adesso chi lo dice ai disfattisti?”.Solo che poi vai oltre alla copertina - per chi sa leggere - e scopri che non è affatto la celebrazione di una nuova leader europea, ma anzi è un articolo, quello di Massimo Calabresi, lungo, complesso e pieno zeppo di critiche, anche pesanti. Nell’ordine:
In pratica, i meloniani stanno sventolando la copertina di una rivista internazionale come un trofeo, senza neanche essersi degnati di leggerla. Ma neppure di aprirla. Figuriamoci capirla.
Dal 25 luglio al 4 agosto: sei squadre divise su tre campi, tra cui l'Arena di Milano. Sugli spalti una quarantina di persone arrivate dalla Libia: non il migliore dei palcoscenici. Alla base c'è il Piano Mattei
Se la Serie A punta sull’export del pallone rotondo andando a giocare la Supercoppa nei Paesi arabi, la Libia fa un investimento altrettanto oculato. Per il secondo anno consecutivo, le fasi finali della Libyan Premier League si stanno tenendo proprio in Italia. Nessuno però lo sa, e nessuno – così pare – lo deve sapere. Si gioca in un piccolo triangolo della Pianura Padana tra l’Arena civica di Milano, Sesto SanGiovanni e Meda, in piena Brianza. Gli spalti sono vuoti, eccetto una minuscola delegazione di 20 tifosi per squadra e qualche rappresentante ufficiale della lega calcio libica. Per entrare, come ha spiegato la Gazzetta, bisogna avere le conoscenze per essere inseriti in liste iper-esclusive altrimenti non c’è verso. Non proprio il palcoscenico migliore per mostrare all’intera Italia di che pasta sia fatto il calcio tripolitano.
I generali militari in tribuna e gli scontri istituzionali con Roma
Sei squadre in un girone unico, dal 25 luglio al 4 agosto. Ogni tre o quattro giorni, vanno in scena sui vari campi tre partite, tassativamente in contemporanea alle 19. Il velo di segretezza è durato poco, è bastata una colluttazione in campo che ha reso necessario l’intervento delle forze dell’ordine. Sulle poltroncine, nel silenzio degli spalti, chissà chi c’è seduto. È probabile, trattandosi di alti dirigenti calcistici o rappresentanti politici, che si tratti di comandanti di milizie. L’anno scorso, dopotutto, alla finalissima aveva presenziato il generale Saddam Haftar, che controlla la zona orientale del Paese tramite un governo non riconosciuto da Roma. Al leader della Cirenaica era però stato impedito l’ingresso in campo, probabilmente perché le autorità italiane non volevano farsi fotografare al suo fianco. La reazione di Haftar era stata immediata: aveva chiamato la sua squadra disertando la premiazione. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva dovuto consegnare medaglie e coppa a un magazziniere, che aveva dato il via ai festeggiamenti della squadra vincitrice nel parcheggio dello stadio.
Gli accordi (politici ) tra Italia e Libia: il campionato di calcio in cambio di petrolio
Ma che senso ha sponsorizzare il calcio libico in stadi vuoti? La spiegazione è semplice: l’intento non è affatto quello di mostrare al mondo i grandi talenti del pallone nordafricano. La qualità, anzi, è distante anni luce da quella Premier League di cui il primo campionato libico imita il nome, aggiungendovi davanti l’aggettivo nazionale. Dietro a tutto c’è un semplice accordo politico, siglato dal ministro dello Sport Andrea Abodi nel 2024 in presenza della premier Giorgia Meloni. Fa tutto parte del cosiddetto Piano Mattei e di un accordo bilaterale con Tripoli: le finali del pallone in Italia in cambio di una più rigida regolamentazione sull’immigrazione clandestina. Sponsor ufficiale? Ovviamente Tamoil, l’azienda statale libica che copre il 21,5% dell’import di greggio verso il nostro Paese. La lezione di de Coubertin – l’importante è partecipare – l’abbiamo imparata alla perfezione.
da
Soumaila Diawara
12 h ·
Lettera a Salvini di un’immigrata africana.
«La sua faccia feroce la rivolga ai potenti che hanno occupato casa mia»
Ho visto la sua faccia ieri sera, senatore, al telegiornale. Una faccia contratta, irrigidita dalla rabbia, dura come una pietra, dipinta dei colori della paura che non conosce vergogna. E la sua voce… la sua voce colava fiele. Ha detto che per noi, che siamo arrivati qui, in questa terra, è finita la pacchia. Che viviamo nel lusso, rubando il pane ai suoi cittadini. In quel momento, ho sentito di nuovo i morsi antichi, atroci, della paura.
Chi sono? Non importa il mio nome. Tanto, per lei, i nostri nomi non valgono nulla. Sono solo un numero, un’ombra, un’invasione. Sono una di quelle che lei chiama con disprezzo “clandestina”. Vengo dalla Nigeria, da un angolo dimenticato dal mondo, dove nessuno fa la pacchia. Nemmeno per sbaglio Non sono scappata dal terrorismo di Boko Haram. La mia condanna non porta mitra, ma fame, povertà, silenzio, corruzione. Sono una profuga economica, come dite voi. Una che, secondo le sue leggi e le sue paure, non avrebbe alcun diritto di esistere qui.
Conosce il Delta del Niger? Non credo. Eppure ogni volta che sale in macchina, ogni volta che accende la luce, una parte di quella comodità viene da casa mia, da quella terra che voi avete saccheggiato con eleganza coloniale e mano invisibile. Io vivevo alla periferia di Port Harcourt, capitale di uno degli stati più ricchi di petrolio al mondo. Ma vivevo in una baracca, con mia madre e i miei fratelli. La sera, per avere un po’ di luce, accendevamo una candela. Una candela, senatore. Nel cuore dell’oro nero.
Vivere da noi è dura. Durissima. Un inferno, se sei donna. E io ero una ragazza. Una delle tante. Tutto costa. Anche l’illusione di sopravvivere. Le scuole pubbliche? Finte. Gli ospedali? Rovine. Se vuoi curarti, paghi. Se vuoi studiare, paghi. E se non hai soldi, semplicemente… muori lentamente.
La vedo già storcere il naso. Sta per dire che non sono affari suoi, vero? Ma lo sono. Eccome. Il mio paese dovrebbe essere ricchissimo. Ma il nostro petrolio non ci ha mai dato nulla. Ha arricchito solo pochi politici corrotti, i vostri alleati, e le multinazionali occidentali, anche italiane, anche sue. Il nostro futuro è stato barattato per qualche barile in più, in cambio di contratti osceni firmati da burattini al potere che rispondono solo alle compagnie petrolifere. E i soldi, quelli finivano nelle vostre banche, non nei nostri ospedali.
Si ricorda di Ken Saro-Wiwa? Poeta, attivista, ucciso perché chiedeva giustizia. È stato impiccato per aver alzato la voce. Il suo sangue, come quello di tanti altri, grida ancora sotto i vostri piedi, mentre camminate tranquilli nei vostri palazzi pieni di luce. Eni, Agip, le conosce bene, vero? Le stesse aziende accusate di aver versato montagne di soldi nei conti dei nostri carnefici. Soldi che avrebbero potuto cambiare la vita a milioni di persone. A me. A mia madre. A mio fratello. Forse, con quei soldi, avrei avuto una lampadina al posto di una candela. Forse sarei rimasta a casa mia.
Avrei fatto volentieri a meno della pacchia di attraversare un deserto, di essere derubata, picchiata, violentata, di essere venduta come carne da uomini che avevano in bocca la legge e nelle mani il fuoco. Avrei fatto a meno delle prigioni libiche, delle notti passate in piedi, del pane secco, dell’acqua putrida. Avrei fatto a meno delle urla di chi veniva torturato accanto a me. Avrei fatto a meno di tutto. Anche della vostra ospitalità.
Nel suo paese, senatore, troppe ragazze come me finiscono sui marciapiedi, strappate alla vita e offerte alla vostra fame di carne. La schiavitù non è finita. Ha solo cambiato volto. Io sono riuscita a fuggire, ma sono stata schiava nei vostri campi. Ho raccolto pomodori, arance, mele. In cambio di nulla. Di insulti. Di paura. Di umiliazioni. La pacchia l’avete fatta voi, sulle nostre schiene spezzate, sulle nostre vite svuotate, sui nostri sogni poveri, di una vita appena dignitosa.
Mi accorgo solo ora che non ho mai scritto il suo nome. Mi perdoni. È che mi fa paura. Paura vera. Lei ha la capacità di essere feroce solo con i deboli. Ma con i potenti, sorride sempre. Vuole che torniamo a casa nostra? Parli con chi ci ha rubato casa. Parli con i governi corrotti che sostenete, con le multinazionali che proteggete, con le banche che ingrassate. Se ha un briciolo di onestà, la sua faccia feroce la riservi a loro.
Noi, da soli, non possiamo più lottare contro tutto questo. E quando ci voltate le spalle, quando ci insultate, quando ci disumanizzate, non fate che schierarvi ancora una volta dalla parte del potere che ci ha condannati.






non hanno letto i romanzi di Elena Ferrante. La ragione? La scelta di Lenù che ha deciso di acconsentire a un rapporto sessuale con un uomo viscido e molto più vecchio che, per giunta, si era già approfittato di lei. Questa sconvolgente svolta nella storia, tuttavia, viene spiegata meglio direttamente dalla Ferrante nel libro Storia del nuovo cognome . [...]

di 
Mamuthones di Mamoiada































