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21.11.21

Chi ha paura dei partigiani? visto che la storica Chiara Colombini presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese.


Chi ha paura dei partigiani?
Una storica presenta il suo libro che parla di Resistenza e fuori dalla sala c’è un cordone di polizia a garantirne la sicurezza. È successo pochi giorni fa in provincia di Varese. Ed è successo perché c’è un’aria malsana. Quella di quando si rompono gli argini e anche il peggio, improvvisamente, si può dire

di Mario Calabresi





Prima immagine: una ricercatrice che ha dedicato la sua vita alla storia delle formazioni partigiane presenta un libro in cui affronta i luoghi comuni più diffusi sulla Resistenza. È stata invitata dalla sezione locale dell’ANPI. Fuori, uno schieramento di polizia e carabinieri garantisce che la serata si svolga con tranquillità. Una comunità neonazista attiva nella zona ha attaccato tre striscioni di contestazione. Azzate, provincia di Varese, 12 novembre 2021.
Seconda immagine: due giorni prima a Torino muore una donna che per tutta la vita si è dedicata a far funzionare l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza "Giorgio Agosti". Si chiamava Dada Vicari e ha coltivato la memoria di quelli che si sono battuti e sono caduti per la libertà, come suo padre Michele, ferroviere, partigiano, fucilato il 18 aprile 1945, il giorno dello sciopero generale di Torino, ad appena una settimana dalla liberazione dal nazifascismo.



Il panorama delle Langhe, raccontato da Beppe Fenoglio nel suo romanzo “Il Partigiano Johnny”


A legare le due immagini, i fantasmi che tornano mentre un pezzo prezioso di memoria ci lascia, è Chiara Colombini, 48 anni, autrice del libro Anche i partigiani però.... . È lei che ha avuto bisogno della scorta di polizia e carabinieri per presentare il suo volume, che è proprio dedicato a Michele e Dada Vicari. «Anch’io lavoro all’Agosti, dove sono raccolte tutte le carte delle formazioni partigiane del Piemonte, e Dada mi aveva adottato, era una persona di grande umanità e teneva sotto la sua ala tutti i giovani che passavano dall’Istituto».
Chiara è stata in provincia di Varese per un piccolo giro di presentazioni; le avevano detto che ci sarebbero potuti essere problemi, ricordando la dura contestazione che due anni prima un nutrito gruppo di neofascisti fece contro lo scrittore Francesco Filippi, autore di Mussolini ha fatto anche cose buone, un altro libro sul dilagare di luoghi comuni e chiacchiericcio che in tempi di disinteresse, ignoranza e ritorni di fiamma vengono presentati come verità storiche.
«Mi avevano avvisato, ma voglio sottolineare che è stata una tre giorni deliziosa, con sale piene e belle discussioni, ma lascia perplessi che per presentare un libro ci voglia la polizia e questo mi sembra un segnale non proprio rasserenante. Non per me, anzi lo striscione che mi riguarda non l’ho considerato insultante e nemmeno minaccioso. Ma lo sai cosa c’era scritto, usando una rima banale? “Chiara Colombini, mangia bambini”. Mi viene da ridere. La mia preoccupazione è invece legata alla situazione più generale, al fatto che un gruppo neonazista riesca a condizionare le attività culturali di una zona e richieda la mobilitazione delle forze dell’ordine settantasei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale».


Chiara Colombini in una illustrazione di Marta Signori


Quando ho letto la notizia, in un trafiletto nei giornali locali e in una comunicazione dell’Istituto Ferruccio Parri, del cui comitato scientifico Chiara fa parte, avevo appena finito di trascrivere la mia conversazione con Javier Cercas (qui trovate il podcast) e mi risuonava in testa la sua frase contro “la dittatura del presente”, quel modo di vivere immersi in ciò che accade nell’istante, dimenticando ciò che è successo soltanto una settimana prima: «Il passato di cui esiste ancora memoria e testimonianza non è passato, ma fa parte del presente, se ce ne dimentichiamo viviamo un tempo mutilato».
Ho cercato Chiara Colombini perché mi sembrava che la sua vicenda e quello che mi aveva detto Cercas si parlassero, volevo capire il suo lavoro e grazie a quale scintilla fosse nata la passione per la Resistenza: «È accaduto leggendo Fenoglio. Io sono nata ad Alba e quei luoghi delle Langhe mi sono familiari, ma i suoi libri mi hanno lasciato soprattutto la voglia di conoscere i protagonisti oltre il romanzo e così ho incontrato la figura di Nuto Revelli che mi ha spalancato un mondo. Mi ha fatto capire la complessità e le difficoltà di una scelta come quella partigiana nell’estate del 1943. Revelli era un militare di carriera, un ufficiale degli Alpini ed era andato volontario in Russia. Non era stato antifascista nel ventennio, ma era tornato con ferite umane profondissime e con una voglia di ribellione fortissima. Diventò un capo partigiano leggendario, ma con grande onestà intellettuale ha sempre ricordato la difficoltà di quella scelta. Io studiavo filosofia ma leggere i suoi ricordi mi ha fatto nascere la domanda fondamentale: io che cosa avrei fatto?».
E così la vita di Chiara ha preso la sua direzione che l’ha spinta oggi a confrontarsi con i luoghi comuni che si sono fatti sempre più spazio negli ultimi venticinque anni, ha scelto di fare un libro divulgativo, con un titolo provocatorio, non per storici, ma per tutti.





«Oggi il discorso contrario alla Resistenza è radicatissimo, ha trovato la sua capacità di saltare il fosso della memoria neofascista e di diventare di più ampia diffusione all’inizio degli Anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e della Prima Repubblica. In questa nuova fase si è fatta strada l’idea che l’antifascismo e la Resistenza non potessero più essere il punto di legittimazione della Repubblica e oggi viviamo immersi in un clima che dà pessimi segnali. Se sia fascismo o no, quello che torna non lo so, ma quello che colgo è un clima che non mi piace. Non nasce dalla denigrazione della Resistenza ma è qualcosa di più complesso, è come se si fossero rotti gli argini e così, ora, è possibile fare affermazioni e dire cose che non si sarebbero mai immaginate. Penso ai discorsi razzisti prima di tutto».
Così Chiara è ripartita da lontano e nel suo libro in ogni capitolo affronta una delle accuse mosse ai partigiani, una delle semplificazioni utili a sporcare e denigrare: “Erano tutti rossi”, “Inutili e vigliacchi”, “La violenza è colpa loro”, “Rubagalline”, “Assassini”.
«Nel confrontarmi con i luoghi comuni non cercavo delle giustificazioni e nemmeno di santificare i partigiani, ma volevo raccontare una storia fatta da esseri umani, che ovviamente non erano perfetti e avevano insieme contraddizioni, slanci meravigliosi e limiti. Quello che io amo ricordare è che ci sono state persone che nel momento più nero della disperazione di una guerra di occupazione, dopo vent’anni di dittatura, abbiano trovato un motivo per reagire e il coraggio di salire in montagna».


Una lapide commemorativa nel territorio di Mango (CN). Tre dei contadini qui ricordati, catturati in un rastrellamento dalle truppe nazifasciste e poi fucilati, avevano solo 16 anni


Leggendo il libro di Chiara Colombini e parlando con lei ci si rende conto che tutto il revisionismo, le accuse e i famosi luoghi comuni partono da un dato falsato: si dimentica che c’erano i nazisti, si dimenticano le atrocità della guerra. «Questo è l’elemento fondamentale dei giudizi liquidatori: l’azzeramento del contesto storico e il tentativo di giudicare il passato con il metro dell’oggi. Se non si capisce quale era la situazione, allora la scelta armata è inconcepibile».
Per ripartire davvero dall’inizio, come fa quando incontra i ragazzi delle scuole, è necessario rispondere alla domanda su chi fossero i partigiani: «Erano persone molto diverse tra loro, per provenienza sociale, politica, geografica e con idee spesso opposte sul presente e sul futuro, ma che in un momento di grandissima precarietà e incertezza, in un momento in cui la sopraffazione era legge, hanno reagito. Certo sono stati una piccola minoranza i partigiani in armi, ma più grande era l’area che li sosteneva. Una larga parte era rappresentata dai più giovani, c’erano anche trentenni e quarantenni con una formazione politica alle spalle, già antifascisti o che lo erano diventati nel corso della guerra ma soprattutto tanti ragazzi, nati e cresciuti sotto il fascismo e senza un’idea politica ben precisa. Uno degli aspetti che mi affascina di più è questa natura composita così ricca. E non erano tutti comunisti. Certo la risposta al luogo comune non deve portare a sminuire il ruolo delle Brigate Garibaldi, che erano la metà dei combattenti, ma è scorretto stabilire un rapporto organico tra formazioni partigiane e partiti politici».


Dalla Cascina Langa la vista spazia su tutta la pianura cuneese e sul Monviso


Ogni storia ha un luogo di elezione, un punto in cui le cose sembrano avere un senso più nitido e vero, per Chiara quel luogo è la Cascina Langa narrata da Fenoglio nel Partigiano Johnny, si trova a 700 metri d’altezza tra i paesi di Benevello e Trezzo Tinella, da qui si apre un panorama mozzafiato su tutta la pianura e sulla corona delle Alpi. Per il partigiano Johnny quella cascina solitaria era un rifugio, il luogo degli amici e della cagna lupa.
Anch’io, quando un giorno ci sono arrivato, portato da Angelo Gaja che voleva farmi capire l’essenza dell’Alta Langa, mi sono innamorato di quel luogo e ho riletto lo scrittore che imparai ad amare all’università per quella sua lingua asciutta ed essenziale che definisce alla perfezione ogni cosa.


  stavolta    oin sottofondo  non  c'è una  canzone    ma  un intero  album

Appunti Partigiani” - Modena City Ramblers.

6.3.17

La Germania oscura Derrick E l’Italia ride con gli ex Salò La tv pubblica cancella l’ispettore "nazista" Da noi i "repubblichini" hanno fatto storia e cultura



Libro consigliato Il voltagabbana (1963) autobiografico di Davide Lajolo in cui l'autore analizza le ragioni che lo portarono a schierarsi, dopo una giovinezza fascista, dalla parte della Resistenza.




in un regime che ha in mano ogni aspetto delle persone dalla nascita o alla morte è pressoché difficilissimo se non impossibile distinguere chi vi aderì per convinzione o per opportunismo e chi per un peccato di gioventù . Ora qualunque sia il motivo , io non me la sento , salvo che non abbia fatto crimini atroci ( genocidi di massa , violenze brutali , ecc ) , di condannare la scelta tanto da fare come è successo a Horst Tappert noto meglio come l'ispettore Derrik . 












Addio ispettore Derrick. Zdf, la tv pubblica tedesca, ha annunciato che il celebre telefilm poliziesco non farà più parte della loro programmazione. Motivo? A 19 anni Horst Tappert, l’attore protagonista della serie, ha fatto parte delle Waffen-SS, sanguinaria divisione dei soldati di Adolf Hitler. Troppo per la coscienza della Germania. Tappert, fortuna sua, non assisterà al misfatto, essendo morto nel 2008. Ma è da quando la notizia del suo arruolamento fra i soldati nazisti è venuta a galla, nel 2013, che per la sua anima non c’è più stata pace. Ora, una volta premesso che questo tipo di trattamento è riservato all’ispettore gentile ma non al film «Il tamburo di latta», che continuerà ad essere trasmesso dalla Zdf nonostante sia tratto dal bestseller di Günter Grass, premio Nobel della letteratura che fece parte della Wehrmacht, le forze armate tedesche, quello che occorrerebbe domandarsi è quanti nomi in Italia dovrebbero essere cancellati da tv, giornali e librerie se usassimo lo stesso metro di giudizio dei nostri amici tedeschi.


DA FO AD ALBERTAZZI

Nel nostro tollerante Paese, infatti, ci sono attori, scrittori, scienziati, poeti, filosofi e giornalisti che, grazie al cielo, continuano ad avere la visibilità che meritano nonostante siano stati seguaci di Benito Mussolini, seguendolo, a volte, fino alla edificazione della Repubblica di Salò. Prendiamo l’astrofisica Margherita Hack, morta nel 2013. Pochi anni fa ammise di aver giurato fedeltà al regime fascista perché voleva la medaglia vinta in atletica. Poi se ne pentì. «Fu un atto di viltà», disse, ma nessuno le ha mai strappato dal collo quel premio o si è mai sognato di levarle la cattedra universitaria. E che dire di Dario Fo, drammaturgo premio Nobel per la letteratura, che da decenni spadroneggia nei teatri italiani e pontifica sullo scibile umano senza che qualcuno gli rinfacci la sua militanza, come paracadutista, fra i Repubblichini. Lo stesso dicasi della leggenda del teatro Giorgio Albertazzi, tenente nella formazione «Tagliamento» di Salò. Se con l’avvento della Repubblica gli avessimo riservato il «servizio Derrick», la storia italiana avrebbe rinunciato al talento di uno dei suoi miti.


SENZA «SUPERCAZZOLA»

Il regime istaurato da Mussolini dopo il settembre del ’43 nel paesino del bresciano si avvaleva anche delle Brigate nere, un corpo paramilitare fascista in cui militò il grande Ugo Tognazzi. In buona sostanza, abbiamo rischiato di non vedere mai il conte Mascetti utilizzare la sua «supercazzola» col diligente vigile urbano. Allo stesso modo ci saremmo privati di Marcello Mastroianni, anche lui combattente nella Repubblica di Salò. Addio, dunque, alla sua indimenticabile faccia di fronte a una Sofia Loren che si spoglia in «Ieri, oggi, domani», adieu a «Divorzio all’italiana», tanti saluti a «Il bell’Antonio». E che dire di Raimondo Vianello e Walter Chiari, che fecero parte della X-Mas, corpo militare dei Repubblichini? Impossibile immaginare la televisione italiana senza «Casa Vianello» o l’imbranato Tarzan; inimmaginabile il nostro cinema senza il protagonista di «Bellissima», il capolavoro di Luchino Visconti con Anna Magnani, e senza il balbuziente signor Silence in «Falstaff», diretto da Orson Welles. Nella X-Mas, ad appena 17 anni, entrò anche Hugo Pratt, creatore di Corto Maltese, il più noto personaggio del fumetto italiano, forse mondiale. Rinunciarci per il suo passato a Salò? Neanche per sogno!


POETI E FILOSOFI

Di fede fascista fu anche il giornalista e scrittore Giorgio Bocca. In un’epica intervista concessa a Pietrangelo Buttafuoco nel lontano 1999 disse: «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti, mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che, diversamente da me, non se l’erano cavata». Fortunatamente, noi italiani del Bocca in camicia nera non ci siamo vergognati. Meglio averlo avuto, per poterlo leggere, che non esserci vantati per averlo consegnato all’oblio cui d’ora in poi sarà destinato Derrick. E ci facciamo da soli l’elogio anche per non aver censurato Dino Buzzati, autore de «Il deserto dei tartari», che pure militò nella Repubblica sociale. Di ferrea fede mussoliniana fu anche il poeta Giuseppe Ungaretti, giunto a definirsi «fascista in eterno», non senza prima aver affermato, fra un documento e un appello a sostegno del regime, che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore». Eppure delle sue poesie continuiamo, sia gloria a Dio, a goderne liberamente. Così come di quelle del fascista Luigi Pirandello. Il filosofo Norberto Bobbio, che fu anche storico, giurista e politologo, da studente si iscrisse al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi si tenne in tasca la tessera del partito. Per poter insegnare si rivolse, «con devota fascista osservanza», ai vertici del regime. Ciò avrebbe forse dovuto indurci a fare delle sue opere un bel falò? Il Signore ce ne scampi. Un Capo dello Stato partigiano, Sandro Pertini, lo nominò persino senatore a vita.


E MONTANELLI?

Il fascismo di Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti italiani, non è mai stato un segreto. «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione – disse - non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». E fu sempre Montanelli a scrivere che, «quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi». Con la L, non a caso, maiuscola. Chi mai, potendo tornare indietro, cancellerebbe i suoi articoli per vendicarsi del suo passato? Decisamente fascista fu anche Eugenio Scalfari, che chiamava Giuseppe Bottai, intellettuale e gerarca del fascismo, «il mio Peppino». Se per caso avessimo voluto punirlo per tanto errato ardire, chi mai avrebbe potuto fondare «La Repubblica»? Infine Enzo Biagi. Come Montanelli collaborò a Primato, un periodico diretto proprio da Bottai, e alla rivista fascista Architrave. Fu Biagi a recensire «Suss l’ebreo», un film molto amato da Heinrich Himmler, l’«architetto» del genocidio degli ebrei, per la sua viscerale propaganda antisemita. Epurare Biagi per i suoi spiacevoli peccati? Meglio che rimanga solo una tenace tentazione 



tentazione.

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