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8.3.25

in italia non ci sono le discriminazioni Lgbtq e dei nuovi italiani , ma anche quella verso i disabili . "Mio figlio è disabile non ci affittano casa" Da Bergamo la denuncia di Francesca, madre di 4 figli di cui uno disabile

Francesca Carulli, 39 anni, è una madre separata che vive ad Albino, in provincia di Bergamo, con i suoi quattro figli. Il più piccolo, Denis, ha nove anni e soffre di tetraparesi spastica, una condizione che lo costringe a muoversi in carrozzina. La sua vita quotidiana è un continuo affrontare sfide, ma la più grande riguarda la casa in cui vive: un appartamento pieno di barriere architettoniche che non è adatto a lui. Ogni giorno, Francesca è costretta a sollevare il figlio in braccio per affrontare tre rampe di scale, un'impresa che le causa dolori continui alla schiena e le toglie le forze.

Le difficoltà di trovare una casa accessibile
Da due anni, come racconta a Il Giorno, Francesca sta cercando un nuovo alloggio, uno che sia senza barriere architettoniche e che permetta a Denis di muoversi liberamente. Tuttavia, la ricerca si è rivelata un incubo. Ogni volta che contatta un'agenzia immobiliare o un proprietario, la risposta è la stessa:«Non affittiamo a famiglie con persone disabili». Nonostante Francesca possa permettersi di pagare un affitto di 600-700 euro al mese, la discriminazione continua. «Ho rcevuto almeno 40 no. Mi considerano poco affidabile, come se un bambino disabile fosse un peso che non riuscirò mai a sopportare», racconta con amarezza. La situazione è ancora più frustrante quando si considera che gli appartamenti da lei visitati sono del tutto inadatti alle esigenze di Denis, ma anche la possibilità di accedere a soluzioni di edilizia pubblica sembra un miraggio. In alcune città, come Milano, solo il 2,5% delle case popolari è privo di barriere, e Francesca si è già rivolta agli enti locali, ma senza risultati. «Mi è stato detto che dovrei
rivolgermi ai Servizi Sociali, ma sono ancora qui, senza una soluzione», spiega. Nonostante le difficoltà economiche e fisiche, Francesca non si dà per vinta.


 
dalla   sua  pagina  facebook  



Ma la sua vita è un eterno via-vai: ogni giorno deve accompagnare Denis a scuola e tornare a prenderlo, spesso interrompendo il lavoro. Purtroppo, la sua vita è segnata da orari incompatibili con un'occupazione, e l'assistenza scolastica per suo figlio non è sufficiente. «Se Denis avesse l'assistenza adeguata per tutte le ore di scuola, potrei lavorare con maggiore serenità», afferma. Francesca racconta anche di aver incontrato altre mamme nella stessa situazione, alcune delle quali hanno addirittura nascosto la disabilità dei loro figli per ottenere una casa in affitto. Questo è un chiaro segno di quanto il pregiudizio e la discriminazione siano radicati nella società, rendendo la vita ancora più difficile per chi si trova a dover affrontare disabilità e solitudine.

8.9.24

Appunti di un caregiver a San Siro Tra significati personali e difficoltà pratiche

Per  spiegare    il  perchè    ho dedicato e dechirò   spazio  alle  paraolimpiadi  e  a tali    storie   ,  lo  scoprirete leggendo  la storia    che segue  . 
  da  UltimoUomo 5\9\2024 di Sebastiano Leonida Bianco (foto)  Illustrazione di Livia Albanese

Inter-Empoli 4-2

Ogni volta che passo da San Siro, i miei occhi non possono fare a meno di cercare l'esagerata imponenza brutalista delle rampe che avvolgono quello stadio. La vista di quel gioco di spire mi fa tornare in mente quanto mi impressionò la prima volta che mio padre mi portò a vedere l'Inter al Meazza. Era l’autunno del 1998 e avevo dieci anni.Osservo quelle rampe anche la sera del 6 maggio 2022, mentre spingo la sedia a rotelle su cui è seduto mio padre. È la prima volta che io lo porto in quello stadio: ora, senza di me, non potrebbe né raggiungerlo né entrarci. Adesso mio padre è un invalido non deambulante, per il regolamento dello stadio non può più accedervi da solo e in ogni caso non ne sarebbe in grado.Si tratta di un piccolo esempio di quell’inversione di responsabilità tra genitore e figlio che può verificarsi nella fase più tarda della storia di una famiglia, quando un genitore non riesce più a essere autosufficiente. Una dinamica che alcune persone interpretano come il nobile compimento del valore familiare del mutuo aiuto (rappresentato da frasi come «mi prendo cura dei miei genitori perché loro hanno fatto tanto per me»), mentre altre la considerano soltanto uno spauracchio o una sventura (in questo caso, le affermazioni somigliano a un «spero di non ritrovarmi mai a dover accudire i miei genitori»).Quella sera continuo in sottofondo a rimuginare, come faccio da mesi, la sensazione autocommiserante d’aver vissuto una vita ingiusta. Mio padre è stato un artista, uno scultore principalmente, autodidatta e avulso rispetto al sistema dell’arte contemporanea. La mia storia, come quella della mia famiglia, non poteva che procedere nel solco delle sue scelte professionali poco convenzionali e senza compromessi. Ogni contesto di crescita lascia le sue eredità positive, ma ha anche un prezzo da pagare che può essere difficile da accettare. Al di là della complessa eredità psicologica con cui devo fare i conti, non riesco a perdonare a mio padre il disagio economico che ci ha fatto affrontare: purtroppo in questo Paese il destino di una persona, la sua possibile realizzazione, dipende soprattutto dal potere di spesa della famiglia in cui è cresciuto.Mentre andiamo a vedere assieme Inter-Empoli, sono consapevole di non essere lì per sdebitarmi con lui, di non essere mosso da un senso di gratitudine nei suoi confronti.Ma non è nemmeno la voglia di vedere quella partita dal vivo che mi ha spinto a organizzare quella serata, anzi. È passata poco più di una settimana da una sconfitta di Bologna dai contorni tragicomici che ha compromesso la possibilità di vincere lo scudetto. E sto ancora cercando di capire perché sono stato così male di fronte a quella delusione sportiva: non avevo sofferto così tanto neppure il famoso 5 maggio, quando ero un ragazzino fragile che agognava di vedere per la prima volta uno scudetto dell’Inter. Ora sono un adulto e dovrei avere gli strumenti razionali per non abbattermi, ma non riesco a mettere un confine alla delusione.

Quella sera inizio a capire che i motivi del mio dolore calcistico sproporzionato sono intrecciati con i motivi che mi spingono ad essere lì a San Siro per un Inter-Empoli.Mio padre è stato riconosciuto come invalido in seguito alla diagnosi (nell’autunno del 2018) di un mesotelioma pleurico bifasico, all’interno di un quadro clinico generale già complicato. Questo tumore solitamente insorge in seguito all’esposizione a fibre di amianto, cosa che potrebbe essersi verificata respirando per decenni polvere di pietra. Non ci fu data un’aspettativa di vita precisa, sapevo solo che la sopravvivenza media, in questi casi, è di circa 12 mesi. Fare i conti con la prospettiva concreta della morte di mio padre aveva stravolto tante cose nella mia vita, compreso il modo in cui leggevo i risultati della nostra squadra del cuore. La prima volta era successo proprio quell’anno, con l’eliminazione dell’Inter di Spalletti dai gironi di Champions: mio papà non vedrà mai più una partita di Champions dell’Inter? Poi la sconfitta in finale di Europa League, dopo il lockdown: mio papà non vedrà più l’Inter vincere un trofeo? E poi di nuovo, appunto, quella sconfitta a Bologna, che forse cancellava l’ultima occasione per vedere assieme la seconda stella.Qualsiasi tifoso riveste i risultati sportivi della sua squadra del cuore con stratificazioni di significati personali di cui spesso non è neanche consapevole. Prima di quella partita, alcuni dei fili che mi tenevano legato all’Inter stavano diventando troppo evidenti per continuare a ignorarli. Ho voluto portare mio padre allo stadio perché quella potrebbe essere una delle ultime occasioni, per noi, di vedere assieme una partita dell’Inter dal vivo.La partita, nel suo svolgimento, è avvincente. Nei primi minuti cala il gelo sullo stadio dopo due gol dell’Empoli, ma poi l’Inter rimonta e vince con veemenza. Nel viaggio di ritorno cerco di far ricordare a mio padre quello che è successo in campo, o anche semplicemente il fatto che siamo appena stati a San Siro. Da quando si è ammalato, ha iniziato a lamentare una stanchezza cronica alla quale ha reagito scegliendo di dormire quasi tutto il giorno, tutti i giorni, causandogli un evidente decadimento della memoria. Mentre guido, continuo a stare male, perché so che non vedrà vincere uno scudetto che non sarebbe neanche riuscito a ricordare. Gli dico che, se non morirà prima e se lo vorrà, lo porterò di nuovo a San Siro nella stagione successiva.

Inter-Spezia 3-0
Rispetto quella promessa appena possibile, il 20 agosto 2022, seconda giornata di Serie A, prima partita in casa. Il giorno di Ferragosto la mia auto mi ha lasciato a piedi e ho dovuto chiedere in prestito a mia sorella la sua per poter portare mio padre allo stadio. La mia famiglia vive a Pavia da oramai più di vent’anni, una città in cui ci siamo ritrovati dopo un’infinita serie di vicissitudini e che mio padre, milanese dei navigli, ha sempre mal sopportato. La sua invalidità ha reso la trasferta Pavia-Milano decisamente più complicata e avere a disposizione un’auto è praticamente necessario.L’accredito per la zona disabili del Meazza si ottiene previa prenotazione: per usufruirne, è necessario presentarsi davanti all’ingresso 11 almeno mezz’ora prima del fischio d’inizio, altrimenti il posto non è più garantito. È difficile calcolare bene i tempi quando si porta un disabile allo stadio: da un lato c’è la paura di arrivare tardi e perdere il posto, dall’altro il pensiero iperprotettivo che ti porta a evitare di arrivare troppo in anticipo, per non tenerlo lì più tempo di quello che è in grado di sopportare. Il problema non è tanto il viaggio in auto, che il giorno di una gara dura circa un’ora, ma ciò che bisogna fare prima. Preparare mio padre a uscire di casa non è semplice, richiede tempo e soprattutto molte energie.L’Inter garantisce ai disabili anche un accredito per il posteggio più vicino allo stadio, in via Tesio. Una volta posteggiato, devo scaricare la sua sedia a rotelle (un pesante modello economico, neanche concepito per spostamenti di questo tipo) e farci salire mio padre. A quel punto, si esce dal posteggio e si attraversa il piazzale fuori dal Meazza, dove si trova la fila dei paninari e il fiume di tifosi che gli gira attorno. Per non perdere tempo, gli accompagnatori con le carrozzine tagliano la circolazione perpendicolarmente, e passano in qualche pertugio in mezzo ai camioncini. A quel punto si vede il Gate 11.Due ore prima del fischio di inizio di Inter-Spezia, c’è una lunga fila di carrozzine davanti a quell’ingresso. L’attesa in coda è parecchio frustrante: anche se il sole si avvia al tramonto, siamo comunque su una distesa di asfalto con il caldo di agosto. Intanto, il flusso di tifosi scorre rapidamente dai tornelli degli altri ingressi, aggiungendo ulteriore fastidio. Una classica situazione in cui la gente inizia a borbottare, evocando le ingiustizie italiane.

Il sistema di accoglienza per i disabili al Meazza è abbastanza macchinoso e il personale deve impegnarsi molto per cercare di limitare i disagi dovuti all’inadeguatezza della struttura.L’accesso in questione ha anch’esso un tornello che, però, è utilizzato soltanto da una hostess per convalidare i biglietti con gli accrediti. Il disabile e il suo accompagnatore transitano invece da un cancello a fianco. Il mio sospetto è che da quei tornelli non potrebbe neanche passarci una carrozzina e che in realtà siano stati installati – ai tempi del decreto Pisanu – senza preoccuparsi troppo dell’accessibilità per i tifosi diversamente abili. Questo ingresso, inoltre, è adiacente a quello per i tifosi ospiti: una scelta che immagino dettata dall’esigenza di tenere entrambi gli accessi quanto più vicini al posteggio. Ma se il settore ospiti è al terzo anello verde, praticamente di fianco all’ingresso dedicato, l’area per i disabili è al primo anello arancio, cioè dall’altra parte dello stadio. Immagino che a nessuno sia mai passato in mente di realizzare la zona invalidi nel più vicino primo anello rosso: lì, infatti, si trovano i posti migliori della cosiddetta corporate hospitality, con biglietti venduti a svariate migliaia di euro. I tifosi più abbienti pagano certe cifre anche per entrare rapidamente allo stadio. Per arrivare alla zona dedicata ai disabili bisogna, così, girare attorno all’impianto, tagliando di nuovo i flussi delle persone che entrano dagli altri ingressi, per avanzare nella zona di deflusso più compressa, dove lo stadio è incastonato con Via dei Piccolomini.Qui, i vomitori di accesso alle tribune mostrano il cronico problema di spazi che affligge l’impianto. Il vomitorio centrale, in cui sono ricavati dei bagni e uno spazio di ristoro, è quello più sovraffollato: acquistare qualcosa da mangiare o bere non è semplice in carrozzina e per metterci una pezza il personale regala due bottigliette d’acqua a ogni disabile.Arrivati nella zona dedicata agli invalidi, ci sono alcuni addetti che molto gentilmente accompagnano alla piazzola assegnata, delle dimensioni di una carrozzina standard (troppo piccola, quindi, per accogliere una più lunga carrozzina motorizzata). Questi spazi sono ricavati nella pedana alla base della tribuna, subito dietro le due file di tabelloni pubblicitari, praticamente all’altezza del terreno di gioco. Solo una manciata di piazzole è affiancata da piccoli sedili per gli accompagnatori, e la maggior parte di questi ultimi si accomoda nel posto immediatamente alle spalle del disabile, nella prima fila della tribuna.Quella pedana, però, funge anche da camminamento per gli spettatori di tutta la parte inferiore della tribuna arancio, sia per il deflusso, sia per accedere ai servizi: a San Siro l’accompagnatore – la cui presenza è obbligatoria – non può stare vicino al disabile di cui è responsabile, ma lo controlla da qualche metro, guardandogli le spalle, separato da un camminamento. Solo il disordine in occasione dei gol permette agli accompagnatori di controllare da vicino i disabili senza sentirsi in colpa per aver intralciato la visuale a chi, seduto nelle file immediatamente dietro, ha speso qualche centinaio di euro per un biglietto al primo anello.Come se non bastasse, un grosso cordone – come quelli che associamo alle passerelle nelle serate di gala – divide in due lo stesso camminamento, per separare meglio la parte dedicata ai disabili da quella dedicata agli spostamenti degli spettatori in tribuna. Un divisore che inevitabilmente separa anche il disabile dal suo accompagnatore, che così, qualora voglia raggiungere l’invalido, deve inchinarsi per superarlo.Quando si parla del futuro di San Siro, o degli eventuali stadi nuovi che Inter e Milan potrebbero costruire, si insiste spesso su questioni di tipo economico che ruotano attorno alla distribuzione dei posti e del loro costo: ciò che rende il Meazza inadeguato ai tempi sarebbe, innanzitutto, la scarsità di posti ad alto prezzo. Solo recentemente l’amministratore delegato dell’Inter Alessandro Antonello ha sottolineato che il prossimo stadio dell’Inter (che sia un San Siro ristrutturato o uno stadio nuovo a Rozzano) dovrà risolvere il problema dell’accessibilità dei tifosi disabili. Sistemare le criticità della zona invalidi del Meazza rischia di essere un’impresa non facile. Nella presentazione della proposta di ristrutturazione dello studio Arco Associati (usata dal sindaco Sala per riaprire il discorso sulla ristrutturazione) è stata inserita una foto del settore invalidi di Wembley, uno stadio costruito ex novo dopo aver raso al suolo quello vecchio. Quali potrebbero essere i margini di intervento su un’architettura come il primo anello di San Siro, che a breve compirà cent’anni?Non che non siano già stati compiuti sforzi per migliorare un po’ la situazione. Prima dei lavori di ristrutturazione per la finale di Champions del 2016, la visibilità dei posti riservati agli invalidi era praticamente nulla: si è potuto abbassare la vecchia balaustra soltanto grazie a una delega del prefetto.Adesso, per fortuna, un invalido può andare a San Siro non solo per fare presenza, ma anche per vedere la partita. Stare così in basso e vicino al campo rende più faticoso seguire il match, ma è comunque un’esperienza interessante. Qui si riesce ad avere una reale percezione di quanto siano stretti gli spazi tra i corpi dei calciatori, di quanto siano rapidi i momenti in cui devono prendere decisioni e compiere gesti tecnico-atletici. La sera di Inter-Spezia c’è il ritorno di Lukaku a San Siro ed è impressionante vedere da vicino la sua imponenza. L’Inter in generale pare una squadra di uomini enormi e massicci, con un solo essere umano normale, Dimarco.Quei posti in prima fila, a cui si accede senza pagare, di fianco a persone che invece hanno speso parecchio per una esperienza simile, potrebbe essere considerata da qualcuno ciò che giustifica tutti quei problemi di accessibilità. O, ancora peggio, può alimentare l’idea, molto italiana, che tra i disabili ci siano quelli che in gergo giornalistico sono chiamati furbetti: in questo caso, persone che fanno finta di essere invalide per ottenere dei privilegi.Questo è un video che i social ripropongono da anni per racimolare un po’ di indignazione ed engagement. Da quello che vedo, e per quella che è la mia esperienza personale, quella persona potrebbe essere tranquillamente un invalido non deambulante in grado di alzarsi da solo da una sedia a rotelle. Lo dico perché anche mio padre può alzarsi in autonomia, ed è ancora capace di percorre qualche passo da solo. Non per questo può camminare senza correre seriamente il rischio di cadere, o può farlo per più di due metri. Essere invalidi e aver bisogno di assistenza non significa soltanto non riuscire ad assumere una posizione eretta. La disabilità è una condizione complessa e questo costringe molte persone a fare i conti con il sospetto altrui, un sospetto che a volte è anche istituzionale: per un invalido, riuscire a dimostrare legalmente la propria condizione, per ottenere determinati benefici, non è affatto semplice come ingenuamente preferiamo pensare.

Dopo il fischio finale di Inter-Spezia, rientro nel parcheggio con mio padre. Un signore scende dalla sua carrozzina, la piega, la ripone dentro l’auto di fianco alla nostra, claudicante raggiunge il posto del guidatore, mette in moto e va via.

Inter-Empoli 2-0

Dopo quell’Inter-Spezia non siamo più riusciti a tornare a San Siro per molti mesi. La salute di mio padre era peggiorata, tanto che i medici avevano ipotizzato un nuovo tumore. In quelle condizioni era praticamente impossibile pensare di portarlo fuori di casa. Soltanto dopo l’estate del 2023 l’ipotesi di un altro cancro viene scongiurata e si riesce a curare e migliorare un po’ la sua condizione.

A novembre mi imbatto per caso nel video di un tifoso disabile del Venezia che racconta il suo viaggio per andare a vedere una partita al Penzo. Nel guardarlo non riesco a trattenere la mia commozione.

Questo mi spinge a chiedere a mio padre se vorrebbe tornare a San Siro. Lui mi risponde di sì con entusiasmo, ma mia madre mi suggerisce di aspettare il clima più mite della primavera.

L’occasione si presenta di nuovo con un Inter-Empoli, il primo aprile di quest’anno, giorno di Pasquetta. Sono passati quasi due anni da quella prima volta, ed io ho dipanato qualche filo nel complesso nodo che mi ero ritrovato tra le mani. Intanto sta succedendo quella cosa che pensavo oramai impossibile, vedere la conquista della seconda stella assieme a mio papà.

Generalmente tendiamo a sopravvalutare il ruolo della trasmissione ereditaria del tifo e a lasciare in ombra i significati che alimentano la fede per una squadra. Ad esempio, la passione di Peppino Prisco, «il più grande interista di sempre», era nata senza un legame familiare. Mio padre non è mai stato grande appassionato di calcio, nonostante nella sua famiglia fossero un po’ tutti abbonati allo stadio, e quando io ero bambino non ha fatto nulla per far crescere in me la fede nerazzurra. Si può dire che eravamo entrambi interisti solo nominalmente, senza che questa cosa avesse per noi un impatto tangibile. Poi a Milano arrivò Ronaldo e per entrambi sorse la curiosità verso quello che sembrava un evento storico. Iniziare a seguire assieme quella squadra, gradualmente con sempre più attenzione, è ciò che ci ha portato poi a diventare tifosi: inconsapevolmente avevamo costruito qualcosa di nostro.Mentre crescevo e mi emancipavo da lui, guardare una partita dell’Inter assumeva un nuovo significato, diventando un momento condiviso in periodo in cui le attività e le idee comuni erano sempre meno.Ecco perché abbiamo visto assieme praticamente tutte le gare della banter era nerazzurra, nonostante la nostra squadra fosse una fonte continua di delusioni: si trattava comunque di una sorta di rituale in cui ricordarsi che, in qualche modo, c’eravamo ancora l’uno per l’altro.La malattia di mio padre ha inevitabilmente scritto un nuovo capitolo di questa storia. Affrontandola, ho capito che essere interista avrà per me un altro senso quando lui non ci sarà più, un senso che probabilmente ora sto già costruendo, ancora una volta senza rendermene conto.L’Inter è quindi parte di un bagaglio che mi lega a una persona con cui ho avuto un rapporto stretto e complesso. Portare allo stadio mio padre non rientra semplicemente in un gioco di crediti e debiti, un sistema di doveri incrociati che si invertono nell’evoluzione anagrafica del rapporto padre-figlio. È, piuttosto, un ulteriore mattoncino in un’esperienza costruita assieme. È qualcosa che organizzo per noi.La sera di Pasquetta andare a vedere Inter-Empoli si rivela pure più complesso delle altre volte. Arriviamo allo stadio all’ultimo secondo, con Milano che è già stata già spazzata da un violento temporale. I limiti dell’impianto, questa volta, si mostrano mentre siamo in attesa di usare l’unico bagno per disabili nelle vicinanze. Non ci sarebbe neanche lo spazio per mettere in coda una carrozzina, ed è pieno di gente che passa da tutte le parti. Quando è il nostro turno, un tifoso normodotato cerca di passarci davanti, e per fermarlo riesco a trovare un equilibrio tra fermezza ed educazione che non ho mai neanche sfiorato in tutta la mia vita.Mentre la gara inizia, raggiungo il posto di mio papà per assicurarmi ancora una volta che sia tutto ok. Mi accorgo che sta piangendo, ma cerca di tranquillizzarmi, è solo l’emozione. L’Inter segna dopo pochi minuti grazie alla solita connessione tra Dimarco e Bastoni, come da prassi mi avvicino nuovamente e noto che si è commosso ancora. Mi dice che ultimamente è diventato più sensibile.La partita scorre via poco brillante. A un certo punto si siede al mio fianco un ragazzo che si trascina una gamba bloccata da un tutore. Si lamenta che gli hanno impedito di portarsi le stampelle dentro lo stadio e che lo hanno dirottato lì, anziché fargli raggiungere il posto che aveva acquistato. Da quello che ho capito, una prassi comune.

Inter-Lazio 1-1

Mio padre non è l’unico invalido nella mia famiglia. Poco più di due anni fa è stata diagnosticata a mia madre una forma di SLA che ha costretto anche lei sulla sedia a rotelle, non senza averle prima procurato qualche caduta e qualche osso rotto.

Prima di ammalarsi, a mia madre non importava nulla del calcio e non aveva nemmeno una grande opinione della passione mia e di mio padre. A lei lo sport piaceva praticarlo, mentre difficilmente si calava nei panni della semplice spettatrice. Per una parte importante della sua vita ha giocato a basket con risultati non banali (a Taranto ha vinto un campionato nazionale allieve, in seguito, a Varese, ha anche giocato in Serie A), ma l’ho vista guardare una partita di pallacanestro solo in rarissime occasioni. Mi sono fatto l’idea che l’attrazione di mia madre per lo sport non dipendesse tanto dal suo aspetto agonistico, quanto piuttosto dalle sue dinamiche umane e sociali. Quando racconta i ricordi di quel periodo, tende sempre a soffermarsi sui momenti in cui si cementava l’amicizia tra compagne di squadra.Sono stati anzitutto i casi tra gli sportivi a portare le malattie del motoneurone all’attenzione pubblica. Un tempo si parlava di morbo di Lou Gehrig, dal nome del primo sportivo famoso che rese celebre queste patologie. Spesso si discute del possibile legame tra la loro insorgenza e la carriera sportiva, ma allo stato attuale non possiamo sapere se quest’ultima sia stata la causa della patologia di mia madre. Di sicuro, però, questa malattia ha cambiato il suo rapporto con l’essere spettatrice: con la progressiva difficoltà nei movimenti è aumentato anche l’interesse per le gare in televisione.Questo si è spontaneamente intrecciato con il rituale interista tra me e mio padre, che gradualmente ha iniziato a coinvolgerla. Di nuovo, si è sviluppato quel processo di riempimento di significato di un qualcosa che, di per sé, potrebbe sembrare addirittura una perdita di tempo. Seguire una squadra di calcio può essere un piccolo modo in più per sentirsi legati a qualcuno, e questo emerge soprattutto nei momenti più difficili di una persona. Immagino sia per questo che ha accolto la mia idea – maturata dopo la partita contro l’Empoli – di provare a portarla a San Siro con noi.Per organizzare il tutto ho dovuto confrontarmi con alcune questioni. Anzitutto trovare un altro accompagnatore, visto che io ovviamente non posso esserlo per due persone. La soluzione è stata semplice, e abbiamo chiesto di accompagnare mia mamma a una grande interista, amica di famiglia, che l’aveva già aiutata tanto all’inizio della malattia.Il problema vero, piuttosto, era la prenotazione. Per vedere una partita al Meazza, un tifoso invalido dell’Inter deve assicurarsi il posto per sé e per il proprio accompagnatore su un portale dedicato, a cui deve iscriversi a proprio nome (è necessario utilizzare un account personale sul sito ufficiale), allegando la documentazione che attesta l’invalidità civile al 100%. Ogni account può registrare i suoi possibili accompagnatori in un’apposita lista: nel momento della prenotazione della gara deve indicare quale tra quelli lo porterà allo stadio.Nel portale in questione sono arrivati ad essere iscritti quasi 3000 tifosi disabili e oltre 6000 accompagnatori, a fronte di circa 250 posti a loro riservati: con questi numeri, l'assegnazione dei posti non può che essere un problema.Fino alla stagione 2023/24, le prenotazioni per le partite si basavano sul sistema del click day, con tutte le sue classiche criticità. Le disponibilità si esaurivano con una velocità che poteva competere con quella dei sold out dei Coldplay e i click day erano fissati pochi giorni prima di una gara, complicando l’organizzazione dello spostamento, specialmente per chi non vive a Milano. Probabilmente è per questo che l'Inter ha deciso di eliminare la giungla del click day dalla stagione 2024/25: ora è direttamente il sistema ad assegnare automaticamente i posti dopo aver raccolto tutte le richieste (con una settimana di anticipo rispetto alla gara), privilegiando chi ancora non è riuscito ad assistere a un evento.Immagino che sia prassi comune, per molti invalidi, fornire a qualcun altro i propri dati di accesso al sito e delegare così la prenotazione. Nel nostro caso, mio padre è da tempo totalmente incapace di usare un computer o uno smartphone, mentre mia madre non ha più le mani sufficientemente funzionanti per prenotarsi con la velocità richiesta.Ora, se prenotare per un invalido Meazza tramite click day non era semplice, farlo per due si presentava semplicemente come un’impresa. Non essendo possibile completare due procedure in successione temporale, infatti, la mia unica soluzione era provare a farle entrambe in contemporanea. Non parliamo di un semplice click, ma di mettere le spunte a tutte le autorizzazioni e selezionare l’accompagnatore dall’elenco, una serie di piccoli gesti da compiere in una frazione di secondo.Il mio primo tentativo è stato per Inter-Torino, dal pc, usando due browser differenti in split screen, ma non sono riuscito a prenotare per nessuno dei due. A quel punto l’ultima possibilità rimasta era Inter-Lazio del 19 Maggio, il giorno della premiazione, della festa con Ligabue e Tananai, delle oltre duecentomila richieste per i biglietti. Una partita inaccessibile. Ma anche il giorno del compleanno di mio padre: tutto idealmente perfetto, quanto praticamente impossibile.Ho provato a cercare qualcuno che mi aiutasse, ma alla fine mi sono ritrovato di nuovo a provarci da solo, disilluso e senza convinzione. Ho tentato con due dispositivi simultaneamente, il mouse del pc nella mano destra, lo smartphone nella sinistra, affidandomi alla mia memoria muscolare come se fosse l’ultra istinto di Dragonball. Ha funzionato.Non ho ancora capito se sia in qualche modo possibile chiedere due posti adiacenti per due persone invalide che si conoscono, così che possano farsi compagnia. Con il click day, i posti erano assegnati uno-due giorni dopo la prenotazione e non so se questo avvenisse casualmente o seguendo un qualche tipo di criterio (temporale, alfabetico o altro). Forse avrei dovuto compilare un qualche form durante la procedura (nella frenesia del momento non ho nemmeno controllato), o forse avrei dovuto scrivere una e-mail allo staff. Ho provato a chiedere qualche informazione all’accesso dello stadio ma non ho ricavato molto. Alla fine, nella lista delle prenotazioni i miei genitori risultavano come due estranei e di conseguenza sono stati assegnati loro due posti abbastanza lontani. Mi domando se con l’abolizione del click day non diventerà ancora più complicato, per due invalidi amici o parenti, andare assieme allo stadio. Ammetto che non ho ancora avuto modo di occuparmi della questione. Di sicuro, sarebbe un po’ triste scoprire che guardare una partita a San Siro davvero di fianco a un proprio affetto sia, in realtà, un piccolo privilegio per normodotati.Il giorno di Inter-Lazio, dentro lo stadio, si siede alla mia sinistra una caregiver che trascorre i primi minuti dalla partita a correggere dei compiti su un tablet. Si farà coinvolgere solo nel secondo tempo. Suo figlio, di fianco a mio padre, sembra un grande tifoso. Non ha le mani, ma riesce a comunque a usare lo smartphone benissimo da solo, e a farsi dei selfie usando il touchscreen con il naso. Poco prima dell’intervallo, si siede alla mia destra un signore che tiene con sé tanti fogli scritti a mano, pieni di quelle che mi sembrano poesie. Ho sempre provato simpatia per gli estranei che incrocio allo stadio e credo questo sia dovuto a una sensazione di comunanza nei loro confronti. Lo percepisco ancora di più quando mi trovo nella zona dedicata agli invalidi, perché intuisco le possibili storie che queste persone si portano con sé dentro allo stadio e sento quanto sia importante per loro quel momento.Quel giorno a San Siro c’è un enorme spettacolo di suoni e colori, la cui bellezza, però, sta nell’essere espressione del senso che quel successo sportivo ha per migliaia di persone. Il ventesimo scudetto, la seconda stella, la vittoria matematica nel derby contro il Milan, sono tutti simboli di per sé vuoti, che acquistano il loro spessore riempiendosi di significato grazie alle storie, agli affetti, alla vita dei tifosi.Sempre più spesso si sentono giornalisti, dirigenti, o anche semplici tifosi che parlano del calcio nei termini di un prodotto di intrattenimento, uno spettacolo che serve a riempire le intercapedini di tempo nelle giornate delle persone (o meglio, dei consumatori), a fornire una forma appagante di distrazione. Le partite, in quest’ottica, sono ridotte a eventi da massimizzare per competere con l’esperienza altre attività più adrenaliniche (come, ad esempio, i videogiochi). A mio avviso, le persone che fanno questi discorsi in realtà partecipano a qualcosa senza neanche rendersi conto di cosa questo significhi davvero per loro. Mi fanno arrabbiare, ma in realtà un po’ li capisco, perché da quella confusione ci sono passato anch’io.Dopo Inter-Lazio, finita la premiazione, io e i miei conveniamo che è meglio evitare i concerti e iniziare a muovere verso casa. Sono stato tutto il tempo dietro mio papà e solo uscendo dallo stadio posso parlare un attimo con mia mamma. Non avevamo messo in conto i decibel di San Siro: mia madre soffre di otosclerosi, usa l’apparecchio acustico e ha un rapporto un po’ complicato con i suoni molto forti, che sente distorti. È un po’ frastornata, quindi aspetto d’averla riportata a casa prima di chiederle come ha vissuto la sua prima volta allo stadio. Mi confessa che in realtà si è sentita un po’ sola e che avrebbe voluto averci vicino, ma che comunque si è divertita e ha pure fatto un po’ di foto e di video. Il giorno dopo noto che li ha condivisi su Facebook.«Interista?», le commenta un suo cugino. «A forza di stare con due interisti... Solo da poco mi sono appassionata...»

23.1.24

perchè il 27 gennaio , cioè il giorno della memoria non DOVREBBE ESSERE solo una giornata pulicoscienza

 Il 27 gennaio 2024 ricorerrà il XXVI Giorno della Memoria e, più che mai, vogliamo mantenere vivo il ricordo di coloro che hanno subito orrori indicibili nei campi di sterminio. Ebrei, omosessuali, sinti, rom, oppositori politici, disabili: l'Olocausto non deve essere solo un capitolo dei libri di storia, ma una ferma testimonianza dell'importanza di difendere i valori umani, la dignità e la libertà.Con determinazione e impegno, dobbiamo assicurarci che gli errori del passato non si ripetano mai.Il Giorno della Memoria è sempre di più un richiamo alla nostra responsabilità collettiva di preservare la storia e di promuovere la tolleranza e la democrazia. Di più non riesco a dire



5.12.23

scuse e giustificazioni idiote per non aiutare gli altri i disabili soprattuttoNon è nel contratto", operatore non aiuta il disabile. Choc in metro a Roma

   che  gente  di  💩🤬☠🧠. Capisco che nessuno\a  ti obbliga  ad  aiutare  gli altri , che  no possa  o   non voglia   . Ma  almeno   non indignarti   per  la tua  indifferenza    o accusare  gli altri  perchè ciò non  è  solo  politico   ma  anche   culturale  ed  sociale   .

 da https://www.msn.com/it-it/notizie/

"Non è nel contratto", operatore non aiuta il disabile. Choc in metro a Roma
"Non è nel contratto", operatore non aiuta il disabile. Choc in metro a Roma© Fornito da Il Giornale

Avete presente Roma? La Città Eterna, l’Urbe, la culla della civiltà, il Colosseo, i Fori imperiali, l’arte, la cultura, il turismo. La bellezza. Ecco. Da anni ormai latita nel degrado indegno per la Capitale di uno dei Paesi membri del G7. Colpa di Virginia Raggi, si diceva un tempo trovando un logico capro espiatorio, ma non è che con il sindaco Roberto Gualtieri le cose siano migliorate. Anzi. Ne hanno dato piena dimostrazione due servizi mandati ieri da Quarta Repubblica proprio alla presenza dell’ex sindaco grillino in studio.
Tutto già noto, più o meno. Migliaia di cantieri aperti, l’immondizia per strada, i cinghiali, la sporcizia, le foglie che otturano i tombini, gli alberi caduti e mai ripuliti, le buche, il degrado, la sporcizia, un secchio per raccogliere l'acqua che filtra dal tetto della metropolitana. Ma soprattutto i trasporti: spostarsi in metro somiglia a un pellegrinaggio di penitenza in ginocchio verso la Terra Santa, l’arrivo di un autobus (25 minuti di attesa, calcolati dal cronista) va salutato come l’apparizione della Madonna, un taxi libero in breve tempo come vincere al Superenalotto. Sfiancante per chi ci vive, per chi ci lavora e per chi vorrebbe visitarne le meraviglie al meglio.Di chi è la colpa? Dei sindaci, si diceva. Ma non può essere solo questo. “I dipendenti pubblici che sbagliano non possono essere licenziati”, ribatte la Raggi che vorrebbe poter cacciare anche chi - pur al caldo di un impiego pubblico - sbaglia o non performa a dovere (Giuseppe Conte lo sa?). Ci sono poi i lavoratori, i quali del tutto esenti da colpe non lo saranno mica. Si parla tanto di assenteismo, di scioperi, di malattie sospette. Ma il servizio mandato in onda da Nicola Porro mostra un’altra faccia di questa tradica medaglia. State a sentire. L’inviato si presenta alla fermata Colosseo della metro con un disabile in carrozzina. Vorrebbe salire una rampa col montascale (ascensori, manco a parlarne: nella B1 gran parte sono inattivi "da prima della pandemia") e, colpo di scena, il marchingegno funziona. Piccolo problema: la sedia a rotelle, una normalissima sedia a rotelle elettrica, è troppo grande per poter salire. Bisogna smontare il manubrio e chi lo fa? L’inserviente che aziona il montascale? Giammai. Se non ci fosse il cronista ad aiutare il disabile portandogli il manubrio, probabilmente questi sarebbe rimasto in banchina perché aiutare il povero in carrozzina non rientra tra le mansioni dell’operatore: “Non è previsto dal contratto, magari non è bello dirlo eh”. 

10.1.23

Noi disabili “Le vere barriere sono di questa società che non include” di FRANCESCO DI PERSIO

 Ho  tantissimi acciacchi   compreso  di deambulazione   e  quindi pur  ancora  non essendo  in sedia  a rotelle  capisco  benissimo  l'intervento  di Francesco de Persio    sotto    riportato  su il IFQ  del 10\1\2023  




 e  questo  commento   su  PressReader.com - Giornali da tutto il mondo
nickname25799022

La vera regola: rispettare il prossimo come te stesso. Senza nessuna differenza . Sarà mai possibile? L'uomo veramente socievole e sociale crescerà mai? Il vero garantismo è sicurezza di crescere in umanità.

Ma  qui    si  sminuisce     il problema     che     in alcune  località   è  molto    grave  come dimostrano  questa    foto  a  sinistra  e le   foto   altre  scattate  in alcune  vie   del  paese     dal compaesano   Marco Ladu   alias  su  Duca di La Naciola  le  foto     E non c'è manco bisogno di una disabilità per rendersene conto: basta provare ad uscire con un passeggino o  una  sedia  a rotelle. 
Per me ogni volta fu un incubo 🤦  
che debbo passare   da  quelle  parti 🤬

    





e come lui   ha  scritto  una  settimana  fa  mi viene spontanea questa domanda destinata o a volare nel vento nel qualunquismo : << Forse non hanno parenti o amici disabili o mancano di sensibilità >>

Mi sono sempre chiesto: ma quando un'impresa, un operaio, il tecnico che ha fatto il progetto, piuttosto che un responsabile della viabilità o l'ufficio tecnico che si occupa dell'illuminazione pubblica fanno "un cazzo di buco" per piantare in terra un palo piuttosto che un cartello di segnaletica, possibile non si mettano minimamente il problema che pochi centimetri in qua piuttosto che in la, possono fare una differenza enorme per chi ha problemi di deambulazione ed è costretto a muoversi con una carrozzina? Non posso pensare che lo si faccia apposta, ma non posso credere che sia una casualità visti i centinaia (non esagero) di questi scempi che chiunque può notare a Tempio. Credo sia piuttosto una totale mancanza di senso civico, di attenzione, di rispetto. E l'altro giorno, tra la valanga di opere pubbliche annunciate con grande enfasi dai nostri amministratori, mi sarebbe piaciuto leggere anche qualcosa che rendesse la nostra città a misura di chiunque la abiti o la attraversi. Può essere anche che mi sia sfuggito, ma è dai Tempi del comitato civico che si richiama, purtroppo invano, l'attenzione di chi dovrebbe essere deputato ad agire e tutto rimane come prima, anzi peggiora
Peccato che nel 2023 ancora ci siano persone costrette a uscire di casa sapendo di affrontare una sfida che potrebbe non essere tale se quei "cazzo di buchi" fossero stati fatti appena più in là...


11.10.22

Sindrome di Down, Emanuela e Davide: "Siamo felici insieme, lasciateci vivere il nostro amore e Sposa vegana infuriata, fidanzato cancella menu del matrimonio (senza dirglielo) perché vuole la carne

 da  REPUBBLICA  ONLINE 

Sindrome di Down, Emanuela e Davide: "Siamo felici insieme, lasciateci vivere il nostro amore"

Davide ed Emanuela sono due ragazzi con la sindrome di Down, hanno 22 e 23 anni e un sogno: sposarsi e andare a vivere insieme. “Siamo fidanzati da cinque anni, ma non è stato facile. Abbiamo vissuto molte difficoltà e ostacoli ma alla fine, dopo aver lottato tanto, siamo riusciti nel nostro sogno di stare insieme”.


I due ragazzi di Milano abitano ancora con i genitori ma stanno cercando la propria indipendenza: Davide lavora da un anno come addetto alla logistica di un negozio sportivo, mentre Emanuela da qualche anno lavora come cameriera in un bar ma tra lavoro e tempo libero hanno difficoltà a ritagliarsi dei momenti intimi.
"Avere una relazione amorosa è diritto di tutti - ha precisato Martina Fuga, responsabile della comunicazione dell'associazione Coordown - ma oggi per le persone con sindrome di Down è ancora un tabù. Spesso le persone con disabilità intellettiva sono considerati degli eterni bambini: bisogna cambiare questo preconcetto dando gli strumenti alle persone con disabilità per poter vivere la loro sessualità in modo sano e responsabile".
“Ai genitori vorrei consigliare di ascoltare i bisogni dei propri figli, lasciar loro gli spazi necessari senza negargli l’opportunità di vivere esperienze importanti per la propria infanzia”, hanno detto i due ragazzi che, a tutte le persone come loro, hanno suggerito: “Dovete combattere e lottare per il vostro amore, credete in voi stessi e abbiate fiducia nella persona che potrà prendersi cura di voi”.

                                      Di Edoardo Bianchi

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Sabato 8 Ottobre 2022
Sposa vegana infuriata, fidanzato cancella menu del matrimonio (senza dirglielo) perché vuole la carne

Uno sposo ha cancellato il menu vegano del matrimonio perché voleva la carne. Molte persone si innamorerano nonostante differenze fondamentali. Ma queste diversità possono diventare grandi ostacoli al momento del matrimonio. Questo è stato il caso dell'utente di reddit SarahJake2022 e del suo fidanzato. Lei e la sua famiglia seguivano tutti la stessa dieta rigorosa, di cui lo sposo non era un grande fan. Tanto che ha eliminato tutte le sue scelte alimentari senza dirglielo.
La sposa ha spiegato come un grave disaccordo sul menu del loro matrimonio abbia portato a una tensione inaspettata con il suo fidanzato. Erano d'accordo su tutto, tranne sul cibo. "Io e la mia famiglia siamo vegani e ci sono così tante ragioni per cui abbiamo scelto questo stile di vita e una di queste è che abbiamo una storia di problemi di salute". Ma non così per i parenti dello sposo. "Il mio fidanzato e la sua famiglia sono l'esatto opposto. Sono mangiatori di carne accaniti, il che ovviamente per me va bene."

L'opposizione

Quando la sposa decide il menu del cibo del matrimonio vuole aggiungere 4-5 opzioni vegane. Ma il fidanzato e la madre si sono oppongono dicendo che era uno spreco di denaro per il cibo che 'non è vero cibo'. Hanno anche sostenuto che sarebbe stato offensivo per i 'loro' ospiti. Lei si rifiuta di discuterne e fa di testa sua.

La sopresa

La sposa scopre che il futuro marito aveva cancellato tutte le opzioni vegane e le aveva tolte dal menu completamente alle sue spalle. "Stavo ribollendo. L'ho chiamato al lavoro ma continuava a riattaccare. Sono andato direttamente al suo posto di lavoro e l'ho affrontato lì e l'ho semplicemente preso di mira. Era sbalordito nel vedermi. All'inizio ha detto che era stata un'idea di sua madre, poi mi ha detto di andare a casa perché stavo facendo una scenata in ufficio".

8.7.22

La storia di Domiziana, influencer e disabile: "Sui social per ricordare a tutti che esistiamo"



Domiziana Mecenate era una giovane ginnasta romana iscritta al primo anno di università. Ma il 5 luglio
del 2021, durante un allenamento, si è procurata una lesione alla colonna vertebrale che l'ha resa
tetraplegica. Nonostante la diagnosi iniziale escludesse il recupero della piena mobilità degli arti, grazie alla fisioterapia Domiziana ha lentamente ricominciato a muovere le braccia. In seguito, ispirata da un personaggio della serie televisiva del fumettista italiano Zerocalcare, ha voluto mettere un video su Tik Tok e ha iniziato a ricevere tantissime domande su quello che le era successo e sulla sua condizione. Da lì altri video e l'inizio della sua avventura da influencer, tanto che oggi il suo profilo sfiora i 100mila follower.

"Vedere che la gente riesce a fare certe cose grazie a quello che dico mi fa pensare che quello che sto facendo ha un senso", racconta la ragazza, il cui orizzonte non si ferma ai social. "Vorrei fare qualcosa di concreto, come andare dal sindaco e dirgli 'qua, qua e qua mancano le rampe per i disabili, così non va bene' - spiega Domiziana -. Mi piacerebbe contribuire a far avvenire questo cambiamento: aprire la mente delle persone, ricordargli che esistiamo anche noi e che abbiamo certe necessità".

1.6.22

Bimbo di 20 mesi muore, funerali senza i genitori: "Nessuno ci ha avvertito" Il piccolo, ospite di un centro specializzato, a causa di una difficile situazione famigliare stava per essere adottato ed altre storie

 di Cristina Palazzo repubblica 

Bimbo di 20 mesi muore, funerali senza i genitori: "Nessuno ci ha avvertito" Il piccolo, ospite di un centro specializzato, a causa di una difficile situazione famigliare stava per essere adottato


 
A 20 mesi muore per una crisi respiratoria, dopo aver combattuto contro una grave malattia sin dalla nascita, ma ai funerali non ci sono i genitori, che non sarebbero stati informati. Una storia difficile quella che arriva da Asti.
I genitori del bimbo, Mario Domenico, non erano stati considerati adatti ad accudirlo, stando ai servizi sociali comunali, ed erano state avviate le pratiche per l'adozione. Così il bimbo era stato affidato a una
famiglia e poi trasferito in un centro specializzato.
I genitori naturali avevano continuato a vederlo ogni due settimane, finché è stato loro consentito. Poi il permesso è stato revocato. Nei giorni scorsi il piccolo è morto a causa di una crisi respiratoria. I servizi sociali hanno organizzato il funerale ma, secondo l'accusa dei genitori, non hanno avvertito il padre e la madre naturale che hanno appreso delle esequie da altre fonti, dopo una settimana.
"È una storia nata male e finita male. Non ci sono state violazioni giuridiche da parte del Comune di Asti e del tribunale per i minorenni di Torino ma sul lato umano si poteva fare diversamente” commenta l’avvocato Claudia Malabaila, che con Roberto Caranzano assiste il padre di Mario Domenico.
Secondo quanto riferiscono dal Comune di Asti un decreto del tribunale per i minori di Torino imponeva di non far sapere ai genitori dove fosse il figlio, neanche da morto.
Già a pochi mesi dalla nascita Mario Domenico era stato seguito da una famiglia astigiana che lo aveva avuto in affidamento. Lo aveva portato da diversi specialisti per cercare di curare una rara forma di malattia infantile che provoca crisi respiratorie. Il bambino era stato ricoverato più volte ad Alessandria, dove veniva seguito da un'operatrice sanitaria dedicata, pagata dai servizi sociali del Comune di Asti. Negli ultimi mesi il piccolo si era aggravato ed era stato trasferito a Tortona in un una casa di cura per bimbi gravemente malati. Il 14 maggio, a 20 mesi dalla nascita, Mario Domenico è morto. Ma nessuno ha avvisato i suoi genitori.


un altra  storia   con  un finale   diverso , ma   sempre  triste   è questaa


Firenze, resta solo in classe: i suo compagni vanno in gita, lui no perché non c'è il bus con la pedana per la sua carrozzina
E' successo a un bambino di 9 anni di una scuola elementare


Desiderava andare in gita con i compagni, ma è stato escluso ed è rimasto in classe con l'insegnante di sostegno perché la scuola non ha trovato un pulmino attrezzato con la pedana per far salire i disabili. E' quel che racconta il padre di un bambino di 9 anni che frequenta una scuola elementare di Firenze e che assieme ai compagni avrebbe dovuto andare a visitare un istituto alberghiero. Il bambino è in carrozzina
per una disabilità motoria a causa della sindrome fibrosa poliostosica. La storia è stata raccontata oggi dalle cronache locali di alcuni quotidiani fiorentini, La Nazione e Il Tirreno: "Venerdì scorso la maestra ha detto a mia moglie che avremmo dovuto portare noi famiglia il bambino alla struttura di destinazione, perché la scuola non aveva trovato il pulmino adibito anche alla carrozzina" ha riferito il genitore. Ma siccome mamma e babbo lavorano, non potevano occuparsi di questo accompagnamento. Il presidente dell'istituto comprensivo ha spiegato che Autolinee Toscane aveva garantito il bus con la pedana, ma che poi lo sciopero della scuola ha costretto a un cambio di data e per quella data il pullmino con la pedana non era più disponibile. Cosa che Autolinee Toscane smentisce: "Tutti i nostri bus urbani a Firenze hanno la pedana. Ci risulta una prenotazione da parte della scuola per il 30 di maggio sulla linea 24, poi saltata per via dello sciopero".
La scuola aveva contattato la famiglia ricevendo una disponibilità di massima ad occuparsi del trasporto del figlio. Ma probabilmente c'è stato a quel punto un frainteso, scuola e genitori non si sono capiti e la famiglia sostiene di non essersi resa disponibile all'accompagnamento.
Da Forza Italia, Marco Stella chiede un intervento da parte del Miur, il ministero dell'Istruzione che faccia chiarezza sulla vicenda.


19.10.21

Da Assunta Legnante a Vincenzo Boni, da Angela Procida a Gianni Sasso, capitano della nazionale di calcio per amputati: sono i portavoce di 2000 atleti disabili e chiedono che non si spenga l'eco delle Paralimpiadi di Tokyo: "Perché qui in gioco c'è la vita"

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Oltre la disabilità: i campioni e le storie dello sport campano senza barriere

Angela Procida 

Sono storie di passione e di coraggio. Storie straordinariamente normali. Perché loro rispondono tutti allo stesso modo, più o meno: "Non chiamateci eroi, semplicemente ci mettiamo gioco, come se i limiti non esistessero". Eppure i limiti ci sono, o meglio: ci sarebbero. Un arto mancante, la sedia a rotelle, la vista che non c'è più, o quasi. Quanto basta per smettere di giocare? Per nulla. Perché l'esercito silenzioso degli atleti paralimpici campani suona la carica per chi vorrebbe desistere, dopo una diagnosi o dopo un incidente. O non vorrebbe neanche iniziare, in caso di una malattia congenita.

 La nazionale di calcio 
E se va spegnendosi l'eco delle ultime Paralimpiadi di Tokyo, dove l'Italia ha conquistato 69 medaglie (secondo risultato di sempre ai Giochi dopo le 80 di Roma 1960), l'obiettivo - oggi più che mai - è continuare a far crescere il movimento.  Dice Rossana Pasquino, classe 1982, beneventana, paraplegica dall'età di 9 anni,schermitrice: "Sappiamo che tanta gente, guardandoci giocare su una carrozzina, superare i limiti, ha pensato: forse è il momento giusto per iniziare, forse è tutto possibile. Ecco, per me Tokyo è stato soprattutto questo: il fascino di un villaggio olimpico condiviso con 4000 atleti, miriadi di diverse disabilità eppure la stessa voglia di esserci, di fare sport, di provare a scalare il nostro personale Everest". Chapeau. Non ha vinto la medaglia, lei, ma ha fatto centro.

Noi, esempio per tanti ragazzi


Vincenzo Boni, napoletano, classe 1988, è invece affetto dalla sindrome di Charcot MarieTooth, una sindrome neurologica ereditaria a carico del sistema nervoso periferico, da quando aveva 6 anni. Ma ha iniziato lo stesso a nuotare.
"Quando ci sono avvenimenti come le Paralimpiadi, diventiamo all'improvviso celebri. La Rai ci ha aiutato, mostrando gratuitamente le nostre gare e noi ci siamo sentiti ciascuno nel suo piccolo icone di resilienza. Ora però bisogna assecondare questa scia. Tanti ragazzini con disabilità si sono detti: 'Chissà, forse allora posso farcela anche io'. Se mi sento un ambasciatore dello sport per disabili? In fondo lo sono, perché giro nelle scuole per testimoniare quanto possa essere importante fare attività sportiva. Ecco, le Paralimpiadi sono state una piccola rivoluzione culturale. Lo sport è soprattutto la chiave per accettare se stessi. E io al nuoto devo tantissimo".
Classe 1978, originaria di Frattamaggiore, Assunta Legnante ha iniziato a lanciare il peso da adolescente. Disegnava il cerchio della pedana con il gesso, in uno spiazzo alle spalle del cimitero comunale: da piccoli, la fantasia è l'alleato migliore per arrivare ovunque. E lei è arrivata per davvero ovunque: campionessa europea indoor del getto del peso a Birmingham 2007, primatista nazionale indoor con la misura di 19,20 m, volte campionessa paralimpica e detentrice del record mondiale di categoria con la misura di 17,32 m.

Assunta Legnante 

Perché la sua vita è fatta di due vite, come quella di tanti atleti paralimpici: colpa di un glaucoma congenito. "Lo avevo sempre gestito con i medicinali - racconta - ma poi dal 2009 i miei occhi hanno iniziato ad abbandonarmi, finché nel 2012 ho perso completamente la vista". Ed è lì, quando tutto si fa buio, che il carattere fa la differenza. "Mi chiamò la Fispes, che ami corteggiava insieme al Comitato Italiano Paralimpico per propormi le Paralimpiadi. Io risposi proprio così: 'Ma siete matti? Come fa un cieco a lanciare un peso?'. Decisi di provare". Il resto è storia recente, in parte recentissima: a Tokyo Assunta Legnante ha vinto la medaglia d'argento.


Il movimento in Campania: un esercito di 2000 atleti


In Campania esistono circa 220 società iscritte al registro paralimpico, che abbracciano naturalmente diverse discipline, per un totale di circa 2000 atleti disabili praticanti. Per molte associazioni, la sopravvivenza è spesso appesa a un filo. Lo scorso agosto il Comitato italiano paralimpico (Cip) ha stanziato 5 milioni di euro per le società sportive paralimpiche. L'obiettivo? Sostenere la ripresa delle attività dopo la pandemia. La Campania si è vista assegnare, quali contributi a fondo perduto, la somma di circa 170 mila euro già ripartita ed erogata a 92 società sportive, in misura proporzionata all'attività e ai risultati raggiunti. "Soldi utilissimi, una boccata d'ossigeno - l'unica pubblica - per non morire", spiega Carmine Mellone, presidente del Cip Campania.
"I riflettori si spegneranno dopo le Paralimpiadi? Inevitabile. - prosegue - Mi rammarica che l'attenzione mediatica, di cui siamo grati alla stampa e alle televisioni, non si traduca in un'attenzione concreta nella politica regionale. Il presidente De Luca non ha ancora assegnato la delega allo Sport, né è stato costituito il comitato tecnico sportivo con undici rappresentanti, previsto già dieci anni fa dalla legge regionale sullo sport. Lo sport è una Cenerentola, quello per disabili ancor di più. In Puglia, per dire, sono stati destinati all'attività paralimpica 500 mila euro in tre anni per le scuole. Da noi, zero. Con queste premesse, aver portato otto atleti paralimpici campani alle Paralimpiadi è stato un piccolo miracolo per il quale ringraziamo i tanti, atleti e tecnici in primis, che hanno fatto tanti sacrifici, in particolare durante il lockdown. Questo è un movimento che, per ora, si regge sull'appassionato impegno delle singole società, cuore pulsante di un movimento che noi abbiamo il privilegio di coordinare".

"Se puoi sognarlo puoi farlo"


Qui De Coubertin impera. Perché c'è competizione e agonismo (sono, del resto, il "sale" dello sport), ma tornare da Tokyo senza una medaglia al collo non è stato, per nessuno, fonte di amarezza. C'è chi ci riproverà a Parigi nel 2024, c'è chi è contento così e basta. "Sono andato in Giappone con la voglia di divertirmi, di mettermi alle spalle la pandemia e di gareggiare in un impianto stupendo. - dice Alessio Boni - Certo, mi sarebbe piaciuto vincere una medaglia, ma ho stretto volentieri una mano a chi è stato più bravo di me e, senza retorica, sono tornato a Napoli arricchito dall'esperienza e confortato dalla percezione che il movimento paralimpico natatorio, in particolare quello italiano, sia in grande crescita. Lo attestano, del resto, i tanti ragazzini che si avvicinano allo sport e le strutture che si affiliano alle federazioni paralimpiche".

Angela Procida 

Quinta, nella finale dei 50 dorso S2, è invece arrivata Angela Procida, appena 21 anni, volto genuino e sorridente di Castellammare di Stabia. Il suo motto è semplice: "Se puoi sognarlo, puoi farlo". Lei ha iniziato a sognarlo dopo la tragedia. Accade sempre così, in queste storie spesso tremende e senza sconti. Aveva 5 anni quando in un incidente stradale persero la vita il padre e la sorellina di sei anni. "Io subii un danno permanente alle gambe, che mi ha costretto sulla sedia a rotelle. L'incidente ha cambiato la mia vita. In peggio? No, in alcune cose in meglio". Dice proprio così, Angela. E aggiunge: "Bisogna guardare il lato positivo di ogni cosa. Oggi, a 21 anni, sento di essere in grado di affrontare qualsiasi ostacolo. Ognuno di noi può contribuire a modificare i destini del mondo". E sullo Sport, quello con la 's' maiuscola: "Aiuta a riabilitarsi, in tutti i sensi. Nel senso fisico e meccanico, naturalmente, ma anche e soprattutto in senso psicologico. Ti aiuta a superare i limiti, ti dà tranquillità".

Angela Procida  

Alessandra, Emanuele e Matilde: storie straordinarie


Alle Paralimpiadi di Tokyo la Campania ha calato anche altri assi: Alessandra Vitale, capitana della Nazionale italiana di "sitting volley" e giocatrice della società Nola Città dei Gigli, è ambasciatrice del Comitato Italiano Paralimpico. "Quando parlo della mia esperienza - dice -  voglio far capire che tutto si può superare, che è necessario riuscire a vedere lo stesso problema da un altro punto di vista o, per dirla in altro modo, cercare più punti di vista a un problema". E dopo il Giappone (dove la Nazionale italiana di sitting volley è finita sesta), la "mission" di Alessandra non si ferma: "Continueremo a essere presenti nelle scuole e nei centri di riabilitazione, dove porterò la mia esperienza e cercherò di far capire come lo sport possa essere in questi casi un'ancora di salvezza fondamentale. Io non sono nata con la mia disabilità: non avevo assolutamente idea di quello che poteva significare. Lo sport per me è stato un appiglio importante: voglio trasmettere questo messaggio a tutte le persone che incontro".

Alessandra Vitale 

E ancora: napoletano doc è Emmanuele Marigliano, classe 1995, già oro ai campionati europei di nuoto di Madeira, in Portogallo: il ragazzo di Barra, periferia est di Napoli, ha scelto il nuoto per scopi terapeutici, a causa di una disabilità causata da un'asfissia neonatale. Ha subito, nel corso della sua vita, 14 interventi chirurgici. "In Giappone non è arrivata la medaglia, ma esserci è stato già un grande risultato. Ringraziamo i tanti che ci hanno seguito, i media che hanno fatto da cassa da risonanza. Partecipare a un evento del genere, per me che sono partito da zero, è motivo d'orgoglio: spero che in tanti, con storie simili alla mia, possano arrivare a tagliare un traguardo del genere".

Alessandro Brancato, canottiere del Reale Yacht Club Canottieri Savoia, è arrivato invece quinto ai Giochi Paralimpici di Tokyo a bordo del "quattro con PR3Mix". A Parigi 2024 l'obiettivo sarà il podio.


Altro sport, altra storia. Neanche a dirlo, eccezionale. Matilde Lauria è una judoka sordocieca: ipovedente all'età di tre anni a causa di una miopia maligna che, negli anni, è peggiorata. Dopo la vista ha iniziato a perdere anche l'udito.
Vive a Montesanto, tesserata con l'associazione polisportiva Partenope, è iscritta alla Fispic (Federazione Italiana Sport Paralimpici per Ipovedenti e Ciechi) frequenta la Lega del Filo d'oro. A 54 anni ha coronato il sogno di una Paralimpiade. "Ho gareggiato per tanti ragazzi e ragazze ciechi, sordi o con altre disabilità, a cui nessuno ha mai detto che possono essere bravi in uno sport", dice. Touché.

L'ischitano Gianni Sasso con la maglia della nazionale di calcio per amputati 

Tutti insieme, senza differenze


Uscita agli ottavi di finale e ai quarti, anche Pasquino sfoglia con piacere l'album dei ricordi. "Tokyo resta un'esperienza indimenticabile, fino a tre anni fa non immaginavo di potermi giocare le mie chance in una Paralimpiade. - dice - Certo, l'appetito vien mangiando e una volta in Giappone confesso che avrei voluto toccare con mano qualcosa che non c'è stato. E soprattutto nella sciabola contavo di conquistare una medaglia. Ma va bene così. E poi la vera conquista, anche grazie al numero significativo di medaglie complessive, è aver fatto rumore, tutti insieme". Rumore, già.
Come quello che fa chi partecipa a "Più Scherma meno schermi", il progetto di integrazione e inclusione realizzato spontaneamente in una palestra di Napoli, complice l'impegno di Sandro Cuomo, ct della Nazionale italiana di Spada. L'obiettivo è far allenare e combattere insieme - per la prima volta - soggetti con diverse disabilità unitamente ai normodotati, mettendoli ad armi pari in pedana. Perché l'ultima sfida è proprio questo: abbattere anche le differenze. Accade per esempio nel "baskin", la nuova attività sportiva che si ispira al basket e che in Campania sta trovando terreno fertile: è stato pensato per permettere a giovani normodotati e giovani disabili di giocare nella stessa squadra (composta sia da ragazzi che da ragazze, altro dettaglio di non poco conto). In campo scendono dunque giocatori con qualsiasi tipo di disabilità (fisica e/o mentale) che consenta il tiro in un canestro. "Si mette così in discussione la rigida struttura degli sport ufficiali e questa proposta, effettuata nella scuola, diventa un laboratorio di società", spiegano gli ideatori della disciplina.


Un calcio alle barriere


Lo Sport con la 'S' maiuscola, dunque. Dove il risultato finale non è assillo, assolutamente. Non è arrivata sul podio, ai recentissimi Europei in Polonia, la Nazionale italiana di calcio per amputati: è finita sesta sulle quattordici partecipanti, staccando comunque il pass per i Mondiali, in programma nel 2022 in Turchia. Tra i veterani, uno straordinario ultracinquantenne di IschiaGianni Sasso. Aveva 16 anni quando fu travolto da un'auto - lui era in vespa - su una strada della sua isola. Sognava di diventare Maradona, non si è dato per vinto. "Vidi la mia gamba staccarsi e rotolare via, sembrava la fine di tutto. E invece non mi sono mai fermato - racconta oggi a Repubblica - e con il triathlon sono arrivato alle Paralimpiadi a Rio de Janeiro. Ma il mio grande amore resta il calcio, senza dubbio. Bomber del Vicenza e colonna della nazionale, oggi racconta: "Il movimento calcistico italiano sta facendo grandi passi in avanti, ma ci sono paesi come la Turchia, che ha appena vinto gli Europei, dove la popolarità della nazionale di calcio per amputati è quasi vicina a quella dei cosiddetti normodotati. Al ritorno in patria, Instabul ha celebrato la sua nazionale campione d'Europa. A Cracovia, in ventimila hanno seguito la partita inaugurale del torneo. Noi stiamo crescendo, qualche anno fa sembrava inimmaginabile anche solo un campionato per squadre nazionale: quest'anno avremo anche la Coppa Italia. E credo in generale - continua Sasso, che ha anche un passato da podista (con record del mondo annesso) - che l'attenzione per gli sport paralimpici non scemerà: abbiamo finalmente raggiunto una popolarità e una simpatia nel grande pubblico tali da garantirci una certa continuità nel tempo".Il dubbio, semmai, è nella vita quotidiana, dove - nei meandri di città piene di insidie, Napoli in primis - gli ostacoli - che siano pregiudizi o marciapiedi insormontabili - continuano a sopravvivere. "C'è ancora tanto da fare. - spiega Sasso - E lo dico dopo aver toccato con mano realtà come l'Australia e gli Stati Uniti, dove anche chi vive in carrozzella riesce autonomamente a fare la spesa o andare al museo. Ma sono ottimista: la sensibilità di chi amministra sta crescendo e aiuterà a risolvere difficoltà anche strutturali. Penso ai nostri edifici, alle barriere architettoniche, ai centri storici. Io faccio attività di coaching e parlo nelle scuole. Con i bambini, è bellissimo. Loro non hanno filtri: ti chiedono che fine abbia fatto l'altra gamba, vogliono palleggiare con te. Stabiliscono una forte empatia e comprendono il valore della diversità. Quel che dico a tutti è che non importa arrivare alle Olimpiadi, o alle Paralimpiadi: l'importante è misurarsi con sé stessi, e lo sport può essere decisivo". E queste storie lo dimostrano.

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...