M’è capitato di ripensare alla signora dopo il webinar su Velo e libertà con Marina Terragni, Sara Punzo e Maryan Ismail. Esattamente due anni fa, un tempo infinito per i ritmi dilatati dell’era-Covid, Casellati incontrava a Doha il primo ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al-Thani, un altro che quanto a nomi e patronimici non scherza. Nello stesso periodo veniva ricevuta da papa Francesco. In entrambe le occasioni si notava l’abbigliamento composto e formale, eppure disinvolto e in un certo senso volitivo. A fianco del ministro qatariota appariva minuscola, delicata ma radiosa, e piuttosto diretta. Mentre posava col Papa aveva l’aria di un’antica principessa, o una nobildonna devota. Ma nemmeno in quel caso sottomessa o annullata, malgrado il vistoso velo nero.
Precisiamo: il velo l’aveva indossato davanti al Pontefice. In Qatar si era presentata a capo scoperto.
Per mancanza di rispetto verso i costumi islamici? Non diremmo. Piuttosto per quella necessità, probabilmente spontanea, di definirsi e valorizzare le differenze. La conservatrice Casellati pareva aver compreso che il dialogo autentico non comportava la cancellazione della cultura d’appartenenza, ma richiedeva un confronto sullo stesso livello di dignità. La Madame di Palazzo Madama si presentò come una politica italiana, di tradizione cattolica – cioè universale – che svolgeva il proprio ruolo in piena autonomia.
Se scorriamo le fotografie di ministre ed ex-ministre di sinistra, laiche e dichiaratamente femministe, lo scenario è assai differente. Laura Boldrini con un velo fin troppo vistoso nella moschea di Roma (ma senza copricapo e in sandali laccati in presenza del Papa); Federica Mogherini al Parlamento iraniano, anche lei con velo -imitata da Emma Bonino e Debora Serracchiani- suscitando lo sdegno delle femministe di quel paese che combattono a rischio della vita per la libertà d’abbigliarsi come meglio credono.
Chi ignorasse la storia politica di queste donne, a quale attribuirebbe l’epiteto di progressista? Alla prima o alle seconde?
Non per infierire. Può darsi si trattasse davvero di buona fede, oltre che di obbligo. Sappiamo bene che il protocollo vaticano non prevede più, dagli anni Ottanta, il velo obbligatorio per le signore. In alcuni Paesi, e il Qatar non fa eccezione, il pudore femminile è ben più che semplicemente raccomandato. Ma i gesti vanno oltre la prescrizioni; e, a volte, si ha l’impressione che la si vada a cercare, la berlina. L’irritazione verso talune politiche progressiste non può essere (sempre) ascritta a sessismo, qualunquismo o – ci è toccato leggere pure questo – islamofobia. Si tratta di cultura. E di tradizione. Che non è tradizionalismo ma trasmissione. Anche se a volte inconsapevolmente i critici motivati delle politiche di cui sopra hanno loro rimproverato esattamente questo: la mancanza di cultura.
Donne laureate, cosmopolite, sostenitrici d’un migrantismo anche marcato: e nondimeno ignoranti, perché non escono da un esotismo di maniera, pervaso, oltretutto, da un malcelato senso di superiorità.
Il ritratto col Papa lo dimostra pienamente. Il messaggio percepito, magari oltre le intenzioni, è: “Qui posso permettermi i capelli sciolti e le ciabatte, non ci credo, sono moderna. Altrove si deve ostentare devozione, i buoni selvaggi vanno assecondati”. E poi, “fa sinistra”…
Una sinistra dimostratasi finora sorda alle persecuzioni dei cristiani (e soprattutto delle cristiane: merita eterna vergogna il silenzio delle attiviste occidentali su Huma Younus e Leah Sharibu) d’Africa e Asia, perché sono extraeuropee della “concorrenza”; perché la cultura cristiana, in particolare cattolica, va considerata necessariamente un sottoprodotto di epoche oscure, da cui una femminista doc, aperta e libertaria, deve prendere con decisione le distanze. Si aggiunga l’identificazione del cattolicesimo con l’Occidente – stessa equiparazione dei jihadisti – che le occidentalissime liberal vedono come fumo negli occhi; mentre una regina “glamour” come Rania di Giordania non esita a mostrarsi a Bergoglio in stola bianca, con una naturalezza da cui traspare tutto fuorché sottomissione e piaggeria.
La reazione alla spocchia della sinistra attuale è disaffezione e tedio, anche da parte di militanti di lungo corso.
Non stupisce che in questo momento storico le posizioni più riformatrici provengano da settori notoriamente “moderati”. È pure ovvio, comunque. Se l’errore consiste nell’ignoranza – e nella perdita di memoria – il risultato è la confusione, la sovrapposizione tra sviluppo e progresso, lo scardinamento delle prospettive. “Solo i marxisti amano il passato – scriveva Pasolini – i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o ‘monumentale’ […], non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia”.
Ma è proprio il senso storico, di una storia che avanza e cambia, a mancare oggi alla sinistra non più marxista, ma liberal-capitalista, “borghese”. Appunto, modernista e non moderna. La destra vive di questa spoliazione, più che di valori propri; ma il processo è appena cominciato, e nessuno sembra rendersene conto.
Daniela Tuscano