause  del silenzio (  salvo pochi  coraggiosi   e   del Msi  in chiave  anticomunista  )  dal 1954  ad 1996\2004 . Un ragionamento sulla tragedia degli italiani del confine nordorientale non è completo se non affronta il problema della rimozione: a fronte della gravità dei dati numerici (diecimila morti e oltre trecentomila profughi), perché per tanto tempo le vicende del confine nordorientale sono risultate «indicibili» e   scomode ? La risposta  ,   come  dice Lo scrittore friulano Carlo Sgorlon (1930-2009)    di   cui  dal  oggi  10 febbraio     troviamo   in edicola con il «Corriere della Sera» e il settimanale «Oggi»il romanzo di Carlo Sgorlon [ foto  a  sinistra    ] «La foiba grande» , in vendita al prezzo di 9,90   euro più il costo della testata a cui è allegato il volume.

Lo scrittore friulano
Carlo Sgorlon (1930-2009)

 Il libro di Sgorlon, riproposto in occasione del Giorno del Ricordo, rimane in edicola per un mese. 


Originariamente venne pubblicato nel 1992 da Mondadori e si chiude con una postfazione dello storico Gianni Oliva, anche rinvia a tre silenzi, diversamente motivati. Il primo è un silenzio internazionale. Nel 1948, quando Stalin rompe i rapporti con la Jugoslavia e condanna la politica del maresciallo Tito con l’accusa di deviazionismo, l’Occidente comincia a guardare al governo di Belgrado come ad un interlocutore prezioso e avvia il processo di attrazione della Jugoslavia nel proprio campo: Tito, che entrerà nell’immaginario collettivo non più come comunista ma come leader dei «Paesi non allineati», sembra un’opportunità preziosa per aprire una breccia    nella rigidità del blocco sovietico. La prima regola della diplomazia vuole che un interlocutore non sia messo in difficoltà con domande imbarazzanti: in questa prospettiva, viene meno l’interesse a fare chiarezza sulle migliaia di italiani scomparsi nella primavera del 1945 e sulle ragioni per cui centinaia di migliaia di giuliani abbandonano l’Istria e la Dalmazia.Il secondo è un silenzio di partito. Il Pci di Togliatti non ha alcun interesse a parlare di una vicenda che evidenzia le contraddizioni tra la sua nuova collocazione come partito nazionale e la sua tradizionale vocazione internazionalista, con una politica estera subordinata alle strategie di Mosca. Affrontare il tema delle foibe significherebbe ricordare le ambiguità rispetto ai progetti annessionisti jugoslavi e la sostanziale subalternità del Pci alle scelte di Belgrado.La stessa   cosa  anche se    sul versante   opposto ,   ma  soprattutto   per  evitare  di perdere  voti a  destra    La  Dc   rinuncia    a  chiedere  alla  Jugoslavia   i nomi  degli assasini  Comunisti   in cambio del siulenzio di Tito   sugli assasini   Fascisti   del periodo  1940\1943  . Ma Il silenzio più forte è però legato alla ricostruzione della memoria nazionale. L’Italia esce dalla Seconda guerra mondiale come un Paese sconfitto, che ha contribuito a scatenare le ostilità accanto alla Germania e al Giappone e che è stata travolta senza appello sul campo di battaglia. La conferenza di pace di Parigi ne è la conferma e la mutilazione di territorio sul confine nordorientale è il prezzo pagato alla guerra persa. A fronte di questa realtà, la «nuova» Italia del 1945 si sforza invece di autorappresentarsi come Paese vincitore e utilizza l’esperienza della Resistenza partigiana come alibi per assolversi dalle proprie responsabilità e per cancellare in un colpo il periodo 1922-43. Si tratta per  alcuni  di una rivisitazione in chiave assolutoria che giova alla classe dirigente antifascista, perché attraverso la delegittimazione del fascismo (cui si attribuisce la colpa esclusiva della guerra perduta) essa legittima se stessa come unica rappresentante della nazione; Ma  nel contempo, si tratta di una operazione che evita di fare i conti con il passato e di domandarsi chi e quanti sono stati «corresponsabili» delle scelte del regime.In questa prospettiva nascono i silenzi, le negazioni, le pagine indicibili della storia: «indicibili» sono i prigionieri di guerra, immagine vivente della sconfitta; «indicibili» sono criminali di guerra italiani; «indicibile» è la politica di occupazione del 1940-43, quando il Regio esercito ha combattuto accanto al nazismo; «indicibili», soprattutto, sono le foibe e l’esodo, perché nessun Paese vincitore subisce, dopo la fine della guerra, il ridimensionamento del proprio territorio, né la strage di migliaia di cittadini, né la fuga di centinaia di migliaia di altri. Gli infoibati e i profughi escono così per decenni dalla coscienza collettiva della nazione, per sopravvivere solo:  in quella regionale della Venezia Giulia  , in quella privata delle famiglie dei profughi  , Nel Msi   in  chiave  anti comunista  

non so  cos'altro dire   se  non rimandarvi  ai link    riportarti all'interno   del  mio precedente  post  di cui  riporto qui il  link   prima  citato  




 

26.8.23

La storia di Samantha Smith, la bambina americana uccisa dalla Cia per aver osato dimostrare che i Russi erano “proprio come noi”

 in sottofondo

concerto per viola Remembering Childil del compositore danese Per Nørgård a  lei dedicato  . 

per   chi  vuole  aprofondire  Samantha Smith - Wikipedia

 da https://www.dcnews.it/ AGOSTO 26, 2023


SI CHIAMAVA SAMANTHA SMITH
(La triste storia della bambina americana di dieci anni che avrebbe potuto capovolgere gli stereotipi riguardo all’URSS.) Samantha Smith era nata il 29 Giugno 1972 a Houlton, nello Stato del Maine, ed era ancora una bambina ai tempi dell’intervento Sovietico in Afghanistan.Intervento legittimo, finalizzato a sostenere il Governo Laico e Socialista di quel
Paese dall’aggressione dei sanguinari Mujaheddin finanziati dall’Occidente, ma che nell’Occidente stesso fu spudoratamente dipinto come un’invasione da parte Sovietica.(Ancora adesso in giro in Occidente ci sono tanti creduloni, con il cervello all’ammasso del mainstream, che accettano la tesi dell’invasione Sovietica, e neanche il confronto tra le fotografie di come vivevano le donne Afghane allora e come “vivono” adesso li aiuterà mai a chiarirsi le idee.) 
Samantha era una bambina sveglia, che seguiva la politica internazionale, nonostante la giovane età, e fu molto colpita dalle immagini che arrivavano dall’Afghanistan. Così nel 1982, a dieci anni, decise di scrivere una lettera all’allora segretario generale del Partito Comunista Sovietico, Jurij Andropov, chiedendogli di evitare la guerra.La lettera fu pubblicata sulla Pravda (la terribile Pravda … i giornali Americani avrebbero mai pubblicato una lettera del genere scritta da una bambina Russa? O meglio, la hanno mai pubblicata?) Una settimana dopo l’Ambasciata Sovietica negli Stati Uniti telefonò a casa di Samantha dicendo che Andropov aveva risposto. Pochi giorni dopo arrivò a Samantha una lettera scritta in russo, accompagnata da una traduzione in inglese e da un invito alla bambina e alla sua famiglia a passare un periodo di ferie nell’URSS.La vicenda ottenne grande attenzione dai media, venne raccontata dai giornali e Samantha fu intervistata da diverse televisioni Americane.Il 7 luglio del 1983, Samantha partì per l’Unione Sovietica con i suoi genitori e ci restò per due settimane, ospite di Andropov, seguita da giornalisti e fotografi. Visitò Mosca, Leningrado e trascorse del tempo ad Artek, campeggio estivo in Crimea.Ad Artek decise di rimanere insieme ai bambini Sovietici piuttosto che prendere un alloggio separato che le era stato offerto. Per facilitarne la comunicazione vennero scelti insegnanti e bambini in grado di parlare fluentemente l’inglese, che vivessero nella stessa costruzione in cui lei alloggiava. Rimanendo in un dormitorio con altre nove ragazze, Samantha passò il suo tempo nuotando, parlando, e apprendendo canzoni e danze Russe. Samantha Smith acquistò un’ampia fama tra i cittadini Sovietici e fu molto ben voluta da molti di loro.Parlando a una conferenza stampa a Mosca, dichiarò che i Russi erano “proprio come noi”. Anni dopo, per raccontare il suo viaggio, scrisse un libro intitolato “Journey to the Soviet Union”.Quando tornò negli Stati Uniti, il 22 luglio, Samantha Smith era molto popolare: fu accolta e celebrata come “la più giovane ambasciatrice d’America”.L’anno dopo fu invitata in Giappone e parlò al Simposio Internazionale della Gioventù, proponendo che i leader Sovietici e Americani si scambiassero le figlie per due settimane all’anno spiegando che un presidente “non avrebbe mai voluto inviare una bomba a un paese in cui è in visita la propria figlia”.Il successo di Samantha, mentre fu assoluto in Unione Sovietica (e anche in Giappone), lo fu molto meno nella sua Patria natale, negli USA. Dopo una fase iniziale di interesse, le autorità iniziarono ad ignorare sistematicamente le iniziative della intraprendente ragazzina.Avere tra i piedi una vera e propria “ambasciatrice” della fratellanza con il Popolo Sovietico che ripeteva in ogni occasione che “I Sovietici cono come noi” smontava tutta la poderosa macchina di propaganda Americana, tesa a dipingere il “Compagno Ivan” come un essere inumano, antropologicamente crudele, dedito alle peggiori efferatezze (vedere la vastissima produzione spazzatura di Hollywood, con il Russo immancabilmente nel ruolo del cattivo.)Mentre presso la popolazione Americana Samantha rimase popolarissima fino alla fine, da parte delle autorità calò su di lei una sinistra coltre di gelo (Altro che Greta eh …)Il 25 Agosto di quello stesso anno un aereo su cui viaggiava Samantha Smith mancò la pista dell’aeroporto regionale Lewiston-Auburn nel Maine e si schiantò. Non sopravvisse nessuno: morirono due membri dell’equipaggio e sei passeggeri, tra i quali Samantha e suo padre.Sulla causa dell’incidente in molti sospettarono subito la CIA.Fu aperta un’inchiesta e il rapporto ufficiale venne reso pubblico: “l’angolazione di volo relativamente ripida dell’aereo, l’altitudine e la velocità al momento dell’impatto, hanno precluso agli occupanti dell’aereo la possibilità di sopravvivere all’incidente”.Al funerale, che si svolse ad Augusta partecipò un rappresentante dell’ambasciata sovietica a Washington, che lesse un messaggio personale di condoglianze da parte di Mikhail Gorbaciov in cui si parlava di Samantha come di un “simbolo di pace e amicizia fra i due popoli”: l’URSS quell’anno le dedicò anche un francobollo commemorativo.Alla cerimonia non partecipò invece alcun rappresentante del governo statunitense: l’attività di promozione della pace di Samantha e la sua vicinanza ai Sovietici furono anzi molto criticate dai conservatori Americani e dagli anticomunisti, che la accusavano di propaganda.Come è morta veramente Samantha Smith? Non lo sapremo mai. Ciascuno tragga le conclusioni che vuole. Io le mie le ho e tutto mi sembra fin troppo chiaro, anche alla luce di tante tragedie analoghe che da sempre accadono nel “democratico” Occidente a chi osa sfidare (anche inconsciamente e in buona fede, come nel caso della povera Samantha) il potere costituito.Quello che sappiamo è che in Russia è ricordata con affetto ancora oggi, e molte scuole e campi estivi le sono ancora dedicati. Negli USA, liquidata la pericolosa seccatrice, la sua memoria è finita subito nel dimenticatoio.Samantha Smith era una ragazzina che sognava un Mondo migliore. Ma visse, e morì, in un Mondo nel quale non c’era spazio per i sogni e, tanto meno, per i sognatori.

11.5.23

la storia siamo noi nel bene o nel male con e vittorie e le sconfitte


 Dopo aver sentito la canzone la storia di Francesco de Gregori  sia questo video di Baebero 


Non ricordo come cercando qualcosa che confermasse o smentisse quello che affermarono sia il primo che il secondo mi e venuta in mente la vicenda del tenente colonnello Harald Jäger (  foto  a destra  =)  disobbedì agli ordini e aprì il passaggio fra Berlino est e Berlino ovest più valico di frontiera del Bornholmer Straße il 9 novembre 1989 Nato nel 1943, figlio di un poliziotto di frontiera, ad appena diciotto anni Harald Jäger si unisce come volontario alla Deutsche Grenzpolizei, la formazione
paramilitare deputata nella DDR( ex Germania Ovest ) al controllo delle zone di confine – nel 1961, proprio quando viene eretto il Muro di Berlino. Tre anni dopo entra nella Stasi, e inizia a fare carriera nella PKE, la Passkontrolleinheit (l’unità per il controllo dei passaporti), fino a raggiungere il grado di Oberstleutnant, che grossomodo corrisponde al nostro tenente colonnello. È un militare, dunque, ma il suo sarà più che altro un lavoro da scrivania. .....Per 25 anni presta servizio al controllo dei passaporti in una delle zone di transito fra Berlino Est e Berlino Ovest, quella nei pressi della Bornholmer Strasse. Situato nel nord della città, fra i quartieri di Prenzlauer Berg (a Est) e Wedding (a Ovest), è un tratto di frontiera non semplice da gestire ..... il resto lo trovate qui in : << L’uomo dei passaporti, storia dell’impiegato che aprì il muro di Berlino >>  del sito Linkiesta.it >>.  
Credevo  fosse     un  caso isolato   perché    per  i militari  o  uomini   delle   istituzioni    i comandi e l'obbedienza agli ordini sono due ingredienti importanti per il successo militare  o  per la  sopravvivenza  delle  dittature  e dei governi  . Ma  poi  leggendo   le  storie    sotto riportate       riprese   dall'articolo   << Hanno ignorato gli ordini e così hanno cambiato la storia ! >> di (starsinsider.com) indipendentemente dal periodo o dalla cultura, la storia militare  (ma non solo  ) è piena di persone che hanno disobbedito agli ordini . I motivi per cui lo hanno fatto sono vari.   Molti hanno rifiutato comandi con cui erano profondamente  in disaccordo. Altri legheranno  tale gesto alla gloria personale altri al disonore . Alcuni   ricordati  e premiati   anche a posteriori . Altri come il primo caso dimenticato o sminuiti . Alcuni  vittoriosi   altri  sconfitti   Ma hanno pur sempre fatto la storia o contributo ad essa. 

L'uomo che ha ignorato un allarme missilistico 





Nel 1983, l'ufficiale sovietico Stanislav Petrov era di stanza nel bunker Serpukhov-15 vicino a Mosca, parte delle forze di difesa aerea sovietiche. Un giorno, il sistema di allarme rapido ha rilevato quello che sembrava essere un missile balistico intercontinentale americano in arrivo.Petrov e il suo staff hanno deciso che si trattava di un falso allarme e un'indagine successiva ha mostrato che il sistema era stato attivato dal sole che si rifletteva sulle nuvole. Rifiutando di lanciare un attacco, Petrov ha potenzialmente evitato centinaia di migliaia di morti.


L'uomo che ha impedito l'escalation della crisi dei missili cubani -



Durante la crisi dei missili cubani del 1962, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica evitarono per poco una guerra nucleare che avrebbe devastato il pianeta. Ma anche se i negoziati tra il presidente John F. Kennedy e il premier Nikita Khrushchev avessero avuto successo, la guerra sarebbe quasi sicuramente scoppiata a causa di un capitano di un sottomarino sovietico. Dotato di un missile nucleare, il sottomarino sovietico B-59 era di stanza nei Caraibi, insieme ad altri tre. Quando la Marina americana

scoprì i sottomarini, iniziarono a sganciare bombe di profondità nelle vicinanze. Con l'ordine di attaccare le forze americane se provocato, il comandante del B-59, Valentin Savitsky, pensò che la guerra fosse iniziata e ordinò il lancio del missile. Fortunatamente a bordo c'era anche il comandante della flotta Vasili Arkhipov, che ha pensato che gli americani stavano solo cercando di far emergere il sottomarino. Ha così convinto Savitsky e ha evitato la guerra nucleare.







Il generale nazista che si rifiutò di bruciare Parigi

Nel 1944, quando le forze alleate invasero con successo la Francia settentrionale durante lo sbarco in
Normandia, Adolf Hitler ordinò alle forze locali di bruciare gran parte di Parigi per evitare che cadesse nelle mani del nemico.Il comandante della prima armata tedesca, il generale Dietrich von Choltitz, si rifiutò di obbedire. Ha affermato nelle sue memorie che sentiva che gli ordini non avevano valore militare e che Hitler era malato di mente. Tuttavia, alcuni osservatori francesi hanno sostenuto che a Choltitz mancavano semplicemente le truppe per eseguire gli ordini. Qui si vede Choltitz firmare la resa delle truppe naziste dopo la liberazione della capitale francese.


L'uomo che ha ignorato il suo comandante 





Durante la seconda guerra mondiale, il tenente Tom Derrick era uno dei soldati più amati d'Australia. È meglio conosciuto per i suoi successi durante la battaglia di Sattelberg in Nuova Guinea nel 1943. Dopo una settimana di combattimenti, l'ufficiale in comando di Derrick ordinò una ritirata.Derrick avanzò da solo tra le postazioni di mitragliatrici giapponesi, mentre era sotto il fuoco di copertura dei suoi compagni di squadra. Ha ripulito 10 posizioni nemiche, aiutando la sua unità a raggiungere il loro obiettivo. Derrick ricevette la Victoria Cross per i suoi sforzi, ma morì per le ferite riportate nella battaglia di Tarakan nel 1942.



Il caporale dell'esercito che ha rifiutato di portare un'arma -

Il caporale Desmond Doss ha rifiutato di uccidere i soldati nemici o di portare un'arma in combattimento a causa delle sue convinzioni personali legate al culto della chiesa cristiana avventista
del settimo giorno. Di conseguenza divenne un medico da combattimento per la 77esima fanteria. Tuttavia, Doss si guadagnò comunque il rispetto dei commilitoni quando fu mandato a combattere. Dopo aver salvato 75 soldati feriti nella battaglia di Okinawa, ha guadagnato una medaglia d'onore. 




Il nazista che si rifiutò di distruggere le infrastrutture civili della Germania -


Nel marzo 1945, gli alleati catturarono l'ultimo ponte sul fiume Reno che consentiva l'accesso alla Germania. Hitler emise quindi un ordine per spazzare via tutta l'industria e le infrastrutture della Germania, (il cosiddetto Decreto Nerone), per evitare che cadessero sotto il controllo alleato.l compito ricadde sul ministro degli armamenti tedesco e amico di Hitler, Albert Speer. Tuttavia, Speer riteneva che l'ordine avrebbe avuto un effetto rovinoso sul popolo tedesco. Come von Choltitz, anche Speer sospettava che il suo capo fosse mentalmente instabile. Speer alla fine emise l'ordine, insieme però a ordini alternativi crittografati per ritardare la distruzione. Alla fine, il Decreto Nerone non andò a buon fine.



Il comandante di artiglieria che si rifiutò di sparare ai suoi stessi uomini 

Il 7 marzo 1915, al 336° reggimento di fanteria francese fu ordinato di attaccare le posizioni delle mitragliatrici tedesche. Gli attacchi andarono avanti per due giorni e quando il comandante di divisione, il generale Géraud Réveilhac, ordinò un'altra carica, la 21a compagnia rifiutò.
Furioso, Réveilhac ordinò al suo comandante di artiglieria, il colonnello Raoul Berube, di sparare sulle sue stesse truppe. Anche Berube si rifiutò. Giorni dopo, quando quattro caporali non furono in grado di attraversare un pezzo di terra di nessuno, tornarono indietro e Réveilhac ordinò che fossero giustiziati. L'incidente divenne noto come l'affare dei caporali Souain.
Réveilhac rimase al comando del reggimento fino al febbraio 1916, quando gli fu ordinato di prendere un congedo di tre mesi. Successivamente ha ricevuto il titolo di Grande Ufficiale della Legion d'Onore.








I soldati indiani che si rifiutavano di usare cartucce unte con grasso di maiale e di manzo -


Nel 1857, gli inglesi avevano controllato l'India con un regime repressivo per circa un secolo. Tuttavia, le tensioni erano finalmente arrivate al punto che i leader politici indiani stavano pianificando una
rivolta.
Gli eventi si inasprirono quando i fucili inglesi Enfield usarono cartucce unte con una miscela di grasso di mucca e maiale. Per caricare i fucili, i soldati musulmani e indù dovevano strappare con i denti la carta che avvolgeva le cartucce. Per motivi religiosi, si sono rifiutati di aprire le cartucce.
Le truppe furono giudicate colpevoli di insubordinazione in una corte marziale, che scatenò l'ammutinamento indiano. Gli inglesi alla fine li sconfissero e presero il controllo diretto dell'India fino al 1947.


Il generale che ha spostato 10.000 uomini fuori posizione -


Il generale Daniel Sickles era un politico con l'ambizione di diventare presidente. Tuttavia, i suoi sogni sono stati effettivamente rovinati quando ha ucciso l'amante di sua moglie. Quando scoppiò la guerra civile americana nel 1861, Sickles creò una brigata con sé stesso come comandante, sperando di migliorare la sua reputazione.La carriera militare di Sickles terminò nella battaglia di Gettysburg nel luglio 1863, dopo aver spostato il suo III Corpo senza ordini in un'altra posizione. Subirono il 40% di vittime, ma hanno comunque rallentato il generale confederato James Longstreet.Lo stesso Sickles fu ferito da colpi di cannone e dovette farsi amputare una gamba. Alla fine è stato insignito della medaglia d'onore per le sue azioni.










Il tenente che ha sfidato l'ordine di ritirarsi 



Nel 1951, l'esercito cinese lanciò l'offensiva di primavera contro le forze americane durante la guerra di Corea, inviando 300.000 truppe per attaccarle. Sopraffatta, un'unità americana dell'8a compagnia Ranger fu catturata prima dell'avanzata. Il suo comandante, EC Rivera, chiese aiuto via radio, ma le forze rimanenti decisero di ritirarsi.
Rivera e i suoi 65 uomini sarebbero stati condannati se non fosse stato per il tenente David Teich. Disobbedendo al suo capitano, Teich inviò quattro carri armati a Rivera e recuperò l'unità bloccata.

Fonti: (Ranker) (BBC) (HistoryNet)



Crisi imperiale 



L'ammutinamento del Reno del 14 d.C. minacciò la stabilità dell'intero Impero Romano. Alla fine del regno di Augusto, l'esercito romano aveva dedicato gran parte delle sue forze a reprimere una rivolta in Illyricum, situata negli odierni Balcani. Ciò ha contribuito a far precipitare la distruzione di tre legioni vulnerabili nella foresta di Teutoburgo in Germania.
L'ammutinamento del Reno del 14 d.C. minacciò la stabilità dell'intero Impero Romano. Alla fine del regno di Augusto, l'esercito romano aveva dedicato gran parte delle sue forze a reprimere una rivolta in Illyricum, situata negli odierni Balcani. Ciò ha contribuito a far precipitare la distruzione di tre legioni vulnerabili nella foresta di Teutoburgo in Germania.La rivolta è iniziata quando i soldati hanno iniziato a uccidere i loro comandanti. Il compito di fermarla toccò a Germanico, figlio del nuovo imperatore Tiberio. Dopo molta resistenza, la ribellione scoppiò e i comandanti furono giustiziati. Germanico guidò quindi i soldati un tempo ribelli in una spedizione di successo  attraverso il Reno, che dimostrò la loro lealtà.






Quindi la storia Siamo noi e le nostre azioni  

21.4.22

Michele Campanella sfatò un tabù: fu il primo comunista della Liberazione a entrare nelle forze dell'ordine. L'omaggio di Genova ai 100 anni del "comandante Gino"

 per  approfondire  

https://it.wikipedia.org/wiki/Polizia_partigiana


da https://www.ilsecoloxix.it/genova/2012/06/04/

Genova - Quella sporca dozzina. Dodici furono all’inizio i volontari, tutti di provata esperienza, cui il comando partigiano, nel settembre 1944, affidò un compito di particolare audacia: portare la guerriglia in città. Così nacque la squadra volante Severino, che in collaborazione con le Sap, le Squadre di azione patriottica attive dall’estate in ambito urbano, avrebbe dovuto costituire una pressante minaccia per tedeschi e fascisti con improvvise puntate in val Bisagno e nei quartieri periferici genovesi. Alla testa di quegli uomini vi era Michele Campanella, nome di battaglia “Gino”, destinato a divenire una delle figure di maggior rilievo della Resistenza nella VI Zona operativa, corrispondente a grandi linee con il territorio dell’attuale provincia genovese, e che nel dopoguerra sarà insignito della medaglia d’argento al valor militare e della Bronze Star Usa. Il comandante Gino è morto ieri a Monzuno, nel Bolognese, dove era andato a vivere i suoi ultimi anni. Le sue ceneri, come ha disposto nelle ultime volontà, saranno disperse nelle montagne dell’entroterra di Genova, teatro delle sue leggendarie imprese.


Nato a Genova il primo maggio 1922 in una famiglia antifascista, sin da giovane Michele Campanella era stato oggetto delle attenzioni della polizia politica fascista, che lo sospettava, non a torto, di attività antifasciste. Chiamato alle armi e arruolato in Marina, fu a Spalato che Michele Campanella si trovò l’8 settembre 1943 quando, al pari di milioni di italiani e dei combattenti sui vari teatri di guerra, venne a sapere dell’avvenuto armistizio con gli anglo-americani. In assenza di chiari ordini e lasciata colpevolmente in balia degli eventi dalla monarchia e dalle supreme autorità civili e militari, la nazione si trovava allo sbando. Che fare? In quale Italia identificarsi, in quella rappresentata dal sovrano e dal governo Badoglio, firmatario dell’armistizio, o nella Rsi di Mussolini, Stato-fantoccio al servizio del Terzo Reich? Nessun dubbio attraversò la mente di Campanella che, riuscito a rientrare in patria, tornò a Genova, riprendendo i contatti con l’ambiente antifascista.


 e  da  REPUBBLICA 




in un periodo quello della guerra fredda soprattuttto in una delle fasi più acute cioè quella fra il 1945\50 i ruoli dele forze dell'ordine erano in mano agli ex fascisti o a i non comunisti ecco perchè la storia di Michele Campanella sfatò un tabù: fu il primo comunista della Liberazione a entrare nelle forze dell'ordine. L'omaggio di Genova ai 100 anni del "comandante Gino"

18.2.22

storie di centenari. I 107 anni di Luisetta Mercalli Quaquero insegnante di generazioni di studenti e morto a 101 Morto pilota Usa che lanciava con il onte aereo dolci ai bambini di Berlino nel 1948

 la nuova  sardegna  del  17\2\2022

La signora Luisetta Mercalli Quaquero

Nata a Carloforte, studi a Padova, l'ultracentenaria signora è stata docente alla scuola media Alfieri di Cagliari ed è la madre di Angela e Myriam, la prima, psicoterapeuta, è la presidente dell'Ordine degli psicologi della Sardegna e la seconda, musicologa, è docente al Conservatorio di Cagliari

CAGLIARI. Grande festa nella residenza sanitaria assistenziale “Fondazione Stefania Randazzo” di Selargius, per il centosettesimo compleanno di Luisetta Mercalli. L’ultracentenaria nata a Carloforte il 17 febbraio 1915, di mercoledì, il giorno delle “Ceneri”, è la primogenita delle tre figlie di Limbania Rivano e Giorgio, ufficiale del regio esercito nella Prima guerra mondiale e successivamente funzionario della società che aveva la concessione per lo sfruttamento della miniera di Montevecchio a Iglesias.Luisetta Mercalli, sopravvissuta alla “spagnola”, la pandemia influenzale che contrasse nel 1918, quando aveva 3 anni, e quest’anno al covid-19, dopo aver studiato all'istituto Carlo Felice di Cagliari, ha conseguito un secondo diploma alla scuola femminile superiore ”Pietro Scalcerle” di Padova, per insegnare quindi Economia domestica nella scuola secondaria di avviamento professionale prima a Carloforte, poi a Monserrato. Era l’insegnante prevalente: la materia comprendeva contabilità, disegno professionale, merceologia. Successivamente, dal 1 ottobre 1963 sino alla pensione, 1979, ha insegnato Applicazioni tecniche nella scuola media Alfieri a Cagliari.Il 28 giugno del 1951, dopo un breve fidanzamento, si è sposata nella chiesa di San Carlo a Carloforte con Luigi Quaquero, un ufficiale carlofortino che durante la Seconda guerra mondiale era stato catturato dagli inglesi nell’Africa Orientale e tradotto in uno dei campi di prigionia allestiti in Kenia.

La signora Luisetta a passeggio con le figlie Myriam e Angela

La signora ultracentenaria ha avuto due figlie: Angela Maria, laureata in Lettere e Psicologia, psicologa psicoterapeuta, già assessora alle politiche sociali della provincia di Cagliari dal 2005 al 2013, attuale presidente dell’Ordine degli Psicologi della Sardegna, e Myriam, laureata in filosofia e Disciplina delle arti, della musica e dello spettacolo (DAMS), diplomata in composizione, musicologa e titolare della cattedra di Storia ed estetica musicale presso il conservatorio di musica “Pierluigi da Palestrina” di Cagliari fino al 2018. Dotata di una grande manualità la signora Luisetta ha sempre amato ricamare e cucire. Dal mese di dicembre dello scorso, grazie ad un intervento eseguito dall’oculista Sergio Manuel Solarino, ha riacquistato una parte della vista. E pertanto può nuovamente dedicarsi alla lettura, un’altra delle sue passioni.Tra i primi a esternarle gli auguri oltre alle figlie, ai generi e alle 3 nipoti Alice, Francesca, Elena, anche la sorella ultimogenita Maria Vittoria, novantunenne, una delle prime ad aver conseguito in Sardegna il diploma di laurea Isef, e il sindaco di Carloforte Salvatore Puggioni.

Halvorsen, 'bombardiere di caramelle' contro embargo sovietico

(ANSA) - ROMA, 17 FEB - Gail Halvorsen, l'ex pilota americano passato alla storia per aver lanciato dolciumi ai bambini di Berlino durante l'embargo imposto dall'Unione sovietica, è morto a 101 anni. Soprannominato il 'bombardiere di caramelle' o 'zio Wiggly Wings' per il modo in cui manovrava il suo aereo in modo che i bambini sapessero del suo arrivo, fu il primo pilota a far piovere su Berlino piccoli paracaduti riempiti cioccolata, gomme da masticare e caramelle e ispirò tanti altri piloti a fare lo stesso dopo di lui. "Anche se volavo giorno e notte, con il ghiaccio e sotto la neve... ero felice quando vedevo l'espressione dei bambini che aspettavano i paracaduti. Ne andavano matti", raccontò Halvorsen in un'intervista di dieci anni fa. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dal 1948 al 1949 gli americani e gli alleati organizzarono un'operazione chiamata 'Il ponte di Berlino' per portare rifornimenti ai 2,5 milioni di abitanti di Berlino ovest, ancora sofferenti per il conflitto e circondati ai sovietici che avevano bloccato tutti gli accessi ai tre settori occupati da statunitensi, inglesi e francesi e tagliato tutti i collegamenti ferroviari e stradali. Furono 2 milioni le tonnellate di merci trasportate da oltre 270.000 voli alleati. Almeno 78 piloti americani, britannici e tedeschi hanno perso la vita in incidenti aerei o a terra, consegnando cibo e altri generi di prima necessità alla popolazione di Berlino che era allo stremo. (ANSA).



Pietro Sedda il designer, artista e tatuatore di fama mondiale racconta i suoi nuovi progetti

   dopo a  morte    di  Maurizio Fercioni ( foto   sotto  a  centro ) , fondatore del Teatro Parenti a Milano e primo tatuatore d’Italia Gia...