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21.3.25

Fu il prof napoletano Vincenzo Mario Palmieri a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato

N.b
Per chi ha tempo e vuole saperne di più oltre all'introduzione , ai siti riportati a fine post , e all'articolo riportato integralmente dal IL FOGLIO in cui racconta in maniera più dettagliata la vicenda e sul fango gettatogli addosso per evitare che parlasse di ciò . Ringrazio  il  libro : C'era  una  volta  in  Italia   gli  anni sessanta      di Enrico Deaglio  per  aver     fatto  conoscere  tale  storia 


Per le storie d'oggi vi propongo la storia di prof. Vincenzo Mario Palmieri (nato a Brescia il 16.07.1899 e deceduto a Napoli il 23.12.1993) che fu docente di medicina legale presso l’ateneo napoletano dal 1940 al 1969 e sindaco di Napoli tra il 1962 ed il 1963. Il prof. Palmieri fu componente di quella che potremmo definire la prima commissione internazionale nominata per l’accertamento di crimini di

guerra durante la seconda guerra mondiale. “Vincenzo Mario Palmieri, il medico napoletano che smascherò la bugia di Katyn, viene ricordato in Polonia come un eroe”, attesta Alfonso Maffettone che è stato corrispondente dell’Ansa a Varsavia per sei anni, dal 1993 al 1999, e mantiene tuttora contatti in quel Paese… “Non solo contribuì con la sua perizia alla rivelazione di uno dei più grandi crimini di Stalin”, aggiunge il giornalista (che per l’agenzia di stampa internazionale ha lavorato anche da New York, Tokyo, Singapore), “ ma ebbe la forza, sottolineano i polacchi, di resistere alle persecuzioni e alle minacce degli agenti del servizio segreto russo (Nkvd e Kgb) che, sotto falsa identità, venivano a Napoli per farsi consegnare dal medico una dichiarazione con la smentita ufficiale dei suoi studi da cui emergeva la responsabilità dei sovietici del massacro di Katyn”. Palmieri era pedinato, minacciato, anche affinchè non fosse divulgata la sua testimonianza “scomoda”. Si parla della strage di 22mila ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn, nei pressi della città di Smolensk (Russia) durante la seconda guerra mondiale. I cadaveri furono scoperti nel 1943 e, dopo uno scambio di accuse tra Russia e Germania sulle responsabilità dell’eccidio, si riuscì ad accertare la verità soltanto in seguito alle perizie di una commissione internazionale di scienziati indipendenti nella quale ebbe un ruolo determinante proprio il medico legale, docente della Federico II, Vincenzo Mario Palmieri appunto .

da il foglio

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.





Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte


Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.


Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni

C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.


Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini

Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
https://www.simlaweb.it/crimini-guerra-katyn/
https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Mario_Palmieri
siti consultati
https://www.quotidianonapoli.it/notizie-in-primo-piano-della-citta-di-napoli-e-della-sua-provincia/e-considerato-un-eroe-in-polonia-quel-medico-napoletano-che-smaschero-la-bugia-di-katyn-due-testimonianze/
Fu un napoletano a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato | Il Foglio





e per finire il foglio di cui riporto integralmente l'articolo

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.

22.8.24

Mosca, 'fazioso revocare gli accrediti delle Paralimpiadi a un reporter della Tass' Ritirata l'autorizzazione a due giornalisti dell'agenzia TASS e già iniziano i primi attacchi agli atleti Lgbtq .il caso

Non sono appena iniziate le paraolimpiadi 2024 che già si preannunciano ricche di polemiche e probabili strumentalizzazioni politiche e culturali . Infatti in contemporanea ai primi gruppi di atleti ( saranno 4.400 ) che stanno arrivando al Villaggio Olimpico il quale ha aperto ufficialmente i battenti una settimana prima dell'inizio dei Giochi Paralimpici.
Il primo caso e è quello della revoca del pass per la stampa all'agenzia sovietica Tass. Il secondo è quello per i momento i nostro politicanti tacciono , ma la destra religiosa e reazionaria sta facedo fuoco e fiamme , del caso del transessuale Valentina Petrillo che correra nella gara femminile

ROMA, 21 agosto 2024, 17:04
Redazione ANSA

Mosca, 'fazioso revocare gli accrediti delle Paralimpiadi a un reporter della Tass'
Ritirata l'autorizzazione a due giornalisti dell'agenzia






Le medaglie d 'oro, argento e bronzo delle Paralimpiadi 2024 



La revoca degli accreditamenti ai giornalisti della Tass da parte del Comitato Organizzatore dei Giochi Paralimpici è una decisione politicamente faziosa.
Lo ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, affermando che il Comitato, "citando il verdetto delle autorità francesi, ha ritirato gli accrediti a due corrispondenti della Tass".In precedenza, le domande di altri due giornalisti dell'agenzia erano state respinte", ha affermato Zakharova citata dalla Tass.
"Gli organizzatori delle Paralimpiadi non hanno ritenuto necessario spiegare le vere ragioni del diniego di accesso per la copertura delle competizioni. Come promemoria, la pratica di negare l'accreditamento era già stata ampiamente applicata ai membri dei media russi (Tass, Ria Novosti Sport, Izvestia) alle Olimpiadi del 2024", ha aggiunto. "Consideriamo queste decisioni del comitato organizzatore, che obbedientemente esegue gli ordini russofobi dell'Eliseo, come una manifestazione inammissibile del suo pregiudizio politico, qualcosa che è incoerente con gli ideali del movimento olimpico internazionale".


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Mentre qui si discute di Boldi ed Elodie, tra pochi giorni parteciperà alle Paraolimpiadi Valentina Petrillo [ foto a sinistra ] , atleta trans che ha corso fino al 2019 come maschio per poi, senza colpo ferire, essere ammessa alla categoria femminile. Caso forse ancora più grave rispetto a quelli delle Olimpiadi perché qui non ci sono test nascosti e
sappiamo esattamente come stanno le cose.
Questo è quello che il prof. Ross Tucker, scienziato dello sport, PhD in fisiologia dell'esercizio, ha spiegato su questo tipo di partecipazioni e che molti non vogliono capire o fanno finta di non capire.
"Il vantaggio maschile (nello sport) si crea attraverso lo sviluppo e quindi è essenzialmente stabilito in anni e anni di esposizione al testosterone. La soluzione che lo sport ha cercato di trovare è dire: bene, se la fonte di quel vantaggio è il testosterone allora abbassiamolo e poi l'atleta è libero di competere.
Ma questo non funziona perché c'è un'asimmetria, poiché alcuni dei cambiamenti che il testosterone causa, come l'aumento della massa muscolare, l'aumento della forza, la forma e le dimensioni dello scheletro, non vanno via. Ci sono alcuni elementi, come i livelli di emoglobina e certi elementi del sistema cardiovascolare che possono scomparire.
Ma per quanto riguarda i vantaggi della forza, tutte le prove a disposizione suggeriscono che anche quando si rimuove il testosterone in un adulto quei vantaggi continuano a esistere in quella persona. Quindi lo sport deve rendersi conto che non può togliere quel vantaggio maschile, ridurlo leggermente sì, ma certamente non viene rimosso. E l'unica conclusione che puoi trarre è che la persona ha ancora un vantaggio maschile anche quando il suo testosterone è più basso."
In sintesi, un gioco truccato avallato dal pensiero woke (che per alcuni non esiste, esattamente come il vantaggio fisico maschile negli sport femminili).

14.2.22

Erin Jackson, oro nero: "Ma il ghiaccio mi fa paura" ., Valentino Caputi da Roma a Pechino sotto la bandiera brasiliana-., Kamila Valieva potrà gareggiare, via libera del Tas. Il Cio: "Niente premiazione per lei" ed altre storie

 Era caduta ai Trials, una compagna le ha ceduto il posto: "Lo meriti più di me". Ed è diventata la prima pattinatrice afroamericana a vincere una medaglia ai Giochi

PECHINO. Si è capito subito, al via, che aveva qualcosa di speciale. Dinamite nelle gambe, passi che divoravano il ghiaccio e facevano sembrare normali campionesse asiatiche, russe, canadesi. Cinquecento metri tutti d'un fiato: Erin Jackson è la nuova

Erin Jackson dopo aver vinto l'oro (ansa)
medaglia d'oro dei 500 metri dello speed skating, prima afroamericana a salire sul podio olimpico, prima pattinatrice Usa a vincere su pista lunga dal 2002. Ma fa anche parte del Libro Cuore di Pechino 2022, in un capitolo scritto con un'amica e rivale. Il titolo è, più meno: Corri al posto mio, te lo meriti di più.
C'è umanità anche ai Trials, la spietata selezione tra chi va alle Olimpiadi e chi non ci va, perché è finito terzo o quarto ma magari è il migliore del mondo. Quello che pensava Brittany Bowe, quando era appena finita la gara decisiva di Milwaukee ed Erin era fuori squadra. Punita da una scivolata, nonostante un ruolino di marcia internazionale da numero uno. Può succedere, succede qualche volta a Erin Jackson perché è nata sui pattini a rotelle e ancora adesso confida: "Ho ancora un po' di paura quando vado sul ghiaccio, non ho una fiducia totale in me stessa, nelle lame e nella gente attorno a me".
Ma è una fuoriclasse, diventata la prima afroamericana nella squadra Usa alle scorse Olimpiadi nonostante si sia allenata solo quattro mesi sul ghiaccio. Forse il Cio dovrebbe ammettere alle estive il pattinaggio a rotelle, se è capace di sfornare campioni del genere, altro che break dance. Però la situazione è questa, e ai Trials una lieve indecisione costa il posto a Erin. Qui interviene Brittany Bowe, che s'è qualificata ma sa di non valere quanto la compagna, quindi rinuncia: "Nessuno è più
Valentino Caputi, 17 anni, ai Mondiali di Cortina 2021 

meritevole di lei di avere l'opportunità di dare una medaglia al Team Usa". Ci ha visto lontano. Rovina la favola dire che poi in un complicato gioco di riallocazioni gli Stati Uniti hanno guadagnato una quota in più, restituita a Brittany che ha corso ed è finita 16ª? Il senso del gesto rimane. Erin Jackson riporta in alto una squadra che non vinceva più da dodici anni (zero medaglie a Sochi), Brittany Bowe vince il premio Olympic Spirit, urlando per spingere la compagna in pista "stavo quasi per morire". I lucciconi sono permessi.  La chiamata è arrivata a Olimpiade iniziata : “Valentino, sei convocato, vieni a Pechino”. Il 9 febbraio Valentino Caputi è atterrato sul suolo cinese con sua madre Simona e con i suoi sci. Da Roma a Yanqing col cuore in gola. Romano del quartiere Trieste, 17 anni, studente del quarto liceo scientifico Azzarita, papà italo-brasiliano, madre maestra di sci, tesserato per la polisportiva SS Lazio, Valentino gareggia per la federazione del paese sudamericano, di cui ha la cittadinanza. Sotto la bandiera verde oro Caputi ha già partecipato ai Mondiali di Cortina e a Pechino è arrivato “grazie” alla positività al Covid del titolare Michel Macedo. Una passione nata a Ovindoli e Campo Felice  Valentino ha ereditato la passione per la neve dalla mamma, Simona Frigeri, e ha cominciato a sciare sulle piste appenniniche di Ovindoli e Campo Felice, per poi passare sotto i colori della polisportiva biancoceleste. Nel frattempo suo padre Gianluca, yacht designer, ha scoperto l'esistenza di un progetto della Federsci brasiliana a favore dei giovani europei che hanno anche la cittadinanza del Brasile e da qui è nata l'avventura olimpica. “La chiamata non è stata improvvisa” spiega papà Gianluca, “negli ultimi mesi abbiamo fatto tutto il necessario, tra preparazione, tamponi, tutto davvero per essere a puntino per l’obiettivo olimpico. Tutta esperienza, naturalmente, nessuna velleità, e poi scenderà con un pettorale talmente alto che ho dovuto fare l’abbonamento a Eurosport, che trasmette la gara per intero. Ha un’emozione incredibile addosso, non ce lo aspettavamo più, il nostro obiettivo era Milano-Cortina 2026. È partito con sua madre, nei prossimi giorni andrà al Villaggio, per ora è in hotel. Nei mesi scorsi ha partecipato a diverse gare del circuito Fis tra Solda, Santa Caterina Valfurva, Alleghe e l’Abetone, è campione regionale di slalom, deve guadagnare tanti punti per entrare nel giro di Coppa del Mondo. Ha ancora tanto da imparare ma intanto ci godiamo l’atmosfera olimpica”.


Pechino 2022, l'ultimo uomo in piedi: 20 anni fa l'oro olimpico di Steven Bradbury nello short track


Nel 2002 ai Giochi di Salt Lake City un pattinatore di short track australiano, Steven Bradbury, vinceva una delle medaglie d’oro più inaspettate delle Olimpiadi. Un risarcimento del destino per una carriera fin lì molto sfortunata. Nella prima metà degli anni Novanta Bradbury conquista medaglie olimpiche e mondiali nella staffetta 5000 metri.

Nel 1995 però subisce un gravissimo infortunio: il pattino di un avversario gli lacera l’arteria femorale ed è costretto a 18 mesi di riabilitazione. Cinque anni dopo è costretto a fermarsi ancora per una frattura al collo ma Bradbury non demorde e si presenta ai Giochi di Salt Lake City. Da outsider supera la propria batteria, i quarti di finale e le semifinali ma sono gli ultimi secondi della finale che lo hanno reso famoso in tutto il mondo.



Giuliano Razzoli: "In slalom senza paura, mi sento ancora vivo"
Il campione olimpico del 2010 arriva a Pechino dopo la sua migliore stagione in coppa del mondo: "A 37 anni non è facile tornare sul podio, questo sport è crudele. Ma la mia sciata, anche se non è moderna, funziona ancora"

PECHINO. Riecco Razzo. Dodici anni dopo l'oro a Vancouver. "Cosa direbbe il Razzoli del 2010 al Razzoli del 2022? Goditela, perché non ne farai più tante". Eppure a 37 anni sembra il Giuliano migliore di sempre.
Quattro top ten in sei slalom in questa stagione, per l'emiliano di Villa Minozzo. Un podio (3°) con lacrime a metà gennaio a Wengen, sei anni dopo l'ultima volta (2° sempre a Wengen). Dal titolo in Canada a questa sua terza Olimpiade (non si qualificò 4 anni fa) una via crucis di infortuni che lo hanno costretto a ripartire da Coppa Europa e gare Fis per risalire verso la cima. A lui e ai suoi giovani eredi, Alex Vinatzer, 22 anni e Tommaso Sala, 26, l'ultima chance dell'Italia al maschile dopo lo zero della velocità e l'illusione perduta del gigante con Luca De Aliprandini, uscito nella seconda manche in una giornata tormentata dalla neve e dalla scarsa visibilità. Tra i pali stretti si corre il 16 febbraio (nella notte italiana, prima manche alle 3.15, seconda alle 6.45).

Primo impatto con i Giochi di Pechino?
"Non sembra neanche di essere alle Olimpiadi, è davvero atipico, tutti chiusi nella bolla. È strano, il contorno sarà difficile che lasci le stesse emozioni di Vancouver di cui mi ricordo tutto. Ma alla fine la medaglia peserà come le altre e ci concentriamo su quello".

A giudicare da questa stagione, sembrerebbe molto concentrato.

"Sto bene, riesco a esprimere la mia sciata, paga la continuità del lavoro degli ultimi due anni e mezzo senza intoppi fisici, tranne il Covid l'anno scorso: 20 giorni fermo, per recuperare la condizione fisica è stata dura, non ho più vent'anni".

Può essere anche un vantaggio?
"L'esperienza aiuta, gestire i grandi eventi non è semplice, e io in questo ho un vantaggio. I più giovani ne avranno altri. Le Olimpiadi sono una bella sfida sotto molto aspetti".

Che slalom sarà?
"Pista abbastanza semplice ma con una neve particolare, diversa dalle nostre europee, vincerà chi si adatterà e saprà sfruttarla meglio. Il gigante? Non è stato facile, poca visibilità, De Aliprandini ci ha provato ma non è andata, che sport crudele. Lo slalom sarà combattuto, non c'è un padrone, penso sia bello anche da vedere in tv. Si giocherà in molti e ci metto anche noi italiani. Il me stesso di Vancouver mi direbbe: vai all'attacco, senza paura".

A cosa si deve questa sua rinascita?
"Nessun particolare cambiamento. È che conosco il mio corpo sempre meglio con l'età, mi alleno senza strappi, tenendomi sempre attivo. Non faccio tardi la sera. E intanto evolvo, le cose attorno cambiano. La mia sciata, anche se non è delle più moderne, ancora funziona ed è competitiva, è fluida, pulita. I ragazzi invece oggi sono più bruschi ed energici. Mi piace stare tra i giovani, mi rinnova e tiene vivo".
Cos'altro la tiene vivo? "Dove, come e con chi sono cresciuto, la mia terra e la mia gente. Il loro affetto che mi ha dato la forza di ricominciare mille volte. A 37 anni tornare sul podio non è facile. Oppure venire a questa Olimpiade non era semplice e invece ce l'ho fatta. Alberto Tomba? Ci sentiamo, rimane un nostro tifoso".

A Sofia Goggia cosa consiglia?
"Non ha bisogno dei miei consigli, è un'atleta molto forte anche caratterialmente, convinta e consapevole delle proprie capacità, sta facendo le cose giuste per trovarsi di nuovo. Vedremo, e ha tanti anni davanti".

Le ragazze ancora una volta meglio degli uomini, finora.
"Credo siano cicli, per anni sono stati gli uomini a tirare avanti la carretta, ora ci sono loro. Le donne sono forti, dobbiamo fare loro i complimenti, in questi anni ci hanno dato soddisfazione e orgoglio, qui Federica Brignone ha già portato a casa una bella medaglia e hanno altre possibilità, noi un po' meno, ma cercheremo di fare qualcosa, perché si può fare, il colpo c'è".

Kamila Valieva potrà gareggiare, via libera del Tas. Il Cio: "Niente premiazione per lei"

La decisione del tribunale sportivo a Pechino, dopo la positività della quindicenne russa alla trimetazidina: "È un'atleta protetta, rischia un danno irreparabile". Gli Usa protestano: "Per la sesta volta la Russia ruba le Olimpiadi agli atleti puliti"

PECHINO Kamila Valieva potrà partecipare alla gara in cui è favorita. Lo ha stabilito il Tas, il tribunale arbitrale dello sport con la sua divisione ad hoc riunita all'hotel Continental di Pechino. La quindicenne russa scenderà in pista al Capital Indoor Stadium martedì alle 21,52, le 14,52 italiane, dopo l'americana Chen e prima della coreana You, andando a caccia di una delle medaglie d'oro più scontate alla vigilia dei Giochi. Il Tas non ha deciso sulla gara a squadre vinta dalla ROC, la squadra degli atleti della Russia squalificata, la cui premiazione non avverrà durante le Olimpiadi come ammesso con imbarazzo dal Cio. Il tribunale ha invece respinto il ricorso d'urgenza presentato dal Comitato Olimpico Internazionale, dalla Wada e dalla federazione internazionale ghiaccio (Isu) contro la decisione della Rusada, l'agenzia antidoping russa che ha cancellato la sospensione provvisoria della pattinatrice. Risultata positiva a un test antidoping per trimetazidina, sostanza che rientra nella categoria dei modulatori ormonali e metabolici proibiti dal Codice mondiale antidoping. "L'atleta è una "persona protetta" ai sensi del Codice mondiale antidoping (WADC)" ha stabilito il Tas. Dura la reazione del Cio: se Valieva finirà tra le prime tre in classifica non ci sarà la premiazione.

L'annuncio del direttore generale del Tas Matthieu Reeb (afp)

"Il silenzio sulle sospensioni alle persone protette"

Il Tas ha in pratica ammesso l'impossibilità di procedere in una situazione così particolare: "Le regole antidoping della Rusada e il Codice mondiale antidoping tacciono sulla sospensione provvisoria inflitta alle persone protette, mentre tali norme prevedono specifiche disposizioni per standard diversi di prova e per sanzioni minori in caso di persone protette". C'è poi il problema di un'atleta minorenne a cui si può fare un danno irreparabile: "Il collegio ha considerato i principi fondamentali di equità, proporzionalità, danno irreparabile, e il relativo equilibrio di interessi tra i richiedenti (Cio, Isu) e l'atleta, che non è risultata positiva alle Olimpiadi ed è ancora soggetta a sanzione disciplinare dopo il test positivo a dicembre 2021. In particolare, il collegio ha ritenuto che impedire all'atleta di gareggiare a Pechino le causerebbero un danno irreparabile". Il Tas ha poi puntato il dito contro gli incredibili ritardi del procedimento su un  test eseguito il 25 dicembre, parlando di "seri problemi di notifica dei risultati del test eseguito a dicembre che hanno pregiudicato la capacità dell'atleta di difendersi, di fronte a una notifica così tardiva che non era colpa sua, nel bel mezzo dei Giochi Olimpici".

Valieva in allenamento a Pechino (reuters)

Gli Usa: "La Russia disprezza lo sport pulito"

Dura la reazione della delegazione americana a Pechino: "Siamo delusi dal messaggio partito da questa decisione" protesta Sarah Hirshland, Ceo del comitato olimpico e paralimpico. "Gli atleti hanno il diritto di sapere che stanno gareggiando su un piano di parità. Sfortunatamente, oggi ciò viene negato. Questo sembra essere un altro capitolo del disprezzo sistematico e pervasivo per lo sport pulito da parte della Russia". Travis Tygart, Ceo dell'ageniza antidoping Usa: "Per la sesta Olimpiade consecutiva la Russia ha manipolato la competizione e rubato l'evento agli atleti puliti e al pubblico. Ma anche questa giovane atleta è stata terribilmente delusa dai russi e dal sistema globale antidoping che l'ha gettata ingiustamente in questo caos".

Il test reso noto solo l'8 febbraio

La quindicenne originaria di Kazan nel Tatarstan aveva vinto i campionati russi a San Pietroburgo, sottoponendosi il 25 dicembre a un test condotto proprio dalla Rusada, la cui gestione è stata uno dei motivi della squalifica della Russia che a Pechino presenta i suoi atleti sotto la bandiera olimpica e senza inno nazionale. Il campione di Valieva è stato poi inviato al laboratorio di Stoccolma, dove è rimasto per settimane: un ritardo causato, secondo i russi, dai contagi di Covid tra gli addetti della struttura svedese. La pattinatrice ha poi dominato gli Europei, arrivando a Pechino dove è stata determinante per la vittoria della squadra russa nella gara a squadre: durante il libero è diventata la prima donna a eseguire un quadruplo salchow e un quadruplo toeloop alle Olimpiadi. Solo l'8 febbraio, a Giochi iniziati da cinque giorni, il caso è diventato ufficiale. Ma la pattinatrice il giorno dopo, 9 febbraio, ha fatto subito ricorso alla Disciplinare della Rusada, che ha congelato la sospensione permettendole di continuare la sua Olimpiade. Il Cio si è così rivolto al Tas, insieme alla federazione internazionale del ghiaccio, non nascondendo il disagio nel procedere contro una quindicenne. I russi intanto hanno annunciato un'inchiesta sull'entourage di Kamila, che porta direttamente alla scuola moscovita di Eteri Tutberidze.

Messico, il cantante toglie dalla scaletta un brano molto amato ( Si trattava di un controverso brano che elogia le azioni dei narcotrafficanti ): il pubblico reagisce distruggendo il palco

In Messico esiste un  sottogenere musicale chiamato «narcocorrido»  e che è famoso per i  testi indulgenti verso l'attività dei cartelli...