| fonte Corriere della sera di Elisabetta Andreis
«Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. Milano la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","description":"Milano, la ragazza è stata presa di mira da un'improvvisa campagna d'odio. I testi, spesso riprodotti in automatico, arrivano da server registrati all'estero. La tempesta si è scatenata dopo che ha denunciato un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Le indagini della Polizia postale","«Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro». La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive». Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online. Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori. La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa? «Ti veniamo a prendere». «Se ti becco ti stupro». «Goditi il cane, non lo vedrai più». Non sono minacce sussurrate in un vicolo, ma cinquantamila frasi comparse sotto i post sui social di Cristina Irrera. Una ragazza di 26 anni, siciliana - arrivata a Milano da Messina per fare l'università alla Statale - che da anni racconta online di diritti, lavoro, violenza di genere. Dal 9 febbraio la sua bacheca è diventata un campo di tiro: prima insulti isolati, poi un’ondata continua che non lascia spazio a equivoci. L’odio digitale ha cambiato forma in pochi giorni. Dalle offese si è passati a quello che nel gergo dell'odio online si chiama «doxxing»: «Hanno diffuso il nostro indirizzo di casa, perfino la posizione del citofono ripetuta ossessivamente dopo un video girato dal balcone». Non più soltanto parole, ma coordinate pratiche. Minacce che hanno iniziato a toccare anche amici, familiari, colleghi. «C’è un punto in cui gli insulti smettono di sembrare parole e diventano un rumore di fondo», dice Cristina. «Non mi sorprendono più. Ma non significa che abbiano vinto: significa che ormai so che il mio spazio pubblico non sarà mai neutro». La ragazza non è nuova all’attenzione mediatica: nel 2022 era già finita sui giornali per essere intervenuta in metropolitana durante una rapina e aver denunciato le borseggiatrici. Stavolta, a scatenare la tempesta, sembra essere stato un video in cui racconta la chiusura di un sito tedesco che diffondeva materiale sessuale non consensuale. Da lì le ondate sono diventate cicliche. I consulenti che la affiancano stimano decine di migliaia di commenti: insulti, minacce di violenza sessuale, richiami a «punizioni collettive». Le conseguenze non sono virtuali. Collaborazioni professionali interrotte dopo telefonate ai datori di lavoro. Anche il nome del bar dove serviva ai tavoli part time è stato reso pubblico. Persone vicine bersagliate da messaggi. Lei stessa costretta a cambiare password sette volte in pochi giorni. «Limito profili e contenuti, ma i messaggi continuano a circolare», racconta. Per difendersi ha raccolto e consegnato alla Polizia Postale un dossier imponente di prove: centinaia di screenshot, prime analisi forensi. La querela ipotizza cinquantamila minacce e atti persecutori, diffusione illecita di dati personali e, a seconda degli sviluppi, anche il reato di estorsione. Ma il nodo resta sempre lo stesso: ricondurre l’esecuzione materiale — gli account che postano — al mandante effettivo. Dietro quei profili spesso ci sono account rubati, infrastrutture frammentate, pacchetti di commenti acquistabili online. Le prime analisi tecniche mostrano tre schemi ricorrenti: utenti reali compromessi dopo aver comprato follower da servizi poco affidabili; pacchetti a pagamento che «spediscono» commenti su commissione; testi ripetitivi al punto da far pensare a un’automazione, forse tramite strumenti di intelligenza artificiale. Molti account risultano registrati all’estero: un dettaglio che rende più complessa la tracciabilità e aumenta le possibilità che il mandante resti nascosto dietro una catena internazionale di server e intermediari. Per andare oltre servono dati grezzi — log, IP, metadati — che solo le piattaforme possono fornire in tempi rapidi. Le richieste a X, Instagram e TikTok fanno già parte del fascicolo, ma la velocità con cui arriveranno le risposte pesa quanto la capacità tecnica degli investigatori. La vicenda mostra il lato più scuro di un mercato parallelo che monetizza attenzione e rancore: pacchetti di visibilità venduti come un servizio, campagne d’odio costruite come un prodotto. Chi denuncia pratiche predatorie o mette in luce contenuti illeciti rischia di diventare — oltre che bersaglio — involontario amplificatore del problema. «Io continuo a pubblicare, anche quando penso che non convenga», dice Cristina. «Voglio che sia visibile, che si capisca come funziona il meccanismo». Non è un gesto eroico, ma quotidiano: ribaltare l’assedio in racconto, l’insulto in testimonianza. Con una consapevolezza: la risposta individuale non basta. «La mia scelta non sostituisce la necessità di risposte istituzionali e tecniche più veloci ed efficaci», avverte. E qui resta la domanda aperta — per le autorità, per la politica, per le stesse piattaforme: chi paga queste campagne, e come si spezza la catena che porta l’odio dallo schermo alla porta di casa?", |
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1.10.25
Cristina Irrera, 26 anni, riceve sui social 50 mila insulti e minacce di stupro: «Messaggi generati dall'AI, pubblicato pure il mio indirizzo di casa»
ecco perchè , o almeno uno dei tanti , portali \ comunty come phicanet o mia moglie rimangono in piedi per 20 anni . perchè le donne hanno paura a denunciare sia che siano vittime che non e che gli succeda quello che è successo a lei .
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