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21.3.25

Fu il prof napoletano Vincenzo Mario Palmieri a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato

N.b
Per chi ha tempo e vuole saperne di più oltre all'introduzione , ai siti riportati a fine post , e all'articolo riportato integralmente dal IL FOGLIO in cui racconta in maniera più dettagliata la vicenda e sul fango gettatogli addosso per evitare che parlasse di ciò . Ringrazio  il  libro : C'era  una  volta  in  Italia   gli  anni sessanta      di Enrico Deaglio  per  aver     fatto  conoscere  tale  storia 


Per le storie d'oggi vi propongo la storia di prof. Vincenzo Mario Palmieri (nato a Brescia il 16.07.1899 e deceduto a Napoli il 23.12.1993) che fu docente di medicina legale presso l’ateneo napoletano dal 1940 al 1969 e sindaco di Napoli tra il 1962 ed il 1963. Il prof. Palmieri fu componente di quella che potremmo definire la prima commissione internazionale nominata per l’accertamento di crimini di

guerra durante la seconda guerra mondiale. “Vincenzo Mario Palmieri, il medico napoletano che smascherò la bugia di Katyn, viene ricordato in Polonia come un eroe”, attesta Alfonso Maffettone che è stato corrispondente dell’Ansa a Varsavia per sei anni, dal 1993 al 1999, e mantiene tuttora contatti in quel Paese… “Non solo contribuì con la sua perizia alla rivelazione di uno dei più grandi crimini di Stalin”, aggiunge il giornalista (che per l’agenzia di stampa internazionale ha lavorato anche da New York, Tokyo, Singapore), “ ma ebbe la forza, sottolineano i polacchi, di resistere alle persecuzioni e alle minacce degli agenti del servizio segreto russo (Nkvd e Kgb) che, sotto falsa identità, venivano a Napoli per farsi consegnare dal medico una dichiarazione con la smentita ufficiale dei suoi studi da cui emergeva la responsabilità dei sovietici del massacro di Katyn”. Palmieri era pedinato, minacciato, anche affinchè non fosse divulgata la sua testimonianza “scomoda”. Si parla della strage di 22mila ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn, nei pressi della città di Smolensk (Russia) durante la seconda guerra mondiale. I cadaveri furono scoperti nel 1943 e, dopo uno scambio di accuse tra Russia e Germania sulle responsabilità dell’eccidio, si riuscì ad accertare la verità soltanto in seguito alle perizie di una commissione internazionale di scienziati indipendenti nella quale ebbe un ruolo determinante proprio il medico legale, docente della Federico II, Vincenzo Mario Palmieri appunto .

da il foglio

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.





Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte


Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.


Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni

C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.


Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini

Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.
https://www.simlaweb.it/crimini-guerra-katyn/
https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Mario_Palmieri
siti consultati
https://www.quotidianonapoli.it/notizie-in-primo-piano-della-citta-di-napoli-e-della-sua-provincia/e-considerato-un-eroe-in-polonia-quel-medico-napoletano-che-smaschero-la-bugia-di-katyn-due-testimonianze/
Fu un napoletano a inchiodare i sovietici sul massacro di Katyn. I comunisti italiani non l'hanno mai perdonato | Il Foglio





e per finire il foglio di cui riporto integralmente l'articolo

Upon all the living and the dead (J. Joyce)

Il giuramento di Ippocrate vale su tutti i vivi e i morti, anche se i morti non possono guarire né parlare, rimproverare o denunciare. Per non tradire i morti il professor Vincenzo Mario Palmieri, di anni 44, affermato docente napoletano di medicina legale, avrebbe vissuto il mezzo secolo che ancora gli riservò il destino nel timore di essere ucciso, nella denigrazione e in un inesplicabile silenzio. Sperò che tutti dimenticassero di lui ciò che lui non avrebbe mai dimenticato: “Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo”. E che richiese, a Palmieri, un referto scientifico di cui forse si pentì ma non avrebbe ritrattato.
E’ mercoledì 28 aprile 1943 quando il professore, assieme a 12 colleghi di altrettanti paesi, scende dal bus che lo ha portato dalla città russa di Smolensk alla vicina foresta di Katyn, dove le truppe tedesche di occupazione vanno scoprendo un immane massacro. Giacciono accatastati sotto un metro e mezzo di terra sabbiosa, su cui giovani pini e betulle sono stati trapiantati, i corpi di circa ventiduemila militari polacchi perlopiù ufficiali, prigionieri di guerra dei sovietici. Li ha liquidati la polizia segreta Nkvd, secondo un piano che poi si accerterà disposto dal Politburo e curato dal ministro dell’Interno Laurenti Beria. La Germania di Hitler, cui è offerta una formidabile opportunità propagandistica, incolpa della strage i sovietici. La Russia di Stalin respinge l’accusa e attribuisce il crimine ai nazisti. Gli alleati occidentali acconsentono per convenienza alla versione di Mosca. Il governo di Polonia esule a Londra sollecita un’indagine indipendente e il Cremlino, considerando la richiesta un atto ostile, rompe le relazioni diplomatiche con i polacchi. E’ in questo clima che il 23 aprile del ’43 la Croce rossa internazionale apre il Caso Katyn e designa una commissione per stabilire la dinamica del massacro e soprattutto la data: se sia avvenuto prima o dopo l’arrivo dei nazisti.
Per l’ignaro Palmieri la vita sta per cambiare: è stato scelto come rappresentante italiano per caratura accademica e perché parla tre lingue fra cui il tedesco, usato anche in casa con la moglie svizzera Erna Irene von Wattenwyl. Il 24 aprile, Sabato Santo, ha appena comprato la pastiera quando riceve una telefonata che lo invita subito a partire “onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran copia nella foresta di Katyn”. La domenica di Pasqua si mette in treno e arriva a Roma, dove viene imbarcato su un aereo per Berlino. Vola martedì 27 via Varsavia a Smolensk con i colleghi, tranne il delegato spagnolo: il professor Piga, racconterà Palmieri, “aveva talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire”. Qualche altro membro della commissione, potendo leggere il futuro, ne avrebbe seguito l’esempio. Come il professor Hayek di Praga. O Markov di Sofia. Quando i rispettivi paesi cadranno sotto influenza sovietica ritireranno le firme dalla perizia, poi finiranno uccisi. Più impressione ancora desterà in Palmieri, nel dopoguerra, la morte misteriosa del generale medico francese Costeodat, che aveva preso parte da osservatore alla commissione.
La perizia conclusiva della Croce rossa, siglata all’unanimità, non lasciava adito a dubbi: lo sterminio ebbe luogo tra marzo e aprile 1940 e si trattò, scrisse Palmieri, “di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte”. Gli esami medici, botanici, balistici, coincidenti con le testimonianze raccolte fra la popolazione, trovavano conferma nelle carte rinvenute sui corpi, riferibili a un’epoca compresa tra l’autunno ’39 e l’aprile successivo. La maggioranza delle salme fu identificata facilmente perché i militari, caricati a gruppi sui camion dai campi di prigionia al luogo dell’esecuzione, vestivano la propria uniforme invernale e conservavano portafogli e documenti personali.
E’ mercoledì 28 aprile 1943. Vincenzo Mario Palmieri scende dal bus che lo ha portato dove i tedeschi hanno scoperto un immane massacro
Alla riconquista del territorio, il Cremlino nominerà la commissione medica Burdenko sotto suo diretto controllo, che sosterrà la matrice nazista dell’eccidio con un’opera di manipolazione dagli effetti duraturi, anche se nel mondo occidentale le reticenze cadono e nel 1951 un’inchiesta promossa dal Congresso americano accerta l’esistenza di “prove definitive e inequivocabili” contro i sovietici. Bisognerà aspettare la caduta del Muro di Berlino perché a Mosca ammettano le responsabilità: solo nel 1990 Gorbaciov porge le scuse ufficiali alla Polonia e nel ’92 Eltsin desecreta parte degli archivi tra cui i documenti su Katyn. Magari il professor Palmieri, che muore il 23 dicembre del ’94 ancora lucido malgrado un ictus sofferto anni prima, avrà guardato con sollievo a questa conclusione. Se lo fece, s’illuse. Perché non era (non è) finita. Nel 2004 Putin impone nuovamente il segreto di stato sulle carte, che sono un tassello dei complessi rapporti tra la Russia e la Polonia, e quando poi deplorerà l’eccidio ne parlerà come di un crimine stalinista (prima di rivalutare Stalin stesso).
Ma ormai nell’Italia degli anni Duemila nessuno si ricorda più dell’uomo che stese di suo pugno il primo referto su Katyn, lavorando su quel testo con i colleghi fino all’alba. Nessuno si ricorda o quasi: il 10 ottobre 2004, rispondendo a un lettore sul Corriere della Sera, Paolo Mieli ripercorre la vicenda e osserva che “i sovietici si impegnarono a screditare chiunque avesse collaborato con quella commissione”. Cita un’opera fondamentale, Il massacro di Katyn di Victor Zaslavsky, in cui si riferiva “dell’intimidazione e della denigrazione comunista nei confronti del professore napoletano Vincenzo Mario Palmieri che si era occupato del caso. E che, per essersi avvicinato alla verità e averne parlato pubblicamente, fu definito dal Pci ‘collaborazionista’, ‘fascista’, ‘nazista’, ‘servo della propaganda di Goebbels’, ‘menzognero e falsificatore della verità storica’. Una storia molto triste”.
Bisogna aspettare la caduta del Muro perché a Mosca ammettano le responsabilità. Nel 2004 Putin impone di nuovo il segreto di stato sulle carte
Molto triste sì ma adesso, aprile 2022, sembra tutto lontano: è lontano il luglio del ’43, quando il generale polacco Wladyslaw Sikorski, che ha chiesto conto a Stalin dell’eccidio, muore in un misterioso incidente aereo. Lontano il marzo ’46, quando il procuratore di Cracovia Roman Martini, che indaga su Katyn, viene ucciso sotto casa. Lontano persino il 10 aprile 2010, quando il presidente della Repubblica polacca, Lech Kaczynski, perisce con altre 95 persone (tra cui i membri dello stato maggiore) mentre vola a Smolensk per commemorare le vittime. Ma lontano molto meno è maggio 2020, quando vengono rimosse le targhe che ricordavano la strage dall’ex edificio dell’Nkvd, alla vigilia del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo. E lontana per nulla, bensì di questi giorni, è la conclusione della commissione d’inchiesta polacca sulla fine di Kaczynski, che ribaltando le precedenti indagini non attribuisce il disastro a errori umani ma a due esplosioni sul Tupolev presidenziale, di cui i russi si sono sempre rifiutati di consegnare i rottami ai periti di Varsavia.
Risultano allora più comprensibili quei timori di Palmieri e l’amarezza che lo accompagnò nel resto della vita. Nel 2009 la storica della medicina Luigia Melillo cura per l’Orientale di Napoli con Antonio Di Fiore uno studio sul luminare quasi a riparazione postuma, scoprendo che la sua perizia su Katyn, malgrado la rilevanza internazionale, fu “significativamente” ignorata nell’atto con cui la facoltà di Medicina nel ’75 gli conferiva il titolo di professore emerito. E che nel volume in suo onore, curato da colleghi e allievi, la perizia manca dall’elenco delle 216 pubblicazioni prodotte in carriera. Ne resta unica traccia un articolo che Palmieri redasse nel luglio ’43 per La vita italiana. Perdute poi, perché “misteriosamente bruciate nell’Istituto medico legale di Napoli”, le fotografie scattate dai periti a Katyn, che il professore aveva portato con sé. Prima di lasciarle in Istituto, le aveva nascoste per anni in una scatola avendo cura, a ogni tornata elettorale, di avvolgerla in un impermeabile e interrarla casomai avessero vinto i comunisti.
Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti. Gli studenti comunisti andavano a disturbare le sue lezioni
C’era un clima pesante che nel Dopoguerra fu pesantissimo, come rievocato da Ermanno Rea in Mistero napoletano. “La verità”, gli confidò Maurizio Valenzi, già sindaco ed esponente di spicco del Pci locale, “è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti dentro fino al collo, siamo stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che non avremmo voluto mai fare né pensare”. Il più accanito accusatore di Palmieri fu Eugenio Reale, intimo di Togliatti (di cui sarebbe diventato acerrimo nemico dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Lo attaccò con più articoli sull’Unità e sulla Voce, esortando il rettore e gli studenti ad allontanare il docente colpevole della “infame missione” di Katyn. Non contento, nel gennaio ’48 Reale segnalò Palmieri a Kostylev, ambasciatore di Stalin a Roma, quale “servo della propaganda di Goebbels” dedito ad attività antisovietiche. L’accanimento produsse qualche effetto: Enzo La Penna, a lungo cronista giudiziario dell’Ansa, rammenta suo zio Pasquale Sica, che si laureò con Palmieri ed esercitò per tutta la vita come medico di base nel rione Arenaccia: “Mi raccontava con rammarico che gli studenti comunisti andavano a disturbare le lezioni del professore e a insultarlo. Ho un aneddoto che spiega quanto quel clima si protrasse. A otto anni andai a vedere a casa di un altro zio, Gigino, militante comunista, la partita Urss-Italia dei Mondiali ’66. Quando telefonò mio padre per sapere il risultato zio Gigino rispose: ‘Abbiamo vinto’. ‘E chi ha segnato?’ chiese papà. ‘Cislenko’”.
Tutto sommato, Palmieri evitò il peggio. Ormai anziano, l’allievo Achille Canfora ne ricordava il “basso profilo”: “Se si fosse esposto disseppellendo il caso Katyn, sarebbe stata a rischio l’incolumità sua e della sua famiglia. Non avevamo dubbi che fosse pedinato”. A proteggerlo furono l’amicizia con De Gasperi e l’appartenenza all’Azione cattolica, che lo portarono per un periodo di nove mesi e 20 giorni, tra il 1962 e il ’63, alla poltrona di sindaco di Napoli, il primo dopo l’epopea di Achille Lauro. Durò poco “perché non si piegava alle pressioni”.
C’era intanto un uomo che voleva disperatamente incontrare Palmieri: Gustaw Herling, lo scrittore polacco reduce dai gulag sovietici che si era stabilito a Napoli sposando Lidia Croce, figlia del filosofo. Herling aveva combattuto a Montecassino con il Corpo del generale Anders e teneva infisso in mente il chiodo di Katyn. Nel ’55 chiese di vedere Palmieri, ma ebbe un secco “no”: si sarebbero conosciuti soltanto nel gennaio ’78. Il professore prese la famosa scatola delle fotografie e gliele mostrò. Centinaia: “Era un cimitero polacco illustrato nel cuore della vecchia Napoli”. Palmieri disse che ancora ricordava il “terribile fetore”, le lettere, le foto di famiglia, i ritagli di giornale nelle tasche dei soldati. “Sembra che siano usciti molti libri su Katyn”, commentò. “Non li ho letti: che cosa possono aggiungere a ciò che conosco per esperienza diretta…”. Dialogavano sommessi come due clandestini.
Gustaw Herling, scrittore polacco reduce dai gulag sovietici, si stabilì a Napoli. Dialogò con Palmieri, sembravano due clandestini
Cosa ancora temevano? Per capirlo aiuta il Breve racconto di me stesso, dove Herling parla del suo trasferimento a Napoli: “Avvertivo chiaramente che mi trovavo in un paese sottoposto alla tutela dei comunisti, e che a mia volta ero oggetto di una continua sorveglianza… Sentivo dunque tutta l’avversione che i comunisti portavano nei miei confronti, e che toccò il suo apice in un articolo pubblicato su Paese Sera, in cui si chiedeva di espellermi dall’Italia”. Per lui, malgrado la parentela illustre, le porte degli intellettuali restarono semichiuse fino alla caduta del Muro: “Solo dopo il 1989, se così si può dire, Napoli si è interessata a me”. Allora finalmente gli presentano il direttore del principale quotidiano cittadino, che gli chiede: “Com’è possibile che lei abita a Napoli da quarant’anni e non sapevamo nulla di lei, ma solo adesso ci conosciamo?”. Herling vorrebbe dire che si sono conosciuti tardi “perché nessuno prima aveva voluto incontrarsi con me”. Decide invece di ribattere con ironia: “Dal momento che i polacchi amano l’attività clandestina, io anche ho vissuto qui in clandestinità”. “Non so”, soggiunge, “se sia stato compreso”. Recita una celebre tarantella ispirata forse dal Buddha, o dal cinismo: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, / chi ha dato, ha dato, ha dato / Scurdammoce ’o passato…”.
Ma forse è meglio di no.

2.9.19

Number One di Gigi Rizzi e Beppe Piroddi. prima discotecva in itralia l'altro '68


Nostalgia dell'estate e delle sue notti spensierate e danzanti ? Non preoccupatevi! 
Oggi   riporto  dal sito  https://storiedimenticate.it/   e  dalla    sua  pagina  facebook  https://www.facebook.com/StorieDimenticateLombardia/   la storia della prima discoteca di Milano e d'Italia, il "mitico" Number One di Gigi Rizzi e Beppe Piroddi. 

Il locale che seppe intercettare cambiamenti epocali nel comportamento dei giovani: basta coi lenti e basta coi balli di coppia, le ragazze e i ragazzi volevano ballare da soli, tutta la notte.

Number One Milano


Via dell’Annunciata è una bella ed elegante strada del centro di Milano. È l’ultima traversa di via Manzoni, prima di piazza Cavour, e cinge a Est il quartiere di Brera in un abbraccio morbido come un maglione di cashmere adagiato sulle spalle. Le linee architettoniche dei palazzi che la costeggiano sono un perfetto compendio della storia di Milano: ci sono edifici dell’Ottocento, degli anni Trenta e anche degli anni Cinquanta. Epoche diverse, stili diversi, ma tutti accomunati da due elementi imprescindibili: sobrietà e signorilità. Via dell’Annunciata è una via tranquilla. Anzi, tranquillissima. Sui citofoni non ci sono cognomi, ma solo numeri. Di lì non ci si passa per caso. Non è una via commerciale, solo un paio di bar anche loro dall’aria pacata, qualche esercizio di vicinato e molti uffici di liberi professionisti, avvocati, commercialisti, notai e architetti. Lì vicino si trovano anche i Giardini Perego, piccola area verde nel cuore della città progettati alla fine del Settecento da Luigi Canonica, lo stesso che pochi anni dopo progettò anche il Parco di Monza, e una delle associazioni più prestigiose di Milano, quella degli Amici della Scala. Se non fosse per la Questura, nella parallela via Fatebenefratelli, che garantisce un’inevitabile via vai di auto e sirene, la via potrebbe essere così tranquilla da essere considerata quasi noiosa. Ma allora perché, per la ripresa dell’attività dopo la pausa estiva, abbiamo deciso di raccontarvi la storia di una via così monotona? La risposta, cari lettori, è molto semplice: perché è lì, in via dell’Annunciata, ed esattamente al numero 31, che i milanesi hanno smesso di ballare i lenti.
Ve li ricordate i balli lenti? Quelli che si danzavano ondeggiando su di una piastrella? Quelli dove fra ragazzo e ragazza doveva essere tenuta una certa distanza di sicurezza misurabile in palmi? Ma certo che ve li ricordate. Come si possono dimenticare quei momenti trascorsi a cercare il momento giusto per scoccare il primo bacio. Ecco, lì dove la strada fa una leggera curva verso sinistra e dove si trova un palazzo stretto e alto, con una facciata irregolare cinta da una cancellata scura, nel 1968 venne inaugurato il Number One, la prima discoteca intesa in senso moderno di Milano e d’Italia. E ad aprirla non fu un imprenditore qualunque, ma niente meno che Gigi Rizzi, il playboy protagonista della famosissima, chiacchieratissima e paparazzatissima love story con Brigitte Bardot. Sì, proprio lei, una delle donne più belle del mondo, l’icona sexy degli anni Sessanta, musa ispiratrice di registi, poeti e cantanti. In una parola: BB. Per quei pochi che non conoscessero i fatti, spendiamo le prossime dieci righe per fare un po’ di storia.
Number One Milano anni 70
La via e lo stabile della prima discoteca di Milano e d’Italia, il Number One, come si presentano oggi.
Estate 1968, Costa Azzurra, mentre la stragrande maggioranza di giovani italiani manifesta per strada contro il Vietnam e contro il sistema borghese-capitalista, Gigi Rizzi, rampollo di una nota famiglia di imprenditori edili piacentini, fa letteralmente furore nei locali di Saint Tropez. Lui, assieme a un paio di amici, fra cui l’inseparabile Beppe Piroddi, sono i re incontrastati dei locali notturni della località francese. Feste, balli scatenati sui tavoli, la notte che sembra non finire mai. Le ragazze cadono letteralmente ai lori piedi e Gigi Rizzi riesce a piantare la bandiera italiana nel punto più sensibile dell’orgoglio francese. Lui e BB diventano la coppia più ricercata dai fotografi e loro non si negano. Anzi: capelli al vento, camice a fiori e piedi nudi diventano il simbolo involontario di un “altro Sessantotto”.
Ma anche quell’estate, esattamente come tutte le altre, è destinata a finire e con lei termina anche la passione fra i due giovani e spensierati amanti. A Gigi Rizzi e a Beppe Piroddi quei giorni pazzi e fuori da ogni schema lasciano però qualcosa in eredità, oltre allo struggente ricordo delle numerose amanti: la consapevolezza che il modo di divertirsi dei giovani sta cambiando. I night club, i dancing e le balere funzionano ancora. Tuttavia, la rivoluzione giovanile in atto fa capire ai due che non sta cambiando solo il modo di pensare e di vestirsi dei ragazzi, ma anche di ballare. Basta col lento, considerato troppo borghese, e basta in generale coi balli in coppia. I giovani di fine anni Sessanta vogliono ballare da soli.
Piroddi e Rizzi, che erano già titolari di alcune quote di un famoso locale di Saint Tropez, l’Esquinade, decidono così di portare un po’ di Costa Azzurra anche a Milano. Dopo avere gironzolato per la città in cerca del posto giusto per qualche mese, decidono di aprire la loro discoteca, la prima in assoluto nel Bel paese, in via dell’Annunciata 31. Il successo è immediato è inarrestabile. Il locale diventa subito il centro della movida milanese. Sulla pista e sui divanetti in velluto tigrato del Number One sfila la meglio gioventù milanese e le più belle modelle internazionali. Un nome su tutti: Odile Rodin, la vedova di Porfirio Rubirosa, il “padre” di tutti i play boy, Gigi Rizzi compreso. Gigi Rizzi, però, è come una rockstar maledetta. La sua candela brucia da entrambi i lati e il Number One è destinato a durare l’espace d’un matin, esattamente come la love story con BB: il 15 giugno del 1971, alle 5 di mattina, una bomba fa saltare in aria il locale.
Number One Milano bomba
Il 15 giugno del 1971, alle 5 di mattina, una bomba fa saltare in aria il Number One di Milano.
Milano, suo malgrado, da qualche anno ci ha fatto l’abitudine alle bombe, ma questa del Number One fa scalpore. Le indagini della Polizia scattano immediatamente, ma a parte la testimonianza di un giovane garzone che racconta di una Mini Morris vista passare più volte lungo la strada prima del botto, gli autori dell’attentato rimarranno sempre anonimi. I detective di via Fatebenefratelli, tuttavia, sanno molto bene qual è il significato di quella esplosione. Da più di un anno nel capoluogo è in atto una vera e propria lotta fra gang per il controllo dei locali notturni che i giornali hanno ribattezzato “la guerra dei night”. La malavita milanese, esattamente come è accaduto in Costa Azzurra con i marsigliesi, non appena si è accorta che questo nuovo tipo di locale attirava giovani ha cercato di metterci sopra le mani e poi ha iniziato a sommergerli con chili e chili di droga, eroina e cocaina soprattutto.
Pochi mesi prima del Number One infatti era toccato a un altro locale notturno saltare in aria. Si trattava del Bang Bang di via Molino delle Armi, all’interno del quale gli attentatori avevano versato litri e litri di benzina. Lo stesso Number One, alla fine del 1969, era stato oggetto di un tentativo di estorsione: due milioni di lire al mese in cambio di protezione. Rizzi, però, aveva denunciato tutto facendo arrestare il colpevole e il problema sembrava risolto. Invece, no. Il peggio doveva ancora arrivare. Breve e fugace, l’apparizione del Number One sancì comunque la fine di un’era. Quella dei night club come la Porta d’oro, l’Astoria o il Maxim, dove a seconda della serata potevi incrociare il “cummenda” col portafoglio gonfio di banconote, Gianni Rivera in libera uscita da Nereo Rocco, la divina Rita Hayworth accompagnata da Frank Sinatra o Francis Turatello col suo codazzo di scagnozzi. Col Number One sparisce l’orchestra che suona la musica da vivo nei dancing e compare per la prima volta la figura del disc-jockey. Una piccola rivoluzione della pista da ballo iniziata in Francia e Inghilterra con l’apertura delle prime discoteche europee e proseguita anche all’ombra della Madonnina. Dopo il botto del giugno ’71, la questura fece alcuni rilevi all’interno del locale al termine dei quali emersero irregolarità amministrative tipo la mancanza di un numero adeguato di uscite di sicurezza. Era il segnale per la definitiva uscita di scena.
Number One Milano
Il Number One intercettò i cambiamenti sociali dell’epoca: basta col lento, considerato troppo borghese, e basta in generale coi balli in coppia. I giovani di fine anni Sessanta volevano ballare da soli.
Rizzi già da qualche mese si era chiamato fuori dall’iniziativa per dedicarsi al cinema e Piroddi colse la palla al balzo per non riaprire più. Il Number One non aveva niente a che vedere con certi locali dalle dimensioni enormi di oggi giorno. Era tutto sommato piccolo, oltre ai divenetti in velluto tigrato aveva una pista da ballocol pavimento illuminato da sotto, una piccola consolle, uno spazio per la band, dei separé e un ovviamente un bar. Non era aperta a tutti. Era un posto esclusivo che si riempiva come un uovo in occasione di feste o particolari eventi. Bella gente, ragazze fantastiche, minigonne e macchine di lusso. L’esperienza durò poco, più o meno tre anni, ma a suo modo segnò l’avvento di una piccola rivoluzione. Basta coi lenti e i balli di coppia. Il Number One aveva rotto gli schemi. Di lì a poco, infatti, iniziarono ad aprire lo Studio 54 di corso XXII Marzo, omonimo dello Studio 54 di New York, l’Odissea 2001 di via Forze Armate e il Prima Donna di via Verri, dove per volontà della direzione il biglietto d’ingresso si pagava a peso. Nel senso che all’ingresso c’era una bilancia con sopra scritto “10 lire all’etto”.

  da  https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv  del  25 GIU 2013 11:24

L’ALTRO ’68 DI GIGI RIZZI: NON AVEVA MAO COME IDOLO MA FECE LA RIVOLUZIONE NEL LETTO DELLA BARDOT (E NON SOLO)

Mughini scatenato. “I suoi valori fondamentali facevano riferimento alle potenzialità e all’entità dell’organo maschile. “Animella, basanotto, mezzalama, duro da militare, duro da culo, duro da ergastolano, duro da dio”. Loro tutti naturalmente pensavano di averlo duro da dio”…


Giampiero Mughini per "Libero"
Un giorno di fine giugno del 1968, a notte inoltrata, Brigitte Bardot entrò in una discoteca di Saint-Tropez e siccome di uomini belli e svettanti se ne intendeva molto, come avrebbe potuto non notare quel marmoreo italiano ventiquattrenne da cui la giovinezza e la vitalità maschile eruttavano come da un vulcano? Gigi Rizzi il suo nome, la danza a piedi nudi e il gioco delle carte le sue risorse migliori, le bellissime donne da avvolgere e spupazzare la sua meta e il suo lavoro 24 ore su 24.
gigi rizzi nel reality la fattoriaGIGI RIZZI NEL REALITY LA FATTORIA
Fosse stato per lei e per il tipino femminilmente vorace che era, Brigitte gli avrebbe messo le mani addosso all'istante. Si limitò a fargli arrivare in mano un bigliettino in cui lo invitava a fare sci d'acqua, all'indomani mattina, innanzi alla sua villa celeberrima. In un suo libro in cui si vanta, e non gli si può dar torto, di essere stato attore protagonista di un "altro Sessantotto" che non quello degli studenti che rumoreggiavano contro il capitalismo, Rizzi racconta che quella notte non andò a dormire.
gigi rizzi nel reality la fattoriaGIGI RIZZI NEL REALITY LA FATTORIA
E con tutto questo alla mattina dopo sciò benissimo e tutto il resto che immaginate. Esattamente una domenica di fine giugno, alla sera tarda del 23 giugno, ed esattamente in una villa dalle parti di Saint-Tropez, il cuore di Rizzi si è arrestato per sempre. Lui che aveva vissuto a gran velocità, è morto velocemente. Aveva 69 anni ed era tornato a vivere in Liguria dopo avere girato mezzo mondo.
Se ne va con lui un pezzo del sogno che è stato di tutti, quel tempo in cui era sembrato non ci fosse un limite allo strapotere della bellezza di uomini e donne che incastravano le loro notti e le loro danze. Brigitte se l'era tenuto in casa e lo aveva apprezzato per la durata di tre mesi. Dopo di che gli fece trovare la valigia fuori dalla porta. Lei era una creatura di cui il poeta e autore di teatro Roberto Lerici scrisse che mangiava quando aveva fame e beveva quando aveva sete.
GIGI RIZZI E LA MOGLIE DOLORES MAYOLGIGI RIZZI E LA MOGLIE DOLORES MAYOL
Tre mesi furono sufficienti per esaurire il suo appetito di un «italien» seppure talmente bello. Pochi mesi prima le erano bastate poche settimane per consumare il suo appetito di un uomo all'opposto di Rizzi, di un poeta e cantautore ebreo di cui avresti detto a prima vista che era bruttarello e invece era un mostro di fascino, il francese Serge Gainsbourg. Da Gainsbourg a Rizzi, da un polo all'altro dell'universo maschile, Brigitte gustava, consumava, gettava via.
gigi rizzi e franco califano nel duemilaseiGIGI RIZZI E FRANCO CALIFANO NEL DUEMILASEI
A SAINT-TROPEZ
Figlio di un imprenditore ligure, il Rizzi del giugno 1968 non aveva esattamente un'arte e una parte che non fosse quella di dedicarsi anima e corpo alle rappresentanti eccelse dell'universo femminile. L'ho detto che il suo era un lavoro 24 ore su 24, giorno e notte, e ci voleva anche un po' di «roba» per tenere quel ritmo e quelle prestazioni. Straripante di simpatia e di una comunicativa maschile persino sfacciata da quanto puntava diretto al cuore delle belle, il suo era un professionismo accurato quanto alla conquista delle girls, alla perizia nella scelta dello champagne e dei vini i più acconci alla situazione, ai segreti del tavolo da gioco.
gigi rizzi e ira furstenbergGIGI RIZZI E IRA FURSTENBERG
A Saint-Tropez lui e un gruppo di playboy italiani che le foto del tempo ci tramandano addobbati con quella loro divisa da battaglia, la camicia ben sbottonata a mostrare orgogliosi il pendolo che sbatte sul torso, avevano un loro tavolo perennemente riservato nel locale più famoso della cittadina francese, il Byblos. Rizzi, Beppe Piroddi (più tardi marito di Corinne Cléry, morto qualche anno fa), lo statuario Franco Rapetti, Gianfranco Piacentini. (Quanto al tavolo da gioco mi ha raccontato che una notte vinse 100mila dollari a Ted Kennedy, il quale non glieli pagò mai).
Gigi Rizzi e Brigitte BardotGIGI RIZZI E BRIGITTE BARDOT
«Les italiens», come venivano chiamati, avevano la nomea di inarrivabili quanto a conquiste femminili. Se incontravano una ragazza subito le offrivano di che vestirsi da capo a piedi, ciò che le «material girls» non disdegnano affatto. A detta di Elsa Martinelli, che di Rizzi è stata molto amica, i playboy francesi non arrivavano alle caviglie degli «italiens» in fatto di eleganza e generosità.
gigi rizzi e brigitte bardotGIGI RIZZI E BRIGITTE BARDOT
Figli anche loro dei Sessanta, s'erano dati come idolo né Mao né Herbert Marcuse e bensì il leggendario playboy sudamericano Porfirio Rubirosa. I valori fondamentali del gruppo erano riassunti in una specie di scala Mercalli che faceva riferimento alle potenzialità e all'entità dell'organo maschile. «Animella, basanotto, mezzalama, duro da militare, duro da culo, duro da ergastolano, duro da dio». Loro tutti naturalmente pensavano di averlo duro da dio.
giggi rizzi e minnie minoprioGIGGI RIZZI E MINNIE MINOPRIO
TERRE E BESTIAME
Più tardi il vento in poppa di cui avevano goduto questi «altri» Sessantottini scemò di intensità. Piroddi e Rizzi avevano inaugurato a Roma nel 1969 un locale atto alle celebrità e ai loro spassi notturni, quel Number One che stava alle spalle di via Veneto. Nei cui bagni trovarono, nel 1972, un bel po' di droga tanto che lo chiusero. Nei secondi anni Settanta Rizzi se ne andò in Argentina a occuparsi di terre e bestiame, e finché non è tornato in Italia alcuni anni fa. L'ho avuto di fronte in parecchi set televisivi. Per ragioni di invidia maschile avrei dovuto odiarlo da schiattarne, e invece era molto simpatico. Dello spaccamontagne dei Sessanta era rimasto poco. Al contrario, lo trovavo un po' timido quando gli indirizzavo una battuta.

finalmente si usa il corpo di uomo e non di una donna per una pubblicità

finalmente uno spot nel quale il corpo usato è quello di un uomo non quello della donna, come sempre accade.Obbiettivo raggiunto  ma perché ...