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28.9.22

la storia di Marco Menin che scopre suo padre Ennio fascista e torturare e deportatore di partigiani e chiede scusa a Ennio Trivellin fatto deportare da suo padre nei lager l'unico a tornarvi

 corriere  veneto del  22 settembre 2022 - 07:54

LA STORIA

Mio padre, spia dei fascisti: un segreto tenuto per tutta la vita
Verona, a 64 anni il professore Marco Menin scopre per caso il ruolo del genitore che s’infiltrò tra i partigiani e rivelò i loro nomi alle camicie nere. Furono uccisi o deportati

                              di Andrea Priante








Marco Menin

«Nel 2020 ero a casa, davanti al computer. Quasi per gioco, mi è venuta l’idea di provare a digitare il nome di mio padre sul motore di ricerca. È così che il suo segreto è venuto a galla. Su internet c’era tutto: i verbali, le testimonianze, le sentenze di condanna. A 64 anni ho scoperto che l’uomo che per tutta la vita avevo sempre considerato solo come un genitore, un marito e un nonno amorevole, in realtà era il responsabile delle torture, della deportazione e della morte di decine di persone».
Come un film
Sembra un film, di quelli che provano a raccontare le ferite della guerra e dei vagoni che da Bolzano portavano i prigionieri a Mauthausen. Invece a parlare è l’ex professore di Fisica di un istituto tecnico di Verona oggi in pensione, Marco Menin. Suo padre Sergio, classe 1921, è scomparso 25 anni fa. «E io gli sono stato vicino durante la malattia. Per giorni abbiamo parlato di tutto, mi ha raccontato cose che non sapevo. Eppure, perfino in punto di morte, mi ha nascosto la sua vera storia. È questa la cosa che più di tutte non riesco a perdonargli». In realtà le storie - quelle che per la prima volta accetta di raccontare a un giornale – sono due: c’è quella di un giovane fascista che durante la Seconda guerra mondiale si infiltrò tra i partigiani per poi condannarli a finire nei campi di concentramento, e quella di un figlio che quasi ottant’anni dopo scopre tutto e si ritrova a mettere in discussione le certezze che l’hanno sempre accompagnato.
I racconti di guerra
«Era capitato che papà mi parlasse della guerra. Di rado, a dire il vero, e anche quel poco era angosciante. Mi disse che a 18 anni fu arruolato nella Divisione Centauro, come autista, e poi trasferito sul fronte balcanico, come capocarro su un M13. Mi narrava pure del suo ritorno a casa, dopo l’8 settembre del ‘43, come fosse una scampagnata: alla guida del suo carro armato attraversò Jugoslavia e Triveneto fino a parcheggiare il mezzo militare sulle Rigaste di San Zeno, a Verona». E dopo? «Nient’altro. I suoi aneddoti si interrompevano lì». Gli anni del dopoguerra furono quelli della ricostruzione. Sergio Menin – senza mai nascondere le sue inclinazioni per la Destra - aprì una concessionaria d’auto in pieno centro, poi un’azienda che si occupava dell’installazione e della manutenzione di ascensori. «Era un uomo “normale”, come tutti gli altri. Ricordo che lo vedevamo poco: partiva al mattino, quando io ancora dormivo, e tornava la sera tardi. Però era generoso, simpatico. Una volta donò il sangue salvando la vita a una mamma e alla sua bambina. Un brav’uomo, almeno questa è l’immagine che tutti avevano di lui».
La verità
Dai documenti rintracciati sul web, Marco Menin ha scoperto che dopo l’Armistizio suo padre – col nome di battaglia «Uccello» - entrò a far parte della divisione Pasubio. «Si tratta di una delle più nutrite brigate partigiane che, guidata dal comandante Giuseppe Marozin, combattè tra Vicenza e Verona» spiega il ricercatore Salvatore Passaro, autore di un approfondito studio («Don Carlo Simionato, il cappellano dei forti Veronesi», Cierre edizioni) sulla Resistenza veneta. «Nel settembre del ’44 un massiccio rastrellamento nazifascista, denominato “Operazione Timpano”, portò al suo annientamento e all’uccisione di decine di partigiani. Non è chiaro chi fece i loro nomi ai repubblichini, ma il sospetto è che Sergio Menin possa avere avuto un ruolo». È ciò che pensa anche Marco Menin: «Credo che già all’epoca mio padre fosse un infiltrato al soldo dell’Ufficio politico investigativo della Rsi».
Le testimonianze
La certezza, invece, riguarda i fatti successivi. Scampato agli scontri, il partigiano «Uccello» entrò a far parte del battaglione Montanari. E qui le ricostruzioni degli storici, sulla base delle testimonianze e dei processi che seguirono (e che portarono a tre condanne a morte nei confronti di Sergio Menin) non lasciano dubbi: «Papà fu arrestato dai fascisti assieme ad altri compagni di lotta. Pochi giorni dopo si ripresentò tra le fila partigiane, raccontando di essere riuscito a fuggire. In realtà aveva fornito ai repubblichini una cinquantina di nomi dei componenti del battaglione». I nazifascisti li catturarono, alcuni furono passati per le armi, altri deportati nei campi di concentramento. Ne sopravvissero una manciata, e tra loro il veronese Ennio Trivellin, staffetta partigiana morto la scorsa settimana a 94 anni: ne aveva appena 16 quando su un carro bestiame fu trasferito a Mauthausen.

  ed  proprio a lui  che  Marco Meni  foiglio  di Sergio    chiederà  scusa



Paola Dalli Cani  L'arena  22  \9\2022 

Trivellin, testimone dei lager, morto a 94 anni e la lettera a L'Arena di Marco Menin

LA RIVELAZIONE ALLE ESEQUIE DEL PARTIGIANO
Trivellin, scuse ai funerali: «Papà ti fece deportare»
Ennio venne arrestato e internato a Mauthausen: a tradirlo era stato Sergio Menin. Ora il figlio ha chiesto perdono: le sue parole lette al cimitero e pubblicate su L’Arena




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«Con lui scompare l’ultimo veronese testimone diretto della deportazione, e oramai è necessario capire come noi, qui e oggi, possiamo dare continuità ad una memoria fondante per la nostra democrazia. Nella consapevolezza che era possibile fare la scelta giusta e quella sbagliata: dobbiamo rispettare le memorie di tutte le persone che hanno vissuto quella tragedia, ma senza dimenticare i crimini di chi ha scelto di riempire i vagoni che portavano ai lager».
Il bisogno di chiedere scusa
Su uno di quei vagoni ci era stato spinto anche Ennio Trivellin nell’ottobre del 1944, reo di aver messo i suoi sedici anni a servizio della Brigata Montanari. Ci era stato spinto su delazione, e del nome dell’uomo che si presentava come Uccello, Trivellin non aveva mai fatto segreto. A distanza di 78 anni, prima martedì al Cimitero monumentale di Verona e ieri con una semplice lettera pubblicata nello spazio dei lettori de L’Arena, Marco Menin, che di Uccello è il figlio, ha voluto pubblicamente rendere omaggio a quel ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, porgendogli pubblicamente «quelle scuse che mio padre non aveva trovato il coraggio di fargli prima di morire».Personalmente lo aveva fatto due anni fa, scegliendo di presentarsi ad un uomo che non sapeva come affrontare ma dal quale era stato accolto «con un sorriso dolcissimo che porterò con me come uno dei ricordi più cari». Avrebbe potuto tacere, Marco Menin, avrebbe potuto ignorare la scoperta che lo aveva sconvolto: «Quel delatore aveva un nome che ho scoperto solo due anni fa: quello di mio padre Sergio, che quella guerra civile aveva scelto di combatterla dalla parte sbagliata della storia». C’erano state le fughe, c’erano stati i processi e poi le amnistie: tutto cancellato, tranne la memoria di Ennio, che da una quindicina di anni aveva accettato la sua condanna a ricordare e a tenere viva la memoria di ciò che era stato e di chi non era tornato, e, più tardi, quella di Marco Menin.
La commemorazione
Così, dopo la celebrazione composta in cui Ennio Trivellin, da presidente dell’Associazione nazionale degli ex deportati di Verona, è stato salutato tra le arcate della chiesa di Santo Stefano, la commemorazione spostatasi al camposanto è stata l’occasione per riannodare i fili: le parole di un figlio che si scusa nel nome del padre e quelle della nipote di un deportato che ha scelto l’impegno in prima persona (Tiziana Valpiana, nipote di Gracco Spaziani e vice presidente dell’Aned scaligera), tratteggiano le tante eredità di Ennio, l’ex studente, il partigiano Gervasio, il partigiano Nemo.
Tanti studenti con l'urgenza di opporsi al fascismo
Quanti nomi attorno ad un uomo che, raccontando, ha restituito a Verona la memoria di don Carlo Signorato e ha alimentato la fiamma della ricerca storica che ha permesso a studiosi nati trent’anni dopo la liberazione di restituirla a Francesco Chesta ed Eliseo Cobel del Galileo Ferraris, la sua stessa scuola, di Valentino Rosà e Lino Cirillo dello Scipione Maffei, Natale Mihel del Pindemonte Lorgna (ultimo superstite da anni trasferito a Stoccolma), Battista Ceriana del Messedaglia e ai tanti studenti che, come lui, scelsero l’impegno. «Celebriamo quel sedicenne consapevole dell’urgenza di opporsi al fascismo e contrastare l’invasione nazista, ma inconsapevole di quali orrori avrebbe visto», le parole di Valpiana, «una vita diventata testimonianza ed una grande eredità, immensa e terribile: raccogliere il testimone e continuare l’impegno contro l’oppressione, la dittatura, il razzismo e lo sfruttamento». 



6.3.17

La Germania oscura Derrick E l’Italia ride con gli ex Salò La tv pubblica cancella l’ispettore "nazista" Da noi i "repubblichini" hanno fatto storia e cultura



Libro consigliato Il voltagabbana (1963) autobiografico di Davide Lajolo in cui l'autore analizza le ragioni che lo portarono a schierarsi, dopo una giovinezza fascista, dalla parte della Resistenza.




in un regime che ha in mano ogni aspetto delle persone dalla nascita o alla morte è pressoché difficilissimo se non impossibile distinguere chi vi aderì per convinzione o per opportunismo e chi per un peccato di gioventù . Ora qualunque sia il motivo , io non me la sento , salvo che non abbia fatto crimini atroci ( genocidi di massa , violenze brutali , ecc ) , di condannare la scelta tanto da fare come è successo a Horst Tappert noto meglio come l'ispettore Derrik . 












Addio ispettore Derrick. Zdf, la tv pubblica tedesca, ha annunciato che il celebre telefilm poliziesco non farà più parte della loro programmazione. Motivo? A 19 anni Horst Tappert, l’attore protagonista della serie, ha fatto parte delle Waffen-SS, sanguinaria divisione dei soldati di Adolf Hitler. Troppo per la coscienza della Germania. Tappert, fortuna sua, non assisterà al misfatto, essendo morto nel 2008. Ma è da quando la notizia del suo arruolamento fra i soldati nazisti è venuta a galla, nel 2013, che per la sua anima non c’è più stata pace. Ora, una volta premesso che questo tipo di trattamento è riservato all’ispettore gentile ma non al film «Il tamburo di latta», che continuerà ad essere trasmesso dalla Zdf nonostante sia tratto dal bestseller di Günter Grass, premio Nobel della letteratura che fece parte della Wehrmacht, le forze armate tedesche, quello che occorrerebbe domandarsi è quanti nomi in Italia dovrebbero essere cancellati da tv, giornali e librerie se usassimo lo stesso metro di giudizio dei nostri amici tedeschi.


DA FO AD ALBERTAZZI

Nel nostro tollerante Paese, infatti, ci sono attori, scrittori, scienziati, poeti, filosofi e giornalisti che, grazie al cielo, continuano ad avere la visibilità che meritano nonostante siano stati seguaci di Benito Mussolini, seguendolo, a volte, fino alla edificazione della Repubblica di Salò. Prendiamo l’astrofisica Margherita Hack, morta nel 2013. Pochi anni fa ammise di aver giurato fedeltà al regime fascista perché voleva la medaglia vinta in atletica. Poi se ne pentì. «Fu un atto di viltà», disse, ma nessuno le ha mai strappato dal collo quel premio o si è mai sognato di levarle la cattedra universitaria. E che dire di Dario Fo, drammaturgo premio Nobel per la letteratura, che da decenni spadroneggia nei teatri italiani e pontifica sullo scibile umano senza che qualcuno gli rinfacci la sua militanza, come paracadutista, fra i Repubblichini. Lo stesso dicasi della leggenda del teatro Giorgio Albertazzi, tenente nella formazione «Tagliamento» di Salò. Se con l’avvento della Repubblica gli avessimo riservato il «servizio Derrick», la storia italiana avrebbe rinunciato al talento di uno dei suoi miti.


SENZA «SUPERCAZZOLA»

Il regime istaurato da Mussolini dopo il settembre del ’43 nel paesino del bresciano si avvaleva anche delle Brigate nere, un corpo paramilitare fascista in cui militò il grande Ugo Tognazzi. In buona sostanza, abbiamo rischiato di non vedere mai il conte Mascetti utilizzare la sua «supercazzola» col diligente vigile urbano. Allo stesso modo ci saremmo privati di Marcello Mastroianni, anche lui combattente nella Repubblica di Salò. Addio, dunque, alla sua indimenticabile faccia di fronte a una Sofia Loren che si spoglia in «Ieri, oggi, domani», adieu a «Divorzio all’italiana», tanti saluti a «Il bell’Antonio». E che dire di Raimondo Vianello e Walter Chiari, che fecero parte della X-Mas, corpo militare dei Repubblichini? Impossibile immaginare la televisione italiana senza «Casa Vianello» o l’imbranato Tarzan; inimmaginabile il nostro cinema senza il protagonista di «Bellissima», il capolavoro di Luchino Visconti con Anna Magnani, e senza il balbuziente signor Silence in «Falstaff», diretto da Orson Welles. Nella X-Mas, ad appena 17 anni, entrò anche Hugo Pratt, creatore di Corto Maltese, il più noto personaggio del fumetto italiano, forse mondiale. Rinunciarci per il suo passato a Salò? Neanche per sogno!


POETI E FILOSOFI

Di fede fascista fu anche il giornalista e scrittore Giorgio Bocca. In un’epica intervista concessa a Pietrangelo Buttafuoco nel lontano 1999 disse: «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti, mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che, diversamente da me, non se l’erano cavata». Fortunatamente, noi italiani del Bocca in camicia nera non ci siamo vergognati. Meglio averlo avuto, per poterlo leggere, che non esserci vantati per averlo consegnato all’oblio cui d’ora in poi sarà destinato Derrick. E ci facciamo da soli l’elogio anche per non aver censurato Dino Buzzati, autore de «Il deserto dei tartari», che pure militò nella Repubblica sociale. Di ferrea fede mussoliniana fu anche il poeta Giuseppe Ungaretti, giunto a definirsi «fascista in eterno», non senza prima aver affermato, fra un documento e un appello a sostegno del regime, che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore». Eppure delle sue poesie continuiamo, sia gloria a Dio, a goderne liberamente. Così come di quelle del fascista Luigi Pirandello. Il filosofo Norberto Bobbio, che fu anche storico, giurista e politologo, da studente si iscrisse al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi si tenne in tasca la tessera del partito. Per poter insegnare si rivolse, «con devota fascista osservanza», ai vertici del regime. Ciò avrebbe forse dovuto indurci a fare delle sue opere un bel falò? Il Signore ce ne scampi. Un Capo dello Stato partigiano, Sandro Pertini, lo nominò persino senatore a vita.


E MONTANELLI?

Il fascismo di Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti italiani, non è mai stato un segreto. «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione – disse - non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». E fu sempre Montanelli a scrivere che, «quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi». Con la L, non a caso, maiuscola. Chi mai, potendo tornare indietro, cancellerebbe i suoi articoli per vendicarsi del suo passato? Decisamente fascista fu anche Eugenio Scalfari, che chiamava Giuseppe Bottai, intellettuale e gerarca del fascismo, «il mio Peppino». Se per caso avessimo voluto punirlo per tanto errato ardire, chi mai avrebbe potuto fondare «La Repubblica»? Infine Enzo Biagi. Come Montanelli collaborò a Primato, un periodico diretto proprio da Bottai, e alla rivista fascista Architrave. Fu Biagi a recensire «Suss l’ebreo», un film molto amato da Heinrich Himmler, l’«architetto» del genocidio degli ebrei, per la sua viscerale propaganda antisemita. Epurare Biagi per i suoi spiacevoli peccati? Meglio che rimanga solo una tenace tentazione 



tentazione.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa Agitu Ideo Gudeta, la regina delle capre felici.

Il 29 dicembre 2020 veniva uccisa la regina delle capre felici.È stata ferocemente uccisa Agitu, la regina delle capre felici, con un colpo...