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27.8.25

diario di bordo n 145 anno III “Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters., Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù


facendomi  la  mia  solita  rasegna  stama web    ho trovato tramite  msn.it  un  'articolo  : << Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters >>   su   InsideOver.






Un tesserino giornalistico strappato a metà, indicante chiaramente uno dei loghi più iconici dei media globali: l’agenzia Reuters. A corredo, un post durissimo: così la fotografa canadese Valerie Zink ha annunciato, dopo otto anni, la fine unilaterale del suo rapporto con l’importante agenzia britannica, adducendo come responsabilità della stessa Reuters il ruolo che avrebbe giocato nel giustificare la continua uccisione di giornalisti a Gaza da parte delle forze armate israeliane.
Zink è una reporter canadese che ha pubblicato importanti scatti riguardanti le grandi pianure del suo Paese natale, le eredità del colonialismo sui territori indigeni, il rapporto tra l’uomo e il suo spazio. Di fronte al massacro di Gaza, in cui un popolo è stato preso a bersaglio nella sua stessa terra, una logica di dominio è stata esercitata usando la risposta ai drammatici attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 come pretesto e una campagna di pulizia etnica messa in atto, Zink ha visto probabilmente cadere molte sue certezze.
L’uccisione di giornalisti e il presunto lassismo di Reuters nel condannarle hanno fatto traboccare il vaso: “è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza”, scrive Zink su Facebook, aggiungendo che “devo almeno questo ai miei colleghi in Palestina, e molto di più”.
La guerra di Gaza è ad oggi il conflitto che, di gran lunga, ha ucciso più giornalisti nella storia e, secondo la fotografa, ad aggravere la responsabilità dei media ci sarebbe l’assenza di deontologia nel gestire le problematiche notizie che riportano di sempre nuove uccisioni di reporter e fotografi: “Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al-Jazeera, a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’affermazione del tutto infondata di Israele secondo cui Al-Sharif fosse un agente di Hamas – una delle innumerevoli bugie che organi di stampa come Reuters hanno diligentemente ripetuto e dignitosamente sostenuto”, scrive Zink. Non finisce qui.
Nella giornata di ieri proprio l’agenzia di proprietà canadese ha pianto una vittima, il cameraman e collaboratore Hossam al-Masri, ucciso all’ospedale Nasser di Gaza. Per la fotografa canadese la mattanza è stata favorita dall’impunità accordata ai media occidentali alle azioni di Israele, indicando come presunti “membri di Hamas” o danni collaterali le vittime.
Per la Zink “ripetendo le invenzioni genocide di Israele senza stabilire se abbiano credibilità – abbandonando volontariamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione di più giornalisti in due anni su una piccola striscia di terra che nella prima e nella seconda guerra mondiale e nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messe insieme, per non parlare del fatto di aver fatto morire di fame un’intera popolazione, di aver fatto a pezzi i suoi bambini e di aver bruciato vive le persone”.
Di fronte a tanto dolore e tanto spaesamento si potrà perdonare a Zink di essere calata in maniera tanto netta su un sistema di potere e informazione intero. E si deve cogliere indubbiamente un grido d’allarme e di rabbia circa il tradimento di una deontologia altamente rispettabile da parte di un’ampia fetta delle alte sfere dell’editoria occidentale. A cui, purtroppo, molti stuoli di collaboratori e professionisti sono chiamati a uniformarsi pena la rinuncia a prospettive lavorative e di carriera. Valerie Zink dimostra che si può scegliere anche di chiamarsi fuori da questo tritacarne.
Una bella lezione nei giorni in cui in Italia direttori di giornali si presuppongono esperti di leucemie per provare a dimostrare che una giovane palestinese non si è ammalata ed è morta per la carestia indotta di Israele (e assolvere Tel Aviv) o editorialisti di peso si mettono a cavillare sul fatto che, no, Israele e gli Usa di Donald Trump non ritengono che la prevista evacuazione dei gazawi debba esser “forzata” perché nei documenti ufficiali queste parole mancano.
Certo, c’è da dire che il declino riguarda principalmente la stampa anglosassone e che esistono notevoli eccezioni: su Gaza ci sono testate come The Guardian, una parte consistente della stampa francese e i media di stampo cattolico legati al Vaticano (dal network Vatican News a L’Osservatore Romano e, in Italia, “Avvenire”) che hanno coperto con attenzione e competenza i massacri di Gaza e le problematiche politiche ad essi collegate. Noi di InsideOver siamo per la costruzione di ponti e riteniamo che finché c’è voce per l’informazione sana ci sarà speranza. Ma queste voci sono sempre meno udibili. E Valerie Zink fa bene a ricordarcelo.
  
  tale  notizia   mi  riporta   alla  mente  quest  altro articolo     sull'antica  romana  e  sull'antichità  . infatticambiano i  metodi oggi si  usa  la Shitstorm  \  macchina  di  fango   ma  i  metodi   per  elminare  le  voci scomode o  i personaggi  non conformi     è  lo stesso   .


Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù

  da  
Storica National Geographic
   tramite ms.it  









-© Antikensammlung Berlin

Gli imperatori romani spesso finivano la loro vita nel peggiore dei modi, traditi e uccisi dai loro uomini di fiducia e persino dai loro stessi familiari. Ma anche così, esisteva una punizione peggiore della morte: comportarsi come se non fossero mai esistiti. Il loro nome veniva cancellato dalle iscrizioni, il loro volto scalpellato dalle statue, le loro monete fuse e i loro ritratti sostituiti... Questo, nell'antica Roma, era chiamato damnatio memoriae, letteralmente «condanna della memoria».
La damnatio memoriae era una cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che dimostrasse l'esistenza di una persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato, ma di estirparlo dal tessuto della storia romana. costituivano l’equivalente della memoria pubblica: se venivano eliminati, il ricordo di qualcuno svaniva nel giro di pochi decenni.
Diversi imperatori ne furono vittime. Nerone, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza. Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato. Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante è quello di Domiziano: dopo la sua morte nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome. Paradossalmente, molti di questi imperatori che si volle cancellare dalla storia sono oggi tra i più ricordati.
Il processo era meticoloso e, allo stesso tempo, approssimativo. Non era regolato da una legge formale, ma il senato o il nuovo imperatore potevano ordinarlo nel caso in cui il sovrano appena eliminato avesse lasciato un ricordo molto negativo. Le iscrizioni su pietra venivano raschiate, lasciando vuoti sospetti. Le statue, a volte, venivano “riciclate”: il volto del condannato veniva scalpellato e sopra veniva scolpito quello di un nuovo imperatore. Le monete, più difficili da distruggere, venivano fuse o limate per eliminare l'effigie. Il messaggio era chiaro: l'individuo aveva cessato di far parte di Roma.
La memoria che non si poteva cancellare
Eppure, la damnatio memoriae aveva un effetto collaterale ironico. Cancellando qualcuno, si creava la prova che era esistito. Quei segni di scalpello, quelle statue con il volto strappato, sono oggi indizi preziosissimi per archeologi e storici proprio perché invitano a indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto è stato un fallimento totale: ricordiamo i “dimenticati” proprio perché qualcuno ha cercato di cancellarli.
Questo meccanismo non era esclusivo di Roma. Nell'antico Egitto, faraoni come la regina Hatshepsut vennero cancellati dai rilievi e dalle liste reali dai loro successori. E se facciamo un salto in avanti di molti secoli, nell'URSS dopo le purghe di Stalin, le foto ufficiali venivano ritoccate per eliminare chi era caduto in disgrazia. Anche oggi, grazie alla facilità di modificare le immagini, persiste questa pulsione a riscrivere la memoria.
La damnatio memoriae ci lascia una lezione importante: il potere non solo detta il presente, ma cerca anche di plasmare il passato. Ma, come dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, l'oblio imposto raramente è completo. A volte, ciò che viene cancellato è ciò che attira maggiormente l'attenzione. E forse, in questo atto involontario, i condannati hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno voluto cancellarli.


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