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18.7.25

DIARIO DI BORDO N 136 ANNO III Yona Roseman, obiettrice di coscienza israeliana: «Non mi arruolo in un esercito che sta commettendo un genocidio» -. giovani e la terra la storia di fabio.barbato., sardegna terra multietnica il caso de ponziesi



Yona Roseman, obiettrice di coscienza israeliana: «Non mi arruolo in un esercito che sta commettendo un genocidio»
                  di  Anna Spena

  



In Israele la leva militare è obbligatoria. Yona Roseman ha 19 anni e ad agosto «andrò in un carcere militare perché ho rifiutato di arruolarmi». Ha scelto di rendere pubblica la sua decisione ed è entrata a far parte delle rete di attivisti di Mesarvot, un'associazione che offre supporto e sostegno legale ai giovani che scelgono di non combattere. «La mia famiglia non l'ha presa bene, alcuni amici di scuola hanno tagliato i ponti con me. Spero in uno stato democratico in cui tutti abbiano uguali diritti e i rifugiati palestinesi possano tornare. Penso che prima o poi succederà»
AYona Roseman, 19 anni, è stato chiesto di indossare la mimetica, armarsi, e andare a combattere. L’arruolamento è previsto per agosto ma «io non combatterò», dice. E sa già che questo rifiuto le costerà il carcere militare. Non sa per quanto tempo dovrà restarci. Ma per chi come lei si è rifiutata più di una volta la permanenza può variare dai 30 ai 200 giorni consecutivi.
In Israele il servizio militare è obbligatorio sia per gli uomini che per le donne, al compimento dei 18 anni. L’obbligo di leva si estende anche ai cittadini israeliani che vivono all’estero e a quelli con doppio passaporto. Dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas il governo israeliano ha approvato un’estensione della leva a 3 anni per uomini e donne per i prossimi 5 anni. Mentre il governo di Netanyahu continua a bombardare senza sosta la Striscia di Gaza e porta avanti l’occupazione illegale della Cisgiordania, cresce il numero di soldati che rifiutano di servire e aumentano i casi di suicidio tra i militari.
Yona Roseman fa parte della rete di Mesarvot, un gruppo di attivisti che rifiuta di prestare il servizio militare obbligatorio. Una realtà che offre agli adolescenti che devono arruolarsi aiuto per evitare che accada e supporto legale. Non esiste un dato preciso di obiettori nel Paese. Mesarvot entra principalmente in contatto con quelli che rendono pubblica la loro decisione. Dall’inizio della guerra ne hanno sostenuti già quindici. «Vengo dal Nord di Israele, ora vivo ad Haifa». Per presentarsi Roseman di se stessa dice: «Sono un giornalista e un attivista contro il genocidio, l’apartheid e gli sfollamenti forzati. Quasi due anni fa ho maturato la scelta di rifiutarmi di combattere, mi ero resa conto di non poter servire in un esercito che sta sostenendo un regime illegale e antidemocratico a discapito di milioni di persone. Ma col passare del tempo la scelta di non combattere è diventata molto più semplice: non ci si arruola in un esercito che sta commettendo un genocidio».
Per Yona rifiutarsi di combattere e basta non bastava: «Dopo aver già deciso di non arruolarmi, mi sono resa conto che avrei dovuto rendere pubblico quel rifiuto. La sensazione di potere che deriva dal rifiutare a gran voce quella che si presume essere la norma mi ha convinto che fosse la cosa giusta per me. La mia famiglia non l’ha presa bene, non ha appoggiato questa scelta, ma col tempo ha imparato a capirmi. Alcuni amici di scuola hanno tagliato i ponti con me per questa decisione, a parte questo non ha avuto grandi conseguenze finora. Ma il mese prossimo andrò in un carcere militare perché ho rifiutato il servizio». Roseman ha incontrato la rete di Mesarvot nel 2023, durante una protesta contro l’occupazione israeliana. «Mi aiuta con il supporto legale e mediatico, nella relazione con i miei genitori e, soprattutto, mi fa sentire parte di una comunità che sostiene e celebra la mia decisione».
Si può sostenere Mesarvot con delle donazioni, ma anche con atti simbolici come «inviare lettere a chi si è rifiutato di combattere e ora si trova in carcere». Yona ha una speranza chiara sul futuro: «Desidero uno stato democratico in cui tutti abbiano uguali diritti e i rifugiati palestinesi possano tornare. Credo che prima o poi succederà. Spero di poter continuare a lottare per ciò che è giusto qui, non mi vedo vivere da nessun’altra parte






dalla    pagina facebok di Sardegna.Sardinia.Italy


Lui è Fabio. ( per contattarlo ecco il suo account db fabio.barbato.568 ) Vive in Sardegna, a Castiadas. In campagna. Di fronte alla sua casa c’è un terreno immenso. Studia da geometra ma il suo pallino è l’agricoltura. “Cosa posso piantare in quei cinque ettari?”. Fichi d’India. Gli amici gli dicono di lasciar perdere. Qualcuno lo prende in giro. Fabio non ascolta nessuno. Innesta 750 piante di fichi d’India. Cura ogni dettaglio, vuole vincere la sua scommessa. Immettere sul mercato i fichi d’India di Castiadas.Arrivano i primi risultati, il mercato però è difficile. Fabio pianta anche pomodori, cetrioli, zucchine, melanzane, peperoni. Glieli chiede Giovanni, il direttore di un resort 4 stelle a Costa Rei. A tre chilometri dal campo coltivato. “Caro Fabio, ai nostri ospiti diamo il prodotto del tuo orto”. Fabio si impegna, lavora la terra senza sosta. E ogni giorno d’estate porta le melanzane, le zucchine e i fichi d’India a Giovanni. Un successo dopo l'altro: si aggiudica l’oscar green, il premio che la Coldiretti assegna ai migliori giovani agricoltori, è un punto di riferimento del resort e in più quest'anno inaugura l'agricamping. Ci si rilassa e si gusta quel che si coltiva. Che meraviglia. Complimenti, Fabio!


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da Vistanet   sezione  sardegna 

In Sardegna sino a pochi decenni fa c'erano tanti ponzesi (qualcuno, molto anziano, è ancora vivo). Sapete perché arrivarono qui da noi?




Lo sapevate? Perché in Sardegna ci sono molte persone originarie dell’isola di Ponza?
In Sardegna sino a pochi decenni fa c’erano tanti ponzesi (qualcuno, molto anziano, è ancora vivo). Sapete perché arrivarono qui da noi?
In Sardegna, fino a pochi decenni fa, vivevano tantissime persone originarie dell’isola di Ponza — e qualcuna, molto anziana, è ancora viva oggi. Ma perché mai tanti ponzesi arrivarono proprio qui da noi? La risposta affonda le sue radici in una storia affascinante fatta di mare, fatica e migrazioni silenziose.
Ponza, una piccola isola di appena 10 chilometri quadrati, situata nell’arcipelago Pontino, contava già oltre 3.000 abitanti nel 1861. Dopo un lungo periodo di spopolamento dovuto alle incursioni barbaresche, l’isola fu nuovamente abitata da pescatori provenienti da Ischia e dalla Campania, che trovarono nel mare la loro fonte di sostentamento. Ed è proprio il mare che li spinse, a partire dalla metà del 1800, verso nuove rotte. I pescatori ponzesi iniziarono a dirigersi a nord per pescare, e con il passare degli anni quel flusso si intensificò: se all’inizio erano soltanto tre o quattro imbarcazioni, tra il 1940 e il 1960 se ne contavano più di venti. Alcuni puntavano decisi verso la Sardegna, verso La Maddalena, Santa Teresa di Gallura, Porto Torres e Isola Rossa, Golfo aranci ,Vignola \ Aglientu  . Altri invece si fermavano prima, affascinati anche loro dalla ricchezza ittica attorno all’isola di Montecristo.
Le barche da pesca, costruite a Ponza nei cantieri di Sant’Antonio e Santa Maria o a Terracina, ricordavano nella forma le feluche nordafricane: snelle, resistenti, perfette per il tipo di navigazione richiesto. I ponzesi seguivano diverse rotte verso la Sardegna, toccando anche Arbatax, Siniscola, Carloforte, e spesso le loro barche venivano trasportate su bastimenti aragostai, detti mbrucchielle, che le sbarcavano appena giunti a destinazione. Quando la pesca in Sardegna non dava frutti, risalivano il mare fino all’Elba, pescando a Montecristo, per poi tornare infine a Ponza a fine stagione.
In principio, quasi tutti i pescatori facevano ritorno a casa; solo in pochi restavano a svernare all’Elba, a Montecristo o in Sardegna. Ma con il tempo, quel pendolarismo stagionale si trasformò in migrazione stabile. Molti pescatori decisero di trasferire le proprie famiglie nei porti sardi dove passavano gran parte dell’anno: così nacquero le prime piccole comunità ponzesi in Sardegna, discrete ma presenti, legate alla pesca e alla fatica, al vento e alla salsedine.
Ma l’avventura dei ponzesi nel Mediterraneo non si fermò qui: alcuni si spinsero anche più lontano, verso la Tunisia, sull’isola di La Galite (Galitone), a 80 chilometri dalla costa tunisina e a circa 150 dalla Sardegna. Sempre inseguendo il pesce, sempre seguendo le rotte del mare.
Ecco perché, ancora oggi, nelle storie sussurrate dai vecchi pescatori sardi o nei cognomi che tradiscono origini lontane, sopravvive l’eco di Ponza, un’isola che ha lasciato la sua impronta sulle coste della Sardegna. Una storia poco conosciuta, ma incredibilmente ricca e viva.

9.7.25

Arunima Sinha è una giovane atleta indiana che ha subito schiaffi dalla vita . ma si è sempre rialzata

                                                                 da facebook

 Arunima Sinha è una giovane atleta indiana, piena di sogni. Ha giocato a pallavolo a livello nazionale e sta cercando di entrare nelle forze armate, come previsto in India per chi eccelle nello sport. Ha 23 anni e una strada chiara davanti a sé: servire il Paese, diventare qualcuno, rendere orgogliosa la sua famiglia. Ma tutto cambia in una notte.Nel 2011 sta viaggiando in treno per recarsi a un esame d’ammissione. È sola. Durante il tragitto, un gruppo di uomini sale sul vagone per rapinare i passeggeri. Le chiedono soldi e la catenina che porta al collo. Lei si rifiuta, opponendosi con dignità. In risposta, quei criminali la spingono giù dal treno in corsa.Cade sui binari e, pochi istanti dopo, viene investita da un altro treno. Le ruote le tranciano la gamba sinistra. Rimane distesa lì, sanguinante, tra le pietre e le traversine, per tutta la notte. Alcuni racconti dicono che provi a tenersi sveglia contando le stelle, unico modo per non perdere conoscenza. Quando viene finalmente soccorsa, le condizioni sono critiche. La portano in ospedale e le amputano una gamba. Seguono infezioni, dolori lancinanti, depressione. E, come se non bastasse, inizialmente alcuni giornali mettono persino in dubbio la sua versione dei fatti.Ma Arunima, in quel letto d’ospedale, prende una decisione. Quella tragedia non sarà la fine della sua storia. Sarà l’inizio. Mentre è ancora in cura, legge un libro su Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi a scalare l’Everest. In quel momento prende una decisione che suona come pura follia: scalerà il tetto del mondo. Con una gamba sola.Riacquista lentamente forza e mobilità. Si rivolge a Bachendri Pal, la prima donna indiana ad aver raggiunto l’Everest, che decide di allenarla. Arunima inizia così il suo percorso: dalle colline più basse dell’Himalaya ai picchi sempre più alti, imparando tutto da zero. Cade molte volte, si fa male, ma non si ferma mai. Ha una protesi di metallo alla gamba e una determinazione che nessun dolore riesce a incrinare.Dopo oltre un anno di preparazione, nell’aprile del 2013, parte per la spedizione più importante della sua vita. Ogni passo verso la cima è una lotta contro il freddo, l’altitudine, la mancanza d’ossigeno. Ma anche contro il ricordo di quella notte che l’aveva spezzata. Il 21 maggio 2013, Arunima Sinha raggiunge la cima dell’Everest. Pianta la bandiera indiana e un cartello in memoria di sua madre. In quell’istante, l’intera India la guarda con occhi diversi. Non più come una vittima, ma come una conquistatrice.Dopo l’Everest non si ferma: scala le vette più alte di tutti e sette i continenti, diventando la prima donna amputata al mondo a farlo. Fonda un’organizzazione per aiutare le donne vittime di violenza e ustioni. Porta la sua storia nelle scuole, nei villaggi, ovunque possa accendere una scintilla. Parla con forza, senza mai vittimismo. Racconta come si può rinascere anche dopo essere stati spezzati in due.“Non voglio essere ricordata per ciò che ho perso, ma per ciò che ho fatto con ciò che mi è rimasto.”

30.12.22

Rivoglio i capo d'anno d'ieri

Io non avrei saputo  dirlo meglio  aggiungo al  post    che  trovate  sotto    solo   questa  citazione     musicale  : <<Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico\e come sono contento\di essere qui in questo momento,\vedi, vedi, vedi, vedi,\vedi caro amico cosa si deve inventare\per poterci ridere sopra,\per continuare a sperare. [...] L'anno che sta arrivando tra un anno passerà io mi sto preparando è questa la novità  >>

da Sergio Pala

 Tenetevi pure il cenone di Gracco. Tenetevi le casse di champagne e le tavolate di ostriche. Tenetevi le " storie" , i selfie e le dirette al concertone. Tenetevi le sciate a Cortina, il trenino di mezzanotte, gli abiti

da cerimonia e le stelline che illumineranno il nuovo anno. Tenetevi i petardi ed il karaoke. Ridateci un garage a malapena intonacato, il calore di un camino ed un divano sgangherato e polveroso per appisolarci all'alba. Ridateci le lasagne cucinate dalle nostre madri, i sottaceti mai mangiati, lo spumante del discount, le cartelle della tombola ed una radio con la cassetta da riavvolgere col tappo della bic. Ridateci noccioline da sgranocchiare e mandarini da tirare. Ridateci un rullino per stampare foto sbiadite da conservare per sorridere di pettinature e felpe assurde. Ridateci l'ebrezza di tornare all'alba e pregare di non trovare i nostri svegli ed incazzati. Che chiedere non costa nulla. O spero, meno che da Gracco.. a dopo.

17.10.22

Io me la ricordo bene, l'estate del 1973 -- di Daniela Tuscano

 Fu, forse, l'ultima estate pienamente estate. Le estati dei bambini, interminabili, sprofondate, azzurre, che duravano mesi e non bastavano mai. Le estati delle nonne, delle letture e delle scoperte. Anch'io ero scoperta, il mio petto minuscolo e fiorito, ma acerbo e senza sesso. Per gli adulti. Talvolta anche per me. Ma non sempre. Nell'estate del '73 ero "fidanzata" con Giorgio, da #Vercelli. Durò due lunghi anni, sapeva di ghiaccioli multicolori, di spiagge libere, di short e di labbra. Sì, le labbra avevano un sapore. D'acqua tiepida e molle, rotonda e innocente. Lo vissi, quel momento di pace totale, di libertà spontanea, per cui anche i vecchi sorridevano, e per quel momento ancora vivo, viviamo tutti. E scrivevo, sempre e ovunque. Poi l'autunno, l'#austerity. Anche quella la ricordo bene. E
gli 
#anni70 dovrei raffigurarli così, strade nere, abiti ridicoli e strizzati con qualche retrogusto di povertà. Ma sono realtà parziali, da adulti. Durante l'austerity io sfrecciavo con la bici su carreggiate neglette come in una novella di #Buzzati. Ma senza inquietudine. In quello che ora è il #parconord e che un tempo tutti chiamavano #campovolo arrivavano le #pecore a pascolare. C'era solo prato anzi erba e nessuno si chiedeva perché, esisteva e basta. Ricordo il razionamento del #sale. Al suo posto in tavola comparivano contenitori a cilindro con esaltatori di sapidità, robaccia chimica. Che però sopportai e persino mi piacque, mi percepivo al centro d'una grande epopea di resistenza. Tanto poi l'estate sarebbe tornata, e con essa le letture, i componimenti. E Giorgio.

6.10.22

disparita di trattamento sulla gestione dei figli in caso di violenza di genere . i fatti di Roncadelle - di Patrizia Cadau

COLONNA SONORA

 A Roncadelle, un bambino di quattro anni costretto dalla legge e dagli assistenti sociali ad incontrare il padre che aveva già aggredito la madre, è stato sequestrato ieri dal padre mostro, che si è barricato con lui in casa, dopo essere scappato alla fine di un incontro protetto.Quindi, viviamo in un paese dove la violenza domestica denunciata da una madre vale come una banconota del Monopoli, e un padre, legittimato da una legge oscena è "comunque" il padre padrone e a nulla vale l'interesse di un minore.È stato il bambino a telefonare alle forze dell'ordine per dire che al momento sta bene.Al momento: perché ancora è sequestrato dal padre e sono in corso le trattative per "liberarlo".Queste le conseguenze estreme dell'indifferenza con cui noi donne veniamo prese in considerazione, ma soprattutto le conseguenze di una legge che nega la violenza e consente agli uomini violenti l'impunità, la sfrontatezza di sentirsi al di sopra di tutto e tutti, la persuasione di poter disporre della gente di casa come si vuole.Se una donna denuncia violenza in famiglia, per quale ragione non viene mai creduta, nonostante l'evidenza (l'uomo in questo caso aveva aggredito anche l'avvocata dell'ex moglie), perché non si mettono in protezione almeno i bambini anzi, li si costringe a passare tempo con questi padri di merda, violenti ? Ma allora ditecelo che dobbiamo morire, ditecelo prima che tanto non abbiamo speranza, che è tutto inutile, perché avete deciso che questo sistema deve funzionare così.Nei secoli.



Edit
Il bambino è stato liberato pochi minuti fa

28.9.22

la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi

 corriere  veneto del  22 settembre 2022 - 07:54

LA STORIA

Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati

                              di Andrea Priante








Marco Menin

«Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
Come un film
Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
I racconti di guerra
«Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
La verità
Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
Le testimonianze
La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.

  ed  proprio a lui  che  Marco Meni  foiglio  di Sergio    chiederà  scusa



Paola Dalli Cani  L'arena  22  \9\2022 

Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin

LA RIVELAZIONE ALLE ESEQUIE DEL PARTIGIANO
Trivellin, scuse ai funerali: «Papà ti fece deportare»
Ennio venne arrestato e internato a Mauthausen: a tradirlo era stato Sergio Menin. Ora il figlio ha chiesto perdono: le sue parole lette al cimitero e pubblicate su L’Arena




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Un sedicenne nei lager La storia di Ennio Trivellin
Addio a Ennio Trivellin, presidente dell'Aned sopravvissuto a Mauthausen




«Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
Il bisogno di chiedere scusa
Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
La commemorazione
Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento». 



2.9.22

La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio e La favola di «Nadia Petite»: da Nuoro alle sfilate a Miami

 La psichiatra sassarese Laura Fumagalli in Iraq per aiutare i sopravvissuti a un genocidio
In missione con Medici senza frontiere in un villaggio colpito dall’Isis. «Si portano dentro il ricordo dell’orrore»

 l’agosto di otto anni fa: seicento uomini vengono uccisi a colpi di kalashnikov, le donne rapite diventano schiave e merce di scambio. La piccola stoica minoranza religiosa Yazida, nell’Iraq settentrionale,  vittima di un sanguinoso genocidio da parte dei terroristi dell’Isis. Una tragedia raccontata da “L’ultima ragazza”, il libro del premio Nobel Nadia Murad, che da quell’orrore ; riuscita a salvarsi. Otto anni dopo, Laura Fumagalli ha raccolto, ma in maniera diversa, storie di vite – ancora – strappate alla quotidianità .
Laura Fumagalli (al centro) assieme al resto dell'équipe
impegnata nella missione in Iraq



Laura le ha ascoltate dai letti di ospedale di un piccolo villaggio. I pazienti di fronte, che forse nemmeno sanno di essere tali, e lei, psichiatra, a cercare di capirli e farsi capire in inglese. Laura, 42 anni, di Sassari, rientrata da poco da una missione umanitaria per conto di Medici senza frontiere a Sinuni, in Iraq.  partita lo scorso gennaio, era la sua prima volta. Dice di aver bisogno di qualche mese per metabolizzare l’esperienza.
La cosa più; sorprendente, Laura Fumagalli la dichiara subito:La comunità yazidi \ una minoranza etnoreligiosa che ha subito nel 2014 il genocidio da parte dell’Isis, ma nella loro storia ne ha subiti ben 74. E nonostante ciò continua a essere aperta e disponibile col prossimo. Le persecuzioni continuano, ora hanno gli echi delle bombe. Racconta Laura che durante il suo servizio di sei mesi presso una piccola struttura ospedaliera, ci sono stati due episodi di bombardamenti particolarmente pesanti da parte della Turchia. La prima volta ci è tato dato ordine di evacuare, si stava formando un corridoio di sicurezza ma era notte, una situazione pericolosa, e siamo rimasti nell’ospedale – dice la psichiatra –. La seconda volta è stato bombardato un edificio a un minuto da noi. In entrambi i casi vedevamo i miliziani sparare dai tettiLa guest house di soccorso era per\u0026ograve; marchiata Medici senza frontiere: I bombardamenti erano precisi, fatti coi droni, per questo sul tetto avevamo il logo cosi' da evitare di diventare un target direttLaura era l’unica italiana nella equipe di assistenza formata da medici di tutto il mondo, da Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e Grecia nel gruppo europeo, da Congo, Nigeria, Tanzania e Camerun in quello africano. Laura definisce la sua esperienza  e in quell’aggettivo ci sono situazioni vissute estremamente profonde. Ho visto una comunità molto forte, unita purtroppo nella tragedia. Il momento peggiore arrivava quando bisognava comunicare le patologie croniche, ma ho trovato persone che cercavano sempre di reagire, senza perdere la speranza o farsi sopraffare dallo sconforto. Un atteggiamento diverso rispetto a quello degli occidentaliCi sono quelle che restano impresse più di altre. Il camice da psichiatra costringe a guardare le cose dall’alto. Raccontarle ora significa invece rivestirle di emozioni: Molti non si sono ripresi dal genocidio. Una ragazza – ricorda Laura Fumagalli – era rimasta prigioniera dell’Isis per tre mesi e quando riuscita a tornare a casa era completamente psicotica. Era libera ma segnata nell’animo. Poi mi ha colpito moltissimo il caso di un uomo con disturbo post traumatico da stress: lui \u0026egrave; riuscito a scappare nelle montagne ma ha visto e vissuto cose che lo hanno segnato per sempre. Quando le famiglie fuggivano – racconta Laura – non avevano modo di portare nulla e alcuni lasciavano per strada i neonati. Quest’uomo continua ad avere gli incubi legati proprio a quell’immagine, dei bambini abbandonati nella fuga. E quest’uomo è  riuscito a buttare fuori i propri demoni attraverso le sedute psichiatriche, ma l’aiuto \u0026egrave; su tutti i fronti, sul campo ci sono diverse Ong e ognuna d\u0026agrave; il proprio apporto. Ci sono le sedute, i farmaci, la psicoterapia, l'ospitalita' il cibo. Un lavoro di squadra con l’obiettivo di rimettere insieme i pezzi di vite strappate. La domanda più; secca: ripartirebbe per una missione umanitaria? La risposta lo è ancora di più 




1.9.22

A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel 2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno

 A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel
2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno un parcheggio di fronte a una scuola in due campi da tennis pubblici e gratuiti, una rarità non solo per il capoluogo lombardo ma anche per il resto del Paese. Da allora, negli anni, si è formato un nucleo storico di frequentatori che si sono autonominati "TCT", ovvero "Tennis Club Trenno", che, tramite una divertente pagina Facebook, raccontano la gestione dei campi e associano - anche se informalmente - i nuovi arrivati. "Il nostro - racconta Fabio Maffini, tra i gestori della pagina e insegnante di tennis - non è un circolo ufficiale ma ideale, dove tutti possono associarsi. Il tennis ha un costo, da noi no". E così, fra inverni passati a spalare la neve dal campo e pomeriggi estivi tra volée o partite a carte, il club è arrivato fino a 140 iscritti. "Questo - argomenta Mauro, altro giocatore - è un luogo di vera socializzazione che tiene lontane le persone da bar, bicchierini, scommesse e via discorrendo".



 Il circolo ha una forte componente di pensionati anche se non mancano i più giovani. Rispetto a pallacanestro o calcio, sport molto praticati in aree urbane in maniera estemporanea e gratuita, il tennis non ha storicamente uno spirito "di strada". Cosa che, invece, al TCT è molto presente e non senza polemiche sulla gestione dei campi. "Per prevenire incidenti su chi deve giocare e chi no - dice Pino, storico frequentatore 69enne - c'è una regola non scritta. E cioè si fanno doppi, da due set e poi si lascia il campo. Chi non rispetta la regola non è benvenuto". Nel gruppo del TCT ci si dà soprannomi, come "Acciughina" o "Bradipo", c'è "L'Artennista" Francesco, che disegna caricature dei nuovi arrivati e i campi sono divisi in due: uno per i più bravi, l'altro per i principianti. Un piccolo esempio di comunità creata da un intervento amministrativo che, ai suoi membri, fa lanciare un messaggio: "Ce ne vorrebbe uno in ogni zona di Milano".
                                    di Andrea Lattanzi

  da  non confondersi  con  Il padel (dallo spagnolo pádel, a sua volta dall'inglese paddle )  sport con la palla di derivazione tennistica. Si pratica a coppie in un campo rettangolare e chiuso da pareti su quattro lati, con l'eccezione delle due porte laterali di ingresso. Il gioco si pratica con una racchetta dal piatto rigido con cui ci si scambia una pallina uguale a quella da tennis, ma con una pressione interna inferiore, che permette un maggior controllo dei colpi e dei rimbalzi sulle sponde. Non è da confondersi, quindi  ,  con il paddle tennis di cui è una variante. ..... qui altre  notizie   sul  suo derivato Padel

19.8.22

Nella casa famiglia di Napoli che ospita la bimba vittima della violenza dei genitori, segregata tra indicibili sofferenze: "Non parla, ma adesso ti guarda se la chiami"



da   repubblica  



Elsa a 9 anni "impara a vivere e ti stringe la mano": coccole, frullati e peluche







Ha il sorriso obliquo di chi per 9 anni di sorrisi non ne ha fatti a nessuno e non ne ha ricevuti. I fratellini che la nutrivano di nascosto dai genitori, con quel che avanzava loro di latte e biscotti, le dimostravano affetto così, preoccupandosi che sopravvivesse all'abbandono, nel migliore dei casi, e alla violenza cieca di genitori che l'hanno rifiutata da sempre. Picchiata, maltrattata, e chissà cos'altro.








Ma adesso Elsa, nome di fantasia, ha una casa colorata e pulita, attrezzata e piena di giocattoli. Un nido, finalmente, dove comincia per lei una nuova vita. Circondata da altri 5 bambini, il più grande ha 13 anni, e soprattutto dalle cure e dall'amore del gruppetto di educatori, infermieri e terapeuti che gestiscono "La casa di Matteo" a Napoli. Una struttura socio assistenziale che ieri ha aperto le porte a Repubblica.



Elsa ha finalmente, qui, la possibilità di rimettersi in piedi. "Camminerà? Correrà come tutti gli altri bambini? Non lo sappiamo - spiega Matteo Cudemo, il ventottenne coordinatore educativo della struttura - . Presto cominceremo un recupero attraverso la psicomotricità e la logopedia. Ma innanzitutto vogliamo che Elsa capisca cosa vuol dire essere amata".







E forse i primi passi in questa direzione la bimba li sta già facendo. Dopo che per 9 anni non è esistita agli occhi del mondo, pur essendo registrata all'anagrafe in un paese in provincia di Caserta, dopo che è diventata un fantasma per il sistema sanitario, come per quello scolastico o assistenziale, Elsa si guarda attorno curiosa del mondo.
Era un nulla lasciato a terra a marcire, gli arti spezzati in più punti per le percosse e saldatisi storti, le anche fuori sede, la schiena che non ha imparato a stare diritta, né in piedi né stesa. Ora ha un divano sul quale siede, circondata da cuscini che le impediscono di cadere, e finalmente un amico: è un altro ospite della struttura, ribattezzato "Kung fu Panda", un ragazzino forzuto quanto affettuoso che ha scelto proprio il posto vicino a lei, sul divano, per guardare e mostrarle i cartoni animati che vanno a manetta sul suo tablet.



La pietà di un vicino che ha segnalato la presenza della piccina alle autorità comunali ha permesso il giro di boa nella vita di Elsa. È intervenuto il Tribunale per i minori, poi per un mese la bambina è stata ricoverata nell'ospedale pediatrico Santobono (mentre i genitori sono finiti in galera e i fratellini affidati a una casa famiglia).
Infine, la struttura in cui Elsa ha cominciato persino a mangiare, dopo 9 anni di denutrizione. Non ha imparato ancora a masticare, ma sono bastati pochi giorni di omogeneizzati e frullati, come fosse un bebè, per farle apprezzare i sapori nuovi e destare in lei la curiosità per il cibo. "È un ottimo segno", dicono gli operatori che la seguono e che non disperano, sin dai prossimi giorni, di poterla "svezzare".



Elsa ha finalmente un lettino, arancione, con i pupazzi sulle lenzuola. Il suo recupero passa anche da lì, dalla normalità dell'infanzia che sin qui le hanno negato. E dall'affetto di chi, per la bimba è un miracolo, la pettina e le raccoglie i capelli in codini, la bacia e la coccola. Elsa avverte la loro delicatezza. E lo dimostra imparando, giorno dopo giorno, ad alzare lo sguardo quando si sente chiamare con un vezzeggiativo. La bimba non sa parlare. Non ha sin qui conosciuto parole d'amore.
Chiude gli occhi se incrocia sguardi estranei, ritrae il visino se le giunge una carezza, ma stringe la manina a pugno se al palmo le si accosta un dito, come il riflesso dei neonati che intenerisce i genitori. In Elsa è ben più di un riflesso. Alle dita dei giovani operatori della "Casa di Matteo" si aggrappa come a dei salvatori; e Flavia Crisci, educatrice di 24 anni, confessa: "Non ho esperienza della maternità, ma credo che l'amore per Elsa si accosti straordinariamente a quello che proverei per un figlio. Speriamo che qui Elsa possa rinascere". E dimenticare la casa dell'orrore e i genitori orchi.



La struttura socio assistenziale che la ospita è dedicata ai bambini fino a 13 anni non normodotati. Fu fondata cinque anni fa da Luigi Volpe - che aveva appena perso il figlio Matteo - e dall'attuale assessore al Welfare della giunta Manfredi, Luca Trapanese. Proprio Trapanese ha accompagnato il presidente della "Casa di Matteo", Marco Caramanna, a prendere la bambina in ospedale, una settimana fa. "Benvenuta piccola - ha detto l'assessore - da oggi inizia una nuova vita dove la violenza e l'incuria cedono il passo all'amore e alla cura".
E dopo i primi giorni in cui si spaventava per ogni presenza estranea, ora ci accoglie facendo smorfie che non raccontano timore, ma fiducia. La presenza dei visitatori non la turba, ma certo le coccole vanno centellinate per non infastidirla. Di certo quel sorriso obliquo racconta, oggi, che la bimba ha capito che qui la violenza non è di casa.

7.7.22

Un ragazzo si è riunito con la propria madre biologica dopo 20 anni; stavano lavorando nello stesso posto

 lo so che    sono noioso   o sembrerò un vecchio  ma  essendo cresciuto  con anime che  trattavano argomenti  simili   e con  racconti   simili da parte dei nonni  specie quelli paterni  ,  certe  storie mi  affascinano ancora  .


 da  https://curiosandosimpara.com/2022/06/25/

Un ragazzo si è riunito con la propria madre biologica dopo 20 anni; stavano lavorando nello stesso posto

Benjamin Hulleberg è un ragazzo di 21 anni che vive nello stato dello Utah insieme alla sua famiglia adottiva da quando aveva solamente pochi giorni di vita. Angela e Brian Hulleberg, i suoi genitori adottivi, non gli hanno mai nascosto le sue origini e hanno sempre espresso la loro gratitudine nei confronti di Holly, la ragazza che l’aveva messo al mondo e che molti anni prima, il giorno del Ringraziamento, aveva dovuto separarsi da lui.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Per questo, Benjamin ha sempre avuto il desiderio di poter incontrare la propria madre biologica, tuttavia, non conoscendo nemmeno il suo congnome era consapevole che non sarebbe stata una ricerca facile. Nonostante questo, con l’appoggio di Angela e Brian si iscrisse ad un registo di adozioni e fece il test del DNA con la speranza di ritrovare mamma Holly.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Quando nacque Benjiamin, Holly aveva solamente 16 anni e per questo si vide costretta a fare una scelta molto difficile, ma, nonostante questo, il suo bambino continuava a rimanere al centro dei suoi pensieri. Per i primi tre anni dopo l’adozione gli Hulleberg avevano continuato ad inviarle lettere e foto, in seguito, quando l’agenzia di adozioni a cui si era rivolta venne chiusa, non ebbe più alcuna notizia.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Non riuscendo a darsi pace, Holly provò a cercare il proprio figlio sui social network e riuscì a trovarlo nel 2019, quando il ragazzo aveva circa 18 anni. Nonostante le sue ricerche fossero andate a buon fine, Holly non aveva il coraggio di entrare come un fulmine a ciel sereno nella vita di quel giovane che aveva tanti progetti e sogni da realizzare, per questo, inizialmente decise di non contattarlo e di “osservarlo da lontano”.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Tuttavia, il 19 novembre del 2021, il giorno del 20° compleanno di Benjamin, la donna ha deciso di inviargli un messaggio per fargli tanti auguri e, con sua grande sorpesa, il ragazzo non ha perso tempo e le ha chiesto di potersi incontrare il prima possibile.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Così, la sera successiva la famiglia di Benjamin e quella di Holly si sono incontrati a cena ed è stata per tutti un’emozione unica. Durante l’incontro, oltre a lacrime di gioia, baci e abbracci, madre e figlio si sono resi conto di lavorare nello stesso posto da almeno due anni. Infatti, entrambi sono impiegati presso il St. Mark’s Hospital di Salt Lake City, Holly come assitente medico presso il reparto di cardiologia, mentre Benjamin come volontario presso l’unità di terapia intensiva neonatale.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Durante un’intervita Holly ha raccontato che: “Ogni mattina entro dal reparto di maternità per andare a lavoro. Di fatto, sono passata direttamente dalla terapia intensiva neonatale ogni singolo giorno. Abbiamo parcheggiato nello stesso garage e siamo stati sullo stesso piano, non avevamo idea di essere così vicini“.

Instagram/St. Mark’s Hospital

Da quando si sono riuniti, Benjamin ha stretto un legame anche con i suoi due fratellastri minori e, almeno una volta a settimana, si incontra con Holly per bere un caffè e per fare due chiacchiere insieme a lei.


Manuale di autodifesa I consigli dell’esperto anti aggressione Antonio Bianco puntata n LX IMPARATE A “LEGGERE” IL LINGUAGGIO DEL CORPO

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