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1.3.25

«Lotto contro il cancro, dipingo, vivo. E non ho più paura»la storia di sara marcella occulto., Famiglia pakistana sceglie di vivere Onifai: «Posto perfetto per i nostri bambini», Domitilla trova casa dopo sette anni in canile

  da   la  nuova  sardegna  del  1\3\2025

 Porto Torres 
Si chiama Sara Marcella Occulto, ha 39 anni, è di Porto Torres, è sposata e ha una figlia di 10 anni. Sara Marcella vive nella Nurra, a Palmadula, ed è una delle tante donne e madri che lotta contro il cancro al seno, una delle patologie tumorali più diffuse del pianeta. La malattia la combatte con le cure, la volontà e un'altra arma originale: l'arte. Sara Marcella infatti ha sempre dipinto sin da piccola e partecipato a concorsi, diplomandosi in quella fucina di talenti che è sempre stato il liceo Filippo Figari di Sassari. «Grazie a questa passione ho 
                                                  Sara Marcella Occulto e il ritratto della figlia


superato i momenti più bui, che in questi anni sono stati tanti - racconta la donna -. Ho quasi sempre disegnato a matita, in bianco e nero, specie i volti di persone. Nella disperazione i colori nella mia mente cambiavano. Ed erano passionali, attaccati alla vita: il giallo, il rosso, il rosa e il fucsia. Pensavo anche ai miei artisti preferiti: Picasso e Caravaggio. Alle loro opere con i miei colori, che mi davano la forza».La malattia per Sara si è svegliata nel luglio 2021, quando aveva appena aperto lo studio di massaggi olistici, in cui con regolare corso si era specializzata: «Dopo i controlli e gli esami il ricovero all'ospedale di Sassari – racconta la donna -. La situazione è grave. Ho un cancro. Non c'è tempo da perdere. Grazie all'amore

e impegno della dottoressa Pinella Serra mi trasferiscono ad Abano Terme. Il 9 novembre mi operano, guidati dal professor Stefano Martella. Mi portano via tutto e mi salvano la vita. Sono contenta fuori, ma piango in silenzio. So che non è finita. Ho paura di lasciare sola la famiglia e di non poter più disegnare».
Il calvario continua. «Inizia la chemioterapia. Da dicembre a luglio 2022. Le cure mi buttano a terra. Cerco di disegnare. Nei momenti di depressione occhi piangenti. Ma non è finita. Dopo la chemio inizio la radioterapia. Che mi brucia la pelle e l'anima. Riesco però a disegnare il murale dello studio di massaggi, anche se nel 2023 non sto bene, è un inizio di depressione». La malattia però sembra sconfitta.

ritratto  d'andrea  parodi 

 «Gli esami istologici e gli altri vanno bene per tutto il 2024. Il male non si risveglia più. Ma sono certamente più debole di prima. A volte non ho forza per occuparmi delle faccende domestiche più dure, riprendo però il lavoro di massaggiatrice - continua l'artista -. E disegno. Presto farò una mostra delle mie opere. Ho anche costruito una bambola che vorrei esporre. È fatta interamente di carta riciclabile. Il suo viso è bianco e rappresenta la purezza. Che si aggiunge agli altri stati d’animo che ho sempre voluto rappresentare: la forza, la protezione e l'amore».
Per Sara Marcella Occulto arriva anche un piccolo aiuto: una pensione mensile di 300 euro. «Non so però se ridere o piangere per la somma che mi è stata riconosciuta». Sara Marcella da mesi segue la terapia ormonale, e non è semplice. La fa andare in menopausa, per non fare risvegliare cellule pericolose. Ma purtroppo per la donna non è finita. Ha bisogno di un altro intervento, poi un altro ancora, da eseguire all’ospedale Brotzu di Cagliari. «La pelle del seno si è bruciata, la devono ricostruire con altra pelle che mi preleveranno dai fianchi e poi devono mettere i seni stessi in asse». L'ennesima prova di questi anni difficili. «Nel frattempo sto cercando a Porto Torres la sede per esporre i miei quadri e le mie creazioni di queste stagioni - conclude Sara Marcella -. Mi devono dare alcune risposte. Lavoro, dipingo. E non ho più paura».

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Onifai In un mondo in continuo cambiamento, anche i piccoli paesi si trovano a vivere trasformazioni che portano nuova linfa vitale. Due nuclei familiari originari del Pakistan per un totale di 15 persone hanno deciso di trasferirsi definitivamente in paese ottenendo nei giorni scorsi la cittadinanza italiana. Dopo aver vissuto a Roma per 10 anni, Shah Zar Wali
ed il suo nucleo familiare, si sono spostati per motivi di lavoro in Sardegna, dapprima ad Olbia e successivamente ad Onifai dove si sono integrati perfettamente con gli altri residenti. Shas vorrebbe aprire un negozio a Orosei ma continuerebbe a risiedere in paese che ritiene un posto adatto ai bambini ormai inseriti sia a scuola che nei servizi socioeducativi. I più piccoli frequentano la scuola dell’infanzia mentre i grandicelli prendono l’autobus per spostarsi nella vicina Irgoli. Nel doposcuola i bambini partecipano anche al punto studio spazio giovani e alle attività della ludoteca e tutti, prendono parte infine ai corsi di italiano per stranieri offerta dai servizi bibliotecari. «Il conferimento della cittadinanza italiana non è solo un evento amministrativo ma un segno del tempo che si rinnova» dice il sindaco 
Luca Monne.

«Un respiro che porta con sé culture, tradizioni e colori diversi. È come se le strade del paese si allargassero, accogliendo non solo nuove persone, ma anche nuovi modi di pensare, nuovi sapori, nuove voci che arricchiscono la melodia quotidiana».«Scegliere Onifai come casa rappresenta sì un riconoscimento giuridico, ma soprattutto un simbolo di integrazione e accoglienza – spiega il sindaco –. I gesti di sempre, il saluto a chiunque si incontri per strada, il lavoro nei campi, la vita della comunità, su cumbitu in su tzilleri, si mescolano con nuove parole, nuove abitudini che lentamente si integrano senza cancellare nulla. Forse è proprio questa la chiave per affrontare il futuro con saggezza: non temere il cambiamento, ma accoglierlo come un arricchimento. Non si perde l’identità aprendosi agli altri, anzi, si rafforza e forse la vera sfida è riscoprire il valore dell’incontro». E conclude con un ringraziamento all’ufficiale di Stato civile del Comune di Nicoletta Pulloni, che «con professionalità e puntualità nella giornata di ieri ha condotto la cerimonia».

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Cabras Dopo sette anni trascorsi in canile, ora vive con il suo amico umano Andrea, 30 anni, e gioca libera in giardino dove, a poca distanza, abita un altro cane con cui la cagnolina ha già fatto amicizia. E’ la nuova vita di Domitilla, ribattezzata Scintilla, manto bianco e macchia nera sul tenero musetto: grazie al progetto Baibau, avviato dall’amministrazione comunale nel 2023 per combattere il randagismo urbano e incentivare le adozioni dal canile, ha trovato finalmente casa a Cabras.


 
Il percorso di avvicinamento tra il cane e il suo padrone è stato guidato dall’educatore cinofilo che segue il progetto per il Comune e prima dell’adozione l’animale ha ricevuto le adeguate cure veterinarie. Dopo la sua adozione Domitilla è stata ribattezzata Scintilla. Il colpo di fulmine è avvenuto grazie alla pubblicazione delle sue foto, sui canali social dell’ente. Andrea cercava una cagnetta solare e serena e, dopo sole tre ore dal loro primo incontro, ha deciso che Domitilla avrebbe fatto al caso suo. Fra i due l’intesa è stata immediata.
«Siamo soddisfatti di vedere come Baibau stia dando i suoi frutti – ha commentato Carlo Trincas, l’assessore alla Cultura che ha avviato il progetto – l’adozione di Scintilla dimostra l’efficacia del nostro impegno per migliorare le condizioni degli animali ospitati nel canile e offrire loro la possibilità di una nuova vita. Grazie alla collaborazione con professionisti e associazioni partner e al supporto delle famiglie adottive, stiamo riuscendo a fare un passo importante verso il benessere degli animali e la sensibilizzazione della comunità. Continueremo a lavorare per garantire che altri cani come Scintilla possano trovare una casa». Quando il progetto Baibau è partito nel 2023 i cani presenti nel canile erano una sessantina, mentre oggi sono 40. Con il Comune collaborano le associazioni Effetto Palla Onlus e Hachiko Eroi a 4 zampe.

14.7.24

Storie di migranti e andrangheta : da Roccantica a New York. Una storia di famiglia ., DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

 due storie    ua   d'emigrazione  del secolo scorso    un  altra  delle  cause  . che confermano lo studio  de la  società sparente  di  Emiliano morrone  (  wikipedia  e   account  facebook    )

er  approfondire  
emigrati.it - associazione internet degli emigrati italiani


da https://lavocedinewyork.com/people


Storie di migranti: fu così che Vittoria tenne fede al suo nome 1912, da Roccantica a New York. Una storia di famiglia testimonianza dell'esodo

di Luigi Troiani *



Vittoria e il marito Antonio / Per gentile concessione della famiglia Perfetti-Feroli


Nonostante il rarefarsi dei protagonisti dell’esodo dall’Italia nel secolo dell’emigrazione (1861-1970), la memorialistica dedicata al fenomeno continua a godere ottima salute. Se le generazioni che hanno ispirato quelle pagine poco alla volta tendono a scomparire, sono spesso i figli e i nipoti a testimoniare quella che giustamente considerano epopea di famiglia, anche per senso di gratitudine e rispetto.



Nel genere, non tutte le pubblicazioni meritano eguale stima sotto il profilo letterario, ma – quando sincere e documentate – tutte vanno ad arricchire l’elenco dei racconti di vita collettiva e individuale che formano la memoria mai colma, necessaria alle comunità di destinazione e di origine. Solo attraverso quella memoria si possono rinsaldare i legami privati. Ma anche quelli pubblici – istituzionali, culturali ed economici – che tante località italiane hanno costruito con i 



luoghi dove loro ex cittadini sono emigrati.Simone Feroli

Un buon esempio di come questa memoria detta memoria possa essere tramandata, viene da Storia di una emigrata, un lavoro di Simone Feroli che non casualmente porta in premessa una frase di Wang Shu: “Perdere il passato significa perdere il futuro”.

La narrazione si occupa della vicenda della zia dell’autore, “Vittoria, che nel 1912 partì per una nuova vita negli Stati Uniti”, abbandonando Roccantica, comune della provincia di Rieti, a 26 anni. Siamo all’antivigilia della Prima grande guerra, e la giovane donna parte, come altre centinaia di migliaia di italiani, per il mal operare degli allora governanti, che invece di dedicarsi allo sviluppo delle sacche di povertà del paese, andavano per guerre coloniali nel Mediterraneo, combattendo l’impero turco per sottrargli i territori libici.

Viaggia da sola verso Napoli e prende, come milioni di connazionali, il transatlantico della speranza, che al termine della lunga e faticosa traversata approda vicino a Liberty Statue, inaugurata proprio nell’anno di nascita di Vittoria. Benché debba lasciarsi dietro gli affetti che l’hanno accompagnata dalla nascita, ha deciso di lasciare la vita contadina, tra campagna, mulino e forno, botti di vino e di olio, e sfidare la sorte della vita nel paese sconosciuto ma “favoloso”. Se ne sente attratta e spera che lì possa svoltare.

Non va completamente allo sbaraglio: ad attenderla, come capita a un po’ tutti gli italiani che sbarcano al molo di Ellis Island, ci sarà un parente o un amico di famiglia. Vittoria, dopo il lungo viaggio in mare iniziato il 18 aprile è attesa mercoledì 1° maggio dal cugino Attilio che con la moglie Olga vive a Eastchester nel Westchester newyorkese. Al cugino toccherà trovarle un giaciglio e qualche lavoretto, tanto per cominciare. Poi sarà lei a darsi da fare. L’arrivo ad Ellis il giorno della festa dei lavoratori è comunque di buon auspicio.

A poco più di quattro mesi dall’arrivo, Vittoria andava in sposa a tal Antonio Cinquina, vedovo, con il quale sarebbe rimasta tutta la vita. Adesso era “sistemata” come si diceva allora, aveva casa e famiglia a Tuckahoe e ne era la “padrona”. I coniugi Cinquina si sarebbero presto trasferiti nel Bronx e qui avrebbero allevato i figli che nel frattempo, come usava, il buon Dio inviava copiosi.



Per l’autore ricostruire i fatti della quotidianità, all’interno del progressivo inserimento di Vittoria nella società americana, con il contestuale progressivo distacco dal passato italiano, è obiettivamente difficile, a causa della frammentarietà delle testimonianze orali e scritte e della facilità con cui le une possono entrare in conflitto con le altre. Dal quadro complessivo si ha il relato di una vita sufficientemente armoniosa, costellata di qualche sventura e di tante gioie. Vittoria e Antonio mettono al mondo cinque figli che vanno ad aggiungersi a Michelina, dote del primo letto.
Agli atti del censimento del 1925 il nucleo famigliare figura ancora compatto allo stesso domicilio. Il capofamiglia è operaio in una raffineria di zucchero, Vittoria è casalinga. Nel censimento del 1950, riporta Feroli, “risulta che Antonio di 71 anni e Vittoria di 64 a casa erano rimasti da soli. I figli si erano sistemati, chi più e chi meno.” A parte Enrico, chiamato a combattere nel luglio 1943 -e morto col grado di caporale nel marzo 1945 – quattro giorni prima del ventiseiesimo compleanno – da radio-operatore nel 579th 392th Bomb Group. Lo avrebbero insignito della “Purple Hearth”. Aveva gli anni di mamma Vittoria all’arrivo a Ellis Island.
Tante e belle le foto di Roccantica che, in coda, corredano il libro di una fetta d’Italia sparita.

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Insegna Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American

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DOVE LO STATO NON ABITA PIÙ: SAN LUCA, ASPROMONTE

Terra di ’ndrangheta Il Comune calabro dove nessuno si è candidato è di nuovo commissariato Tra abbandono e omertà, qui il tempo torna indietro E il futuro non arriva mai

Un vecchio canto della Locride vuole che, da queste parti, in mezzo all’aspromonte, un professore iniziò a sezionare centinaia di banditi morti. Cercava tracce di tanto rancore esploso col brigantaggio dopo l’unità d’italia e poi, più tardi, con l’onorata Società. Molti risultarono ammalati di cuore. I più riportavano invece strani funzionamenti delle ghiandole surrenali: da cui, la ferocia incontenibile. “Li sudditi son tutti immiseriti – suonava il canto – ministri, senatori e deputati fanno communa e vui padre Vittorio (Vittorio Emanuele II, ndr) non guardate. Vui jiti a caccia, fumati e durmiti”.

Ad aver paura di guardare, qui, a San Luca, non è stato solo il re. Alle amministrative, meno di un mese fa, non si sono presentati candidati. Come già nel 2017 e nel 2018. Dopo lo scioglimento per mafia nel 2013, il Comune è stato sempre commissariato. Prima per infiltrazione mafiosa, poi, nel 2015, per il non raggiungimento del quorum dei votanti. E infine perché nessuno si era candidato. “È la nostra protesta contro lo Stato”, dissero i cittadini. Fino al 2019. Quando ad avere il coraggio di presentarsi e a essere eletto fu l’infermiere in pensione Bruno Bartolo, 73enne. Raggiunto oggi da quattro avvisi di garanzia (per ipotesi di reati ordinari, non di mafia), ha deciso di non ricandidarsi. “Nessun condizionamento né pressioni di ’ndrangheta – spiega – le istituzioni non mi hanno aiutato. L’avviso di garanzia è stato un pugno allo stomaco, ma il motivo è la solitudine”. Così il tempo a San Luca è tornato indietro, come solo in Calabria accade. A occuparsi dell’ordinaria amministrazione è tornato un commissario. E, ancora, si è insediata la Commissione d’accesso antimafia, per accertare eventuali condizionamenti nell’amministrazione Bartolo. Ad annunciarla, la presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo. Direttamente da San Luca: “È emersa un’inerzia totale dell’amministrazione. Siamo qui per sostenere la speranza di chi non vuole assoggettarsi al mandamento di questo territorio. E abbiamo il compito di dire alle donne e ai bambini che cambiare si può e si deve”.

Visto dall’alto San Luca – assieme a Platì e ad Africo tra i paesi più isolati della Locride, pur essendo coi suoi 105 km² di area montana il secondo Comune della provincia di Reggio Calabria – è una macchia grigio-gialla. Spunta dalla pancia di un vallone che cinge l’aspra montagna, “montagna bianca” in greco. Una fiumara prosciugata, a un fianco, rocce sospese su voragini, dall’altro. Sospese e abbandonate come le vite dei suoi 3.700 abitanti che paiono fantasmi. Qui sono imparentati tutti con tutti. E hanno il cognome pesante: Nirta, Strangio, Pelle, Vottari, Mammoliti. Gli arrestati per 416bis sono 115, 250 quelli per associazione finalizzata al traffico di droga, 50-60 i residenti raggiunti da altre misure cautelari. “Ma non simo tutt’ d’ndrangheta, chiaro?”, dice Don Tonino Saraco, rettore del Santuario della Madonna di Polsi, il luogo sacro finito su giornali e tv di tutto il mondo per i famosi summit di ’ndrangheta in cui i vertici di tutti i “Crimini” o “Province” erano soliti incontrarsi, per alleanze, strategie, riti di iniziazione. Era il 2010 quando le telecamere dei carabinieri li ripresero riuniti attorno a Domenico Oppedisano, capo-crimine di allora, ma esiste traccia di questi incontri dalla fine dell’800. Don Tonino è il religioso scelto per riportare il santuario “all’immagine di ciò che deve essere: luogo di preghiera e di accoglienza dei pellegrini ma anche spazio di crescita sociale e civile che non si concilia con illegalità e malavita”. E, nonostante le intimidazioni, don Tonino, uno di quei calabresi cocciuti e veraci, sta portando avanti la sua missione: ha spostato l’effigie della Madonna adorata dai boss (non c’è bunker per i latitanti che non ne conservi l’immagine o la statua) per far spazio al busto di don Giuseppe Giovinazzo, parroco decapitato nel 1989 proprio all’ombra di Polsi; ha preso con sé a lavorare alcuni detenuti da reinserire; ha collaborato per ripulire l’area mercatale, lì dove ogni bancarella veniva assegnata seguendo gerarchie mafiose. “Eppure non si esce dalla rappresentazione di San Luca come il ‘Locale-mamma’ di ’ndrangheta. Ci manca il coraggio di ribellarci pubblicamente. Per paura, per autodifesa. Ma stiamo facendo, pur se silenziosamente, cose straordinarie”.

È che in certe situazioni, lo sforzo di evitare il conflitto aperto può diventare omertà. E la Chiesa per molti anni, con l’ex parroco di San Luca e del santuario di Polsi, quel don Pino Strangio condannato in primo grado a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, è stata connivente se non protagonista. Si deve a monsignor Francesco Oliva, vescovo della Locride, un cambio di passo. Al posto di Strangio, ha nominato parroco dell’unica chiesa di San Luca un 35enne al primo incarico, Don Gianluca, che ha aperto l’oratorio che qui non esisteva. Il vescovo ha scritto una lettera alla cittadinanza: “La mancata presentazione di liste è una resa. Conosco le sofferenze e le ferite di questa comunità, ma il governo della Città è nelle nostre mani e non possiamo arrenderci. Altrimenti abbiamo perso tutti, lo Stato e la Chiesa”. Così è nata l’idea di lanciare una scuola di formazione politica, “perché abbiamo bisogno di una buona politica, cosa difficile ma possibile. Alcuni paesi hanno

perso la fiducia nelle istituzioni, credono che non valga la pena andare a votare... non dobbiamo accettarlo”.

A San Luca alle ultime politiche l’affluenza è stata del 22%. È una vecchia storia quella del paese appestato e dimenticato. Da quando – era il 1592 – i pastori montanari dell’antico villaggio di Potamìa, costretti dalle frane, scesero più a valle a fondare San Luca. Cominciò così, tra miseria e sofferenza, la vita errante di questo popolo, con il miraggio di mutevoli terre promesse. Ieri le ricchezze accumulate negli anni dei sequestri. Oggi quelle del narcotraffico mondiale. È qui che passano la droga e le armi che riforniscono le piazze di tutte le mafie. È qui che sono nati e cresciuti i rampolli delle note famiglie – tutti giovanissimi, anni 2000 – tra i latitanti più pericolosi del Paese. Ed è da qui che 16 carabinieri, comandati dall’ottimo maresciallo maggiore Michele Fiorentino, di stanza a San Luca da 21 anni, instancabilmente danno la caccia alle stesse famiglie, agli stessi cognomi, alle stesse persone. Chi, come il brigadiere Carmine Tripodi, anche a costo della vita. “Sono passate le generazioni, ma siamo tornati indietro. Sa cosa si dice qui? Che se non avete un precedente non vi potete sposare...”, racconta con un riso amaro il comandante. “È un gioco delle parti: noi stiamo da una parte, loro dall’altra”.

La gente ha paura di restare, ha paura di venire, ha paura di lavorare a San Luca. Eppure, a colpire sono le tante macchine di cilindrata pesante – con targa tedesca, come un memento di Duisburg – che si muovono su strade deserte in mezzo alle classiche case “non finite” calabresi, coi piani di mattoni in dote per le figlie femmine e i fiocchi ai cancelli per la Madonna di Polsi. Soldi, tanti, ne circolano (leggendario il ritrovamento da parte dei carabinieri di sei milioni di euro sottoterra). Donne in giro non se ne vedono. Solo uomini, anziani, a cercare ombra sotto gli oleandri o seduti sulle ringhiere. Nonostante l’indice giovanile tra i più alti d’italia – 785 ragazzi su 3.700 abitanti – la vita ha mantenuto molti dei vecchi usi, oltre ai principi dell’onore e del rispetto. Le ragazze, per esempio, vengono “scelte” durante la “vetrina” della processione di Pasqua. Si sposano ancora bambine e fanno di media 4-5 figli. Poi vivono in casa, chiuse. È un’italia, se è Italia, di 80-100 anni fa. C’è chi, come il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è convinto che per luoghi “costituzionalmente incompatibili con lo Stato di diritto”, ci sia bisogno di “un progetto che metta in campo strumenti non ordinari, altrimenti il rischio è lo sfiancamento dello Stato”. E lo Stato qui si conosce solo quando viene inaugurata una caserma: allora si vedono ministri e qualche politico locale. Ma quando ha aperto quella ad Africo Nuovo, in un ex villone sottratto ai Morabito, nessun cittadino si è presentato. Anche i bambini con le bandierine tricolori erano scolari di un altro paese. “Queste persone sono rimaste ostaggio di quella agenzia diseducativa che si chiama ’ndrangheta e hanno visto la politica trattare coi propri aguzzini. Facile dire loro ‘ribellatevi’... La strategia qui è da sempre la stessa: siamo al quarto commissariamento. Ma nel frattempo i processi democratici non sono cresciuti né sono stati sgominati i clan, quindi...”. Francesco Mollace è uno di quegli insegnanti che ci crede tanto. Docente di Filosofia e storia e membro del Forum regionale terzo settore e scuola, è il presidente di Civitas Solis, che gestisce, assieme a Save the Children, il “Punto Luce” di San Luca. L’unico spazio di aria – assieme a Libera con la sua referente Deborah Cartisano – per bambini e mamme del luogo. Coi loro progetti, dai corsi di robotica alla musica, dalla ginnastica all’inglese, Francesco e le educatrici dimostrano che, con un’alternativa, è possibile togliere a questi ragazzi lo stigma che suona come una condanna: “Sono di San Luca”. “C’è un enorme potenziale che, se non orientato, prende altre vie. Bisogna che qualcuno ci creda. In Calabria abbiamo, tra gli studenti, il più alto tasso di competenze alfabetiche e numeriche non adeguate e il più basso indice di lettura di libri e quotidiani (4%). Il cancro puoi decidere se curarlo sezionando, tagliando, asportando. Oppure, come sta avvenendo in oncologia, rigenerando i tessuti, con l’immunoterapia”.

Nicola Gratteri, profondo conoscitore di queste terre, ripete in continuazione “meglio una scuola che un carcere”. Ma a San Luca di scuole ce n’è una sola e senza un dirigente fisso da oltre due anni. Il padre di Corrado Alvaro, scrittore che qui è nato, era un maestro. Fece “un patto con l’avvenire. Che quanti figli avrebbe avuti li avrebbe fatti studiare”. Ma l’incitamento continuo era di “abbandonare il paese maledetto”, ricordava il figlio Corrado. Che mai dimentico dei suoi anni a San Luca, scrisse: “L’adolescenza è una riserva per quando la fantasia avrà cessato di parlare”. Ma ci sono luoghi in cui da sempre resta muta. O quasi.

20.4.23

Ci voleva l'uscita del ministro Lollobrigida per capire il significato di sostituzione etnica ?

 Il mio dubbio   espresso nel titolo trova risposta nel fatto che  due filosofi opposti 

 Daniele carbini 

Questa cosa   un ministro della repubblica italiana allora assale prepotente il senso del disgusto. Non esiste un’etnia italiana, la nostra straordinaria cultura (al pari di molte altre) è la naturale conseguenza di scambi, incontri e condivisione, di genti di ogni dove che hanno portato in queste terre un pezzo di ricchezza inestimabile, di un’umanità varia pregna di stimoli creativi, figli di molteplici influenze.

Questa “purezza” italiana, questa supremazia bianca, mascherata con giustificazioni ridicole, certifica il persistere di un razzismo lascivo e profondo, fa schifo.         
Invece di decantare l’orrore discriminatorio i ministri di un governo dovrebbero preoccuparsi di creare le condizioni per cui una coppia possa permettersi di avere dei figli, se lo desiderano. In troppi casi avere un figlio significa che una donna deve rinunciare al lavoro e alla carriera, oppure affidare il figlio a babysitter, asili e scuole per tutto il giorno, non crescendolo e non vedendolo mai. Ci si dovrebbe preoccupare di creare una società dove gli esseri umani hanno una vita dignitosa, non subire uno schiavismo di massa, dove sei obbligato a correre a perdifiato per sopravvivere oppure a non fare un cazzo e vivere di tristi elemosine di stato.


Diego Fusaro

Ha fatto molto discutere l'infelice uscita del ministro della destra neo-liberale Lollobrigida sulla cosiddetta "sostituzione etnica". Ovviamente l'opposizione non aspettava altro per poter attaccare il governo, accusandolo di posizioni non distanti dal razzismo. La verità, comunque, è che la tesi della sostituzione etnica è una solenne idiozia: uno dei tanti modi per non spiegare la realtà, in questo caso quella della immigrazione di massa. O, meglio, uno dei tanti modi per sostituire al pensiero razionale la suggestione irrazionale. Che sia in atto una sostituzione è vero, ma non è una sostituzione etnica. È la sostituzione di una classe lavoratrice con diritti conquistati e con un tenore di vita più o meno dignitoso con una nuova classe lavoratrice migrante, senza coscienza di classe e senza diritti, sottoposta alle forme più radicali di sfruttamento. Di "immigrazione di sostituzione" parlano perfino le Nazioni Unite. Non per questioni etniche, come ancora crede qualche irriducibile della destra neoliberale: ma per questioni di sfruttamento del lavoro (tema di cui la destra, come peraltro la sinistra, si guarda bene dal parlare). Il lavoro dei migranti costa meno; permette di abbassare i costi generali del lavoro; infine, permette al potere di favorire conflitti tra migranti e non migranti, mentre abbassa a tutti le condizioni di vita e mentre fa prosperare la lotta di classe nella stessa classe. Occorre ribadire l'ovvio: i nemici non sono i migranti, ma il capitale che usa l'immigrazione per sfruttare i lavoratori, tutti i lavoratori. Questo è il punto che ovviamente la sciagurata tesi della sostituzione etnica non vuole vedere.       [..... ] La tesi della sostituzione etnica è demenziale, perché oltretutto astrae completamente dal quadro concreto dei rapporti di forza. Al capitale non importa nulla del colore della pelle delle persone: gli importa soltanto di poter trovare braccia a basso costo, con le quali abbassare i costi della forza lavoro e produrre sempre nuovo sfruttamento. Per questo, e non per altro, l'immigrazione di massa è un'arma nelle mani del capitale e delle classi dominanti: un'arma contro la classe lavoratrice, sia migrante, sia autoctona.


 Agli antipodi arrivano alla stessa conclusione  vuol dire che l'espressione sostituzione  etnica usata  d'anni  da esponenti  politici e seguaci di questa becera destra e   scopetta  solo ora 

Cara sinistra istituzionale e cara opinione pubblica " moderata " . Ben svegliati .  Sono anni che il termine  orribile  erede di teorie condannate  dalla storia  è ritornato in auge e Ve ne accorgete ora  che è questa  destra  è  al  governo   .? Ma prima  dormiva te o eravate impegnati o ridere dietro a chi Ve lo faceva notare ? 

È oltre che  razzista   e da vecchio  spacciato per nuovo è una  


già  condannata  dalla  storia    del  secolo   scorso  

12.11.17

razzismo e guerra tra i poveri sempre più difusa in italia ennessimno episodio razzista su un autobus a livorno


in sottofondo 

Casa del Vento - Festa protesta



Litigio sul bus: «La conducente non voleva farmi salire mi ha detto vai a casa tua»

Livorno, la mamma senegalese, che aveva con sé il passeggino, accusa la dipendente del Ctt. L’azienda: «Apriremo un’istruttoria interna, vogliamo ascoltare le due versioni»



LIVORNO. «La conducente mi ha detto che non potevo salire sul bus. Mi ha detto vai a casa tua». E ieri mattina sulla Lam blu che corre dal viale Italia verso via Grande sono arrivati anche i carabinieri. A denunciare l’episodio è Fatima Cissoko, 40 anni, originaria del Senegal, in Italia da dieci anni. È arrabbiata e dispiaciuta per quello che definisce un episodio di razzismo.
«Ho due bimbe di uno e cinque anni», racconta: «Dopo essere andata dalla pediatra, sono andata alla fermata del bus, sul viale Italia. La conducente quando sono arrivata davanti alla porta per entrare mi ha fatto un gesto con la mano e mi ha detto “te no”...». La donna aveva una bambina per mano e l’altra nel passeggino. Va detto che la salita sui bus con il passeggino è spesso motivo di botta e risposta anche accesi tra passeggeri e conducenti, come raccontano dalla stessa Ctt. Questo perché sui mezzi più vecchi, quelli a tre porte, non si può salire con il passeggino aperto, mentre su quelli più nuovi è possibile farlo purché sia libero il posto riservato alle carrozzine.
In questo caso, però, la storia sembra aver preso un’altra direzione. «Se il problema era il passeggino – riprende – poteva dirmi: “signora, lei così non può entrare”. Invece quando le ho chiesto perché non potevo salire e le ho detto che avrei chiuso il passeggino ha continuato a rispondermi: “Te no”. Anche una signora accanto a me le ha chiesto spiegazioni. Ma la conducente ha insistito: “Te no, fuori”. E alla fine mi ha detto: “Vai a casa tua”. Allora ho capito che è una razzista e abbiamo litigato. Tutti sul bus l’hanno criticata». «Una donna che mi ha difeso – racconta ancora – ha chiamato i carabinieri: sono arrivati, hanno preso i dati, mi hanno detto che posso fare denuncia. La farò perché sono rimasta male: la bambina è rimasta male, mi ha detto che non vuole più prendere il bus per come siamo state trattate, è stato brutto». Alla fine la famiglia è salita sul mezzo: «Ho detto io da qui non scendo, ho il biglietto».
L’episodio è avvenuto ieri intorno alle 11. Nel pomeriggio Il Tirreno ha contattato il Ctt per conoscere la versione della conducente e dell’azienda. «La dipendente ha chiamato la centrale dicendo che ha avuto un diverbio con alcuni utenti, per il momento sappiamo solo che c’è stato un intervento dei carabinieri», ha spiegato il responsabile della gestione, Bruno Bastogi. «Senz’altro – fa sapere – apriremo un’istruttoria interna per capire cosa è successo, vogliamo sentire le due versioni, sia la dipendente che la signora». Per «non fare processi sommari».Detto questo, «se viene confermato quanto detto dalla signora, le scuse sono dovute, fermo restando il rispetto delle regole. L’episodio descritto è grave, non per il passeggino ma per tutto il resto: certe frasi non sarebbero accettabili».

 Per  me    i  fatti    sono  piuù che  chiari non credo    che  la  gente    a  bordo  chiami   la  poolizia  o si schieri  a favore  della persona insultata    per  sport  .   Ora   Sarà  anche come dice n questo commento  all'articolo    del tirreno   di



2 ore fa
antonio dini
A nessuno è venuto il dubbio che la Signora Senegal sia un passeggero abituale e che siano anni che conosce i regolamenti dei bus? A nessuno è venuto il dubbio che la signora autista fossero anni che gli spiegava la solita cosa? Come sempre accade in Italia se la signora autista era una gran menefreghista passava bene,evitava una possibile denuncia ed evitava di fare la figura della razzista. Prima di commentare bisognerebbe provare a lavorare con questi soggetti,ormai abituati a fare tutto quello che gli pare e piace,ovviamente a spese nostre. Attenzione perché non avete più a che fare con i neretti ingenui di un ventina di anni fa....hanno trovato terreno fertile,ed ora capiscono quello che gli pare se gli fa comodo. Io non sono assolutamente razzista,ma il dubbio che siano stati abituati male mi sorge,e non vorrei che presto si trasformasse in certezza

Ma  come  dice     giustamente     il  commento di

2 ore fa
Roberta Cavalli
I fatti sono più che chiari, se parlo è perché sono informata... non si può negare a nessuno di salire su un mezzo pubblico a maggior ragione esordendo con la frase più squallida al mondo.... ma vai a casa tua a chi?? Dove sta la professionalità della conducente? Se fosse successo a qualche vostro familiare all'estero vi sareste tutti indignati vero??

  
  
 Meno male     chè  cìè  ancora    come  dimostra  ,   la   discussione   commento  all'articolo sopra  riportato   preso  da https://www.facebook.com/gelocalcronacaitaliana/    che i tiene   testa   alle pecore  salviniste   che  vedono   i nemici     nell'altro  


Saveria Segata Ci stanno invadendo e sono prepotenti , con il benestare del Governo

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3
20 h
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Vittorio Dorigo Ci state invadendo voi maledetti razzisti!

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2
17 h
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Saveria Segata Non sono assolutamente razzista, ma non devo giustificarmi con te Vittoriooooo, evidentemente tu non paghi tasse, che poi devolovono a ragazzi nullafacenti con benvestit con spartphone .... , non hai figli dissocupati , non sei in una roulotte, sei ricco ,qundi stattene zitto e modera il linguaggio .... non criticare come ho scritto non sono una scienza come te !!!!"!!!

Rispondi10 h
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Vittorio Dorigo Sei razzista perché ti fa più comodo prendertela con chi sta peggio di te invece di prendertela con chi ha cacciato te, loro e me in questa situazione. Si chiama finanza il tuo nemico, la stessa che né Berlusconi né Renzi né Salvini combattono. Così tu resterai povera come i migranti e loro si arricchiscono e diventano più forti nutrendosi dell'odio che ti fanno provare. Odia chi non ti dà un lavoro dignitoso, chi ti porta alla guerra dei poveri contro i poveri, dei Briatore che ti prendono per il culo, se proprio vuoi scagliarti contro chi ha reali responsabilità, non contro chi fatica più di te per mangiare tutti i giorni. Buona giornata 😉

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2
8 h
Alberina Farina E oltre questo io se fossi un autista di Bus non farei nemmeno salire chi fa una puzza , che l'autista ferma al semaforo lascia aperte le porte dalla puzza che questo personaggio maleducato e puzzolente ,,,,,sono scesa fermate prima dalla puzza che c'era

Rispondi9 h
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Meriot Morda Non timbrano, puzzano, sputano, non hanno voglia di lavorare, sono prepotenti ecc. Bene sono diventata razzista. Dovrebbero rimandarli al loro paese.io la penso così

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1
17 h
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Sandra Andrenacci Siete incommentabili ...se è per un passeggino si può aiutare a chiudere un passeggino

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1
11 h
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Dalia Arrighini Ha detto bene...sugli autobus con i passeggini non dovrrbbero salire e invece siamo invasi...

Rispondi19 h
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Vittorio Dorigo Siete invasati non invasi. Fatevi curare

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5
17 h
Aldo Cupane spero che licenzino in tronco questa autista imbecille

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1
7 h
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Silvia Giannoni Siamo un paese di incivili

complottismo e fake news perchè la gente ci crede

  come  anticipato  nella  chiusura  del  post  precedente  : <<   le  paure  ed  i  dubbi  inutili  , insieme al  complottismo e  dis...