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4.7.23

Catturati nel Donbass, Slavyk e Serhiy sono passati dalle carceri russe a quelle cecene. Ora, dopo uno scambio di soldati alla frontiera, sono in una clinica ucraina per la riabilitazione dei prigionieri di guerra. E sono inseparabili

repubblica del 2\72023



Sente ancora le mani che non ha più. Assorto nel ricordo della trincea riempita di neve sporca del suo stesso sangue, muove i monconi delle braccia per indicare a chi ascolta il punto da cui è sbucato il carro armato russo. Sferra cazzotti immaginari ai suoi aguzzini, quando il filo della memoria lo trascina di nuovo nel pozzo di disumanità che è stata la prigione dei separatisti a Donetsk. Il cuore di Slavyk si è rassegnato, il cervello no: continua a ingannarlo, facendogli percepire gli arti. Pure adesso che vuole grattarsi la testa, le sinapsi gli trasmettono la sensazione dell’articolazione del polso, del metacarpo,
delle dita, e il tentativo va a vuoto di qualche centimetro. Ma quest’uomo non si deprime mai. Sorride, come a dire: tu che mi fissi con lo sguardo contrito, rilassati, non mi serve la tua compassione, mi serve solo il tempo per abituarmi a un corpo più corto. Infatti, eccolo che prende le misure e riesce strusciarsi sopra l’orecchio, scacciando insieme il prurito e la pietà dell’osservatore. Lo spirito positivo di Slavyk ha lasciato senza parole i dottori della clinica militare che cura il corpo, la mente, gli incubi, le allucinazioni sonore, i tremori che anticipano l’insonnia e le mille forme di stress sviluppate da chi esce dalle carceri di guerra. Perché in fondo la sua non è una storia di depressione e solitudine, è la storia di un’amicizia spettacolare nata in cattività. A Slavyk hanno amputato anche le gambe. La destra sopra al ginocchio, la sinistra a metà del polpaccio. Eppure di notte non sogna di correre o saltare, sogna le mani. Era bravo con le mani. Le infilava nel cofano delle macchine scassate e quando le tirava fuori il motore cantava che pareva nuovo. Vyacheslav Levytskyy, detto Slavyk, 40 anni, gran meccanico e abile fabbro. Poi soldato. Arruolato il 22 marzo 2022, catturato il 25 febbraio 2023, venduto ai ceceni di Kadyrov, detenuto per tre mesi a Grozny. Senza braccia, senza gambe, due buchi nella pancia. «Serhiy, mi fai fumare?». Una storia di amicizia Una storia di amicizia, si diceva. Concetto nobile, alto, tanto facile da toccare mentre si affronta insieme il pericolo immanente della battaglia quanto complicato da mantenere dopo, una volta in salvo, quando si torna a casa e non si è più quelli di prima ma serve ancora aiuto. Concetto qui personificato meravigliosamente da Serhiy Potremai, 51 anni, veterano della prima guerra del Donbass, dislocato nella regione del Donetsk a gennaio di quest’anno, catturato il 24 febbraio. Un giorno prima di Slayvyk. Ha spinto lentamente la carrozzina fino al piccolo bungalow di legno nel giardino della clinica. È una giornata tiepida, gli ex prigionieri escono all’aria aperta, fa bene all’umore. Slavyk lo ha cinto al collo con quel che gli resta delle braccia, Serhiy lo ha sollevato e lo ha messo delicatamente a sedere sulla panca. Afferra il marsupio nero che ha a tracolla, apre un pacchetto di Kozak, estrae una sigaretta, se l’accende in bocca e la appoggia alle labbra dell’altro aspettando di sentirlo inspirare una nuvola di nicotina. Serhiy è le mani e i piedi di Slavyk. Di più. Talvolta ne è anche la memoria e il sostegno alla parola. Capita che, nel racconto della prigionia vissuta insieme, uno cominci la frase e l’altro la finisca. Ancora un tiro, Serhiy. Tiene a lungo il fumo nei polmoni, espira. «Grazie amico. Dunque, dov’eravamo?». Catturato dai separatisti Alla trincea. «Già, la trincea… Era notte, stavo in prima linea e sono stato colpito da un carro armato e poi dai mortai. Le schegge mi hanno frantumato le gambe. E un proiettile di fucile mi ha centrato allo stomaco, trapassandomi da parte a parte». È bastato uno sguardo e Serhiy gli ha alzato la maglietta fin sopra l’ombelico per mostrare una cicatrice lunga dieci centimetri e un taglio sotto la cassa toracica. «Mi sono buttato nella trincea e sono rimasto lì per sette giorni e sette notti. Non sanguinavo molto, probabilmente perché le ferite erano bruciate e perché faceva troppo freddo. Non potevo camminare, ho dovuto strisciare da una trincea all’altra facendomi forza con le braccia. È così che mi si sono congelate le mani. Pregavo di veder arrivare i nostri soldati. Avevo l’acqua delle razioni dell’esercito e pure del cibo, sono riuscito soltanto a bere, non sentivo la fame. Sette bottiglie da un litro e mezzo. Una mattina sono comparsi i separatisti del Donetsk, stavano raccogliendo i loro cadaveri. Li ho riconosciuti dalle divise. Mi hanno visto, mi hanno caricato su un fuoristrada e trasferito in un edificio che ha, all’interno, una cella». L’amico lo segue con attenzione, chissà quante volte a Grozny lo ha sentito ripetere le fasi della sua cattura e cosa ha dovuto subire dopo. Spazza via la cenere di sigaretta cadutagli sul pantalone, e ascolta, ancora, una vicenda che conosce a memoria. Pestato e venduto ai ceceni «Quando mi hanno preso avevo le mani con le dita blu e gonfie, le gambe rotte con degli squarci grossi così…». Il cervello ingannatore di Slavyk di nuovo gli fa fare con le braccia i gesti di un tempo, di quando era integro. «...e quelli invece di portarmi in ospedale hanno semplicemente applicato delle bende. Mi hanno prestato il primo soccorso e poi mi hanno pestato a sangue con una pala, frustandomi con un tondino di ferro. Assurdo. Volevano sapere la posizione delle nostre truppe e degli obici. Gli ho risposto che non lo sapevo, che quella è roba per artiglieri e io ero solo un autista. Per punizione mi hanno fatto andare da una stanza all’altra carponi sulle ginocchia. Il dolore era insopportabile. Non gli ho detto niente, neanche una parola. Si sono arrabbiati ancora di più e mi hanno sbattuto in uno scantinato buio. Non so quanto mi abbiano tenuto lì, nell’oscurità ho perso il senso del tempo. So solo che a un certo punto mi sono venuti a prelevare dicendomi che ero stato venduto ai ceceni di Kadyrov. Pronunciato quel nome, ho pensato che per me fosse davvero arrivata la fine. Invece, è successa una cosa inaspettata…». Slavyk non sa a quanto sta la sua pelle al mercato nero dei prigionieri, e, a dirla tutta, poco gli importa. Non è più affar suo. La compravendita dei vinti serve all’esercito di Kadyrov per avere qualcuno da scambiare con le forze armate ucraine e potersi riprendere i miliziani ceceni catturati. La clinica dei borderline Il sessantenne Oleksandr Blinov è il vice-direttore della clinica della riabilitazione, di cui si può dire che si trova in una regione centrale dell’Ucraina senza dare l’esatta ubicazione per motivi di sicurezza. Spiega che prima dell’invasione questo posto che assomiglia a una casa di riposo lavorava solo per i militari della Guardia Nazionale, dopo il 24 febbraio 2022 è stato riadattato in fretta a camera di decompressione della psiche di chi torna dopo uno scambio di prigionieri. «Non sono autorizzato a rivelare quanti pazienti abbiamo, né se sono aumentati o diminuiti nell’ultimo periodo. Stanno qui obbligatoriamente per quindici giorni, poi una commissione medica composta da psicologi, psichiatri, fisiatri e medici generici li valuta e decide se hanno bisogno di essere sottoposti a trattamenti ulteriori con gli specialisti, se devono rimanere qui altri giorni oppure se possono andare a casa». E più di questo, da Blinov, non si scuce. «Sono tutti classificabili come borderline, lo stadio precedente al caso psichiatrico», dicono i terapisti della riabilitazione. I soldati arrivano che hanno perso peso, alcuni anche cinquanta chili, c’è chi non è più in grado di addormentarsi, tutti fiaccati dagli effetti della sindrome post-traumatica da stress e qualcuno inseguito dai flashback delle torture e della costrizione. Sono il tormento dei liberati, i flashback. Perché non si fanno annunciare, si presentano e basta come ospiti sgraditi, penetrando la fragilità di uomini senza più un baricentro emotivo. Flashback Dalle cartelle cliniche, reali, di pazienti che sono stati o sono tuttora in cura: un incursore dell’esercito, neanche quarant’anni, sta facendo fisioterapia alle gambe per imparare a farle andare come prima e all’improvviso avverte la sensazione fisica della corda che in prigione gli stringeva le braccia (flashback tattile); in mensa un soldato del battaglione Azov lamenta di percepire il nastro adesivo avvolto attorno alla testa e il sacchetto di plastica con cui i carcerieri lo hanno quasi soffocato, tanto realistico da avvertire dolore agli occhi pur essendo al sicuro davanti a una zuppa; un artigliere è andato in crisi perché crede di aver sentito il rumore dello scotch da imballaggio quando viene tirato e delle chiavi della cella (flashback uditivo); un comandante di battaglione stava passeggiando sul prato accanto al dormitorio dove i giardinieri hanno rasato il prato e l’odore dell’erba appena tagliata lo ha riportato al tanfo dei cadaveri carbonizzati, provocandogli un attacco di panico.


Serhiy, il cui corpo è miracolosamente intatto, è le gambe e le braccia dell’amico mutilato: lo spinge sulla sedia a rotelle, gli accende le sigarette, lo aiuta in tutto La loro amicizia è nata nei campi di detenzione di Kadyrov, a Grozny. Sotto, una delle sale per la riabilitazione della clinica 

 Ora scambia le foglie per bombe. Amputato (e salvato) a Grozny Slavyk e Serhiy, dentro, non sono così rotti come gli altri perché, ed ecco la cosa inaspettata cui accennava, sono stati trattati bene dalle guardie musulmane del feroce Kadyirov. «Forse perché gli è imposto dalla loro religione, ipotizzo». I due amici sono gli unici nella clinica ad essere tornati dalla detenzione in Cecenia. «A Grozny mi hanno subito portato in ospedale, in terapia intensiva. Dopo una settimana o qualcosa di più in ostaggio dei separatisti ero senza speranze, le dita gonfie e blu, le mani infette, le gambe ormai immobili, le ferite ancora aperte e purulente, lo stomaco in fiamme. Sono stato visitato da un dottore capace e umano. Mi ha riempito di antidolorifici e antibiotici che mi hanno fatto stare meglio, mi ha fatto le trasfusioni di sangue, però una mattina è entrato nella stanza con una cartella bianca in mano e ha detto che doveva amputarmi tutto, gambe e braccia, perché ormai erano in cancrena. Ho firmato il consenso senza pensarci troppo, l’idea di poter rivedere mio figlio Dmytro e mia moglie Natalia mi ha dato coraggio. L’operazione è andata bene ma…». Pausa. La frase la termina Serhiy. «...se a Donetsk lo avessero portato subito sotto i ferri invece di picchiarlo per estorcergli informazioni che non aveva, avrebbe ancora le mani». Le strade di Slavyk e Serhiy si incrociano adesso, quando il primo esce dall’ospedale di Grozny e il secondo viene condotto con gli altri prigionieri ucraini che Kadyrov fa tenere in un seminterrato senza finestre di una palazzina della polizia, nella periferia della capitale L’angelo protettore «Quando l’ho visto arrivare ho capito che era necessario prendersi cura di lui, altrimenti lo avremmo perso». Ora è Serhiy a raccontare. «Eravamo 39 prigionieri ucraini e i ceceni ci hanno fatto capire immediatamente che Slavyk era sotto la nostra responsabilità, perché le guardie non avrebbero mosso un dito per lui. Quindi ho fatto ciò che andava fatto e ciò che ci insegna l’etica militare. Siamo due soldati e i soldati si aiutano sempre nelle difficoltà». Come Achille e Patroclo, ma un Patroclo mutilato. «Lo prendevo in braccio per portarlo in bagno a pisciare, lo prendevo in braccio per spostarlo dal letto sulla carrozzina, lo prendevo in braccio per fargli prendere ossigeno alzandolo fino a una grata nel soffitto. Lo facevo fumare. Muovevo per lui le pedine sulla dama, ne avevamo una. Lo imboccavo tre volte al giorno. Nell’ora d’aria facevamo a turno con gli altri a spingere la sua carrozzina. Sì, di cibo ce n’era a sufficienza, ciascuno riceveva quotidianamente una pagnotta e mezzo di pane e tre volte alla settimana il cibo era caldo e appena cotto. Per il resto mangiavamo patate crude e gli spaghetti in scatola, ma va bene, non abbiamo sofferto la fame. Era il paradiso in confronto al carcere nel Donbass». Pur avendo il corpo intatto, anche Serhiy ha conosciuto la violazione dei diritti umani e della convenzione di Ginevra sul trattamento dei detenuti di guerra. L’agenzia dell’Onu da mesi denuncia abusi in corso soprattutto in Russia, ma talvolta censura anche gli ucraini. Catturato al fronte, Serhiy si è ritrovato a Donetsk in una colonia penale. «Picchiato, vessato con l’elettroshock, ammanettato al termosifone per tre settimane…». Tre frasi per riassumere la tortura. Pronunciate rapidamente, una attaccata all’altra, così da fare in fretta e tornare a dimenticare. Dimenticare Nella clinica c’è una sala con un tavolo ovale verde e una lavagna. I pazienti fanno sedute di autocoscienza di gruppo, cercano di fare uscire l’ansia, di condividerla, di esorcizzarla. Entrano uomini duri, aspri, che hanno combattuto col Reggimento Azov a Mariupol, con tatuaggi nazionalistici sulla pelle che per i carcerieri russi sono tutti, indistintamente e a prescindere, prove di nazismo, dunque meritevoli di essere cancellati versandoci sopra l’acqua a cento gradi. Ed è curioso sentir parlare un guerriero delle proprie emozioni, vederlo disegnare con tratti infantili la maschera del demone che lo affligge. «La terapia prevede esercizi di riabilitazione in palestra, aromaterapia, massaggi, incontri con gli psicologi e con gli psichiatri», spiegano i medici. «Dipende dal livello di stress con cui entrano e che definiamo in una prima intervista, al momento dell’accettazione». I dottori aiutano gli ex prigionieri a rifare i documenti e a fissare l’appuntamento con il procuratore per testimoniare. La permanenza più o meno lunga in strutture come questa è una procedura resa obbligatoria dalle forze armate, ha lo scopo di tutelare i combattenti e riportarli al più presto sulla linea del fronte. Mogli, genitori e figli possono venire a trovarli. Non c’è molto tempo per guarire dagli attacchi di panico, né l’esercito impegnato nella controffensiva ha la pazienza di aspettare che i flashback svaniscano. «Quindici giorni di terapia, poi si vede». Due carrozzine per uno scambio Taganrog, Starioskol, Kursk, Ryazhsk: città russe diventate sinonimo delle colonie penali che ospitano, piene di soldati ucraini, da cui escono resoconti di quotidiana sopravvivenza che non sono poi così lontani dalla giornata infinita di Ivan Denisovič. La prigionia di Slavyk e Serhiy si è conclusa il 12 giugno. «Hanno prelevato nove di noi, i feriti e quelli messi peggio. Slavyk era il primo della lista, ovviamente. Io sono rientrato nell’elenco perché i ceceni hanno capito che vivevamo in simbiosi». Ora bisogna immaginarsi questa scena. Un punto imprecisato sul confine ucraino a nord, tra la regione di Sumy e quella russa di Belgorod. Sono le quattro del mattino, albeggia. Dal lato russo si avvicinano tre autobus e un’ambulanza, dal lato ucraino tre autobus e un’ambulanza. Dai bus scendono cento uomini in fila, dall’ambulanza scaricano la carrozzina che le guardie cecene gli hanno lasciato tenere. Al segnale di un militare, le due colonne si mettono in marcia, passando il confine contemporaneamente. Slavyk viene preso dalla sedia a rotelle cecena e messo su una sedia a rotelle ucraina. Stanza 105 Un letto inutilmente lungo, le coperte piegate, il tablet con cui parla in videochat con suo figlio di 14 anni (lo accende e lo programma Serhiy), il pacchetto di sigarette sul comodino, il gancio metallico per sollevarsi. Ad averci le mani. Sono le quattro e mezzo del pomeriggio. «Serhiy, mi tagli la mela?». Sorride. «Nonostante le amputazioni Slavyk è un uomo stabile, equilibrato», dice Serhiy, che sta facendo spicchi ben precisi col coltello. «Persino i ceceni lo rispettavano, erano impressionati dal fatto che non avesse perso il suo spirito pur avendo subito quello che ha subito. C’era una guardia di nome Rizvan con cui si prendevano in giro. Rizvan entrava nel seminterrato e gli diceva: “ma almeno l’organo più importante ti funziona?”, e Slavyk sghignazzava, assicurandolo che in quel settore non aveva subito menomazioni». Serhiy non ha moglie e non ha figli. È sin troppo facile pensare che abbia proiettato nell’amico amputato, di undici anni più giovane e completamente dipendente dal volere altrui, il figlio che non ha mai avuto. «Lo considero più come un fratello, e come succede ai fratelli a volte si litiga. Piccole cose, sciocchezze, siamo esseri umani. Le sigarette, per esempio: non sono mai abbastanza e non c’è mai un momento per fumare che vada bene a entrambi». Slavyk mastica la mela, osserva l’amico che si dà da fare per lui. I suoi occhi esprimono gratitudine silenziosa. Talvolta non c’è bisogno delle mani per abbracciare qualcuno

27.2.20

effetti collaterali del coronavirus

  prometto , speriamo di riuscirci che questo sarà l'ultimo  post  sul coronavirus   perchè mi sta  scartavetrando  i ...... oltre  a  gettarmi  nel dubbio   s e ridere  o piangere  in quanto    : << Na cosa buona di sto Coronavirus è avere conferma di essere circondati da coglioni.>>  (  francesco corallo  facebook   ) . 
ha  ragione l'amico  marco barone in questo  articolo  sul suo blog   https://xcolpevolex.blogspot.com quando dice   :   << Ovunque si parla di coronavirus. Da giorni e giorni i media non parlano che di questo. E' stata creata una situazione di panico, volendo o non volendo, ed infatti, quando si sono resi conto che la situazione stava scappando di mano, che si fa? Si dice che il coronavirus è una semplice influenza con percentuali di mortalità inferiori rispetto alla vecchia SARS e non solo. Insomma, non c'è di che preoccuparsi. Intanto, decreti d'emergenza, ovunque, schizofrenia da ricovero negli ospedali chiusi da Basaglia, verrebbe da dire.  Mentre nel mondo l'Italia viene vista come un Paese 'untore'. Un mondo che dichiara di prepararsi alla pandemia cosa che in Italia nella nuova narrazione soft dopo quella da grande panico viene sminuita. [...] >>  Infatti  e' successo di tutto e di tutto ancora accadrà. Casi di razzismo contro i cinesi ma anche contro i lombardi ed i veneti. Poi nel tempo si aggiungeranno quelli delle altre regioni "infette". Parlare  con l'accento  veneto o lombardo  , in giro per l'Italia, comporta l'attirarsi l'attenzione  ed   gli insulti denigratori 





 << [.... ] Se prima quell'accento non diceva nulla ai più,>>  sempre    secondo  Marco B  <<  ora, nella mente del cittadino scatta l'allarme. Poi, se ti scappa uno starnuto, magari scatta pure una "delazione". Veneto (  o Lombardo  aggiunta  mia  ) , più starnuto, uguale, infetto. Che poi magari sei allergico a qualcosa e sei sano come un pesce, questo può nel momento non contare un cazzo. Insomma, si è iniziato a capire che parlare la propria lingua può essere un problema. Cose che in Italia non si vedevano da tempo, erano la normalità sotto il fascismo contro gli sloveni    , ad esempio, e diffuse, negli anni del boom economico contro i meridionali nel nord Italia. Tutti a comprare amuchina e mascherine. Ma inspiegabilmente in molte città dove queste mascherine sono andate esaurite, in giro vedi poche persone con le mascherine e se la indossi magari ti prendono per il culo. >> e  quindi   battibecchi  tipo  questo  raccontato   qui  
Francesco Capelli
24 febbraio alle ore 20:46
"Stamattina ero a Nuoro, sono entrato alla Lidl e c'era questa signora con la mascherina, la guardavano tutti, uno si gira e le dice: "eh Zia me' esagerada, bi chi in Nugoro su coronavirus non b'est arribbau"!
Quella si toglie la mascherina e risponde: "deo so maladia pro sos cazzos meos...cravatichelu a culu su coronavirus"... è calato il gelo"

 Ma   << E soprattutto capisci cosa significa portare quella mascherina quando hai dei problemi di salute. Ti guardano tutti. Un virus che è in Italia probabilmente prima della sua esplosione e che ha fatto implodere il Paese. Chi invocava con atti di sciacallaggio la chiusura dei confini, ed i soliti nauseanti bla, bla, bla, ora deve assistere alla situazione paradossale che è l'Italia ad essere isolata dagli altri Paesi. >>  e che   << i veri confini sono sorti all'interno del Bel Paese, dove è andata letteralmente a quel paese l'unità d'Italia. L'autonomismo non ha fatto   [ corsivo mio ed  non fa  ] una bella figura. In certe mani è meglio non averlo. Su alcune materie non dovrebbe esistere, su alcune questioni d'emergenza nazionale, servirebbe l'emergenza nazionale e non regionale. E qui invece ognuno ha fatto  ed   fa  quello che minchia ha voluto  . Chi chiudeva le scuole, chi sospendeva solo le lezioni, chi questo, chi quello. Follia totale. Intanto, niente scioperi, niente assembramenti, niente riunioni, niente cultura, qualcosa resiste, non si è osato chiudere i centri commerciali, i ristoranti, si è osato chiudere le biblioteche ed i teatri. Ai lavoratori esposti, dai mezzi pubblici ecc, non sono state date le mascherine, ma intanto spuntano le tende davanti agli ospedali di alcune realtà e gli assalti ai supermercati. Controlli negli aeroporti, prima sui voli esteri, poi capiscono che non bastavano ed eccoli spuntare su tutti in teoria, anche se non è così nella realtà, controlli sui treni, ma sfuggono gli autobus, gli accessi dall'autostrada, dalle strade comuni. Non si può controllare tutto. Non si può mettere in quarantena un Paese intero. Il coronavirus ha dimostrato la vulnerabilità dell'Italia, un paese dove è saltato letteralmente il lume della ragione. Finita questa pagina vergognosa, saranno tante le cose da dover chiarire, sono diverse le cose che non tornano. E comunque una cosa va detta, gli sciacalli sovranisti della politica italiana hanno fatto   >>  ,  speriamo   <<  capire agli italiani, almeno a quelli dotati di cervello, cosa significherebbe lasciare il paese nelle loro mani.  Sarebbe un disastro totale.>>





23.2.16

Orfani dopo il femminicidio: le vittime di cui nessuno parla Sono 1628 dal 2000 a oggi. E ora c’è chi propone per loro aiuti e tutele

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ANSAMelania Rea. Uccisa il 18 aprile 2011 dal marito Salvatore Parolisi. Insieme a loro, quel giorno, la piccola di 18 mesi


23/02/2016
GRAZIA LONGO
ROMA

Perdono nello stesso momento la madre e il padre. La prima, protagonista dell’ennesimo caso di femminicidio. L’altro, autore del delitto, paga con il carcere o il suicidio. Mentre per loro, gli orfani di questa strage che nel nostro Paese miete più vittime della mafia, inizia una seconda vita nell’ombra e tutta in salita. 
Se ne parla poco, ma sono 1628, dal 2000 ad oggi, i figli di queste faide familiari costretti a fare i conti con il peso di un dolore che rischia di schiacciarli per sempre, oltre alle difficoltà a trovare una nuova famiglia e un sostegno da parte delle istituzioni, sia da un punto di vista economico che socio-assistenziale. L’allarme arriva dal presidente dello sportello Sos Stalking, Lorenzo Puglisi: «Quando le “vittime secondarie” del femminicidio sono minorenni devono spesso affrontare problemi come le lungaggini burocratiche di case famiglie e di adozioni. Da maggiorenni, quando va bene, possono avere problemi di carattere psicologico ed economico, mentre se va male rischiano di finire nel mondo dello spaccio o della prostituzione». 
Per questo si sta pensando a una nuova legge che tuteli questi orfani alla stregua delle altre vittime di reati gravi come la mafia, il terrorismo o l’inquinamento ambientale da amianto. Si punta, insomma, all’istituzione di un fondo per le vittime di femminicidio. «Che cosa hanno di meno questi orfani speciali? - insiste l’avvocato Puglisi -. Vengono trattati da vittime di serie B, mentre occorre una norma specifica che li tuteli o li sostenga, anche economicamente, a differenza di quanto invece accade per altre categorie». 
Anche perché i numeri sono drammaticamente in crescita. Il 2015 ha visto 118 orfani in più rispetto all’anno prima. Del resto è sufficiente scorrere i dati di donne uccise: 128 nel 2015, mentre nei primi 40 giorni del 2016 sono 10, con una media allarmante di una vittima ogni 3 giorni. E non dimentichiamo il 2013, decisamente un anno nero, con 179 donne ammazzate, praticamente una ogni due giorni. Nella maggior parte dei casi il delitto viene compiuto con un’arma da fuoco e nel 50% di questi, all’omicidio segue il suicidio del padre. Oppure la donna viene strangolata o uccisa con un’arma da taglio. 
Anche scorgendo il passato, i numeri confermano la drammaticità dei fatti: come riportato dall’Italian Journal of Pediatrics, dal gennaio 2012 fino al mese di ottobre 2014, 319 donne sono morte in quelli che vengono definiti femminicidi, e nella maggior parte dei casi, 209 su 319, per mano del compagno o ex compagno, all’interno delle mura domestiche. In quel triennio, gli orfani a causa della morte violenta della madre ammontano a 417, di cui 180 minori all’epoca dei fatti. Ben 52 di questi figli coinvolti hanno assistito direttamente all’omicidio e di questi 30 erano minori. Inoltre, 18 bambini su 417, di cui la metà minorenne, hanno perso la vita assieme alla madre. S’impongono alcuni interrogativi. Che tipo di tutela hanno ricevuto, negli anni, questi bambini? Quale percorso è stato intrapreso per loro a livello terapeutico, sociale o giuridico? Quanto e come è stato affrontato e ridotto il loro danno da trauma? Quando l’orfano non è maggiorenne può essere affidato dal tribunale dei minori ai nonni o ad altri parenti, qualora ne facciano richiesta, «ma spesso questa soluzione non è ottimale poiché anche gli stessi familiari devono gestirne le conseguenza psicologiche, a partire dall’astio tra la famiglia del padre assassino e della madre uccisa». 
Per chi ha raggiunto la maggiore età non si può invece tralasciare la carenza di un sostegno economico da parte dello Stato, sia per quanto concerne il supporto psicologico sia per quello economico a partire dalla formazione scolastico-universitaria. «E invece niente - conclude il presidente di Sos Stalking -. A parte i fondi regionali ad hoc predisposti in Emilia Romagna e Campania».

24.3.12

decessi a seguito di infusioni di Tysabri per la sclerosi multipla

 Ma  che  cazzo  a sperimentare  il metodo zamboni-salvi , certo  non va bene  per  tutti\e o  a volte  non riesce  al  primo tentativo ,  ma    è meglio questo  che  morire  per  effetti collaterali di  farmaci   che usi per  curarti   . come il caso  della  news   sotto riporta    ed  ignorata    forse  perchè non è una  notizia o perchè i casi sono pochi  oppure  perché la stampa  ufficiale  è soggetta  alle  lobby  delle case farmaceutiche  . Da  un mio contatto di fb  che soffre di sclerosi multipla   leggo questa  news  

decessi a seguito di infusioni di Tysabri per la sclerosi multipla
pubblicata da StefaniAjò Melis il giorno venerdì 23 marzo 2012 alle ore 0.14



TRADUZIONE CON GOOGLE
212 casi di PML e 46 decessi in pazienti con sclerosi multipla Tysabri a partire dal 1 Marzo, 2012
Biogen Idec hanno rilasciato gli ultimi dati per i casi di PML e di decessi a seguito di infusioni di Tysabri per la sclerosi multipla

Al 1 ° marzo 2012, ci sono stati 212 casi di PML, di cui 122 sono stati dello Spazio economico europeo (SEE), 80 negli Stati Uniti e 10 nel resto del mondo (ROW). 46 dei 212 pazienti con leucoencefalopatia multifocale progressiva sono morti.

In 54 pazienti trattati con Natalizumab SM che hanno sviluppato leucoencefalopatia multifocale progressiva e nei quali erano disponibili campioni di siero 6-187 mesi precedenti l'insorgenza della PML, tutti i 54 pazienti hanno anticorpi anti-JCV rilevato.

I campioni erano disponibili da 86 pazienti al momento della diagnosi PML e tutti 86 risultati positivi per anticorpi anti-JCV.

Inoltre, un campione, prelevato da un paziente al momento della diagnosi PML seguito un ciclo di plasmaferesi (PLEX) risultati negativi per anticorpi anti-JCV. Perché questo campione è stato raccolto immediatamente dopo PLEX e PLEX rimuove gli anticorpi dalla circolazione, le informazioni ottenute da questo campione non è affidabile.

Un paziente testato anti-JCV anticorpi positivi due mesi prima della diagnosi di PML. In precedenza, il paziente aveva provato anti-JCV negativi per gli anticorpi 15 mesi prima della diagnosi di PML, che indica che essi erano stati esposti al virus JC ad un certo punto tra le due prove.

Fonte: Biogen Idec (16/03/12)
ORIGINALE:212 PML cases and 46 deaths in Tysabri MS patients as of March 1st 2012
Biogen Idec have released the latest figures for PML cases and deaths following Tysabri infusions for Multiple Sclerosis
As of March 1, 2012, there have been 212 PML cases, of which 122 have been in the European Economic Area (EEA), 80 in the US and 10 in rest of world (ROW). 46 of the 212 patients with PML have died.
In 54 natalizumab-treated MS patients who developed PML and in whom serum samples were available 6-187 months prior to the onset of PML, all 54 patients had anti-JCV antibodies detected.
Samples were available from 86 patients at the time of PML diagnosis and all 86 tested positive for anti-JCV antibodies.
In addition, one sample, collected from a patient at the time of PML diagnosis following a cycle of plasma exchange (PLEX) tested negative for anti-JCV antibodies. Because this sample was collected immediately following PLEX, and PLEX removes antibodies from the circulation, the information obtained from this sample is unreliable.
One patient tested anti-JCV antibody positive two months before PML diagnosis. Previously, the patient had tested anti-JCV antibody negative 15 months prior to PML diagnosis, indicating that they had been exposed to the JC virus at some point between the two tests.
Source: Biogen Idec (16/03/12)

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...