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31.3.24

“Gli errori sono necessari, utili come il pane, e spesso anche belli, per esempio la Torre di Pisa.” è il caso di Storie di errori memorabili di Piero Martin

Edizione: 2024, II rist. 2024
Pagine: 200
Collana: i Robinson / Letture
ISBN carta: 9788858153499
ISBN digitale: 9788858154670
Argomenti: Attualità culturale e di costume,Scienze: storia e saggi 
In questi tempi in cui ogni cosa deve essere presentata nella luce migliore, di cui i social in particolare Instagram sembra la vetrina ideale, l’imperfezione e l’errore non sono ammessi e sono mal visti tanmto d'essere consierati fallimento . Eppure sbagliare è spesso una grandissima occasione di imparare, di fare nuove scoperte e di crescere o
per dirla ( vedi citazione nel titolo alla Gianni Rodari ) : «In questi tempi in cui ogni cosa deve essere presentata nella luce migliore, di cui Instagram sembra la vetrina ideale, l’imperfezione e l’errore non sono ammessi. Eppure sbagliare è spesso una grandissima occasione di imparare, di fare nuove scoperte e di crescere. Ce lo racconta il fisico Piero Martin che ha dedicato un libro alle storie degli errori memorabili ». Ce lo racconta il fisico Piero Martin che ha dedicato un libro alle storie degli errori memorabili .  

 

Da  https://www.laterza.it/scheda-libro/

Non si tollera, non si riconosce, non si perdona, ma non si può evitare. È l’errore, prezioso compagno di quel meraviglioso errare che è la vita. Un viaggio sorprendente tra memorabili incidenti di percorso della scienza: sbagliare non solo è umano ma spesso è anche molto utile! Spesso si considera la scienza il regno della certezza e della verità. Invece, il dubbio e l’errore sono fondamentali per il progresso del sapere in ogni settore. E, come accade nella vita di ogni giorno, anche nella scienza l’errore si presenta sotto molteplici forme: c’è l’errore che è motore di nuove conoscenze, ma anche quello frutto dell’ideologia o della fretta. C’è l’errore riconosciuto e quindi fecondo, ma anche quello testardo.In questo libro scopriremo storie affascinanti di chimica, biologia, medicina e soprattutto di fisica, dal punto di vista di chi sbaglia. Incontreremo scienziati come Fermi, Einstein e Pauling e studiosi quasi ignoti. Scoprire che anche i grandi della scienza hanno sbagliato sarà una iniezione di ottimismo. Viviamo in un mondo che con l’errore ha un rapporto difficile. Oggi più che mai è importante rivalutarlo: lunga vita all’errore!








oltre la scheda del libro riporto , non sono riuscito a sintetizzarla , la recensione fattta daalla newsletters <altrestorie@mariocalabresi.com>


«L'errore fa parte delle nostre vite. Tutta la nostra vita è fatta di scelte, è fatta di bivi. Qualche volta prendiamo la strada giusta, altre quella sbagliata. Ma l’errore non va lasciato da solo, riconoscerlo è fondamentale per capirlo e per farci pace».
A parlarmi di quanto sia importante cambiare il nostro rapporto con gli errori è un professore di Fisica sperimentale all’Università di Padova, si chiama Piero Martin e l’ho cercato perché ha scritto un libro, intitolato “Storie di errori memorabili”, in cui racconta che la ricerca è piena di errori che sono stati utilissimi, perché hanno fatto fare grandi progressi alla scienza. Mentre leggevo il libro pensavo che il suo ragionamento potesse essere valido anche per tutto quello che ci accade nella vita, perché se gli errori li riconosciamo e li comprendiamo questo ci fa crescere e forse anche diventare persone migliori.
Anche Piero Martin ne è convinto, tanto che nella nostra chiacchierata – che potete ascoltare nella nuova puntata del podcast “Altre/Storie” – lo chiarisce subito: «A me piace molto pensare come anche di fronte agli errori più gravi, quelli che purtroppo talvolta capitano e ci portano davanti alla giustizia, la nostra Costituzione nel suo articolo 27 preveda la pena come momento di rinascita. Perché anche dagli errori peggiori si può rinascere, si può ricostruire».
La verità è che viviamo in una società e in un mondo in cui i fallimenti e gli errori sono considerati sentenze inappellabili, non incidenti di percorso; invece dovremmo imparare a trattarli come tali, perfino ad apprezzarli, perché, sottolinea Martin, «sbagliare non solo è molto umano ma spesso è anche molto utile».
Ma gli errori e le imperfezioni preferiamo rimuoverli, fingere che non esistano. Basta aprire Instagram per rendersene conto: le vite sono tutte belle, levigate, mai stanche, persino i tramonti e i panorami sono perfetti. «Succede perché oggi la nostra narrazione è tipicamente una narrazione di successi, eppure accettare di essere fallibili ci darebbe un’enorme libertà e anche un po’ di felicità. Perché vuol dire che uno si sente libero di poter essere quello che è, senza essere giudicato. Anche nella ricerca scientifica è così: le pubblicazioni presentano tutto ciò che è andato bene, ma spesso dietro una cosa che è andata bene ce ne sono tante che non hanno funzionato. Raccontare anche questo sarebbe molto utile, perché permetterebbe ad altri di evitare di fare gli stessi errori».


Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica nel 1938 (© Wikipedia)


Gli chiedo quale sia per lui “l’errore degli errori” nella ricerca scientifica, quello che preferisce. «Quello che a me piace di più, per tutte le implicazioni che ha avuto è stato quello di Enrico Fermi. Vuoi perché Fermi è un grande maestro per tutti noi, vuoi perché l'ha fatto come Antonio Cabrini quando ha sbagliato il famoso rigore durante i Mondiali di Spagna del 1982. L'ha fatto in quella che era la sua finale mondiale, ovvero la consegna del premio Nobel. Nella lectio magistralis che tenne nel dicembre 1938 al ricevimento del premio Nobel raccontò i suoi risultati e tra questi la scoperta dei presunti elementi transuranici, cioè più pesanti dell'uranio. Era una scoperta assai importante, salvo che pochi mesi dopo altri fisici scoprirono che non era così, ma che Fermi aveva scoperto, senza accorgersene, la fissione nucleare. Qualcosa di davvero troppo grande anche per lui da immaginare. Ebbene, Fermi non solo riconosce l’errore, ma chiede di inserire un’errata corrige nel testo della sua lezione in cui riconosce di aver sbagliato e questo ai miei occhi ne eleva ancora di più la grandezza».
Nel libro c'è una frase bellissima di Karl Popper che dice: «Evitare errori è un ideale meschino. Se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l'errore quasi inevitabile non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. Nessuno può evitare di fare errori. La cosa più grande è imparare da essi». A me sembra una frase fantastica perché ci ricorda che se non corri il rischio dell'errore allora sarai paralizzato e costretto ad accontentarti di fare sempre le stesse cose.


Piero Martin, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Padova


Martin mi racconta il caso di un errore che si è trasformato in una grande opportunità, anche economica, per chi lo ha commesso. Si tratta di un errore collaterale: «È molto noto nel campo della medicina ed è il caso del Viagra. La storia è che la Pfizer stava studiando un medicinale per curare l'angina pectoris quando è emerso che in realtà faceva un effetto diverso. La storia mi sembrava un po’ esagerata e inverosimile e allora sono andato a cercare e ho trovato un'intervista radiofonica dell'allora direttore della ricerca e sviluppo che raccontava come un giorno un'infermiera fosse andata da lui a segnalare che tutti i pazienti maschi al momento del controllo dopo l'assunzione della pastiglia si mettevano a pancia in giù. Inizialmente non capivano il perché, ma poi fu chiaro che quella pastiglia faceva un altro effetto, e quei pazienti erano imbarazzati. Così da un errore di progettazione nacque uno dei farmaci di maggior successo e di certo una grande ricchezza per la casa farmaceutica».
Mentre il professor Martin parla, io penso che nelle scuole si dovrebbe tenere un corso di storia degli errori e insegnare a non fare drammi se si sbaglia: «È fondamentale lasciare i più giovani liberi di sbagliare. Dovremmo uscire dalla tentazione di giudicare e di incasellare ogni cosa con un voto: sotto il 6, sopra il 6…
C'è una grande figura della matematica italiana, Federigo Enriques, che ha scritto: “Un maestro sa che la comprensione degli errori dei suoi allievi è la cosa più importante della sua arte didattica».


9.3.24

[ i Nuovi Italiani ] IL giorno in cui ho smesso di essere invisibile la storia di Danielle Madam





La solitudine, la rabbia, le giornate passate fuori dalla classe, seduta in corridoio. E poi un professore si ferma: «Vieni in palestra con me». Inizia così la carriera di lanciatrice del peso di Danielle Madam, ma soprattutto inizia così la sua nuova vita, quella in cui si vuole bene



                                                        di Mario Calabresi





Ci sono persone che ci restano nella testa e continuano a venirci in mente anche se le abbiamo incontrate una sola volta. A fare la differenza è una frase o un’immagine che si impiglia nei nostri pensieri. L’immagine che non ho dimenticato è quella di una ragazzina infelice e irrequieta che passa le sue giornate seduta nel corridoio della scuola, vicino al calorifero, a guardare dalla finestra. Gli insegnanti la mandano regolarmente fuori dalla classe perché non segue e disturba. Nessuno di quelli che passano si cura di lei, che si sente incompresa e invisibile. Finché un uomo non si ferma: è il professore di educazione fisica. Le propone di lasciare il corridoio e di seguirlo in palestra. Un gesto che cambierà per sempre la vita della ragazzina.


Danielle Madam durante la registrazione dell’ultima puntata del mio podcast Altre/Storie


Danielle è nata in Camerun ed è arrivata in Italia all'età di sette anni insieme a suo fratello gemello Ivan. La mamma, per sottrarli ad una faida familiare, li aveva affidati a uno zio che viveva a Miradolo Terme, vicino a Pavia. I due bambini cominciano una nuova vita e crescono in fretta, lo zio lavora sempre e arriva a casa solo la sera, così Danielle impara a fare la spesa, a cucinare, e a prendersi cura del fratello. Scoprono la neve e si sentono accolti dalla scuola e dal paese. Ma quando hanno nove anni lo zio muore all’improvviso e il loro equilibrio si spezza di nuovo: i servizi sociali li dividono e mandano lei dalle suore e lui dai preti. Si riescono a vedere solo mezz’ora la settimana. Tutto va in pezzi.
Danielle si riempie di dolore ed è sempre arrabbiata: la bambina che faceva da mamma a suo fratello diventa intrattabile. Comincia la scuola media e i voti non sono mai sopra il 4, le insegnanti chiamano continuamente le suore per lamentarsi: «Non volevo seguire nessuna regola, ero costantemente irrequieta. Le professoresse dicevano: “Se devi disturbare sei fuori”.
Nessuno si chiedeva che cosa stessi passando, nessuno si preoccupava della mia situazione, così io stavo seduta fuori dalla classe e quello era il modo in cui passavo le mie giornate».
Oggi Danielle, che ha 26 anni e di cognome si chiama Madam, racconta tutto con il sorriso, con grande calma e pace. Se ci riesce è grazie a quell’incontro con il professore di ginnastica, Giampiero Gandini.



Danielle insieme a suo fratello Ivan


«Mi disse: “Perché invece di stare lì seduta non vieni a provare a lanciare il peso? Ci sono le gare tra poco e ci manca proprio la pesista. Secondo me tu potresti fare bene, vieni con me, andiamo fuori a provare”. Siamo andati in giardino, ho iniziato a lanciare e ho visto lo stupore nella sua espressione». Da quel momento Danielle inizia ad allenarsi tutti i giorni: «Ero in seconda media e il professor Gandini veniva in classe e diceva: “Devo prendere Madam perché dobbiamo andare giù a lanciare”. Le professoresse erano senza parole. I compagni non capivano. Io avevo qualcosa da fare e non ero più seduta fuori».
Poche settimane dopo la iscrive alla prima gara, tra le scuole della provincia di Pavia: «L’ho vinta e ho adorato il senso della vittoria. I miei compagni, che fino a quel momento non mi avevano mai calcolata, cominciano a farmi i complimenti e a voler essere miei amici».
Da quel momento cambia tutto, fuori e dentro di lei: «Avevo un valore e lì è iniziato il mio viaggio. Ho capito che volevo continuare a vincere e che per riuscirci dovevo continuare ad allenarmi. Le cose mi venivano semplici. Era incredibile. Non c'erano più mille passaggi, non c'erano assistenti sociali, non c'era il tribunale, c'ero solo io che impegnandomi ottenevo dei risultati».


Danielle con in mano il peso prima di prepararsi al lancio


L’idea di non essere più invisibile e di avere un valore contamina ogni aspetto della sua vita: «Mi sono detta: perché non provo a trasferire questi valori che sto imparando, grazie allo sport, anche nella scuola? La mia situazione era disastrosa a dir poco, ma ho iniziato a studiare per vedere che cosa veniva fuori, per vedere se l'emozione che provavo nello sport potevo provarla anche con gli studi. E così è stato». Comincia con la matematica: «Per me era sempre stata come l’aramaico, e invece è diventata la mia materia preferita perché è molto metodica, come gli allenamenti: se tu fai gli esercizi con costanza i risultati arrivano». Le professoresse chiamano le suore che, preoccupate, si presentano a scuola: «Rimasero stupite di fronte alla domanda: “Cosa è successo? Come ha fatto a passare dal 4 all’8?”. La risposta a me era chiarissima: avevo bisogno che qualcuno credesse in me più di quanto lo facessi io».


Danielle premiata a un meeting nazionale di atletica leggera con una delle 25 medaglie ricevute nella sua giovane carriera


Il viaggio di Danielle la porta sempre più in alto, fino a vincere cinque campionati italiani nelle sue categorie di età e a raccogliere 25 medaglie. Poi si qualifica per i mondiali, per scoprire, però, che non può partecipare, perché non è italiana e la maglia azzurra non la può indossare. «Rappresentare l'Italia, il posto che mi ha accolta, era un po’ come ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato e permesso di essere la persona che sono. Ero incredula, non capivo perché non potessi, ma da quel momento diventare cittadina italiana è stato il mio più grande obiettivo».
Danielle capisce che si diventa italiani solamente se si nasce in Italia e che non basta nemmeno fare tutte le scuole e raggiungere la maggiore età «Io sono arrivata qui all'età di sette anni, per cui dovevo seguire l'iter degli adulti: dieci anni di residenza e tre anni di redditi. Ma io ero dalle suore e non avevo famiglia e nemmeno redditi».
Ma non molla, prende la maturità, si iscrive all’università e continua ad allenarsi, a gareggiare e a fare le file davanti alla questura all’alba. Diventata maggiorenne non può più stare dalle suore, loro le trovano un posto dove abitare ma deve mantenersi, così fa la babysitter e la sera le consegne delle pizze con la bicicletta.
Non si scoraggia e dopo 17 anni in Italia riesce a diventare cittadina e nello stesso momento a laurearsi in Scienze della Comunicazione. Oggi vive a Roma dove lavora e tiene seminari e workshop per le aziende: «Parlo dell’importanza della diversità e dell'inclusione. Cerco di trasmettere quello che ho imparato».
L’immagine del professore che si ferma e parla con la ragazzina seduta in corridoio, l’avevo sentita raccontare da Danielle alla presentazione del libro del demografo Francesco Billari sull’Italia del futuro. Quel gesto era stato capace di cambiare la direzione e il destino di una vita e volevo conoscere tutto il resto del racconto, così ci siamo incontrati a Roma e la voce di Danielle è diventata protagonista della nuova puntata del mio podcast Altre/Storie che potete ascoltare qui.

29.12.23

credere o non nelle persone ?

canzone  suggerite  

Caro amico\ l'anno che  verrà  -Lucio dalla
il  vagabondo    stanco  - Mcr
Non so a chi credere - Biagio Antonacci 

  Grazie   alle  storie   di  Mario   Calabresi    e  di Emiliano Morrone  (  vedere post  sotto  )   che riesco ad  andare  avanti  ed  a


ed alcuni #fidaticontatti riesco ad andare avanti ed a lasciarmi alle spalle quelli che credevo , #compagnidiviaggio ed invece si sono rilevati #infidi ed #egocentrici . come mi successo recentemente con delle persone con cui ho avuto incomprensioni ed anziche provare a risolverle accusano dando la reponsabilità di ciò solo a me e non anche loro




Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "Feltrinelli Editore FRED UHLMAN L'amico ritrovato ECONOMICA S Il fatto è che non sopporto l'idea di ferirti. Eppure non credo di essere l'unico responsabile; non è facile essere all'altezza del tuo concetto di amicizia!"


  Ecco che   

da    altre storie   newsletters  di  www.mariocalbresi.it      del  29 dicembre 2023

Questo 2023, a vederlo da qui, dai suoi ultimi giorni, sembra molto buio. Eppure, facendo un viaggio tra le foto del mio telefono, ho ritrovato momenti, incontri e storie piene di luce. La stessa che auguro a tutti noi per l’anno che inizia
È stato un anno faticoso, troppo pieno di giornate in cui le notizie ci hanno riempito di angoscia: inondazioni, persone portate via dall’acqua e dal fango, un clima che non riconosciamo e ci fa paura; donne e ragazze uccise sistematicamente da chi sosteneva di amarle; una guerra che non vuole finire a meno di mille chilometri dal nostro confine orientale; un attentato terroristico di una crudeltà e dimensioni tali che fatichiamo a comprendere e che può solo ricordare l’11 settembre; una reazione per sradicare quel terrorismo che ha smarrito subito il senso delle proporzioni non facendo distinzione tra militanti e civili, tra combattenti e bambini. Un anno in cui abbiamo convissuto con troppa rabbia. Come si può respirare? Come si può avere fiducia e recuperare un po’ di serenità?


L’arcobaleno che ho fotografato sulla spiaggia di Rimini


Ho fatto un viaggio nel mio telefono, nelle foto che ho fatto nell’ultimo anno e ho trovato la risposta: si può e si deve credere nelle persone. Tendiamo a ricordarci quelle che ci hanno fatto un torto, quelle con cui abbiamo avuto uno scontro e non cerchiamo nella memoria chi invece ha fatto la differenza in positivo.
Io la fiducia la ritrovo nelle persone che ho incontrato, nelle storie che mi hanno raccontato, nello scambio e nell’empatia che si può creare. A gennaio a Roma avevo presentato il libro (“Al volante della mia vita”) di una donna straordinaria, si chiamava Alessandra Pederzoli, aveva 48 anni, era una commercialista con la passione per il canto, raccontava la sua lunghissima lotta con un tumore raro. Fino all’ultimo (è mancata a giugno) ha coltivato la vita e le cose che amava di più. Alla fine della presentazione aveva cantato in libreria ed è uno dei ricordi più belli che mi porto dentro.

Alessandra Pederzoli


Una storia a lieto fine, uno straordinario lieto fine, è quella di Lorena e Giuseppe. Lei era una bambina destinata a morire di leucemia nel 1969, lui un giovane medico ostinato a non arrendersi. A febbraio sono andato ad incontrarli per farmi raccontare la vittoria più bella “della carriera e della vita” e di un’amicizia che dura da più di cinquant’anni. La loro storia la potete leggere qui.

Lorena Agliardi e Giuseppe Masera


A marzo, per puro caso ho conosciuto Jack, su un volo all’alba da Catania a Milano. Ha 78 anni e 13 anni fa, poco prima di andare in pensione, è rimasto vedovo. Dopo un periodo passato a pensare di non avere più nulla da fare nella vita e nessun futuro, ha deciso di cominciare a viaggiare. Quando l’ho incontrato aveva appena finito di fare un giro della Sicilia e l’Italia è stato il 69esimo Paese che ha visitato. La sua storia la potete leggere in questa newsletter.

Il selfie che ho scattato con Jack prima che il nostro aereo atterrasse


Oriano Scheggi è nato e cresciuto in mezzo alle vigne di Sangiovese, quelle con cui si produce il Brunello di Montalcino, e lavora da cinquant’anni nel podere di Pieve Santa Restituta, una tenuta che oggi è della famiglia Gaja.
Oriano ricorda che quando era bambino si facevano olio e vino: le viti erano piantate tra un filare di olivo e l’altro, poi a gennaio del 1985, in una sola notte, la temperatura scese a 12 gradi sottozero. Una terribile gelata che uccise la gran parte degli alberi e decise il passaggio dall’olio al vino in tutta la zona di Montalcino.
Con Oriano ho camminato a lungo e mi ha spiegato che le colline di Montalcino sono coperte al settanta per cento di boschi di lecci e di querce e sono un paradiso per gli animali, a partire dagli uccelli. Da secoli questo è il panorama e non si può tagliare il bosco storico per piantare le vigne.
La terra che Oriano coltiva è piena di fossili di milioni di anni fa: un paio di anni fa ha trovato due denti di squalo bianco, appartenuti a un esemplare che doveva essere lungo più di dieci metri.

Oriano Scheggi


Una cosa bellissima è tenere fede alle promesse, anche quelle piccole. Così dopo tre anni sono andato a trovare Silvana Vivoli, che manda avanti la più antica gelateria di Firenze. Avevo raccontato la sua storia durante il primo lockdown quando facevano anche cinquanta chilometri per portare un gelato a domicilio e lo servivano ai pochi clienti attraverso una buchetta medioevale nel muro. Silvana è nata nel 1967, al tempo dell’alluvione: «Allora fu un disastro, ci vollero due settimane per rimettere in piedi il negozio, ma questo ci ha insegnato a non arrenderci mai».
Il nonno di Silvana, Raffaello, aveva cominciato a fare il gelato nel 1930, ma nel quartiere di fiorentini non c’è rimasto più nessuno: «Solo mia madre e una signora di 78 anni che ogni giorno cala il cestino dalla finestra per avere il suo gelato».
Aver mantenuto la promessa ha avuto molti lati positivi, non solo osservare come fanno il gelato e perdermi nel loro laboratorio ma anche assaggiare il suo strepitoso affogato al caffè.

Silvana Vivoli e il suo affogato al caffè


Al Salone del Libro di Torino ho presentato l’ultimo lavoro di Fernando Aramburu, uno dei miei scrittori preferiti, il suo “Patria” è il libro che amo di più. Naturalmente abbiamo parlato di terrorismo basco, di come la società spagnola sta provando a chiudere quelle ferite, ma anche – ed è quello che mi è piaciuto di più – del suo processo creativo. Fernando scrive guardando un grande cactus che ha davanti alla scrivania, personificazione di chi lo leggerà, ma quando si blocca e non riesce ad andare avanti allora a salvarlo ci pensa Luna, la sua cagnolina che sta sempre sui suoi piedi. Escono a fare una passeggiata e lui ritrova il filo della scrittura.

Con Ferdinando Aramburu al Salone del Libro di Torino per presentare il suo ultimo libro: Figli della favola


Quando nel 2011 la cosiddetta “Venere di Morgantina”, una statua del V secolo avanti Cristo raffigurante una dea, tornò in Sicilia (da cui era stata trafugata) dopo un accordo tra lo Stato italiano e il J. Paul Getty Museum di Malibù, mi chiesi se aveva senso portarla nel piccolo museo archeologico di Aidone. Quest’estate sono andato nel centro della Sicilia per trovare la risposta: sì, è giusto che sia tornata a casa, ma meriterebbe di ricevere l’amore e le attenzioni che le venivano date in California.
Meriterebbe quella cura che una coppia di tedeschi, che arrivati qui per caso durante un viaggio decisero di restare a vivere, ha messo nel piccolo bar che si trova proprio di fronte al museo. Producono torte, biscotti alla cicerchia, olio, fanno delle granite strepitose e sono di una gentilezza modello.

L’interno del caffè La Piazzetta del Museo con il titolare


La storia più potente che ho raccontato quest’anno – la potete leggere qui o ascoltare in podcast - è l’incontro tra Maite Billerbeck e Rossana Ottolenghi, la prima è la nipote di un criminale di guerra nazista responsabile della strage degli ebrei del Lago Maggiore (54 uomini, donne e bambini assassinati e gettati nel lago nel settembre di ottant’anni fa), la seconda è la figlia di Becky Bear che sopravvisse alla strage. Il loro incontro a Meina è stato uno degli sforzi più intensi e potenti per tenere lontano l’oblio e per fare memoria in senso nobile e intelligente.

Maite e Rossana il 24 settembre 2023 sul lungolago di Meina


La Signora delle Comete è la mia donna dell’anno. Ho intervistato Amalia Ercoli Finzi, 86 anni, quest’estate e la sua energia e il suo esempio sono la cosa più contagiosa che ho incontrato. Prima laureata in ingegneria aeronautica in Italia, ha lottato senza sosta per farsi spazio in un mondo che era tutto maschile e non ha mai smesso di studiare e ricercare. Il suo racconto lo potete leggere qui e la sua voce ascoltarla qui e capire come andremo un giorno su Marte.

Amalia Ercoli Finzi


Altre/Storie va in vacanza e non uscirà per due settimane. Ci ritroveremo venerdì 19 gennaio. Molti auguri per un anno di serenità e di pace.


e  da 
LA LENTE DI EMILIANO

Il punto di vista sulla Calabria di un intellettuale apolide

Apollo, pieno di informazioni e privo di interessi nel territorio calabrese, risponde sulle difficoltà della regione e sulle direzioni per uscire dal confinamento in cui si trova

da vhttps://www.corrieredellacalabria.it/    Pubblicato il: 29/12/2023 – 6:53




Icaro volò vicino al sole, che ne fuse le ali di cera. È un’immagine attuale, perché la vita è breve, la Terra ha risorse limitate e il potere le spreca a dismisura. Secondo un altro mito, le Colonne d’Ercole, ubicate nello stretto di Gibilterra tra i monti Calpe e Abila, rappresenterebbero le frontiere della conoscenza. Nel XXVI canto dell’Inferno, Dante ce ne offre una descrizione filmica: l’impavido Ulisse è proprio lì, in alto mare insieme ai suoi compagni, che convince all’arrischio: a superare quella barriera, finché «un turbo» spezza la prua della loro nave, infine risucchiata dalle acque vorticose. La morte arriva come destino, punizione, avvertimento. La letteratura di ogni tempo ci spinge a ragionare, al giudizio responsabile, alla coscienza della finitezza umana. Pochi ricordano, nel citare il libro “Ventimila leghe sotto i mari”, con cui lo scrittore Jules Verne ne anticipò l’invenzione, che il sottomarino – Nautilus, nel racconto – viene inghiottito dal maelström, una specie di gorgo, davanti alle coste della Norvegia. Tuttavia, i membri dell’equipaggio si salvano in maniera rocambolesca. Allora la sorte può essere talvolta benevola, ma sempre a futura memoria. Lo psicanalista Sigmund Freud individuò in «Eros» la pulsione di vita, in «Thanatos» quella di morte. Come in “Spleen et Idéal”, di Charles Baudelaire, l’uomo sembra sempre diviso: a un bivio che richiama il dubbio davanti alle Colonne d’Ercole. Anche se la dualità terrena sarebbe apparente e dunque un inganno, secondo il maestro Juri Camisasca, che con Franco Battiato ha scritto brani cantati da tanti ma letti da pochi. Difatti, nel pezzo “Nomadi”, a proposito dell’elevazione spirituale e del distacco dalle passioni e dalla tensione degli uomini, Camisasca precisa: «Come uno straniero non sento legami di sentimento». Da qui la scelta, espressa da Battiato, di vivere «come un eremita che rinuncia a sé».

CALABRIA TERRA DI CONTRASTI

La Calabria è luogo di contrasti: l’esercito della ’ndrangheta e quello della giustizia; lo splendore della costa tirrenica e gli obbrobri di cemento lungo la Statale 18, immortalata dall’antropologo Mauro Minervino; lo Ionio favoloso della Magna Grecia e il litorale senza servizi; le acque trasparenti e i liquami sversati; le foreste rigogliose e l’isolamento cupo dell’interno; la disoccupazione e il lavoro nero; l’orgoglio identitario e la fuga di ragazzi e famiglie; il vanto per chi si afferma fuori sede e il vituperio dei talenti del posto; le utopie dei religiosi Gioacchino e Campanella e l’istinto laico di confinarle come merci Doc; le strade dissestate e i ponti metafisici verso, parafrasando Battiato, orizzonti perduti che non si scordano mai; l’ossessiva retorica sui giovani e il silenzio fisso sulle loro condizioni. Per chi vive in Calabria è perciò arduo orientarsi, mantenere l’equilibrio e non farsi trascinare dagli opposti, che ogni volta si ripropongono a prescindere dalla buona volontà dei singoli. Ed è una condizione frequente fra i giornalisti. Pertanto, oggi intervistiamo un intellettuale apolide, che per comodità chiameremo Apollo, pieno di informazioni e privo di interessi nel territorio calabrese, cui chiediamo quali sono, a suo avviso, le difficoltà della regione e le direzioni per uscire dal confinamento in cui essa si trova.  

«LA SICUREZZA DEI CALABRESI MINATA DALLA ‘NDRANGHETA»

«La Calabria, rinomata per la bellezza naturale e la propria storia, si trova – premette il nostro interlocutore – a fronteggiare una serie di sfide significative che hanno un impatto profondo sulla vita quotidiana dei suoi abitanti. Uno dei problemi più gravi di questa terra è il radicamento della ’ndrangheta, fra le organizzazioni criminali più potenti al mondo. La criminalità organizzata ha radici profonde nel tessuto sociale calabrese. Ciò mina la sicurezza, la fiducia nelle istituzioni e l’opportunità economica. La presenza della ’ndrangheta crea un clima di paura e incertezza che influenza negativamente la qualità della vita dei cittadini. Ma non è tutto. Infatti, la Calabria si scontra con gravi difficoltà amministrative che ne impediscono lo sviluppo sostenibile. La burocrazia e la corruzione hanno ostacolato la realizzazione di progetti cruciali e la gestione efficiente delle risorse pubbliche. Inoltre, la mancanza di infrastrutture adeguate, come strade e trasporti efficienti, limita l’accessibilità e la connettività, isolando alcune comunità e ostacolando lo sviluppo economico».

Si parla spesso dello stato del Servizio sanitario regionale. Qual è il suo punto di vista, in proposito?

«Il sistema sanitario calabrese affronta gravi sfide, tra cui la carenza di personale medico qualificato, la mancanza di strutture moderne e la difficoltà nell’accesso a servizi di qualità. Questi problemi mettono a rischio la salute della popolazione e aumentano la pressione sui residenti, che spesso devono affrontare lunghi tempi di attesa e percorsi di cura inefficienti».

Qual è la sua opinione riguardo alle aree interne della Calabria?

«Stanno vivendo uno spopolamento costante, con le giovani generazioni che scelgono di emigrare in cerca di opportunità altrove. Questo fenomeno è alimentato da un’economia debole, con un tasso di disoccupazione elevato e limitate prospettive di crescita. L’assenza di opportunità lavorative stimola il dominio della criminalità organizzata e crea un circolo vizioso che perpetua la fragilità economica della regione».

Qual è il rapporto fra i cittadini e la politica?

«A volte, la politica locale sembra essere orientata a mantenere lo stato delle cose, piuttosto che a implementare riforme significative. La subordinazione dei cittadini alla politica crea un ambiente in cui le voci della popolazione rischiano di essere soffocate, contribuendo alla persistenza di problemi strutturali. Questo clima spinge molti giovani e famiglie a cercare una vita migliore altrove. È un’emigrazione che indebolisce ulteriormente il tessuto sociale della Calabria».

Come costruire un futuro migliore?

«La Calabria si trova di fronte a sfide complesse e interconnesse, che richiedono un approccio integrato per affrontarle. Occorre combattere la ’ndrangheta, migliorare la governance, potenziare le infrastrutture, rafforzare il sistema sanitario e promuovere lo sviluppo economico. Sono passi fondamentali per garantire un futuro più luminoso per questa affascinante regione del sud italiano. La disorganizzazione, la disoccupazione e l’emigrazione sono in Calabria problemi centrali, che richiedono una riflessione approfondita. La regione può puntare sulle sue risorse storiche e culturali per promuovere il turismo sostenibile e creare opportunità economiche. Bisogna investire nella valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico. Ciò può attrarre visitatori e generare entrate vitali per lo sviluppo locale».

E poi?

«Va contrastata la disorganizzazione generale con una governance efficiente e trasparente. È indispensabile implementare riforme amministrative, semplificare la burocrazia e contrastare la corruzione. Ciò al fine di creare un ambiente più favorevole agli investimenti e alla crescita economica».

Come affrontare la disoccupazione?

«È un problema che richiede un approccio multilivello. È giunto il momento di diversificare l’economia, di incoraggiare l’imprenditorialità locale, di promuovere l’istruzione e la formazione professionale. Si tratta di interventi che possono contribuire a creare opportunità di lavoro e a ridurre la dipendenza da settori vulnerabili».

L’emigrazione è un vecchio problema della Calabria. Come fermarla?

«Ridurre l’emigrazione implica fornire incentivi per trattenere i talenti locali. Ciò può essere realizzato attraverso la creazione di opportunità professionali, mediante investimenti nell’istruzione e nella ricerca e con la promozione di un ambiente favorevole all’innovazione e alla creatività».

Esiste una mentalità ostativa?

«La mentalità locale dominante può influenzare significativamente lo sviluppo. È dunque essenziale alimentare una mentalità aperta al cambiamento, alla collaborazione e all’innovazione. La comunità stessa deve essere parte attiva nella definizione del proprio futuro, superando resistenze al cambiamento e promuovendo una cultura di responsabilità collettiva. In questo senso, il ruolo della classe politica è cruciale. Una classe politica impegnata, responsabile e orientata al benessere della comunità può fungere da catalizzatore per il cambiamento positivo. La trasparenza, l’accountability e la partecipazione democratica sono elementi chiave per valutare e migliorare il livello della classe politica calabrese. In sintesi, il superamento delle sfide della Calabria richiede un approccio integrato che coinvolga la valorizzazione delle sue risorse, miglioramenti infrastrutturali, un’economia diversificata, un cambiamento nella mentalità e una classe politica impegnata. Solo attraverso uno sforzo congiunto della comunità locale, delle istituzioni e degli attori economici, è possibile costruire un futuro più prospero e sostenibile per questa regione straordinaria».

Quanto, a suo avviso, è stato finora fatto, rispetto a ciò che ha suggerito per lo sviluppo della Calabria?

«Valutare gli sforzi compiuti per lo sviluppo della Calabria è complesso e può variare a seconda dei contesti e delle aree specifiche. Tuttavia, è possibile fornire alcune osservazioni generali. Sono stati fatti passi in avanti nella promozione del turismo culturale, ma ulteriori investimenti e sforzi potrebbero ampliare l’attrattività della regione. Ancora, sono state avviate riforme amministrative, ma la lotta alla corruzione e la semplificazione della burocrazia richiedono interventi continuativi per garantire un ambiente favorevole agli investimenti. Credo che siano in corso tentativi di diversificare l’economia e stimolare l’imprenditorialità, ma la disoccupazione persistente suggerisce la necessità di ulteriori iniziative e politiche mirate».

Perché, sulla base delle sue informazioni, in Calabria c’è poca collaborazione tra i vari attori locali, tra politica e società civile, tra cultura e imprese, tra pubblico e privato?

«Fattori storici e tradizioni locali possono influenzare le dinamiche sociali. Spesso, la cultura della chiusura e della diffidenza può ostacolare la collaborazione. Inoltre, problemi strutturali, penso alla corruzione e alla cattiva governance in singole realtà, possono minare la fiducia tra la popolazione e le istituzioni, creando barriere alla collaborazione. Peraltro, la mancanza di incentivi e di un ambiente favorevole può scoraggiare la collaborazione tra il settore pubblico e privato. La percezione di una mancanza di trasparenza e gli interessi personali possono alimentare la diffidenza reciproca. In alcune situazioni, poi, la competizione a fronte di risorse limitate può superare la volontà di collaborare. Questo può essere evidente tra le imprese, ma anche tra diversi livelli di governo. Se non bastasse, le visioni divergenti sullo sviluppo della regione possono ostacolare la collaborazione. Diverse parti interessate potrebbero avere obiettivi contrastanti, rendendo difficile trovare terreni comuni».

Sta facendo un’analisi di buon senso, senza puntare l’indice verso qualcuno.

«Non servirebbe l’accusa. Voglio pure sottolineare che la mancanza di coinvolgimento attivo della società civile può indebolire la voce della comunità calabrese. La partecipazione civica è fondamentale per una collaborazione efficace. Infine, ma non per ultimo, la pervasività della ’ndrangheta può intimidire la società civile, riducendo la volontà di collaborare per paura di ritorsioni».

E quindi?

«Per superare queste sfide, reputo necessario promuovere una cultura di trasparenza, responsabilità e partecipazione attiva. Tali iniziative sono utili a favorire il dialogo aperto tra i vari attori, a sviluppare una mentalità di collaborazione e ad agevolare la nascita di piattaforme per coinvolgere la società civile».

Ora possiamo svelare che l’intervista è stata rilasciata da ChatGPT, con qualche piccolissimo ritocco. Continueremo ad approfondire il tema dell’Intelligenza artificiale, che oggi ci rinvia al mito delle Colonne d’Ercole, per la conoscenza, per la responsabilità, per la vita umana. (redazione@corrierecal.it)



10.10.23

Quella diga ci parla ancora vajont 1963-2023

   DI    COSA  STIAMO  PARLANDO


Ieri erano  i 60 anni della  tragedia del vajont  . Vosto che  esendo nato una  generazione    dopo  il mio ricordo  è   un  ricordo per  procura    cioè  filtrato  da  : ricordi   dei familiari  e non ,  opere  artistiche  (  documentari  ,  film e  teatrali  , ecc ) . Lascio quindi la  parola  a  quest  articolo  recesione      sul  nuovo   , in realtà è  una  rielaborazione  \  approfondimenti   del   precedente omonimo Il racconto del Vajont, di Marco Paolini e Gabriele Vacis (1993)  ) ,  VajontS 23  di Marco  Paolini  . 
 Opera    che  insieme  al  fillm  Vajont, regia di Renzo Martinelli (2001) hao  costituito insieme  ai racconti dei mie  geitori  ed  i vari documentari  la   mia   base   documntaristica  .

  da  Quella diga ci parla ancora | Da ascoltare, Storie | Altre/storie di Mario Calabresi

 Nel sessantesimo anniversario della tragedia del Vajont, Marco Paolini, l’uomo che ha saputo raccontarla come nessuno, porta in scena VajontS 23, il suo storico monologo trasformato in una rappresentazione corale. Non solo una memoria, ma un monito per il presente. E il 9 ottobre, alle 22.39 insieme alle 600 messe in scena in contemporanea dello spettacolo, uscirà anche il podcast che abbiamo registrato quando Paolini ha provato il nuovo spettacolo.Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza (…).Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Tutto è accaduto in meno di dieci minuti…”. L’incipit di questo articolo di Giampaolo Pansa, che allora era un cronista della Stampa di soli 28 anni, è la prima cosa che ho letto quando ho cominciato a studiare giornalismo. Rimasi folgorato dalla chiarezza, dalle parole perfette e scolpite, dall’immagine che non si poteva dimenticare.

La diga del Vajont

Il paese che non esisteva più era Longarone, un piccolo comune della vallata del Piave, a nord di Belluno. Cancellato dalle mappe la notte del 9 ottobre 1963. Mi sarebbe piaciuto leggere di più, capire come fosse stato possibile, ma non avevano ancora inventato Google e l’unica possibilità era andare a cercare in biblioteca. Non lo feci, ma pochi mesi dopo, fuori dall’università, sentii parlare di uno spettacolo teatrale che raccontava proprio la storia del Vajont. Nel passaparola non si riusciva a capire bene di cosa si trattasse: era uno spettacolo di teatro, ma non lo si poteva vedere a teatro. Sul palco c’era una persona sola con una lavagna e la storia che raccontava era vera. Ogni volta era in un posto diverso. Lo avevano fatto nei centri culturali, nelle fabbriche, nelle scuole e perfino negli ospedali. Era una cosa un po’ clandestina. Ci andai con un gruppo di amici, non ricordo dove fosse, nella mia testa ho solo la sensazione che fossi seduto per terra. Una cosa, però, la ricordo alla perfezione: era la cosa più potente che avessi mai visto e ascoltato. Un monologo di due ore e mezza in cui era impossibile distrarsi anche solo un attimo. Raccontava della costruzione della diga della Società Adriatica di Elettricità (SADE), un capolavoro di ingegneria, alta 261 metri, era una delle più avveniristiche del mondo.
Quell’uomo solo sul palco raccontava come, negli anni della progettazione e costruzione, fossero stati ignorati, sottovalutati, nascosti tutti gli allarmi su una possibile frana che poteva investire la diga.
Quell’uomo solo sul palco si chiamava Marco Paolini, drammaturgo, regista, attore di teatro, che scrisse e interpretò un monologo che entrò nella storia del teatro e poi della televisione italiana.
Marco Paolini



Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 un’enorme frana si staccò dal Monte Toc, cadde dentro il bacino artificiale del Vajont e sollevò un’onda d’acqua alta oltre venti metri, che si abbatté sui paesi che si trovavano nella valle sottostante, spazzandoli via: morirono 1.910 persone. Ricordo che Paolini disse che prima dell’acqua arrivò il vento, uno spostamento d’aria capace di distruggere tutto, e ricordo che pensai a Hiroshima.
Era il 1993, eravamo nel pieno dello scandalo di Tangentopoli, i partiti che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo stavano crollando. Tutto ci parlava di uno stato opaco, di cose incomprensibili, della necessità di avere verità e giustizia. Erano passati solo trent’anni da quel disastro e l’indignazione di Paolini si sposava alla perfezione con quella che stava scuotendo l’opinione pubblica italiana. Nel 1997 quel monologo, che aveva la regia di Gabriele Vacis, andò in televisione, su Rai 2, e fu un successo clamoroso. Poi Paolini smise, si fermò, e questa storia rimase nella memoria.

VajontS 23 il progetto di Marco Paolini che il 9 ottobre vedrà la messa in scena in contemporanea in oltre 130 teatri del suo spettacolo sulla tragedia del Vajont realizzato 30 anni fa



Sono passati altri trent’anni e oggi il mondo è diverso, siamo preoccupati per il cambiamento climatico, ci allarmano i disastri ambientali. Marco Paolini ha ripreso quel testo in mano, lo ha reso più asciutto, ha cambiato il tono e nel sessantesimo anniversario ha immaginato che quell’uomo sul palco non dovesse essere più solo, che il racconto del Vajont dovesse diventare “Vajonts” al plurale. Il progetto è molto più ambizioso: farlo diventare di tutti. Il testo (che trovate integrale a questo link) è – come spiega Marco – «il racconto del Vajont trasformato in coro per essere letto a voce alta in casa, da cinque o più persone, non come un esercizio di memoria ma come monito del tempo presente, monito a non subire il destino di vittime, a scegliere di non affrontare la crisi climatica in solitudine, a ribellarsi al negazionismo, all’opportunismo dei piccoli passi».
VajontS 23 sarà come un canovaccio. Ci sarà chi lo metterà in scena integralmente, chi lo userà come uno spunto e lo legherà alle tante tragedie annunciate che si sono succedute dal 1963 a oggi: in Toscana l’alluvione di Firenze del 1966, in Piemonte si racconterà di quando il Po e il Tanaro esondarono nel 1994, in Veneto delle alluvioni del 1966 e del 2010, in Campania della frana di Sarno del 1998, in Friuli degli incendi del Carso nel 2022, in Alto Adige della valanga della Marmolada del 3 luglio del 2022 e in Romagna dell’alluvione di maggio.
Lunedì 9 ottobre ci saranno oltre 600 messe in scena contemporanee in Italia e nel mondo, hanno aderito 135 teatri, 94 scuole, gruppi di lettura, parrocchie, comuni e aziende.
Alle 22.39, nell’istante esatto in cui iniziò il disastro, uscirà anche un podcast, curato da Chora Media, con la registrazione della prova del nuovo spettacolo messa in scena all’inizio dell’estate a Milano negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, che oggi hanno preso il nome da una frase di Franco Basaglia: “Da vicino nessuno è normale”.

Insieme a Marco Paolini durante il Festival “I dialoghi di Trani”


Alla fine di settembre sono stato ai Dialoghi di Trani per partecipare a un evento della “Fabbrica del mondo”, un progetto che cerca di costruire un pensiero condiviso per immaginare il futuro.
Alle 11 di sera abbiamo fatto una passeggiata sul porto, gli ho raccontato cosa è stato per me il suo Vajont – una presa di coscienza di quanto il racconto possa avere una funzione civile – e poi gli ho chiesto di raccontarmi la storia di quello spettacolo e di cosa sia cambiato in questi trent’anni.
Ci siamo seduti su una panchina e ho acceso il registratore. La nostra chiacchierata la potete ascoltare qui, nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie.

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22.4.23

Una lettera chiusa in una bottiglia racconta la storia di Franco Cesana 13 anni il più giovane partigiano nella lotta di Liberazione

In  risposta ad  Ignazio  la  Russa  ed  ai  suoi seguaci  che  dicono  chhe  la  costituzione  italiana   è  antifascista   :    “I giovani non sanno abbastanza per essere prudenti, e quindi tentano l'impossibile e lo ottengono, generazione dopo generazione”

                                                            Pearl S. Buck



ed è  proprio     partendo  da     questa  citazione    che   riprendo   la  storia   riporta  dalla  News Letters  di     Mario  Calabresi  


Alle otto di mattina del 25 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, che coordinava le operazioni militari delle formazioni partigiane, manda ai milanesi un messaggio che passerà alla storia. La voce di Sandro Pertini, che nel 1978 diventerà Presidente della Repubblica, incita dalla radio all’insurrezione generale contro i nazifascisti. Quel giorno Milano viene liberata e quella sera Benito Mussolini fugge dalla città, travestito da soldato tedesco, ma due giorni dopo viene catturato dalla 52esima Brigata Garibaldi all’uscita di Musso, a un chilometro da Dongo, sul Lago di Como, dove sarà processato e fucilato il 28 aprile.

La copertina del podcast "Hai presente il 25 aprile?" prodotto da Chora Media. È possibile ascoltarlo gratuitamente online da questa mattina cliccando qui


Perché proprio la data del 25 aprile è stata scelta come Anniversario della Liberazione? Cosa è successo nelle settimane precedenti? Chi erano e quanti erano i partigiani? C’erano anche donne tra loro? Cosa era successo nei due lunghi inverni di occupazione nazista? A tutte queste domande, che sono   di  Altre/Storie di Mario Calabresi  ma, immagino, anche di molti di voi,  << ho cercato di dare risposte interrogando Chiara Colombini, ricercatrice presso l’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e autrice del libro “Anche i partigiani però…” e Paolo Pezzino, che ha insegnato Storia contemporanea a Pisa, è uno studioso delle stragi nazifasciste e presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ne è nato un podcast realizzato proprio in collaborazione con l’Istituto Parri, che con lo stesso formato del precedente “Hai presente la Marcia su Roma?” dà vita a una collana di divulgazione storica di Chora Media, curata da Davide Savelli. L’idea è quella di cercare risposte competenti ma comprensibili a tutti, capaci di fare memoria e di combattere oblio e qualunquismo. >>

 Ed   è  per  questo  che  riporto    dalla  stessa  fonte      la storia del più giovane partigiano italiano, Franco Cesana  (  foto  a  sinistra   )  , che a soli dodici anni scappò di casa, dopo aver detto che usciva a prendere il latte, per raggiungere il fratello e unirsi alla Resistenza. Solo due mesi dopo, a giugno del 1944, la mamma ricevette una meravigliosa lettera in cui Franco le raccontava la sua avventura. È una storia dolorosa e commovente, che ho scoperto grazie alla storica Liliana Picciotto che da anni alimenta il portale Resistenti ebrei d'Italia nel quale raccoglie testimonianze sul contributo ebraico alla Resistenza.
Liliana Picciotto, che è responsabile per la ricerca storica del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), ha appena presentato una nuova parte della sua ricerca, fatta di storie e podcast, da cui condivido una parte del racconto su Franco Cesana, che era nato a Mantova il 20 settembre del 1931, si era trasferito con la famiglia a Bologna ed era rimasto orfano del padre quando aveva otto anni. All’inizio del 1944, il fratello maggiore Lelio si era arruolato con i partigiani nella formazione Scarabelli, creata in provincia di Modena, e Franco sognava di raggiungerlo come racconterà la mamma Ada Basevi: «Era parecchio tempo che questo benedetto bambino mi chiedeva sempre, alla sera: “Mamma, lasciami andare, voglio andare con i partigiani, dammi il permesso”. Gli rispondevo sempre di no: “Sei troppo piccolo, lascia fare a tuo fratello che è più grande”». Il primo aprile Franco fugge e riesce a trovare i partigiani, ma per poter essere accettato mente sulla sua età, dichiarando di avere 16 anni, e così gli viene affidato il compito di staffetta portaordini con il nome di battaglia di “Balilla”. La madre per lunghe settimane non saprà nulla del destino del figlio, anche se lo conosceva come un ragazzino responsabile e più maturo della sua età: «Mio figlio, era molto indipendente, non si lasciava sottomettere dalla paura dei castighi ed era molto religioso, tanto che studiava da rabbino». Finalmente, il 7 giugno 1944, a casa arriva una lettera rassicurante, scritta con una calligrafia da bambino. “Carissima mamma, dopo la mia scappata non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato resoconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo poi mi fermai a dormire in un fienile in località Osteria Matteazzi. Al mattino, svegliandomi con la fame, ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con le more. Arrivai a Gombola verso le nove e di lì cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai nella detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta? Presentandomi a Marcello, fui assunto e siccome ho studiato, fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra a Gombola. Così non ti devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima; solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente, ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare. Così, chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito. Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro. Ti raccomando, appena ricevi la mia bruciala. Ancora ti saluto e ti abbraccio”.


Lettera di Franco Cesana alla madre, 7 agosto 1944. © Archivio Fondazione CDEC


Ciò che la mamma aveva fatto giurare a Franco, era di non dire mai, in nessuna occasione, di essere ebreo, essendo per lui doppio il pericolo: l’appartenere al movimento partigiano e l’essere ebreo. La lettera non fu bruciata ma chiusa in una bottiglia di vetro e seppellita, affidata dalla mamma alla terra, futura testimonianza su quanto avvenuto alla famiglia Cesana. Dopo alcuni mesi di silenzio, il 14 settembre 1944, Ada Basevi si vede comparire davanti il figlio, cresciuto, bello, sicuro di sé. “Non piangere, mamma – gli dice, nel salutarla – ritornerò per il mio compleanno”. Il 20 settembre, infatti, Franco avrebbe compiuto 13 anni. La sera dopo, nel corso di una missione con il fratello Lelio e altri partigiani, incontra un gruppo di tedeschi che, allertati da una spia, non esitano a sparare uccidendo Franco e altri quattro ragazzi. Mancavano sei giorni ai suoi tredici anni. Il comandante della formazione partigiana riuscirà a recuperare il corpo di Franco per portarlo alla madre proprio il 20 settembre, il giorno del compleanno.
Il portale web “Resistenti ebrei d’Italia” della Fondazione CDEC, con le illustrazioni di Sara Radice


La ricerca sul contributo ebraico alla Resistenza riprende uno dei primi progetti avviati dal CDEC che ne ha caratterizzato l’attività fin dalle origini (1955) e che in tutti questi anni, pur non essendo mai stato portato a termine, ha costituito uno dei principali nuclei del patrimonio di documenti della Fondazione.
La ricerca viene resa pubblica tramite l’aggiornamento del portale online con un database di oltre trecento profili di resistenti e con la narrazione di cinque vicende particolari – tra cui quella di Franco – presentate anche sotto forma di podcast. La ricerca esplora vicende per lo più sconosciute e indispensabili per ricostruire il ruolo degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, non solo vittime ma anche protagonisti della resistenza al nazifascismo.

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

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