Un bellissimo gatto rosso è sdraiato sul balcone, ma qualcuno chiaramente non vuole lasciarlo riposare.Dietro di lui, un corvo si siede sulla balaustra e gli gracchia contro. Sfortunatamente, non assomiglia ad una chiacchierata amichevole, ma piuttosto a una lite accesa.Il corvo sembra provocare il felino, finché alla fine ci riesce. Infatti, quest'ultimo risponde con uno sgradevole miagolio. Subito dopo, lui risponde con una bella replica. E così via.
Un'insolita chiacchierata
Il proprietario del gatto ha catturato ( vedere video sopra ) l'incredibile confusione verbale tra le specie in un video e lo ha pubblicato online.Oltre 8 milioni di internauti hanno guardato la scena e migliaia stanno ancora teorizzando su cosa sia realmente questa loro discussione. C'è un interprete in sala? Purtroppo, non è stato ancora trovato un traduttore che traduca la lingua felina e corvina nella nostra, ma va bene così.Le teorie degli internauti su ciò di cui gli animali possono parlare sono varie. Secondo alcuni, i due hanno un'accesa discussione su argomenti filosofici, secondo altri, su argomenti culinari.Alcuni dei commentatori si mettono nei panni di esperti di comportamento animale e, dopo i suoni emessi dal corvo e dal gatto, cercano di decifrare di cosa si potrebbe trattare.Uno degli internauti ha scritto: «Il corvo dice "Scommetto che non mi salterai addosso?" e il gatto risponde "Sono davvero un deficiente?"». tesi che condivido anch'io . Ma come potete vedere, ci sono numerose interpretazioni. Sono curioso di sapere la vostra opinione: di cosa sta parlando il corvo con il gatto? Condividi la tua teoria in un commento qui sotto!
(La triste storia della bambina americana di dieci anni che avrebbe potuto capovolgere gli stereotipi riguardo all’URSS.) Samantha Smith era nata il 29 Giugno 1972 a Houlton, nello Stato del Maine, ed era ancora una bambina ai tempi dell’intervento Sovietico in Afghanistan.Intervento legittimo, finalizzato a sostenere il Governo Laico e Socialista di quel
Paese dall’aggressione dei sanguinari Mujaheddin finanziati dall’Occidente, ma che nell’Occidente stesso fu spudoratamente dipinto come un’invasione da parte Sovietica.(Ancora adesso in giro in Occidente ci sono tanti creduloni, con il cervello all’ammasso del mainstream, che accettano la tesi dell’invasione Sovietica, e neanche il confronto tra le fotografie di come vivevano le donne Afghane allora e come “vivono” adesso li aiuterà mai a chiarirsi le idee.)
Samantha era una bambina sveglia, che seguiva la politica internazionale, nonostante la giovane età, e fu molto colpita dalle immagini che arrivavano dall’Afghanistan. Così nel 1982, a dieci anni, decise di scrivere una lettera all’allora segretario generale del Partito Comunista Sovietico, Jurij Andropov, chiedendogli di evitare la guerra.La lettera fu pubblicata sulla Pravda (la terribile Pravda … i giornali Americani avrebbero mai pubblicato una lettera del genere scritta da una bambina Russa? O meglio, la hanno mai pubblicata?) Una settimana dopo l’Ambasciata Sovietica negli Stati Uniti telefonò a casa di Samantha dicendo che Andropov aveva risposto. Pochi giorni dopo arrivò a Samantha una lettera scritta in russo, accompagnata da una traduzione in inglese e da un invito alla bambina e alla sua famiglia a passare un periodo di ferie nell’URSS.La vicenda ottenne grande attenzione dai media, venne raccontata dai giornali e Samantha fu intervistata da diverse televisioni Americane.Il 7 luglio del 1983, Samantha partì per l’Unione Sovietica con i suoi genitori e ci restò per due settimane, ospite di Andropov, seguita da giornalisti e fotografi. Visitò Mosca, Leningrado e trascorse del tempo ad Artek, campeggio estivo in Crimea.Ad Artek decise di rimanere insieme ai bambini Sovietici piuttosto che prendere un alloggio separato che le era stato offerto. Per facilitarne la comunicazione vennero scelti insegnanti e bambini in grado di parlare fluentemente l’inglese, che vivessero nella stessa costruzione in cui lei alloggiava. Rimanendo in un dormitorio con altre nove ragazze, Samantha passò il suo tempo nuotando, parlando, e apprendendo canzoni e danze Russe. Samantha Smith acquistò un’ampia fama tra i cittadini Sovietici e fu molto ben voluta da molti di loro.Parlando a una conferenza stampa a Mosca, dichiarò che i Russi erano “proprio come noi”. Anni dopo, per raccontare il suo viaggio, scrisse un libro intitolato “Journey to the Soviet Union”.Quando tornò negli Stati Uniti, il 22 luglio, Samantha Smith era molto popolare: fu accolta e celebrata come “la più giovane ambasciatrice d’America”.L’anno dopo fu invitata in Giappone e parlò al Simposio Internazionale della Gioventù, proponendo che i leader Sovietici e Americani si scambiassero le figlie per due settimane all’anno spiegando che un presidente “non avrebbe mai voluto inviare una bomba a un paese in cui è in visita la propria figlia”.Il successo di Samantha, mentre fu assoluto in Unione Sovietica (e anche in Giappone), lo fu molto meno nella sua Patria natale, negli USA. Dopo una fase iniziale di interesse, le autorità iniziarono ad ignorare sistematicamente le iniziative della intraprendente ragazzina.Avere tra i piedi una vera e propria “ambasciatrice” della fratellanza con il Popolo Sovietico che ripeteva in ogni occasione che “I Sovietici cono come noi” smontava tutta la poderosa macchina di propaganda Americana, tesa a dipingere il “Compagno Ivan” come un essere inumano, antropologicamente crudele, dedito alle peggiori efferatezze (vedere la vastissima produzione spazzatura di Hollywood, con il Russo immancabilmente nel ruolo del cattivo.)Mentre presso la popolazione Americana Samantha rimase popolarissima fino alla fine, da parte delle autorità calò su di lei una sinistra coltre di gelo (Altro che Greta eh …)Il 25 Agosto di quello stesso anno un aereo su cui viaggiava Samantha Smith mancò la pista dell’aeroporto regionale Lewiston-Auburn nel Maine e si schiantò. Non sopravvisse nessuno: morirono due membri dell’equipaggio e sei passeggeri, tra i quali Samantha e suo padre.Sulla causa dell’incidente in molti sospettarono subito la CIA.Fu aperta un’inchiesta e il rapporto ufficiale venne reso pubblico: “l’angolazione di volo relativamente ripida dell’aereo, l’altitudine e la velocità al momento dell’impatto, hanno precluso agli occupanti dell’aereo la possibilità di sopravvivere all’incidente”.Al funerale, che si svolse ad Augusta partecipò un rappresentante dell’ambasciata sovietica a Washington, che lesse un messaggio personale di condoglianze da parte di Mikhail Gorbaciov in cui si parlava di Samantha come di un “simbolo di pace e amicizia fra i due popoli”: l’URSS quell’anno le dedicò anche un francobollo commemorativo.Alla cerimonia non partecipò invece alcun rappresentante del governo statunitense: l’attività di promozione della pace di Samantha e la sua vicinanza ai Sovietici furono anzi molto criticate dai conservatori Americani e dagli anticomunisti, che la accusavano di propaganda.Come è morta veramente Samantha Smith? Non lo sapremo mai. Ciascuno tragga le conclusioni che vuole. Io le mie le ho e tutto mi sembra fin troppo chiaro, anche alla luce di tante tragedie analoghe che da sempre accadono nel “democratico” Occidente a chi osa sfidare (anche inconsciamente e in buona fede, come nel caso della povera Samantha) il potere costituito.Quello che sappiamo è che in Russia è ricordata con affetto ancora oggi, e molte scuole e campi estivi le sono ancora dedicati. Negli USA, liquidata la pericolosa seccatrice, la sua memoria è finita subito nel dimenticatoio.Samantha Smith era una ragazzina che sognava un Mondo migliore. Ma visse, e morì, in un Mondo nel quale non c’era spazio per i sogni e, tanto meno, per i sognatori.
"È stato emozionante, ci siamo sentite accolte". Alessia Nobile ha raccontato a Fanpage.it com'è stato essersi trovata faccia a faccia con Papa Francesco.
Ieri il Santo Padre ha incontrato sei donne transgender, una italiana e cinque straniere, di diverse età e storie diverse e la mamma di un ragazzo transgender. Un incontro inaspettato e di forte valenza simbolica, se si considera che è avvenuto proprio durante il mese del Pride, delle manifestazioni e dei colori arcobaleno.Alessia, laureata in Scienze sociali, è autrice de ‘La bambina invisibile' edito da Castelvecchi e pubblicato lo scorso febbraio. A San Pietro non c'è andata da sola, ma ha portato con
sé quel volume di cui parla nelle scuole e nelle carceri dove fa informazione. Un libro che racconta la sua vita e il suo percorso verso la formazione della persona che è oggi, della realtà delle persone transgender e lo ha messo tra le mani del Pontefice.Una giornata organizzata da suor Genevier, amica del Papa, una religiosa che vive nei Luna Park, che raduna e si occupa degli ultimi. Gli ha proposto l'incontro, spiegandogli però che non si trattava di una sola persona e lui le ha risposto "Portale tutte". "Ci siamo radunate al Vaticano insieme alla suora e a un sacerdote, che fa parte del Gruppo Cristiani lgbt+ Nazionale TRANSizioni – progetto a cura de La Tenda di Gionata. Il Papa ci ha ricevute singolarmente ed io sono stata la prima spiega Alessia con emozione – Portargli il mio libro è stato un sogno che si è avverato". Alessia ha spiegato com'è stato l'incontro con il Papa: "Non ha voluto che mi inginocchiassi, mi ha stretto la mano e quando mi sono presentata come una ragazza transgender mi ha risposto che non gli importava chi fossi, che abbiamo un unico Padre, come se volesse dirmi sei una sorella".Alessia ha regalato il suo libro al Papa: "Lo ha preso e mi ha detto, brava hai fatto bene a scrivere la tua storia. Poi mi ha raccomandato di essere sempre me stessa, ma di non farmi avvolgere dal pregiudizio nei confronti della Chiesa"
Dopo mesi in cui veniva ricoperta di insulti al telefono si è presentata a casa sua: "Qual è il problema?". Hanno fatto pace con una brioche. Una storia singolare raccontata in un post su Facebook dalla sindaca di Russi Valentina Palli. ( foto a destra ) Da quando è stata eletta, con una lista civica legata al centrosinistra, il signor Renato, 90 anni, ha cominciato a tempestarla di telefonate (con offese): decine e decine di chiamate per mesi in Comune, a lei, alla sua segretaria e ai collaboratori, alla Provincia, proprietaria della strada. Il motivo? Il traffico, i camion
che passavano davanti a casa. "Non mi lasciano riposare", la lamentela. "Determinato, caparbio, testone finanche. Perennemente arrabbiato - scrive la prima cittadina del Comune nel Ravennate - Il suo problema era il traffico pesante davanti a casa sua, a suo avviso cresciuto esponenzialmente, tanto che non lo lasciava più riposare. E allora si attaccava al telefono proferendo insulti a tutti. Gli insulti di Renato sono stati, per mesi, una sorta di ricorrenza quotidiana per i malcapitati che rispondevano alle telefonate". Così la sindaca ha deciso di reagire. "In un giorno di sole - racconta - senza avvisarlo, mi sono presentata a casa sua. Sono stata lì un’oretta, un tempo di chiacchiere, di storia della sua vita e della sua famiglia. Di vicinanza umana. Abbiamo parlato anche un po’ della strada ma in effetti nel nostro tempo insieme quello fu un tema del tutto residuale. Da quel giorno, le sue telefonate sono cambiate. Il rumore della strada deve essere cessato perché non lo ha mai più citato". Poi Renato ha preso il Covid ed è stato ricoverato. "Dall’ospedale, visto che è solo, chiamava noi e noi abbiamo fatto altrettanto con lui, chiamandolo al telefono e chiedendo ai medici come stesse, per assicurarci che non si sentisse solo (all’ospedale ci era vietato andare…) e così Renato è tornato a casa. Come dice lui: “alla mia età sono anche tornato!” e si è commosso al telefono quando lo ho chiamato per dargli il bentornato". Il lieto fine? "Adesso, ogni tanto, mi fisso (da sola e senza avvisarlo) un appuntamento in agenda. Gli porto una brioche (che non mangia) e lo passo a salutare - conclude Valentina Palli - La strada deve essere diventata nel frattanto tranquillissima perché non ne abbiamo mai più parlato". In compenso quelle visite sono diventate un appuntamento fisso: brioche con Renato.
sempre in ambito di pace e di coesistenza \ convivenza ci sono queste due storie soprattutto la prima
Dall’Italia a San Pietroburgo in bicicletta, il messaggio di Monokov contro la guerra
Daniil, in arte Monokov, è un ragazzo russo di 18 anni che vive in Italia dal 2009. Da oltre sessanta giorni sta viaggiando per l’Europa, a bordo della sua bicicletta, partendo da San Ginesio, un comune in provincia di Macerata, nelle Marche. Il suo obiettivo è diffondere un messaggio contro la guerra e contro la Russofobia nel continente. Al momento si trova in Polonia, dove i suoi canali social sono diventati virali, ma ha già percorso circa 3 mila chilometri e attraversato 9 Paesi, con la speranza di arrivare fino a San Pietroburgo. Nei video e nelle foto che pubblica, spesso Monokov mostra una bandiera che porta i colori bianco blu bianco. “È la bandiera dei russi che sono contro la guerra”, ha spiegato Monokov, aggiungendo che i colori sono stati scelti prendendo la bandiera russa e togliendo il colore rosso, che “simboleggia il sangue della guerra”, motivo per cui è stato sostituito con il bianco. Durante il suo percorso, Daniil ha avuto modo di confrontarsi con diverse persone, anche con profughi ucraini. Daniil vuole veicolare un messaggio di pace, senza schierarsi politicamente “non voglio parlare di politica, sono neutrale”. diTommaso Bertini
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Lugansk, 15enne ferita guida un'auto sotto i bombardamenti e porta in salvo 4 persone: l'intervista
"Mi sono trovata sotto un bombardamento a Popasna, nella regione di Lugansk. Eravamo in macchina quando all'improvviso i russi hanno iniziato a sparare".
Liza, 15 anni, si trovava in compagnia di quattro persone in quel momento, tutti suoi compagni di viaggio. Il guidatore è stato ferito da alcune scheggie così la ragazza ha preso la situazione in mano Lugansk, 15enne ferita guida un'auto sotto i bombardamenti e porta in salvo 4 persone: l'intervista
"Mi sono trovata sotto un bombardamento a Popasna, nella regione di Lugansk. Eravamo in macchina quando all'improvviso i russi hanno iniziato a sparare". Liza, 15 anni, si trovava in compagnia di quattro persone in quel momento, tutti suoi compagni di viaggio. Il guidatore è stato ferito da alcune scheggie così la ragazza ha preso la situazione in mano e ha portato tutti in salvo a Bakhmut, città dell'Ucraina orientale. A raccontare la sua storia è stato il canale "Ucraina-24", che ha raccolto la testimonianza della ragazza mentre questa veniva trasferita in ospedale in ambulanza. L'intervista è stata rilanciata anche dall'ex ambasciatore ucraino in Italia, Dimitri Volovnykiv. .
e ha portato tutti in salvo a Bakhmut, città dell'Ucraina orientale. A raccontare la sua storia è stato il canale "Ucraina-24", che ha raccolto la testimonianza della ragazza mentre questa veniva trasferita in ospedale in ambulanza. L'intervista è stata rilanciata anche dall'ex ambasciatore ucraino in Italia, Dimitri Volovnykiv. .
Se prima rispondevo e dialogavo ora lascio libertà agli altri \e di replicare ai commenti che suscitano i miei post o articoli \ storie che condivido come esempio il precedente sui vaccini e sugli effetti di chi non si vaccina . Il perchè di questa mia decisione , lo spiego con questo esempio .
Mettiamo che sia una bella giornata di sole, in piena estate. Arriva un tizio, si siede accanto a me e dice, sconsolato: «Peccato che stia piovendo». Lo guardo, un po’ smarrito, e gli rispondo: «Spiritoso, sta scherzando, vero?». E lui: «Siamo zuppi, viene giù proprio forte». Poveraccio, penso, deve avere dei problemi. Sorrido, comprensivo: «Ma non vede che bel sole? Neanche una nuvola in cielo». Lui: «E non ho neanche l’ombrello». «Ma scusi, non sente che caldo sulla pelle? Non vede le ombre così nette?». Indignato, il tizio mi guarda storto: «È quello che le raccontano. C’è il sole, c’è il sole... Ma quale sole! Piove che Dio la manda!».
Ecco, discutere con un no vax di quelli “duri” è un’esperienza così. Non è neanche il classico dialogo tra sordi, è molto peggio: l’evidenza non basta, l’evidenza inganna, l’evidenza non è visibile, come il sole in una giornata estiva. C’è, ma non conta: è manipolata, è falsa, è costruita a tavolino da chi ci vuole male. I dati, i morti, le storie di chi non ce l’ha fatta, i disastri in altri Paesi... Niente: favole. E finché a dirlo è qualche picchiatello sui social, vabbè, possiamo anche farcene una ragione: di picchiatelli purtroppo è pieno il mondo, e i social ne traboccano . Comincia a essere preoccupante quando a non vedere il sole è qualche personaggio importante, istruito, autorevole. Di quelli che la gente ascolta e se è credente si fida .La settimana scorsa un vescovo, anzi, nientemeno che un arcivescovo, e cioè monsignor Carlo Maria Viganò, ospite di Giovanni Floris a Dimartedì sulla 7, se n’è uscito con questa perla: «Hanno ucciso deliberatamente i contagiati per farci accettare mascherine, lockdown e coprifuoco». Bruno Vespa, presente in studio, se l’è cavata scuotendo la testa e sussurrando un «Che Dio lo perdoni». Il direttore della Stampa, Massimo Giannini, è stato più tranchant: «Viganò è un mascalzone», ha sillabato: «Dobbiamo essere intolleranti, non con chi la pensa diversamente, ma con chi mente sapendo di mentire». Difficile dare torto a Giannini, anche per chi, come noi, l’intolleranza non la pratica ( anche se qualche volta ci cade ed intollerante contro certe cose
Dire (o lasciar dire) che i medici di Bergamo, l’anno scorso, hanno «ucciso» i loro pazienti per fare il gioco di chissà quale Spectre mondiale non solo è folle: è molto pericoloso. Perché non tutti hanno gli strumenti per capire che è una vergognosa fake news bugia (che fra l’altro getta fango sui medici e gli infermieri che si sono sacrificati ed ancora continuano a farlo , anche se fra loro aumentano chi non vuole farsi il vaccino per salvare migliaia di vite), e si rischia in tal modo di alimentare le paranoie di tante oneste persone che semplicemente hanno dubbi o paure.
Ci sono un paio di fedeli e simpatici lettori che più o meno regolarmente mi tempestano di chilometriche mail , video e post no vax e no Green pass. In passato ho intavolato con loro civilissime discussioni sul tema, ma poi ho smesso. Perché mi sembrava di essere quello che, in una giornata di sole, tentava di convincere l’altro che no, non pioveva affatto. Un altro lettore mi ha scritto: «Visto Ranucci, di Report? ha detto in tv che la terza dose è il business delle case farmaceutiche». Già, peccato che il medesimo Sigfrido Ranucci, qualche giorno dopo, ad Agorà su Rai 3, abbia perorato la seguente causa: «Dobbiamo seguire l’esempio di Israele, che quando ha visto risalire i contagi è immediatamente partito con la terza dose. Quindi partire da subito con la campagna per la terza dose è fondamentale». E allora? Come la mettiamo? Senza considerare che il vero business per Big Pharma, come ha ben spiegato Roberto Burioni a Che tempo che fa, sarebbe in realtà l’ospedalizzazione: più malati, più costosi medicinali da usare, più soldi, per loro, da incassare (un giorno in terapia intensiva costa alla collettività circa 2.800 euro; in media la terapia dura dieci giorni, sempre che il malcapitato si salvi, per un totale di quasi 30 mila euro: altro che gli spiccioli per il booster di Pfizer). Insomma, per fortuna che la larghissima maggioranza degli italiani sa distinguere una bella giornata di sole da una in cui viene giù a catinelle...
«I giovani non sono abituati ad essere realmente ascoltati in classe, e quando provano ad esprimere liberamente un loro pensiero vengono zittiti da un sistema gerarchico che pone al di sopra di tutto l’autorità degli insegnanti considerati custodi del sapere acquisito e quindi dato. Io non agisco così. Insegnare per me è condivisione e fascinazione. Non impongo nulla ai miei allievi e cerco sempre di stimolare il loro spirito critico attraverso il dialogo. Jean-Jacques Rousseau sosteneva che: “Per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino”. Nessuna preparazione, per quanto ottima, ci esonera dal conoscere i nostri allievi. Ascoltarli è un dovere e un’occasione per crescere umanamente e professionalmente»
Lo so che tale news successa in questi giorni farà , come è successo sulla mia bacheca deve fra i commenti c'erano molti smile sorridenti , ridere ma secondo me è una bella notizia simbolo di resistenza culturale , all'odio e alla violenza ancora imperante vedi i nuovi fatti di Colleferro .
L'impresa più difficile è stata arrivare alla pace fra Leonardo e Marco. Si punzecchiavano sempre durante le lezioni e un giorno sono finiti a rincorrersi per tutta l'aula. A loro ci ha pensato Gioele Barletta, 13 anni, uno degli alunni mediatori dell'istituto comprensivo Antonio Ugo della Noce. "All'inizio non volevano neanche parlarsi, era un caso disperato. Poi a poco a poco ho cercato di farli calmare, mi sono fatto raccontare le due versioni dei fatti e per la prima volta si sono ascoltati a vicenda, hanno fatto pace e da allora sono amici", dice il ragazzo.
Si perché all'Antonio Ugo i litigi fra gli alunni non finiscono con una nota sul registro, un richiamo del professore o una convocazione dal preside. Vengono affrontati dagli stessi bambini alla presenza di un terzo bambino-mediatore in un'aula ad hoc riservata, appunto, alla delicata questione del superamento dei conflitti che anche fra i bambini delle elementari possono essere delle montagne invalicabili. I bambini-mediatori, una trentina in tutto l'istituto, dalle classi delle elementari alle medie, sono stati formati da tre anni a questa parte all'interno del progetto europeo "Deliberative mediator leader students" che ha visto impegnati in prima battuta i professori che poi hanno formato i ragazzi."La prima cosa che ci hanno insegnato è l'autocontrollo, molto utile in certe situazioni. A fare il mediatore si imparano tantissime cose, si ha un'arma in più rispetto agli altri. Si conosce se stessi, le proprie emozioni e si trova più facilmente una strada per risolvere i piccoli conflitti quotidiani", dice Barletta, mediatore ormai da due anni.
I casi sono tantissimi. Il compagno che rivela alla classe qualcosa che doveva restare segreta, le offese sotto voce durante le interrogazioni, la paternità di un lavoro fatto insieme conteso fra più compagni. "Agli occhi di un adulto possono sembrare piccole cose, ma per i bambini sono enormi. E può anche capitare che dietro a una sciocchezza si nasconda un disagio più grande che in molti casi i bambini riescono a risolvere da soli. Di certo è un approccio innovativo di fronte ai conflitti che aiuta gli alunni a sentirsi protagonisti e responsabili allo stesso tempo. Serve una buona dose di empatia e la capacità di capire l'altro per essere un buon mediatore e loro ci riescono", dice Maria Chiara Billa, professoressa di inglese e coordinatrice del progetto.I margini di successo, a sentire la scuola, sono enormi. "Quasi sempre se la cavano da soli, senza l'intervento dell'adulto che resta come una sorta di supervisore. Seguono delle regole precise nel processo di mediazione, attendono il turno per parlare, espongono il problema e alla fine il mediatore fa delle domande per arrivare a un accordo finale", dice Marilena Salemi, vice preside dell'Antonio Ugo. Quando il conflitto è risolto, i bambini sottoscrivono un vero "trattato" di pace. "Firmano proprio un modulo e la pace è fatta. Non c'è cosa più bella", dice Billa.
Per cercare d'essere originale ed evitare di cadere nella retorica anche nella " settimana " del ricordo ovvero nel 1' febbraio , ho deciso d'incentrare il mio post su un intervista \ chiacchierata con l'amico fb triestino Paolo Visnoviz
IO ciao e complimenti per i tuoi scritti . e pensieri in direzione ostinata e contraria . vorrei chiederti , visto che il tuo cognome mi sembra slavo , se t'andrebbe una " intervista " chiacchierata sulle foibe e sull'esodo
PAOLO
Sono triestino da almeno 7 generazioni, poi chissà... Ma anche mi chiamassi Rossi, la storia delle foibe ha segnato tutto il territorio e tutti i suoi abitanti.
IO come hai conosciuto le vicende delle foibe ?
PAOLO Abitando dove abito, è difficile non aver mai sentito parlare delle foibe. Ma anche la memoria va contestualizzata. Nel senso che la mia memoria non è diretta, per ovvi motivi anagrafici, ma nasce in un preciso contesto sociale e politico. La mia famiglia era di sinistra. Mio nonno era un attivista del PCI, e fu internato in Risiera. Sopravvisse. Mio padre, anch'esso di sinistra (seppur equilibrato e affatto integralista), era stato preso dai tedeschi e obbligato a scavare trincee nell'ultimo periodo dell'occupazione nazista. Delle foibe, in famiglia, non se ne parlava mai. Forse perché non ci avevano mai toccato direttamente. Forse perché avevamo altre tragedie da ricordare, come il bombardamento del 10 giugno del '44, che mi impedì per sempre di conoscere uno zio materno, morto adolescente.Oltre che le memorie e i discorsi a mezza voce di "quelli grandi", da piccolo la guerra mi regalò una baionetta nazista, usata da mia nonna per fare lavori di giardinaggio e lasciataci da un giovanissimo soldato, che la mia famiglia aveva nascosto per qualche giorno in un sottoscala, e un bel tavolo in legno massiccio lasciatoci da una famiglia ebraica, che pure i miei avevano aiutato. Le foto in bianco e nero di quelli che non c'erano ormai più. I racconti di mia madre e mio padre di quando andavano al mare, a tuffarsi da un relitto di nave bombardato. O, ancora, i racconti di mio nonno, il quale aveva, all'epoca, una piccola osteria dove dalla porta uscivano tedeschi, incrociando partigiani che entravano, facendo finta di nulla. Quasi in una specie di tregua mai dichiarata, ma da tutti rispettata.
IO secondo te il 10 febbraio è utile o inutile ? Oppure tale giornata Istituita nel 2004 su iniziativa di esponenti dell'allora Alleanza nazionale e da una sinistra revisionista “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”, la ricorrenza del Giorno del Ricordo ha finito per inglobare non solo le memorie per troppo tempo marginalizzate degli esuli e delle loro famiglie, ma anche dei fascisti, le cui responsabilità sono intrinsecamente legate con il destino di quelle comunità. ?
PAOLO Come sempre la politica, o meglio la strumentalizzazione politica dei fatti storici, fa sembrare tutto rosso o nero, ma non fu così. Non è mai così.
Nella mia fretta ( sia del parlare che nella scrivere ) gli ho fatto tre domande in una
IO "Sul tema si è imposta una verità ufficiale fatta di stereotipi e luoghi comuni. Chi la mette in discussione è tacciato di negazionismo" che ne pensi ? Eric gobetti afferma in questo articolo su https://www.ildolomiti.it/societa/2021/ << [...] Per gli studiosi parlare di questo tema, come di molti altri, è diventato sempre più difficile. Ma questo è un meccanismo che va fermato, perché gli studiosi devono poter analizzare le fonti, fare ricerca e dare le proprie interpretazioni liberamente” [....].>> e qui introducendo il suo ultimo libro
concordi o non concordi ?
Per me A dominare la narrazione sul confine orientale è il nazionalismo, che a fronte di decenni di repressione e oppressione degli slavi tende a isolare gli episodi in cui gli italiani sono stati vittime. << La verità ufficiale che si è imposta sul tema delle foibe non si basa sulle fonti bensì sugli slogan – prosegue Gobetti – si sente ad esempio ripetere che i territori in questione fossero italiani da sempre. È totalmente falso, perché diventano italiani dopo la Prima guerra mondiale e lo restano fino alla fine della Seconda, quindi per poco più di 20 anni. Sono terre in cui per secoli hanno convissuto gruppi linguistici differenti. A questo aspetto dedico uno dei tanti capitoli del libro, dove punto per punto analizzo cosa ci sia di vero e cosa di falso negli slogan>> e vanno studiati e ricordati a 360 gradi . Per te ?
Paolo Ritornando in tema e alla tua domanda, delle foibe iniziai ad interessarmi grazie a Roberto Menia (quello che poi sarebbe diventato il braccio destro di Gianfranco Fini). Andavamo allo stesso liceo, ma in classi differenti (credo lui sia più vecchio di me di un anno), e mi aveva preso di mira. Lui già allora era un "capetto del Fronte della Gioventù, mentre io mi definivo anarchico, e tra tutti i 600 studenti di quella scuola, eravamo forse in 3 ad esserlo. Avevamo però un certo seguito e carisma, ovviamente soprattutto a sinistra, e quindi Menia mi prese un po' di mira. Nulla di che, mai nulla di violento. Forse, una volta qualche spintone e un giornale strappato (credo fosse una copia de "il Male").Un giorno, in un confronto verbale in corridoio, mi rinfacciò le foibe, non a me, ovviamente, ma a quella parte politica cui lui credeva fossi vicino. Non era la solita contrapposizione verbale, il solito esercizio dialettico (classico, per dei giovani stupidi, come tutti a quell'età eravamo). No, per lui era qualcosa di più profondo, di più vivo: una ferita ancora aperta.Ne parlai a casa con i miei. Chiesi loro direttamente delle foibe. Non negarono, ma quasi giustificarono quei massacri con i torti da molti subiti. I villaggi in fiamme, la gente uccisa o deportata. Gli orrori perpetrati dai nazifascisti.Non subito, ci volle tempo, ma da quel giorno iniziai a capire che i torti non stavano da una sola parte, e che gli orrori li avevano commessi tutti.La famiglia di mia moglie è italiana d'origine, italiofona e vive in Istria, Croazia. La maggior parte di loro sono rimasti anche nel travagliato dopoguerra. Vivono non molto distante da una foiba, e i loro ricordi sono terribili. Sono sopravvissuti, come la madre di lei, poi emigrata a Trieste che, un giorno, camminando per strada si prese un proiettile in un braccio. Di storie così ogni triestino può raccontarne. Eppoi la triste storia degli esodati, ben raccontata da Cristicchi in Magazzino 18. Un lavoro teatrale che ha portata in giro per l'Italia, e che io ho visto a Trieste, dove ha avuto un impatto emotivo molto forte, per ovvi motivi. Lo hanno minacciato, gli hanno bucato le gomme della macchina. Ancora oggi c'è gente che non riesce a far pace con la storia. D'altra parte, quando venne eletto Nesladek sindaco di Muggia (TS), di sinistra, in piazza c'era gente che per festeggiare ha tirato fuori le bandiere titine. Ancora oggi ci sono moltissimi triestini che non vanno in Slovenia nemmeno se pagati. Ancora oggi in molti esercizi della minoranza slovena, servono prima chi entra dicendo "doberdan" di quello che ha detto "buongiorno", anche se sarebbe stato il suo turno.Ancora oggi ci sono persone che negano o giustificano. Almeno oggi se ne parla, almeno oggi c'è il 10 febbraio. La verità viene raccontata, anche se non tutti vogliono sentirla. Più in generale ci sono stati storici e giornalisti che hanno riletto la storia della 2° guerra mondiale in modo più critico e obiettivo, non ideologico, come Giampaolo Pansa.Dal mio canto, quando mi capita di parlarne con qualcuno, ricordo semplicemente che riconoscere le atrocità dell'esodo e delle foibe, non sminuisce affatto gli orrori del nazifascismo. Nessun revanscismo, nessun odio, solo la necessità di raccontare la storia. Tutta la storia, non solo una parte.
Concordo con lui soprattutto sull'ultima parte perchè dopo quasi 60 anni di silenzio istituzionale e ufficiale , rotto ogni tanto come un Geysir da scritti e studi ma limitatoi solo per gli specialisti e un pubblico di nicchia , certe ferite ancora aperte bruciano ancora per il sale che viene sparso su d'esse da un uso politico \ ideologico della storia alimentato dalle celebrazioni ufficiali . Infatti anche se sono critico verso il 10 febbraio ricordo tale evento e cerco di sfatare la vulgata delle foibe e dell'esodo solo ed esclusivamente come i eccidi comunisti . Ma soprattutto mettere in evidenza che quello che accade nell'Adriatico ( quelo che una volta si chiamava confine orientale ) in quegli anni non è solo dal 1947 al 1960\75 e che farsi un idea diversa da quella ufficiale non vuol dire necessariamente giustificare o negare talli fatti. Infatti La cristallizzazione istituzionalizzata delle memoria delle vicende delel foibe in una ricorrenza nata a qualche anno dall'istituzione del Giorno della Memoria contiene in sé un'irrisolvibile contradditorietà. Il 10 febbraio l'Italia si ferma a ricordare una comunità sradicata dal proprio territorio e accolta a fatica nel seno della nazione. Lo fa in una data che è al tempo stesso l'inizio della fine per gli italiani adriatici e l'imposizione di un trattato come vinti per l'intero Paese. Agli occhi degli italiani, digiuni dalla Storia e dalla conoscenza delle terre di confine, il ricordo diventa rivendicazione, in continuità diretta, geografica e politica, con la “vittoria mutilata”. L'iter per l'istituzione della ricorrenza, al tempo stesso, ne marca il senso politico. “Colonizzata” dalla destra post-fascista, accettata dalla sinistra post-comunista in nome della “memoria condivisa” - lo scotto da pagare per la consunzione dell'utopia – questa data “dialoga” con il Giorno della Memoria, quasi fosse contrapposta allo sterminio nazi-fascista. "Pareggiare la storia", equilibrare le morti, presentarsi come vittime dimenticando deliberatamente d'essere stati carnefici.
L'uso politico della storia strumentalizza la tragedia d'una comunità, acuendo le divergenze, impedendo la comprensione. Infatti concordo con quanto dice in questo articolo dell'anno scorso sempre dal sito https://www.ildolomiti.it/societa/ Raoul Pupo uno degli storici fra i più citati dai "seguaci " del 10 febbraio ufficiale .
Professor Pupo, cosa avvenne nel confine orientale negli anni della Seconda guerra mondiale e cosa si celebra nella ricorrenza del Giorno del Ricordo?
È un periodo lungo quello che si ricorda nella celebrazione del Giorno del Ricordo, così come diversi sono i fenomeni al centro di questa ricorrenza. Si parte con gli infoibamenti, un'espressione in cui è forte la tendenza a semplificare e all'uso pubblico della storia. Si indicano le stragi avvenute a ondate nell'autunno '43 e nella primavera/estate del '45. Si ricorda poi l'esodo, un fenomeno lungo cominciato con lo sfollamento di Zara nel 1943 e concluso nel 1956. Vi sono poi le altre vicende del confine orientale, per cui si va indietro all'occupazione italiana. Complessivamente nel Giorno del Ricordo si commemora il collasso dell'italianità adriatica, di un intero gruppo nazionale, che per il 90% decise d'emigrare. I numeri precisi non si conoscono, si parla di alcune migliaia di scomparsi, tra i 3000 e i 5000, e di 300mila esuli. Sul tema, Italia, Slovenia e Croazia diedero vita a commissioni d'esperti, che si conclusero nel caso italo-sloveno mentre è rimasta in sonno quella italo-croata. Alla pubblicazione in Slovenia, in Italia non corrispose una pubblica comunicazione. Il Ministro degli Esteri, comunque, lo ha lasciato a disposizione degli studiosi. Su questo “collasso” vi è poi stato il tentativo di colonizzazione da parte della destra, un uso politico che si è inserito sullo spirito originario della legge di recupero e valorizzazione di una memoria per lungo tempo rimossa dalla scena pubblica.
Uso politico della storia e semplificazioni nel linguaggio segnano questa ricorrenza. Non è forse l'accento sulla memoria a determinarne la problematicità?
Sulle vicende di giuliani, istriani e dalmati ha operato per lungo tempo una generale amnesia, a partire dal dopoguerra. Per gli esuli e i parenti degli scomparsi è rimasta una ferita. Il Giorno del Ricordo agisce in questo senso su un lutto non elaborato, recuperato e valorizzato, come detto, ma su cui poi si è prepotentemente inserito un uso politico. L'utilizzo di un linguaggio banalizzante e semplificatorio ne è l'esempio. Si parla tanto di foibe perché impattano maggiormente sull'opinione pubblica, ma nella categoria di infoibati si comprendono anche persone uccise in altri modi o scomparse. Si parla di pulizia etnica, ma se fosse stata davvero una pulizia etnica ci sarebbero attualmente in quei territori circa 100mila italiani. Infatti quando parliamo di italiani in questi territori ci riferiamo a italiani d'elezione, non a italiani etnici. Paradossalmente “pulizia etnica” è un termine riduzionista, una semplificazione che finisce per essere un boomerang per chi la fa. Si guardino i cognomi degli esuli, ci si renderà conto di questo concetto. Con l'istituzione della legge il racconto di queste storie è delegato alle associazioni di profughi, variegate al proprio interno, alla rete degli istituti della Resistenza e agli enti locali. È chiaro che in quest'ultimo caso le maggioranze politiche influiscono in modo più o meno evidente. La problematicità delle iniziative, d'altronde, si ritrova proprio nell'accento che si fa sulla memoria. Nella caccia ai testimoni, sempre di meno, si mettono in difficoltà queste persone. Non si può, in aggiunta, far spiegare da un figlio di un infoibato come funzionano le stragi. Bisognerebbe che ci fosse sempre uno storico o un esperto accanto al testimone, perché va bene quando la memoria fa memoria, ma quando la memoria fa la storia è un disastro.
Tutti gli anni, a margine del Giorno del Ricordo, il dibattito pubblico viene percorso da opposte prese di posizione che negano o ingigantiscono il fenomeno degli infoibamenti. Quanto e perché è problematica questa ricorrenza?
La scelta del 10 febbraio è tutta politica. Nello spirito delle associazioni dei profughi è una data che segna l'inizio della tragedia, una data simbolicamente molto forte. Dal punto di vista storico, però, è estremamente problematica. Il governo italiano è oggetto del Trattato di pace, l'Italia è un Paese sconfitto e sul banco degli imputati. C'è inoltre il grosso limite d'essere vicini al Giorno della Memoria, segno che tra alcuni proponenti ci fosse l'idea di metterli sullo stesso piano. È una data infelice, se ne deduce, ma non era facile trovarne un'altra. Le ricorrenze si pongono spesso all'incrocio tra due fenomeni: la ricerca dei testimoni e il vittimismo come esaltazione della vittima. Queste due ricorrenze ne sono il simbolo. Riguardo ai diversi atteggiamenti nei confronti dei fenomeni al centro di questa ricorrenza, nel mio libro del 2003 ("Foibe", scritto con Roberto Spazzali) vengono avanzate alcune categorie come quelle di “negazionista” e “riduzionista”. Categorie scivolosissime da usare con attenzione, visto che il negazionismo è un reato punito per legge, e che rischiano d'essere utilizzate per ogni critica. C'è un grosso equivoco, a mio giudizio, e consiste nel fatto che cercar di capire cosa accadde nell'Adriatico in quegli anni non vuol dire giustificare.
Lo so che il mi ricordare e parlare di tali argomenti crea stupore tipo quanto mi si disse quasi a sfotto un amico di destra anni fa : << come miracolo un comunista che critica gli stessi comunisti , e ricorda ed condanna i loro eccidi >> Ma certi eventi , aldilà dell'interpretazione che ne viene data da una parte e dall'altra
Sul suo profilo Facebook, lei ha scritto: “Perfino un banale incidente viene raccontato in mille modi diversi. Per raccontare esodo e foibe occorrono anni di studi, onestà intellettuale e più voci”. Che motivo l’ha spinta a scriverlo?
Ho scritto questo perché io ho letto e leggo molto, anche per il mestiere che ho fatto. Mi sono reso conto che tante manifestazioni che sono organizzate per il ricordo o per altri motivi, sono spesso poco equilibrate. C’è gente che si improvvisa storico. E’ vero che ognuno ha i propri ricordi e quindi la storia la vede sotto il proprio punto di vista e non da quello degli altri. L’estrema sinistra e l’estrema destra hanno due approcci diversi nel raccontare la storia di quegli anni. Bisogna avere più equilibrio. E questo manca tante volte, anche in alcuni di noi. Perché io mi rendo conto che il dolore provato da mio padre, da mia madre, da mio nonno è stato grande, ma bisogna tener conto anche dell’opinione degli altri.
Non puoi raccontare solo la tua, devi indagare, vedere poi trarre le conclusioni. Per questo per me sarebbe importante che certe manifestazioni fossero organizzate con tutti e due i punti di vista, sia chi nega certe cose sia chi le esalta troppo. In modo da raggiungere un certo equilibrio in modo che la gente senta le opinioni di tutti e poi possa trarre le sue conclusioni. Io voglio sapere qual è la verità, la verità mia quella dell’altro, poi ognuno farà i suoi ragionamenti.
La storia e il dramma del professor Picot, il racconto della tragicità delle foibe e della fuga dall'Istria
non si possono negare o far finita che non siano mai avvenuti . Inoltre io ricordo oltre a quanto ho già detto precedentemente in altri post tali eventi perchè : 1) combatto , almeno ci provo . l'uso strumentale e politico di tali complesse e dolorose vicende ., 2) perchè essendo La memoria, come un fiume carsico, percorre le profondità della terra prima di ritornare alla luce. E quando lo fa, spesso, è prorompente. La memoria degli italiani adriatici, silenziata e rimossa nell'Italia del dopoguerra - lacerata dalla guerra civile, ferita da vent'anni di regime, spaccata politicamente e socialmente dalla Guerra fredda - è esempio significativo. ed io sono cresciuto con ciò . Da un lato mio nonno e i miei prozii paterni che coltivavano la vulgata come eccidi comunisti sulle foibe e mio padre e mio zio che la contrastavano . 3) perchè ancora non si è fatto i conti con il nostro passato dimenticando che siamo stati "noi" ad averle innescate e poi tacerle ed ora usarle strumentalmente tacendo \ nascondendo sotto il tappetto o quando c'è un briciolo di onesta intellettuale e politica cioè non li si nega sminuendo quello che è avvenuto prima e concentrandosi solo su quello chè è avvenuto dopo .
Capisco che lo Yoga una delle culture ( perchè le religioni sono anche cultura poi sta noi decidere di come applicarle se in maniera aperta o in maniera chiusa ) che mette indiscussione quella cristiano cattolica ma , come ho detto nel titolo , non capisco questa guerra che gli viene fatta dalla religione cristiana in in questo caso il ramo Ortodosso
da repubblica 04 giugno 2020 Durante il confinamento per il lockdown, in molti Paesi del mondo si è diffusa ulteriormente la pratica dello yoga, già molto di moda, consigliata da media e social per rilassarsi nel periodo della pandemia. Ma la Chiesa greco ortodossa, preoccupata del diffondersi della disciplina indiana, è intervenuta duramente sulla questione: "Lo yoga è assolutamente incompatibile con la nostra fede ortodossa e non ha spazio nella vita dei cristiani", ha affermato il Santo Sinodo, organo di governo della Chiesa di Grecia. "È un aspetto fondamentale della religione indù, non è solo un esercizio fisico'", ha precisato il Sinodo, aggiungendo di aver deciso di intervenire dopo che "vari mezzi di informazione" raccomandavano lo yoga come mezzo per "combattere lo stress "durante la pandemia di Covid 19. La Chiesa ortodossa, una delle istituzioni più potenti in Grecia, ha una profonda influenza sulla politica e su molti aspetti della vita sociale e all'inizio della pandemia aveva suscitato polemiche sostenendo che il coronavirus non si diffonde attraverso il sacramento della Comunione.
Una sorpresa questa presa di posizione ? Non tanto in quanto sono ed forme di chiusure mentali già note .
Il problema è che si guarda allo yoga solo come qualcosa di pericoloso e negativo ed non a 360 gradi . Infatti la parola yoga, dice letteralmente la presentazione dell'Onu redatta per la celebrazione di oggi, "indica un'antica disciplina fisica, mentale e spirituale e deriva da un termine sanscrito che significa unire, fondere e simbolizza l'armonia tra corpo e coscienza". In apparenza non c'è niente che entri in rotta di collisione con la cristianità. Non fosse che per i Santi Padri l'ortodossia (la corretta fede) coincide con l'ortoprassia (il rispetto dei suoi riti) e che le uniche pratiche spirituali ammesse sono il digiuno, il ricordo dei morti, il pentimento, le preghiere e poco più. ed ecco che per essi fare yoga è peccato.
Chi crede in Dio secondo i dettami del cattolicesimo o cristianesimo ed lo pratica con spirito laico, senza per forza aderire al pantheon induista, può mettersi il cuore in pace ed praticarlo perchè esso : è 1) curativo per la psiche come ho parlato in un articolo precedente 2) aiuta , integra , ed arricchisce la tua fede aiutandoti a riscoprirla o potenziarla come affermava Padre Francesco Piras, Gesuita (1915-2014) fondatore della http://lnx.scuoladimeditazione.eu/
La scomunica ortodossa ha radice antiche. "L'uomo accecato dalla maestosità immaginaria di quello che vede con queste forme di contemplazione ha già iniziato il suo cammino di auto-distruzione", ha sentenziato senza appello decenni fa l'archimandrita Sofronio, una delle più alte autorità spirituali passate da Monte Athos. La serenità mentale e l'equilibrio raggiunti grazie allo yoga aiutano a prevenire malattie anche mortali. Ma poco importa: "Nello stesso tempo ci fanno scambiare un miraggio per un'oasi genuina, distraendoci nel nostro cammino verso la vita eterna", parola di Sofronio. Il Santo Sinodo ortodosso, naturalmente, non ha voluto affondare il colpo: "Rispettiamo le altre fedi e la loro libertà di espressione - ha scritto nella sua nota - ma dobbiamo lavorare per scongiurare un pericoloso clima di sincretismo religioso".
Li capisco ma non è condannandoli ed vietando che si risolve E poi ci si dmentica che anche la religione cattolica è nata da foprme di sincrismo con riti pagani e pre cristiani .
Come uscirne allora ? non giudicando , cercando punti contatto oltre che divisioni .
Quindi Pregare Dio a mani giunte si può. L'importante è ricordarsi di non sollevarle sopra la testa. Si rischierebbe di finire senza volerlo nell'area a rischio scomunica della posizione del loto🤣😛 .
Purtroppo nel nostro paese ci sono ancora , SIC , sacche resistenza e di chiusure , ormai sempre più ottuse ed illogiche in un mondo che cambia , mi sanno di ( un ricordo indiretto basate su letture e testimonianze ) le reazioni di chiusura del partito comunista della vecchia Germania est la Ddr ed Ceausescu leader del partito comunista romeno alle riforme di Gorbaciof e al Wind of Change \vento di libertà ( vedere anche sotto fra la colonna sonora ) che nel 88\89 sta influenzando tutti gli stati satelliti dell'est europa e rimettendo indiscussione dittature di pensiero unico . Come sta avvenendo oggi con la la chiusura avvenuta con ( se non da prima ) con l'11 settembre 2001 . Basta vedere quanto sta succedendo con quanto ho riportato recentemente su questo sito a l'ultimo Dylan Dog per una copertina particolare
repubblica Milano
I bambini scrivono il vocabolario arabo-italiano per la loro maestra: "Così impariamo a comunicare"
Nella scuola del Trotter a Milano, la storia raccontata dalla maestra Antonella Meiani: "Nella mia classe ci sono sette bambini egiziani, due appena arrivati: così gli altri, che parlano benissimo le due lingue, mi insegnano le parole principali per farmi capire da loro"
di ORIANA LISO
29 ottobre 2019
Una classe multietnica, come tante, tantissime in tutte le scuole. E dei bambini appena arrivati dall'Egitto che fanno ancora un po' fatica a parlare e capire l'italiano e, quindi, quello che dice la maestra. La morale di questa storia potrebbe però essere: "Non esistono problemi, ma soluzioni": perché mentre i bambini imparano l'italiano, è la maestra che cerca di farsi capire con qualche parola in arabo. E a insegnarle la lingua, compilando un piccolo vocabolario delle parole più utili, sono proprio i suoi alunni, quelli di origine egiziana ma nati in Italia, che sanno districarsi benissimo tra le due lingue, quella che usano in famiglia e quella che usano a scuola, per strada, tanto da diventare piccoli interpreti tra i loro nuovi compagni e gli insegnanti.
Antonella Meiani è una maestra elementare dell'istituto compresivo Giacosa di Milano, quello che tutti conoscono come la scuola del Parco Trotter. Ed è lei che, su Facebook, mostra le foto del "vocabolario arabo per la maestra Antonella": fogli di quaderno a righe riempiti prima di parole 'gentili' - ciao, come stai, grazie, va bene - e poi di parole e frasi altrettanto necessarie, come colora, studia, aspetta, hai finito?. Tutte le parole sono scritte in arabo e in italiano e, a fianco di ognuna, c'è anche la pronuncia. "Nella mia classe, la Quinta E, ci sono sette bambini egiziani, tre di loro sono appena arrivati in Italia e quindi facciamo ancora un po' fatica a capirci, tanto che due bambini, che parlano benissimo sia l'italiano che l'arabo, mi fanno da interpreti". Da lì è nata l'idea, e i due bambini si sono divertiti per una volta a redarguire la loro maestra scrivendo sulla prima pagina: "Imparare l'arabo (Studiare").
"Ora sto cercando di imparare a pronunciare correttamente le prime parole, e quando dico "mashi", che vuol dire "va bene", gli occhi dei miei nuovi bambini si illuminano". Insomma, come scrive la stessa maestra (che tre anni fa ha scritto il libro'Tutti i bambini devono essere felici, storia di un maestro e della sua scuola'), "un'idea da brevettare".
Il parroco lancia incontri sull’Islam, è polemica
La Nazione
1 novembre 2019 07:04
Seravezza, fanno discutere le due sedute di formazione sul Corano a cui sono invitati "specialmente gli islamici"
Seravezza (Lucca), 1 novembre 2019 - Quell’invito, rivolto «specialmente agli islamici», ha colpito non poco. La parrocchia di Seravezza ha promosso due incontri di formazione («per giovani e adulti») nella sala in via Scalette 47, pubblicizzati nella bacheca del Duomo: l’11 novembre alle 21 l’argomento sarà «Il Corano» mentre il 18 novembre «L’Islam», con un caloroso appello alla partecipazione anche dei non cristiani cattolici: «tutti sono invitati, specialmente gli islamici».Un’iniziativa che ha già spaccato la comunità, tra favorevoli a quelle sedute di impronta storica e contrari ad una divulgazione ben lontana dalla promozione evangelica. L’idea è del parroco don Luca Volpi, non nuovo a scelte «in controtendenza»: nell’agosto scorso salì alla ribalta della cronaca per i volantini-appello con cui si richiedeva a ogni famiglia un contributo di mille-2mila euro per sostenere i lavori di rifacimento dei luoghi di culto a Seravezza («altrimenti alcune chiese sarà meglio venderle»), allegando l’iban per il bonifico come «dovere cristiano». Sempre don Luca, poche settimane dopo, dall’altare lanciò la prospettiva dei funerali collettivi, risollevando l’attenzione pure su quella posizione così originale.Stavolta i due incontri di formazione appaiono materia assai più ‘spinosa’. A tenere entrambe le conferenze sarà il professor Massimo Salani, docente di storia delle religioni e patrologia allo studio teologico interdiocesano di Camaiore e di storia delle religioni patrologia all’istituto superiore di scienze religiose di Pisa. Un docente-scrittore che ha fatto del suo libro «A tavola con le religioni» il fil rouge del proprio pensiero, ritenendo il cibo «strettamente legato al dialogo interreligioso, unico percorso plausibile ed auspicabile nell’epoca che viviamo e compito preciso di tutte le religioni». «Il cibo – si legge in una dichiarazione del professor Salani – è uno strumento assolutamente privilegiato per conoscersi, dialogare, vivere la convivialità».Stringatissimo il commento di don Luca, interpellato sulle ragioni di sedute su Islam e Corano e sul taglio che avranno tali iniziative. «Anche a ottobre abbiamo fatto degli incontri. Questo è un argomento come tanti
colonna sonora
wind Change - Scorpion
Oltre la guerra e la paura Modena City Ramblers Mio fratello che guardi il mondo Ivano Fossati