| fonte Corriere della sera di Elisabetta Andreis
«Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. Milano la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","description":"Milano, la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","«Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro». La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive». Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online. Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori. La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa? «Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro». La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive». Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online. Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori. La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa?", |
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1.10.25
Cristina Irrera, 26 anni, riceve sui social 50 mila insulti e minacce di stupro: «Messaggi generati dall'AI, pubblicato pure il mio indirizzo di casa»
27.8.25
diario di bordo n 145 anno III “Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters., Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù
facendomi la mia solita rasegna stama web ho trovato tramite msn.it un 'articolo : << Ha giustificato l’assassinio di giornalisti a Gaza”: la clamorosa rottura della fotografa Valerie Zink con Reuters >> su InsideOver.
Un tesserino giornalistico strappato a metà, indicante chiaramente uno dei loghi più iconici dei media globali: l’agenzia Reuters. A corredo, un post durissimo: così la fotografa canadese Valerie Zink ha annunciato, dopo otto anni, la fine unilaterale del suo rapporto con l’importante agenzia britannica, adducendo come responsabilità della stessa Reuters il ruolo che avrebbe giocato nel giustificare la continua uccisione di giornalisti a Gaza da parte delle forze armate israeliane.
Zink è una reporter canadese che ha pubblicato importanti scatti riguardanti le grandi pianure del suo Paese natale, le eredità del colonialismo sui territori indigeni, il rapporto tra l’uomo e il suo spazio. Di fronte al massacro di Gaza, in cui un popolo è stato preso a bersaglio nella sua stessa terra, una logica di dominio è stata esercitata usando la risposta ai drammatici attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 come pretesto e una campagna di pulizia etnica messa in atto, Zink ha visto probabilmente cadere molte sue certezze.
L’uccisione di giornalisti e il presunto lassismo di Reuters nel condannarle hanno fatto traboccare il vaso: “è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza”, scrive Zink su Facebook, aggiungendo che “devo almeno questo ai miei colleghi in Palestina, e molto di più”.
La guerra di Gaza è ad oggi il conflitto che, di gran lunga, ha ucciso più giornalisti nella storia e, secondo la fotografa, ad aggravere la responsabilità dei media ci sarebbe l’assenza di deontologia nel gestire le problematiche notizie che riportano di sempre nuove uccisioni di reporter e fotografi: “Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al-Jazeera, a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’affermazione del tutto infondata di Israele secondo cui Al-Sharif fosse un agente di Hamas – una delle innumerevoli bugie che organi di stampa come Reuters hanno diligentemente ripetuto e dignitosamente sostenuto”, scrive Zink. Non finisce qui.
Nella giornata di ieri proprio l’agenzia di proprietà canadese ha pianto una vittima, il cameraman e collaboratore Hossam al-Masri, ucciso all’ospedale Nasser di Gaza. Per la fotografa canadese la mattanza è stata favorita dall’impunità accordata ai media occidentali alle azioni di Israele, indicando come presunti “membri di Hamas” o danni collaterali le vittime.
Per la Zink “ripetendo le invenzioni genocide di Israele senza stabilire se abbiano credibilità – abbandonando volontariamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione di più giornalisti in due anni su una piccola striscia di terra che nella prima e nella seconda guerra mondiale e nelle guerre di Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messe insieme, per non parlare del fatto di aver fatto morire di fame un’intera popolazione, di aver fatto a pezzi i suoi bambini e di aver bruciato vive le persone”.
Di fronte a tanto dolore e tanto spaesamento si potrà perdonare a Zink di essere calata in maniera tanto netta su un sistema di potere e informazione intero. E si deve cogliere indubbiamente un grido d’allarme e di rabbia circa il tradimento di una deontologia altamente rispettabile da parte di un’ampia fetta delle alte sfere dell’editoria occidentale. A cui, purtroppo, molti stuoli di collaboratori e professionisti sono chiamati a uniformarsi pena la rinuncia a prospettive lavorative e di carriera. Valerie Zink dimostra che si può scegliere anche di chiamarsi fuori da questo tritacarne.
Una bella lezione nei giorni in cui in Italia direttori di giornali si presuppongono esperti di leucemie per provare a dimostrare che una giovane palestinese non si è ammalata ed è morta per la carestia indotta di Israele (e assolvere Tel Aviv) o editorialisti di peso si mettono a cavillare sul fatto che, no, Israele e gli Usa di Donald Trump non ritengono che la prevista evacuazione dei gazawi debba esser “forzata” perché nei documenti ufficiali queste parole mancano.
Certo, c’è da dire che il declino riguarda principalmente la stampa anglosassone e che esistono notevoli eccezioni: su Gaza ci sono testate come The Guardian, una parte consistente della stampa francese e i media di stampo cattolico legati al Vaticano (dal network Vatican News a L’Osservatore Romano e, in Italia, “Avvenire”) che hanno coperto con attenzione e competenza i massacri di Gaza e le problematiche politiche ad essi collegate. Noi di InsideOver siamo per la costruzione di ponti e riteniamo che finché c’è voce per l’informazione sana ci sarà speranza. Ma queste voci sono sempre meno udibili. E Valerie Zink fa bene a ricordarcelo.
Per i romani, c'era una punizione peggiore persino della morte o della schiavitù
-© Antikensammlung Berlin
Gli imperatori romani spesso finivano la loro vita nel peggiore dei modi, traditi e uccisi dai loro uomini di fiducia e persino dai loro stessi familiari. Ma anche così, esisteva una punizione peggiore della morte: comportarsi come se non fossero mai esistiti. Il loro nome veniva cancellato dalle iscrizioni, il loro volto scalpellato dalle statue, le loro monete fuse e i loro ritratti sostituiti... Questo, nell'antica Roma, era chiamato damnatio memoriae, letteralmente «condanna della memoria».
La damnatio memoriae era una cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che dimostrasse l'esistenza di una persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato, ma di estirparlo dal tessuto della storia romana. costituivano l’equivalente della memoria pubblica: se venivano eliminati, il ricordo di qualcuno svaniva nel giro di pochi decenni.
Diversi imperatori ne furono vittime. Nerone, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza. Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato. Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante è quello di Domiziano: dopo la sua morte nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome. Paradossalmente, molti di questi imperatori che si volle cancellare dalla storia sono oggi tra i più ricordati.
Il processo era meticoloso e, allo stesso tempo, approssimativo. Non era regolato da una legge formale, ma il senato o il nuovo imperatore potevano ordinarlo nel caso in cui il sovrano appena eliminato avesse lasciato un ricordo molto negativo. Le iscrizioni su pietra venivano raschiate, lasciando vuoti sospetti. Le statue, a volte, venivano “riciclate”: il volto del condannato veniva scalpellato e sopra veniva scolpito quello di un nuovo imperatore. Le monete, più difficili da distruggere, venivano fuse o limate per eliminare l'effigie. Il messaggio era chiaro: l'individuo aveva cessato di far parte di Roma.
La memoria che non si poteva cancellare
Eppure, la damnatio memoriae aveva un effetto collaterale ironico. Cancellando qualcuno, si creava la prova che era esistito. Quei segni di scalpello, quelle statue con il volto strappato, sono oggi indizi preziosissimi per archeologi e storici proprio perché invitano a indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto è stato un fallimento totale: ricordiamo i “dimenticati” proprio perché qualcuno ha cercato di cancellarli.
Questo meccanismo non era esclusivo di Roma. Nell'antico Egitto, faraoni come la regina Hatshepsut vennero cancellati dai rilievi e dalle liste reali dai loro successori. E se facciamo un salto in avanti di molti secoli, nell'URSS dopo le purghe di Stalin, le foto ufficiali venivano ritoccate per eliminare chi era caduto in disgrazia. Anche oggi, grazie alla facilità di modificare le immagini, persiste questa pulsione a riscrivere la memoria.
La damnatio memoriae ci lascia una lezione importante: il potere non solo detta il presente, ma cerca anche di plasmare il passato. Ma, come dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, l'oblio imposto raramente è completo. A volte, ciò che viene cancellato è ciò che attira maggiormente l'attenzione. E forse, in questo atto involontario, i condannati hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno voluto cancellarli.
11.11.24
roberto saviano stavolta ha toppato ha ragione anche se un po' faziosamente don Maurizio Patriciello, il parroco del Parco Verde di Caivano
il Saviano personaggio dei salotti tv dal Saviano scritore le sue opere in particolare la Paranza dei Bambini e visto Gomorra la serie .Ma un conto è finché un cittadino attacca i politici, come potremmo essere io o altro che attacchiamo la Meloni o la Schlein, per dire. Un altro è quando un partito di Governo, primo in Italia alle scorse elezioni, fa un attacco così
cattivo a un cittadino.Ora il problema non è l'attacco in se, una replica alle posizioni di Saviano ci può stare, mancasse altro, vedere la risposta di Don M.Patruciello , il problema è la violenza di questo attacco da un profilo, alla fine, istituzionale. Mi chiedo come il primo partito in Italia come può permettersi di fare un attacco cosi cattivo e pieno d'astioa un cittadino italiano? Sono al Governo, che lo vogliano o no rappresentano tutta l'Italia, anche chi non li ha votati. Attaccare in modo così cattivo un cittadino che non ha ruoli politici dal profilo pubblico del partito è indecente e vergognoso a prescindere da Destra o Sinistra ,
Saviano, sciacallo senza alcuna dignità.
— Fratelli d'Italia 🇮🇹 (@FratellidItalia) November 9, 2024
I ragazzi, che emulano i criminali di Gomorra, sono figli del tuo cinismo. In nome del denaro, hai trasformato dei criminali in eroi.
Sei uno dei peggiori scrittori che l’Italia abbia mai conosciuto. pic.twitter.com/dqEzJJAxP2
.Infatti mi chiedo ancora come si possa attaccare nella Figura di Saviano una persona che ha avuto il merito di far conoscere ulteriormente attraverso lo strumento letterario ad ampie fette di cittadini prima inconsapevoli o oquasi della terribile realtà del crimine organizzato, la sua ferocia e la sua capacità di infiltrare la nostra società. Così pericoloso per la camorra da dover vivere da anni sotto scorta. Si vergognino Meloni e Salvini,. che per cinici motivi politici fanno tutto questo. Incapaci, privi di alcun coraggio civile e personale. Ma soprattutto paragonare saviano a un sciacallo è una cosa grave paragonarlo a uno sciacallo vuol dire offendere gli sciacalli .Ritornando a noi , come ho già detto nel titolo , ha ragione il Don . Almeno c'è sia che ci si schieri proo contro Saviano , una crtica certo aspra e un po' di parte , ma almeno rispettosa e civile rispetto a toni usati da FdI . Infatti dopo aver visto varie fiction ( il padrino , la piovra , Gomorra film e serie , ecc solo per citare i principali ) concordo quasiu totalmente con l'intervento del prete .
A ROBERTO SAVIANOGli ultimi tre orribili omicidi avvenuti a Napoli dovrebbero bastare per farci diventare più intellettualmente onesti, pensosi, umili; più veri. Dovremmo tutti arrossire di vergogna e chiedere perdono ai ragazzi per le ruberie perpetrate negli anni da politici che hanno pensato a riempire solo le loro tasche. Per lo spreco - enorme - di denaro pubblico. Per non essere stati in grado di bloccare le tonnellate di droga che hanno invaso la Campania e l’ Italia. Per avere costruito impensabili quartieri con materiali fatiscenti per ammassarvi migliaia di persone lasciandole poi in balia di prepotenti e camorristi. Guarire una persona influenzata è facile. Richiamare in vita un ammalato grave è cosa molto più complessa. E Parco Verde, il centro sportivo ridotto a un immondezzaio puzzolente, il comune di Caivano sciolto per la seconda volta per infiltrazione mafiose, il dramma ambientale e sanitario, i mille clan della camorra che ci angariano da sempre, la disoccupazione atavica che affligge la nostra terra, il lavoro in nero, l’evasione scolastica, la pigrizia di tanta gente “ buona” che non disdegna di insozzare e occupare strade e marciapiedi, meriterebbero un’analisi piu onesta, piu severa. Per amore di questo nostro popolo bistrattato occorre andare al di là degli slogan e degli stereotipi. Invece. Roberto Saviano scrive che “ gli omicidi dimostrano il fallimento completo del modello Caivano “. Falso. Caro Roberto, sono passati quasi 20 anni da quando - sconosciuto giornalista - venisti al “Parco Verde” per scrivere dell’omicidio di un nostro ragazzo di 15 anni. Quel racconto finì nel tuo libro “ Gomorra”. Da allora - lo sai bene - ti ho invitato tante volte a ritornare. A dare voce alle nostre voci. Non lo hai mai fatto. Non sei mai venuto. In questi 20 anni - pensa a quanti governi si sono succeduti e da chi erano formati - le cose sono andate di male in peggio. Non poteva che essere così. Lasciato a se stesso il degrado peggiora; l’ammalato si aggrava e muore. Ho chiesto aiuto a tutti. I colori politici non mi hanno mai impressionato. Sono un prete. Un uomo libero. I rischi di essere frainteso e deriso ci sono. Pazienza. Il presidente del Consiglio dei ministri della nostra repubblica, l’ anno scorso, ha accolto il mio invito. È venuta. È ritornata. Quel che è accaduto a Caivano è sotto gli occhi di tutti. Di tutte le persone oneste che vogliono vedere. Certo, è poca cosa rispetto al gran lavoro che dovrà essere fatto. I miracoli li fa Dio. La bacchetta magica ce l’ha la fata. Nessuno ha mai creduto che in un solo anno, un luogo dove - parola di Vincenzo De Luca - “ lo Stato non c’è. Punto” sarebbe diventato il paradiso terrestre. Si sta lavorando. Con fatica. Avrai saputo che “ Parco Verde” non è più una delle più grandi piazze di spaccio d’ Europa. Qualcosa si muove. Giorgia Meloni ha risposto al mio appello. Un merito che altri, prima di lei, non hanno voluto o potuto prendersi. La verità è limpida come l’acqua di sorgente. Se vuoi bene al tuo popolo, non remare contro. Si perde solamente tempo. Lascia che lo facciano i politici di professione. Noi, preti, giornalisti, scrittori, intellettuali, dobbiamo essere capaci di stare al di sopra delle parti. Essere coscienza critica. Sempre con le mani pulite. Viceversa, non saremmo credibili. No, Roberto, gli ultimi omicidi non dimostrano affatto il completo fallimento del modello Caivano, ma sono il frutto avvelenato e velenoso di decenni di disattenzione verso il dramma della camorra, della terra dei fuochi, delle problematiche giovanili, delle nostre bistrattate periferie. Ti auguro ogni bene. E ti invito ancora una volta a ritornare al “Parco Verde”. Dio ti benedica. Padre Maurizio Patriciello.
In quanto a Saviano è mancata l'onesta intelletuale e cosa strana lui che è cosi attento e preparato la capicità d'analisi del contesto di Caivano pre Meloni .
30.3.24
la via crucis non è solo festività pasquale ma alcuni neglio alcune la subiscono tutti i giorni il caso di patrizia cadau che ha denunciato il suo carnefice ed ora si tova a processo per averlo diffamato
Io ci credevo tanto nella Giustizia e nello Stato.
Lo Stato.
Quest'imponente costrutto fatto di norme, di diritto, di valori fondanti la vita di tutti.
Lo Stato contrapposto alla barbarie per garantire ordine, rispetto, protezione dei più deboli dalla prepotenza.
Sono stata tirata su così, con una fiducia tonta e smisurata nei confronti dello stato. E della Giustizia.
Quella che consente ad un violento incallito di esercitare violenza.
Quella che permette ad un padre violento di continuare ad essere maltrattante, lasciandolo impunito, benché condannato.
Quella che criminalizza le donne che, sopravvissute alla violenza, raccolgono dignità e coraggio e vanno a denunciarla, per poi essere intimidite.
Quella che consente al violento di circondarsi di un branco di gente colpevole come lui per amplificare l'abuso.
Quella che se chiedi aiuto, non solo ti lascerà sola ma ti esporrà ad altre minacce.
Quella che trova normale fare crescere i bambini nelle aule dei tribunali, rivittimizzarli, e continuare anche dopo aver compiuto la maggior età, finché la loro madre non sia sopraffatta.
Quella che invece di sanzionare gli abusi sanziona i toni coloriti di chi li racconta.
Quella che discrimina le vittime per giustificare gli orchi, i mostri domestici.
Quella che organizza le passerelle in commemorazione delle vittime, ma solo se sono morte, altrimenti si trova un sistema per zittirle del tutto.
Quella che invita le donne a parlare, per poi denunciarle dopo.
Quella che autorizza il violento ad usarti violenza economica spolpandoti di ogni bene, e mettendoti nelle condizioni di subire processi che aggraveranno ancora di più la situazione.
Quella che di fatto è collusa con la violenza, e corrotta fino nel midollo.
Mi fidavo, e invece.
Non è bastato l'orco, brutale, feroce, non sono bastati i suoi complici prezzolati, le sue comari bavose e parassite, i suoi compari pavidi e profittatori.
A loro si è aggiunto lo Stato.
Capace di perdersi denunce, fascicoli e testimonianze e di rinviare a giudizio i testimoni di giustizia come me per avere parlato. E di manifestarsi assente.
Se me l'avessero detto non ci avrei creduto.
Ma come fanno alcuni a vivere consapevoli delle croci che hanno caricato su altri, davvero è un mistero.
spesso dietro delle tragedie, c'è solo un colpevole... ma alcune volte, la legge non tutela agendo in prevenzione. Questo non significa che esistono altri colpevoli ma se fosse possibile prevenire anzichè curare, alcune situazioni potrebbero avere un altra via di risoluzione...
Ci hanno fregato proprio per il senso civico e il rispetto delle istituzioni che abbiamo. Ci hanno fregato perché siamo persone perbene e le persone perbene in questo paese sono destinate a soccombere. Hanno più garbo con i mafiosi ed i corrotti che con noi.
14.3.24
La mafia di Casarano, in provincia di Lecce, esegue omicidi e attentati ma è la cronista pugliese Marilù Mastrogiovanni, a processo, a dover dimostrare che la mafia esiste

Chi vede lontano , o addirittura anticipa le cose , viene punito . Nonostante poi le sue inchieste anticipatrici confermino la cosa
Dopo l’ennesimo omicidio di mafia a Casarano (Le) in un parco giochi in pieno centro, tutto il Salento ha reagito alla morsa della sacra corona unita con una grande marcia per la legalità organizzata dal sindaco Ottavio De Nuzzo.
Lo stesso che, insieme al suo predecessore e altri ex assessori, sta infliggendo un vero e proprio calvario giudiziario alla giornalista pugliese Marilù Mastrogiovanni, giornalista professionista, direttrice del giornale d’inchiesta www.iltaccoditalia.info e dal ricco curriculum che trovate qui :<< Profilo professionale di Marilù Mastrogiovanni >>su marilumastrogiovanni.it e essa ha all'attivo diverse colaborazioni
Nel corso della mia vita professionale ho diretto, anche per committenti esteri, decine di riviste tematiche o di settore (medicina, turismo, scuola, imprenditoria, associazionismo, ricerca scientifica e innovazione, house organ), curandone ogni dettaglio, dall’ideazione del piano editoriale, al menabò, fino all’ “ok si stampi”, passando per la definizione del “timone” e del palinsesto.
Ho scritto e, in alcuni casi, continuo a scrivere per diverse testate nazionali:
· Il Sole 24 ore (dal 2002 ad oggi)
· Il Manifesto (dal 2009 ad oggi)
· Il Fatto quotidiano (dal 2009 al 2015)
· Nuovo Quotidiano di Puglia (dal 2008 al 2012)
Sono consulente per Presa diretta (Rai3) ed Euronews. Collaboro anche con Left e Narcomafie
La colpa di Mastrogiovanni? Aver fiutato , secondo webinfo@adnkronos.com (Web Info) 17 ore fa , sin dal 2004 la nascita e il consolidarsi di un nuovo clan della sacra corona unita, e averne scritto ben prima degli omicidi e delle successive ordinanze di misure cautelari indirizzate ai componenti del clan. Mastrogiovanni ne ha scritto, facendo nomi e cognomi, descrivendo la gerarchia dell’organizzazione, indicando le aziende in cui i proventi dello spaccio di droga venivano reinvestiti, scoprendo una fitta rete di fiancheggiatori insospettabili. Aver stigmatizzato la vicinanza tra il clan e un consigliere comunale di Casarano.La giornalista, già presidente della giuria del premio mondiale dell’Unesco per la libertà di stampa “Guillermo Cano” e, a sua volta, vincitrice di numerosi premi per le sue inchieste e ideatrice del Forum delle Giornaliste del Mediterraneo, dal 2005 ad oggi ha pubblicato fiumi di inchieste non solo sul Tacco d’Italia ma anche sui principali giornali nazionali e internazionali: le azioni criminali della SCU di cui scrive Mastrogiovanni riguardano i Comuni del Salento e le ramificazioni nel resto del Paese e della UE: dalla cementificazione delle coste allo sversamento dei veleni nella falda acquifera, dall’irrisolto omicidio di mafia di Peppino Basile allo spaccio di cocaina, dal traffico di rifiuti alle infiltrazioni mafiose nelle aziende locali e nei bandi pubblici.
Migliaia di pagine di inchieste, numerose querele e nessuna condanna. Mastrogiovanni è difesa dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, del foro di Bari.
Le inchieste giornalistiche su Casarano
Dopo l’omicidio del boss della Scu Augustino Potenza nell’ottobre 2016 a colpi di kalashnikov, la direttrice Mastrogiovanni pubblicò sul Tacco d’Italia un’ampia inchiesta nella quale ne ripercorreva le “gesta”, dimostrando il consenso sociale e politico di cui godeva. E ha poi continuato a denunciare.
Articoli non graditi dall’amministrazione comunale guidata dall’allora sindaco Gianni Stefàno (Fratelli d’Italia) che mise la giornalista nel mirino, affiggendo decine di manifesti per la città, prima invitando la cittadinanza a reagire contro chi infanga il buon nome della città (cioè la giornalista che scrive di mafia), poi affiggendo dei manifesti di sei metri per tre che la rappresentano seppellita in una fossa.
Tutta la comunità giornalistica locale, nazionale e internazionale si è mobilitata con una raccolta firme e accorati appelli affinché il sindaco rimuovesse i manifesti, sia perché l’episodio in sé rappresentava un concreto pericolo per la sicurezza della giornalista (tra i commenti sulla pagina Facebook ufficiale del sindaco, che aveva pubblicato il testo del manifesto come comunicato stampa, numerose offese e minacce dai sodali del boss, tra cui la vedova), sia perché quelle affissioni rappresentavano, secondo la categoria, un pericoloso punto di non ritorno, ossia l’interruzione della normale dialettica democratica tra stampa e politica, nella cornice garantista della legge sulla Stampa.
Sono state così attivate le prime misure di protezione da parte del Prefetto di Lecce Claudio Palomba che, nel corso del Consiglio comunale monotematico tenutosi all’indomani dell’affissione dei manifesti ha espresso solidarietà a Mastrogiovanni, esprimendo preoccupazione per il “welfare mafioso” diffuso nella comunità casaranese e salentina.
Sequestro del giornale, imputazioni coatte, decreti di citazione diretta a giudizio
Decine e decine di querele archiviate più una mezza dozzina di assoluzioni, tolgono tempo al lavoro d’inchiesta: “O scrivo memorie difensive o scrivo inchieste”, ha affermato Mastrogiovanni.
Nel frattempo la giornalista ha deciso di trasferirsi a Bari per salvaguardare la serenità e la sicurezza della sua famiglia.
Le misure di protezione si attivano quando è nel Salento.
Dal 2016 ad oggi Mastrogiovanni è nel mirino di una serie di azioni giudiziarie violente: il giornale “Il Tacco d’Italia” è stato sequestrato per 45 giorni; poi dissequestrato dal Tribunale del riesame. Nel processo che ne scaturì, conclusosi con sentenza di assoluzione, si sono costituiti parte civile la FNSI con Assostampa, la Consigliera nazionale e regionale di Parità, l’UDI (Unione donne italiane), Pangea-Reama, il centro antiviolenza Labriola di Bari, mentre l’Ordine nazionale e regionale dei giornalisti, Giulia Giornaliste, Reporter senza frontiere, Ossigeno per l’Informazione, Amnesty International, Articolo 21, e tanti altri si sono mobilitati a difesa della libertà di stampa. Il caso fu trattato dalla trasmissione tv “Le Iene” e Mastrogiovanni fu chiamata in audizione dinanzi alla Commissione regionale antimafia.
Il caso eclatante dei manifesti del sindaco che invitava a reagire contro la giornalista fu sollevato dal presidente della FNSI Beppe Giulietti, in conferenza stampa, dinanzi all’allora presidente della Commissione d’inchiesta sulle mafie Rosy Bindi e la stagione della trasmissione “Cose nostre” della RAI si aprì proprio con il documentario “Attacco al Tacco”, sulla storia giornalistica di Mastrogiovanni.
I giudici hanno fatto poi ricorso a imputazioni coatte (nonostante le richieste di archiviazione dei Pm) e decreti di citazione diretta a giudizio (saltando la fase dell’udienza preliminare, il Pm obbliga l’indagato a presentarsi direttamente dinanzi al giudice monocratico). In uno dei processi a suo carico dovrà dimostrare di essere stata sottoposta a misure di protezione, perché il fatto che le avesse è stato ritenuto diffamatorio dal querelante (l’ex sindaco di Casarano) e dai giudici, che l’hanno rinviata a giudizio.
La dichiarazione della FNSI e Assostampa
Siamo molto preoccupati per la morsa giudiziaria di cui è vittima da anni la collega Maril Mastrogiovanni, direttrice di www.iltaccoditalia.info, a causa del suo lavoro d’inchiesta sulla sacra corona unita, la mafia del Salento: lo dichiarano in una nota congiunta la Federazione nazionale della stampa italiana e il sindacato dei giornalisti pugliesi Assostampa. Nel mese di marzo dovrà affrontare ben tre processi, alcuni avviati a seguito di imputazione coatta, nonostante la richiesta di archiviazione del Pm; nella giornata di venerdì 15 marzo sarà chiamata a presenziare in due procedimenti contro di lei, avviati a seguito di querela da parte di alcuni amministratori locali, tra cui l’attuale sindaco di Casarano. La sua colpa è di aver illuminato le zone grigie del malaffare e le influenze dei clan sui gangli vitali della vita democratica. Dopo l’omicidio di mafia avvenuto una settimana fa a Casarano, maturato negli ambienti dei clan di cui scrive Mastrogiovanni, la sua posizione appare ancora più critica. La collega negli ultimi anni è stata oggetto di minacce anche di morte, intimidazioni, querele temerarie e perfino il sequestro del giornale, fatto gravissimo per il quale si è costituita al suo fianco la FNSI. È stata costretta a trasferire la sua residenza. Nei suoi confronti sono state disposte misure di protezione. Ad oggi la maggior parte delle querele sono state archiviate e i processi risolti con sentenza di assoluzione. Il giornalismo d’inchiesta è un pilastro della democrazia, per questo la FNSI continuerà ad essere al fianco della collega nel suo compito primario di garantire il diritto dei cittadini di essere informati anche su fatti scomodi in un territorio sempre più a rischio, qualora la voce dei giornalisti
3.2.24
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