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11.1.25

Dopo 31 anni a subire violenza, la fuga dalla città per rinascere ed altre storie sarde

 fonti  la nuova  sardegna  , cronache nuoresi ,  sassari notizie  

Nuoro
«Cosa è stato toccare il fondo? Non riuscire a pensare al domani. Non avere una speranza, essere

talmente abituata a quello schema di violenza subìta, che la deviazione, anche per uscirne, non era contemplata. E in più, la paura di diventare come lui. Mi dava uno schiaffo? Lo restituivo. Prendeva il coltello in mano? Lo prendevo anche io. Stavo diventando una bestia come lui».
Cinzia Seddone ha 62 anni e 31 di questi li ha passati in balìa di un fidanzato violento. Dentro meccanismi avvolgenti e subdoli in cui la demolizione dell’autostima è passata attraverso violenze psicologiche: non sai niente, non sai fare niente, non vali niente. Quindi: «Te le meriti, le botte». E se in un perverso immaginario che i violenti utilizzano per giustificare l’ingiustificabile, queste botte erano inserite in un contesto preciso «Mi colpiva soprattutto quando era ubriaco: pugni, calci, schiaffi, minacce. Mi ha rotto il naso», alla fine si arriva alla svolta: «Botte anche quando non beveva». Dentro Cinzia scatta qualcosa: «Un giorno mi sono svegliata e ho pensato: se mi picchia, prendo il volo»

Le botte sono arrivate, puntuali. Le ultime: lei è scappata, letteralmente. In un giorno, sostenuta dalla sua famiglia, ha fatto i bagagli e ha lasciato Nuoro. Aveva 47 anni, è stato 15 anni fa. È approdata in Abruzzo, dove lavora. Dove soprattutto ha abbandonato la contabilità del terrore e vive una vita serena.
Cinzia Seddone la sua storia l’ha raccontate nel libro “Come una fenice”, editore Masciulli. Lo presenterà oggi, alle 18, alla Biblioteca Satta. Con lei ci saranno Marina Piano, responsabile dell’area di servizio sociale dell’Ufficio esecuzione penale esterna, in un convegno organizzato dal comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro, dall’Unione avvocati della Sardegna e dal Consorzio per la pubblica lettura Sebastiano Satta. I lavori saranno introdotti dal presidente Unas, Priamo Siotto. Il dibattito sarà moderato da Maria Concetta Sirca, presidente del comitato Pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Nuoro.
«Ho portato avanti questa storia di violenza senza far uscire nulla. Per paura di lui, ma anche per vergogna. Per me, per la mia famiglia», racconta Cinzia. Una famiglia lontanissima dagli stereotipi del disagio, a riprova che certe situazioni non siano il frutto di ambienti disastrati: «Non c’è nulla di più trasversale della violenza», ammette. E così il silenzio e la vergogna lavorano a favore del violento. «A casa non si accorgevano. Sono stata bravissima a evitare che potessero spaventarsi. Un pugno in faccia, con i segni e i lividi? Avevo spiegato che ero caduta e avevo sbattuto alla ringhiera».
Intanto il meccanismo di allontanamento dagli affetti familiari che i violenti mettono in atto, funzionava, in questo caso, quasi in automatico. «Ero io che mi isolavo dai miei familiari. C’era un compleanno di un nipotino da festeggiare? Accampavo una scusa e non ci andavo. Mi sembrava fosse più importanti proteggere loro, quasi più che proteggere me stessa», racconta Cinzia.
Violenze fisiche e psicologiche. Addirittura a Cinzia Seddone viene diagnosticato un principio di Alzheimer. «Pazzesco, avevo 40 anni. Dimenticavo tutto». Anche a questa diagnosi Cinzia mette un argine. «Quando sono scappata e sono arrivata in Abruzzo, ho ripreso a fare la cosa che mi riusciva meglio: mi sono rimessa a studiare. Biologia. C on i primi due esami, due 30, sono andata dalla neurologa: “Le sembrano i risultati di una con l’Alzheimer?”».


Con il suo libro “Come una fenice”, la scrittrice nuorese ha di rompere il silenzio e denunciare una realtà troppo spesso nascosta: la violenza domestica. La sua storia, apparentemente ordinaria, si trasforma in un drammatico racconto di sopraffazione e paura. Un amore che si rivela essere un incubo, un crescendo di maltrattamenti psicologici e fisici che ha segnato profondamente la vita dell’autrice del libro – denuncia.UNA DONNA COME TUTTE – Cinzia è una donna che sin dall’adolescenza si innamora di un uomo all’apparenza meraviglioso, ma che ad un certo punto inizia a mostrare il suo vero volto. Prima gli insulti, poi il primo schiaffo che in breve diventa un pugno, calci e umiliazioni, secondo una sequenza ben nota. E inizialmente, come tutte le vittime, anche Cinzia tende a giustificare il gesto, a sottovalutare il comportamento, fenomeno che invece non deve mai essere ridimensionato. Da quel momento inizia la spirale di violenza che diviene una costante del rapporto. Un incubo nel quale la donna rimane intrappolata per lunghi 30 anni. Quella appena descritta non è la trama di un romanzo noir ma una storia vera e la protagonista è una donna nuorese che 15 anni fa è letteralmente scappata dalla città per sottrarsi a una vita fatta di violenze e minacce.
Quando il nemico è in casa, tra le mura domestiche, lo si intuisce dai primi segnali ma si fa fatica a crederlo e poi ad accettarlo. Quello che ha vissuto sulla sua pelle non è amore, si può definire in un modo solo: violenza.
Una brutalità assurda, inspiegabile e gratuita, ancor più se a porla in essere è il partner, il compagno di vita che dovrebbe distinguersi per altri nobili sentimenti.
La storia di Cinzia è all’apparenza una storia come tante, ma a differenza di altre c’è il coraggio a dosi abbondanti e la consapevolezza che episodi come quelli da lei vissuti non devo più accadere, né a lei né tantomeno a nessun’ altra.
Un’escalation di maltrattamenti, drammatica e al tempo stesso tristemente frequente nella vita reale in una casistica che rimbalza da nord a sud con le stesse assurde dinamiche.
Cinzia è una donna che sin dall’adolescenza si innamora di un uomo all’apparenza meraviglioso, ma che ad un certo punto inizia a mostrare il suo vero volto.
Prima gli insulti, poi il primo schiaffo che in breve diventa un pugno, calci e umiliazioni, secondo una sequenza ben nota.
E inizialmente, come tutte le vittime, anche Cinzia tende a giustificare il gesto, a sottovalutare il comportamento, fenomeno che invece non deve mai essere ridimensionato.
Da quel momento inizia la spirale di violenza che diviene una costante del rapporto. Un incubo nel quale la donna rimane intrappolata per lunghi 30 anni.
Quella appena descritta non è la trama di un romanzo noir ma una storia vera e la protagonista è una donna nuorese che 15 anni fa è letteralmente scappata dalla città per sottrarsi a una vita fatta di violenze e minacce.
Quando si entra in quella bolla infernale ribellarsi non è semplice e lo è ancora meno in un contesto culturale e sociale della piccola provincia.
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L’intervista



Raoul Chiesa, l’ex hacker più famoso d’Italia ha scelto di vivere in Sardegna

di Paolo Ardovino


Poco più che ventenne era entrato nel sistema della Banca nazionale. Ora vive in Gallura, difende governi e imprese da frodi e attacchi informatici








Sassari Era poco più che un adolescente che passava i pomeriggi in camera davanti al computer quando, nel 1995, Raoul Chiesa ha «bucato» il sito della Banca d’Italia. Senza nemmeno troppi sforzi, riesce a entrare nel sistema economico più importante del Paese. «Ma non presi un euro, non era quello il mio interesse. Volevo solo provarci e mostrare quanto fosse facile». Viene arrestato, sconta tre mesi chiuso in casa senza apparecchi elettronici. «Ricordo ancora le parole del procuratore: “Ti rendi conto che avresti potuto abbassare o alzare i tassi di sconto della lira sui tassi mondiali?”».
Ne è passata di acqua sotto i ponti, o flussi di dati nella rete, e Chiesa, torinese, classe 1973, da diversi anni è passato dall’essere il più famoso pirata informatico italiano al fornire servizi di cybersicurezza. Recuperare dati rubati, navigare nella parte oscura del web per sventare azioni illegali, difendere i database da attacchi esterni.
La sua Sardegna 
L’informatico ha sempre lo zaino in spalla, il suo lo definisce un modo di lavorare atipico: i clienti sono «Governi, enti, forze dell’ordine, multinazionali o singoli privati». Capita che voli a Sydney, Stoccolma o Singapore ma senza nemmeno il piacere di godersi del tempo libero. Il relax lo trova in Sardegna. Che è diventata il suo rifugio. «La mia storia con l’isola inizia nel 2020, un amico mi invitò a passare settembre in Gallura, ed ero ben felice di scappare dal caos di Roma, dove vivevo al tempo». Ora vive di fronte al mare, in una località vicino a Olbia. «Adoro il cibo, il vino, l’accento delle persone, l’apparente leggerezza, i panorami mozzafiato, le passeggiate con il mio cane, Lupo, e le letture in spiaggia». Ecco, appunto, e Raoul Chiesa fa un grande sorriso quando parla di Piergiorgio Pulixi. «Uno scrittore che adoro. L’ho scoperto attraverso Massimo Carlotto», e di Pulixi attende impaziente l’uscita di ogni libro. Ma è anche un’ispirazione: «Mi piacerebbe prendermi un anno sabbatico, vorrei scrivere un romanzo, una sorta di cyber-thriller».
La vita in uno smartphone Sole, mare e libri. Tregue da una vita che lo porta a passare gran parte delle giornate davanti allo schermo. «I casi di cui mi occupo più spesso? Incidenti informatici, violenze, truffe, frodi, furti di dati e informazioni personali». Raoul Chiesa, che ormai è un hacker etico, cioè che agisce per la sicurezza, parla di «formazione». Lo ripete spesso, ed è per lui il più grande anti-virus possibile. «Mi preoccupano molto i giovani che non capiscono un concetto che sta alla base di tutto: e cioè che internet non dimentica. Le foto osé o da ubriachi, scattate senza pensarci troppo durante una festa di compleanno o l’uscita al sabato sera con gli amici, saranno ancora presenti tra vent'anni. E potrebbero andare a rovinare un colloquio di lavoro, dato che oggi i responsabili delle Risorse umane verificano, ancor prima che il curriculum della persona, i suoi social». Lo smartphone che abbiamo in tasca «è la cosa più intima che indossiamo – spiega Chiesa –. Si tratta dell’entità che ci conosce meglio, che sa di noi più dei nostri genitori e della nostra fidanzata. Perché a Google chiediamo di tutto: le nostre curiosità più intime e personali».
Nemico pubblico Gli hacker di oggi, in qualche modo, sono figli suoi. Nel senso che la sua storia negli anni Novanta è divenuta celebre. «Ma lo stereotipo dell'hacker 15enne, con la felpa ed il cappuccio, chiuso in una cameretta buia, è ormai superato». Ora sono professionisti che lo fanno di mestiere.
Nel ’95 Chiesa è riuscito a entrare nel sito della Banca d’Italia ma con interessi puramente informatici. Non sposta una virgola dai conti. Viene arrestato. «Il Pubblico ministero, Pietro Saviotti, qualche giorno dopo mi richiamò a Roma per dirmi che dagli Stati Uniti era stata richiesta la mia estradizione: avevo violato At&T, la più grande azienda di telecomunicazioni al mondo, ma anche Gte, Mci, Sprint. A poco più di vent’anni avevo il mondo in mano, osservavo cose, dati, analizzavo informazioni, passando da una base brasiliana di lancio dei satelliti a centrali nucleari o sistemi militari internazionali per il lancio di missili», lo ricorda divertito. «Mi condannarono a tre mesi e mezzo di arresti domiciliari, senza computer, telefoni e modem, per me fu una tragedia».
La decisione In quel momento si redime, come Lodovico che diventa Fra Cristoforo, l’hacker nemico pubblico diventa hacker etico. Maurizio Costanzo lo chiama al suo famoso show però poi lui nel 1996, ancora molto giovane, decide di aprire la prima azienda sulla cybersicurezza. Ora si occupa di contrastare le attività del deep e del dark web, «dati e informazioni rubati che vengono messi in vendita in una sorta di suk digitale del crimine organizzato, all’insaputa di aziende e persone». Poi il digital forensics, «cioè raccogliere e analizzare tracce informatiche da e-mail, siti web, server e computer portatili, hard disk, cellulari, dispositivi. Dopodiché anche la sicurezza preventiva, la scienza da cui ho iniziato alla fine degli anni ’90: attuo delle simulazioni di attacchi hacker». E questa assistenza può salvare intere carriere. «Ho visto aziende chiudere per un ransomware, quando cioè tutti i computer e i dati sono bloccati e non recuperabili, viene chiesto un riscatto per sbloccarli, oppure viene tutto pubblicizzato sulla rete», spiega l’hacker buono.
Uso consapevole «Adesso è il periodo in cui va di moda l’Intelligenza artificiale, i big data e le criptovalute, tutti i convegni nell’ultimo periodo trattano questi temi, spesso a sproposito». Dal canto suo, Raoul punta sulla formazione, «per insegnare i comportamenti corretti e l’approccio al web». Che piaccia o no, l’informatica in senso ampio oggi gestisce la routine quotidiana, «il bancomat è un computer, l’automobile è una smart-car e tutto questo ha un prezzo». Gli Stati sono sempre più impegnati nella creazione di leggi che ridefiniscano i perimetri giuridici sull’uso del digitale. Chiesa era nel team di esperti che si è occupato del caso di Tiziana Cantone, la ragazza che nel 2016 si tolse la vita dopo che un suo video intimo era stato diffuso online. Da lì il revenge porn è entrato nel codice penale.Sul nostro uso del web ogni giorno c’è molto da rivedere: «Se smettessimo di cliccare ovunque, di credere alle fortune cadute dal cielo, ai post ossessivi-compulsivi, di pubblicare sui social qualunque cosa facciamo e dovunque andiamo, utilizzare password banali, potremmo allora evitare di esporci a determinati rischi».

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Il fotografo dei re e degli emiri è il sardo Antonio Saba

di Salvatore Santoni

Partito da Cagliari, adesso vive a Dubai e lavora per la famiglia reale. Scatta per grandi marchi e la sua ultima antologia è stata curata da Sgarbi


Sassari C’è un fotografo sardo – che in realtà ai suoi livelli bisognerebbe definire artista – che viaggia da un capo all’altro del mondo e ha piantato la bandiera dei Quattro Mori negli ambienti più altolocati del globo. Si chiama Antonio Saba, è nato a Cagliari ed è tra i
professionisti più apprezzati soprattutto in Arabia. Vive a Dubai ma è difficile che dorma nello stesso letto per troppo tempo. La sua vita è dappertutto, tra famiglie reali, marchi globali della ristorazione e della ricettività extra lusso, personaggi di caratura internazionale, campagne pubblicitarie e progetti artistici ai massimi livelli.

Maestro, parliamo subito dei suoi clienti più illustri: le famiglie reali. Ci può dire chi sono e che tipo di lavori le hanno commissionato?

«Ho un rapporto di amicizia e collaborazione da diversi anni con una delle persone più importanti della famiglia reale di Dubai. Sono persone straordinarie e di grande cultura. Le mie collaborazioni con loro sono riservate e non posso raccontarle nel dettaglio, posso comunque dire che si tratta di progetti artistici e fotografici ai massimi livelli».

Ci racconti un po’ il suo percorso artistico e professionale.

«Ho preso la mia prima reflex in mani a 15 anni, sottraendola a mio padre. Ho coltivato la passione come tanti altri stampando in casa in b/n etc… Ho poi avuto la fortuna che lo Ied aprisse a Cagliari proprio nell’anno del mio diploma. Questo mi ha permesso di studiare Fotografia Pubblicitaria a livello universitario e acquisire la forma mentis di un professionista della fotografia, e quindi iniziare a esserlo dai 21 anni in poi».

Quanti anni aveva quando ha cominciato a girare il mondo?

«Ho iniziato a viaggiare in maniera seria intorno ai 24 anni, andando spesso negli Stati Uniti. Nel 1995 ho lasciato la mia società in Sardegna per un’esperienza a Los Angeles, dal quel punto in poi ho iniziato a viaggiare in tutto il mondo per riviste di viaggio, di food e di interni. Queste esperienze mi hanno formato per approdare definitivamente al mercato del lusso, settore in cui svolgo ancora oggi la maggior parte della mia fotografia commerciale».

Annovera fra i suoi clienti alcune delle più importanti catene alberghiere a livello internazionale. Ci può parlare di qualche suo lavoro?

«Sono uno specialista raccomandato da Waldorf Astoria, Peninsula, Hilton e ho lavorato per tutte le più importanti catene incluso Marriot, Shangri-la, Intercontinental, tra le altre. Faccio in particolare tanti servizi per le aperture dei nuovi hotel, progetti in cui realizzo tutte le immagini pubblicitarie che vengono poi utilizzate dalle strutture per la promozione. Ho realizzato davvero tanti di questi servizi».

Il suo curriculum è sconfinato, ma se dovesse scegliere uno dei lavori della sua lunga carriera, qual è quello che ricorda con più emozione?

«Ci sono due lavori straordinari. Uno è del 2004, anno in cui sono stato un mese e mezzo in Costa Rica per realizzare le 10 fotografie per la campagna pubblicitaria mondiale del loro Paese. Da allora vado in Costa Rica quasi tutti gli anni, è senz’altro uno dei posti che chiamo casa. La seconda, invece, è l’ultimo lavoro realizzato quest’anno per una nuova apertura del Waldorf Astoria Platte Island, una remota isola selvaggia delle Seychelles, lavoro che ha preso quasi due mesi di lavoro con una crew di 12 persone».

Come funziona il suo lavoro: come sceglie i soggetti, come matura un’idea?

«Riguardo la fotografia commerciale ricevo un briefing dal cliente, si individuano i punti di forza e i selling points del prodotto, mi viene quindi chiesto di elaborare un progetto che visualizzi queste caratteristiche col tono di voce adatto alla tipologia di offerta. Segue un sopralluogo, definizione di luce e inquadrature per le foto di architettura. Invece nel lifestyle la preparazione è più complessa, con casting dei modelli, moodboard per i vestiti e il make up. Per le mie produzioni fine art invece in genere vengo ispirato dai luoghi che incontro in giro per il mondo, dove immagino possa accadere qualcosa di straniante. Il processo creativo dura qualche mese o qualche anno, sino alla definizione dell’idea e alla realizzazione vera e propria. Sono dei veri e propri film dal singolo fotogramma».

Qual è la richiesta più bizzarra che ha ricevuto per un lavoro fotografico?

«Qualsiasi richiesta di fotoritocco esagerato, a cui dico sempre di no». A cosa sta lavorando ultimamente? «Al momento sto completando la postproduzione del mio lavoro per Hilton Seychelles, inclusa una immagine hero che verrà utilizzata in pubblicità sui billboards. In questo caso ho realizzato un’immagine onirica e il cliente se ne è innamorato eleggendola come immagine simbolo della presenza Hilton in Seychelles. Sto anche curando un libro fotografico non mio per un importantissimo publisher di New York e come photoshoot ho avuto un’estate pienissima con lavori in Europa e a Dubai».

Anche lei ha pubblicato dei libri.

«In carriera ho pubblicato diversi libri monografici. L’ultimo in ordine di tempo è uscito qualche anno fa, è un’antologia personale degli ultimi 15 anni, curato da Vittorio Sgarbi e Cristina Mazzantini. Si intitola Chasing Beauty, distribuito da Mondadori. Il libro svolge un percorso: dalle immagini della memoria, agli anni dei viaggi sino alle produzioni oniriche degli ultimi anni che ho esposto con la mia mostra personale “Oneirism” a Bangkok, a Dubai e, spero l’anno prossimo, anche a Milano in versione complete».

Lei parla di “fotografia dei sogni” ci può spiegare cosa intende?

«Come dicevo prima il mio progetto Oneirism è composto da immagini stampate in grande formato che hanno come soggetto dei frammenti di sogno, o comunque di coscienza alterata, dalla Dea del fiume che nel suo patio fa il bagno in una vasca col suo amante pescegatto, alle Naiadi nel lago sotterraneo di Grotta Giusti, ai miei astronauti viaggiatori del tempo, sino ad un’immagine ispirata da Sergio Atzeni e ambientata in una grotta di Oliena 5000 anni fa. Invito tutti a dare uno sguardo a queste immagini nella sezione conceptual del mio sito www.antoniosaba.com»

Cosa ne pensa dei selfie, e dell’epoca della condivisione massiva di immagini sul web?

«Lo trovo un fenomeno divertente, tante persone hanno trovato il gusto di fotografare e fotografarsi perché il telefonino ha azzerato le difficoltà tecniche, tanti si esprimono concentrandosi solo su composizione e qualcuno fa anche delle immagini gradevoli. Ovviamente nei selfie Narciso la fa da padrone, ma non la trovo una cosa negativa, anzi…».


14.10.23

La forza esemplare del piccolo Mariano, “Il capitano”. La madre: «Ora abbiamo una speranza»La storia del bambino di 9 anni ricoverato a Bologna per una malattia rara. «Tanta solidarietà dopo l’articolo del Corriere della Calabria» diEmiliano Morrone

Oggi siamo tornati sulla vicenda del piccolo Mariano, "Il capitano", che da poco è rientrato da Bologna con nuove speranze. Forse c'è un farmaco che può cambiare la sua vita. Nello scorso aprile avevamo raccontato la storia commovente di questo bambino prodigio, che affronta la propria malattia con coraggio esemplare e la grazia della fede, con l'affetto dei genitori e tanta solidarietà da parte di molte persone, alimentata dall'intervista di sua madre al nostro giornale. Leggete e condividete, è servizio pubblico del Corriere della Calabria

                        da   https://www.corrieredellacalabria.it/  13\10\2023

La forza esemplare del piccolo Mariano, “Il capitano”. La madre: «Ora abbiamo una speranza»La storia del bambino di 9 anni ricoverato a Bologna per una malattia rara. «Tanta solidarietà dopo l’articolo del Corriere della Calabria» 

                                   di  Emiliano Morrone  

 


 VENA DI MAIDA Mariano è appena rientrato a casa: a Vena di Maida, nel Lametino. Il bimbo era stato di recente ricoverato nel reparto di Pediatria del policlinico Sant’Orsola di Bologna, per approfondimenti sulla malattia rara che l’ha portato a pesare 143 chili all’età di nove anni.Nell’aprile scorso, il Corriere della Calabria aveva raccontato la storia del piccolo, di continua emigrazione sanitaria assieme ai genitori, gravi affanni quotidiani e uno straordinario coraggio personale. Era stata sua madre, l’avvocato Tamara De Fazio, a riassumerla in una lunga intervista, che – oggi riferisce – «ha determinato una solidarietà enorme e cambiato la vita della nostra famiglia». «Da Bologna siamo tornati con delle speranze. Lì, i medici – riferisce la signora – ci hanno detto che un farmaco sperimentale potrebbe essere utile al futuro di nostro figlio. Percorriamo una strada nuova, sorretti dalla fede che ci accompagna e dall’umanità, dalla comprensione e dall’aiuto che riceviamo in paese e ovunque ci troviamo».Mariano ha una grande vivacità intellettuale. È estroverso, simpatico, espansivo. Ama leggere, vuole conoscere in profondità i vari argomenti, pone domande acute, suona diversi strumenti musicali e serve la messa. Il bimbo ha una forza d’animo esemplare, a scuola è il leader della classe e i suoi compagni l’hanno ribattezzato “Il capitano”, riconoscendogli la fermezza di chi guida una nave resistente alla tempesta.«Il nostro viaggio a Bologna è legato – precisa la signora De Fazio – all’attenzione pubblica, sulla vicenda di Mariano, suscitata dal vostro giornale. Appena uscì la mia intervista, intervenne la Garante regionale della salute, Anna Maria Stanganelli, ci fece ottenere dei presìdi indispensabili e accelerò l’arrivo di una sedia a rotelle per il nostro bimbo. Il chirurgo ortopedico Massimo Misiti ci mise in contatto con alcuni specialisti dell’ospedale Rizzoli di Bologna, che presto videro Mariano per migliorarne la deambulazione. Lì, al Rizzoli, viste la patologia complessa e l’obesità importante del bambino, crearono un ponte con il Sant’Orsola, in particolare con il dipartimento pediatrico, in modo che lo visitasse subito il professore Andrea Pession, luminare e direttore di quella struttura».
E poi?«Al Rizzoli, i professori Cesare Faldini e Francesco Traina, che si erano ben documentati sulla storia di Mariano, avevano già preparato la strada per farci incontrare subito i pediatri del Sant’Orsola. Ricordo bene quel giorno. Era il mattino del 22 giugno scorso. Faceva caldissimo e venivamo da un viaggio estenuante in auto, poiché Mariano non aveva potuto prendere l’aereo. Il piccolo era sudato, stanco, privo di forze. Parcheggiamo la vettura all’ombra, vicino al Sant’Orsola, e io mi fiondo dal professor Pession. Lascio in auto mio figlio con mio marito. Parlo con gli specialisti e loro mi chiedono dove si trova Mariano per raggiungerlo alla macchina».
Allora escono dall’ospedale?
«Si, e vanno sino all’automobile, conoscono il bambino e ci propongono di ricoverarlo in giornata per avviare sofisticate indagini e studiare il caso. Manifestano una cordialità e un’umanità uniche. Noi non eravamo organizzati per il ricovero, avevamo programmato di rimanere a Bologna soltanto per le visite di quel giorno. Quindi il professor Pession e la sua équipe ci fanno rientrare di nuovo in Calabria e ci anticipano che, prima dell’inizio della scuola, Mariano potrà tornare per essere rivalutato. In effetti, arriva settembre, loro ci contattano e ci fanno partire il 14 del mese. Affrontiamo ancora una volta un viaggio complicato, sempre in macchina. Mariano adesso pesa 143 chili, necessita di pannoloni per la notte e tanto altro da portare. Arriviamo in ospedale nella giornata del 14 settembre. Dovevo restare io con il bambino, mio marito Dino aveva necessità di rientrare per lavoro. A Mariano danno una stanza singola e a me un posto accanto per fornirgli assistenza diretta».

Però qualcosa va storto?
«Sì, al punto che dobbiamo cambiare i programmi. Dopo dieci anni di viaggi della speranza, ci abbandona la nostra vettura, acquistata poco dopo la nascita di Mariano. Mio marito resta quindi a piedi, è costretto a tornare a Bologna, a chiamare un carro attrezzi e a lasciare in un deposito l’automobile, che attendiamo di riportare in Calabria con una bisarca. Dino arriva di nuovo in ospedale e ci ritroviamo in stanza con Mariano, con cui poteva restare soltanto un genitore, secondo le regole del reparto».
Un’odissea, insomma.
«Di più. Non c’erano posti negli alberghi vicini, pieni per un concomitante evento pubblico. Infermieri e medici sono gentilissimi, sorridenti, empatici. Capiscono la situazione, ci consentono di stare con Mariano e ci procurano due poltrone come letti. Per circa otto giorni, allora, riusciamo ad assistere il piccolo in ospedale e l’aiutiamo a spostarsi nei vari padiglioni, a sottoporsi agli esami previsti».
Che cosa emerge?
«I medici presumono che l’obesità di Mariano, con la quale combattiamo ormai da dieci anni, sia di origine genetica. Ci informano che, se l’ipotesi è confermata dagli accertamenti, forse per Mariano si può utilizzare un farmaco sperimentale, già commercializzato all’estero ma non in Italia, che potrebbe cambiare il destino, la vita di nostro figlio. Però ci vorrà ancora del tempo: si parla di dicembre o gennaio, per capire se si potrà utilizzare questa molecola innovativa, ora in uso in Germania e in Inghilterra».
E nel frattempo?
«Un dato è certo: adesso alle spalle abbiamo un pool di medici, dal genetista all’endocrinologo. Anche dal punto di vista respiratorio, Mariano è stato rivalutato, quindi il ventilatore polmonare col quale dorme di notte è stato riprogrammato. Il bambino è stato seguito e sorvegliato durante la respirazione notturna. Diversi parametri andavano aggiornati, modificati. Anche la mascherina che utilizzava doveva essere sostituita con una più adeguata. Ecco, adesso ci sentiamo più garantiti, sicuri: siamo seguiti da specialisti che, con controlli e ricoveri periodici, vogliono fare il massimo, il meglio per il nostro bambino. Abbiamo ricevuto, ribadisco, gentilezza, umanità e attenzioni meravigliose. Mariano ha mostrato la sua vivacità ai medici e agli infermieri che si sono presi cura di lui. Perciò, abbiamo un bellissimo ricordo di quei volti, di quelle persone, la gran parte di origini calabresi e siciliane».

Come siete ritornati?
«Viene il momento di rientrare a casa, noi non abbiamo più la macchina ma ci tocca riportare indietro tanta roba. Da Vena ci inondano di telefonate di solidarietà, al punto che non riusciamo più a rispondere al telefono. Quasi ogni giorno il telefono squilla tra messaggi e telefonate. Tutti vogliono sapere le condizioni del “Capitano” e le eventuali novità. Quando, poi, si diffonde anche la notizia che siamo rimasti a piedi, si scatena una solidarietà inimmaginabile».
Cioè?
«C’era chi sarebbe partito di notte per arrivare il giorno dopo; chi aveva noleggiato un furgone, chi aveva preso un’altra macchina per venirci a prendere. Ci ritroviamo alla fine con 10 o 15 persone pronte a noleggiare un mezzo per arrivare a Bologna e riportare a casa “Il capitano” con una macchina comoda, adatta alle sue esigenze. A un certo punto, ci assale pure l’imbarazzo: se dicevamo di sì a uno, magari l’altro ci restava male. Non avevamo nemmeno una data certa né l’orario delle dimissioni. Perciò fatichiamo a gestire questo aspetto. Inoltre, dobbiamo vedere, quando arriverà, di che morte dovrà morire la nostra macchina, che ci ha lasciato a piedi e senza parole. Anche in questa vicenda di sfortuna, abbiamo trovato affetto e solidarietà smisurati. Quando Mariano è poi rientrato a scuola, è stato accolto a braccia aperte con un cartellone enorme, una festa commovente. Stessa cosa hanno fatto in chiesa, perché Mariano frequenta la parrocchia».
Che cosa ne ha tratto?
«Niente è casuale, se credi nel Signore. Se non combattessimo ogni giorno, non sapremmo che ci sono persone così vicine, umane, premurose. Prima di partire, alcune mamme della classe di Mariano, diversi bambini e altre persone hanno voluto salutare di persona nostro figlio. La scuola sarebbe iniziata il 14 settembre e lui sarebbe stato assente per via del ricovero a Bologna. C’è stato anche chi, per il viaggio di Mariano, ci ha portato una crostata con marmellata senza zucchero. Siamo storditi da tanta amorevole partecipazione. Prima di partire, Mariano, che ama leggere anche in pubblico, ha voluto scrivere e recitare la preghiera dei fedeli, con cui ha augurato buon anno scolastico ai bambini e ragazzi della comunità di Vena».
Quali sono, ora, i suoi sentimenti?
«Si sono riaccese le nostre speranze e abbiamo potuto allacciare rapporti umani autentici, splendidi. L’informazione ha mosso le coscienze. Significa tanto, non solo per noi». (redazione@corrierecal.it)

12.10.23

come è bello naufragar liberi le storie di Alexander Selkirk, il naufrago che ha ispirato il personaggio di Robinson Crusoe e Catherine King, canadese, Vive da 30 anni su un'isola galleggiante costruita col marito: «Lui è morto, ma non ho intenzione di andarmene»

 https://www.geopop.it/ (  se  le  foto  dovessero  scomparire   come  spesso  mi siuccede       quado  le  copio   dalla   retre   le  trovate   qui  su: https://www.geopop.it/la-storia-di-alexander-selkirk-il-naufrago-che-ha-ispirato-il-personaggio-di-robinson-crusoe/   ) 21 Luglio 2023 15:30  da 

La storia di Alexander Selkirk, il naufrago che ha ispirato il personaggio di Robinson CrusoeTutti conosciamo Robinson Crusoe, il naufrago inglese creato dalla fantasia di Daniel Defoe. La sua storia è ispirata, almeno in parte, alla vicenda di un marinaio scozzese che visse per più di quattro anni su un’isola deserta: Alexander Selkirk.


                            A cura di Erminio Fonzo

Sopravvivere su un’isola deserta è un compito complicatissimo, ma nella storia non sono mancati uomini capaci di farlo. Uno di questi è Alexander Selkirk, che nel 1704 fu abbandonato in un’isoletta del Pacifico, all’epoca chiamata Más a Tierra e facente parte dell'arcipelago di Juan Fernández. Selkirk vi restò in completa solitudine per quattro anni e quattro mesi, dall'ottobre del 1704 al 2 febbraio 1709, nei quali riuscì a sopravvivere nutrendosi di verdure e capre selvatiche. Fu tratto in salvo nel 1709 da una nave inglese e, dopo un breve soggiorno nel Regno Unito, riprese il mare, trovando la morte nel 1723. La storia di Selkirk fu una delle fonti di ispirazione di Daniel Defoe per la creazione del personaggio di Robinson Crusoe. La notorietà di Selkirk, inoltre, non è mai venuta meno e negli anni ’60 il governo del Cile ha voluto persino dare il suo nome a un’isola.
Alexander Selkirk nacque in Scozia, nella località di Lower Largo, nel 1676 e sin da giovane mostrò un carattere ribelle e attaccabrighe. Nel 1703 iniziò la carriera di marinaio, imbarcandosi sulle navi corsare, cioè autorizzate dal governo a compiere atti di pirateria contro le imbarcazioni appartenenti a Paesi nemici (il corsaro più famoso fu Francis Drake). Più precisamente, Selkirk si unì alla spedizione comandata da William Dampier, un celebre esploratore, che guidava una flotta composta da due navi, la St George e la Cinque Ports. La spedizione salpò l’11 settembre 1703 dall’Irlanda e si diresse verso la costa americana del Pacifico, ma si rivelò poco fortunata e fu più volte respinta dalle navi nemiche che aveva attaccato.
L’abbandono sull’isola deserta
Le due navi si separarono e nell’ottobre del 1704 il Cinque Ports, sul quale era imbarcato Selkirk, fece una sosta a Más a Tierra, un’isola disabitata di circa 50 chilometri quadrati, facente parte dell’arcipelago di Juan Fernández, a 670 km dalle coste del Cile.

La nave era in pessime condizioni e Selkirk litigò con il comandante, Thomas Strading, perché pretendeva che prima di ripartire fossero effettuate delle riparazioni. Strading non volle saperne e Selkirk si lasciò scappare una frase che gli sarebbe risultata fatale: dichiarò che avrebbe preferito essere abbandonato sull’isola invece di reimbarcarsi su una nave in quelle condizioni. Il comandante, ben lieto di liberarsi di un attaccabrighe, lo prese in parola. L’abbandono in luoghi deserti, del resto, era una punizione frequente per chi si ammutinava sulle navi corsare e in genere equivaleva a una condanna a morte.
Prima di ripartire, Strading lasciò a Selkirk un fucile, alcuni utensili, dei vestiti e una Bibbia. Lo scozzese aveva calcolato bene il rischio che correva il Cinque Ports, che effettivamente affondò poco tempo dopo. Tuttavia, le possibilità di sopravvivere sull’isola erano molto scarse.
Selkirk nell’isola di Más a Tierra
Nei primi tempi Selkirk rimase sulla costa. Era in preda alla disperazione e guardava sempre il mare,
nella speranza di avvistare una nave che potesse trarlo in salvo. Sopravvisse cibandosi di crostacei e molluschi.
Quando una colonia di leoni marini si arenò sulla spiaggia per la stagione dell’accoppiamento, lo scozzese si spostò nell’interno. Fu una mossa fortunata: Selkirk trovò una grande quantità di capre selvatiche, dalle quali poteva ricavare carne e latte, insieme a rape, cavoli e altri vegetali. Si rivelò molto abile, inoltre, nell’usare gli utensili di cui disponeva e gli oggetti che trovava sull’isola. Costruì due piccole capanne, una per dormire e una per cucinare, e trascorreva il tempo leggendo la Bibbia ad alta voce, unico modo per non impazzire.
Selkirk non aveva alcun contatto umano, nonostante in due occasioni delle navi spagnole si fossero fermate sull’isola e i loro marinai fossero scesi a terra. Lo scozzese, essendo un corsaro nemico, sarebbe stato torturato e probabilmente messo a morte se fosse stato catturato e perciò dovette nascondersi.
Il salvataggio
La salvezza giunse il 2 febbraio 1709, quando a Más a Tierra arrivarono le navi britanniche Duke e Duchess, impegnate in azioni di pirateria contro gli spagnoli. Dal giorno in cui Selkirk era stato abbandonato sull’isola erano passati quattro anni e quattro mesi. Il marinaio manifestò una gioia immensa nel vedere i suoi compatrioti, tra i quali c’era il suo vecchio comandante William Dampier.
Quando le navi ripresero il largo, il comandante della spedizione, Woodes Rogers, lo nominò secondo ufficiale del Duke. Il marinaio partecipò così con un ruolo da protagonista alla “guerra di corsa” (cioè la pirateria autorizzata) della nave lungo la costa americana del Pacifico. Nel 1711 il Duke completò la circumnavigazione del globo e, passando a sud dell’Africa, fece ritorno in Gran Bretagna.


Il ritorno in Gran Bretagna e la morte
Selkirk rivide il suo Paese dopo otto anni dalla partenza. La sua storia divenne presto famosa, perché fu narrata in un resoconto di viaggio da un ufficiale della Duchess, Edward Cook, e dal più noto A Cruising Voyage Round the World, scritto da Woodes Rogers nel 1712. Selkirk restò alcuni anni sulla terraferma e in seguito si imbarcò come marinaio sulle navi militari che prestavano servizio presso la costa atlantica dell’Africa. Nel 1723, mentre era in navigazione, morì di febbre gialla.Selkirk e l'ispirazione per Robinson Crusoe
La storia di Selkirk è spesso associata a quella di Robinson Crusoe, il protagonista del celebre romanzo di Daniel Defoe pubblicato per la prima volta nel 1719. Molto probabilmente, la vicenda di Selkirk era
stata una, ma non l’unica, delle fonti di ispirazione di Defoe. Infatti, insieme con alcuni punti in comune, tra i due personaggi vi sono differenze significative: per esempio, l’isola sulla quale visse Selkirk era disabitata, mentre su quella di Robinson viveva una tribù indigena; Selkirk era completamente solo e Robinson trovò la compagnia dell’indigeno chiamato Venerdì. Gli studiosi dell’opera di Defoe sono concordi nel sostenere che lo scrittore aveva tratto ispirazione anche da altre storie di naufraghi, come quella di Robert Knox, che aveva vissuto per venti anni tra gli indigeni dello Sri Lanka. Tuttavia, in genere l’opinione pubblica considera Selkirk il vero Robinson Crusoe.
La fama di Selkirk
La vicenda di Selkirk non ha mai smesso di suscitare interesse. Nell’Ottocento a Lower Largo gli furono dedicate una targa commemorativa e una statua. Inoltre, nel 1966 il governo del Cile decise che una due isole maggiori dell’arcipelago Juan Fernandez avrebbe assunto il nome di Isola Alejandro Selkirk. Curiosamente, il nome fu dato all’isola Más Afuera e non a Más a Tierra, che invece fu ribattezzata Isola Robinson Crusoe.
Selkirk è menzionato anche in varie opere letterarie e nel 2012 gli è stato dedicato un film di animazione, Selkirk, el verdadero Robinson Crusoe, coproduzione cilena, argentina e uruguayana (in inglese distribuito con il titolo Seven Seas Pirates). Insomma, uno che è vissuto quattro anni su un’isola deserta non può non destare curiosità.


 da   https://www.msn.com/it-it/  fonte  ilmattino  del  11\10\2023 

Una donna vive da 30 anni su un'isola galleggiante costruita con il marito: «Lui è morto ma non ho intenzione di andarmene»
© Internet 
Non si può dire che la vita di Catherine King, canadese, sia stata un'esistenza comune, così come non lo è la sua casa, stanziata su un'isola galleggiante costruita insieme al marito Wayne Adams ormai 31 anni fa. Adams è morto l'anno scorso, ma Catherine non ha voluto abbandonare la vita immaginata e tirata su insieme, solo con le loro mani.Il sogno di vivere nella natura
Parlando con Insider, la donna ha raccontato del suo primo incontro con il marito e dell'idea dell'isola, maturata a poco a poco: «All'epoca, King - guaritore, artista e ballerino -, lavorava come massaggiatore a Toronto», dove Catherine è cresciuta. «In quelle prime conversazioni - ricorda - abbiamo parlato del sogno comune di vivere nella natura», ha detto King, 64 anni, aggiungendo che il desiderio derivava dalla loro infanzia».«Eravamo bambini unici - ha raccontato - eravamo entrambi piccoli. Ci prendevamo in giro molto e eravamo molto vittime di bullismo. Così abbiamo scoperto che la natura poteva curare. Avevamo questo in comune».Dopo il loro primo incontro, che Catherine descrive come «cosmico», la coppia andò rapidamente a vivere insieme e iniziò a cercare un posto dove costruire una vita insieme. Il posto giusto fu trovato in una piccola insenatura al largo della costa di Tofino, nella Colombia britannica, conosciuta come "Freedom Cove", la baia della libertà . Essere stata attratta dalla baia non solo perché era isolata e accessibile solo tramite un giro in barca di 10 miglia, ma perché c'era una sorta di "magia" in essa. «Non puoi nasconderti da te stesso qui. Devi essere sincero con te stesso», ha detto.
L'isola galleggiante è stata così costruita da lei e Adams vicino alla riva, in modo da poter far parte della natura «senza interferire con essa». Proprio la stessa estate in cui trovarono Freedom Cove, racconta Catherine, una tempesta soffiò sulla costa, lasciando sulla riva assi di legno. «Abbiamo pensato che fosse un buon segno, che l'universo fosse favorevole a ciò che avremmo fatto».
Come galleggia
I lavori della casa galleggiante furono ultimati nel febbraio del 1992, ma da allora la struttura è cambiata molto. Per far galleggiare la struttura la coppia utilizzò il polistirolo, legando insieme le assi usando una corda a formare una ragnatela. I due, però, ampliarono rapidamente la casa con nuovi edifici per soddisfare i loro hobby e bisogni.

Un esempio? Diverse serre, un pollaio e una grande cucina, oltre a un sistema di purificazione dell'acqua, ma anche una pista da ballo, fino a dar vista a una struttura ampia e diversificata, come si vede nel video girato e diffuso da "Great Big Story".Le sfide di vivere sull'isola «Ogni anno ci sono tempeste invernali che rischiano di distruggere tutto» ha detto Catherine. Puntualmente, le tempeste portavano via intere parti della loro casa e dovevano ricostruirle.
Un’altra sfida che hanno dovuto affrontare è stata il problema del mondo moderno di guadagnare abbastanza soldi per permettersi la manutenzione della propria casa. Sette anni dopo aver costruito l'isola, furono scoperti anche dal governo municipale e dovettero iniziare a pagare le tasse annuali. Nel 2013, hanno deciso di unirsi al resto del mondo online installando Internet sull'isola, che secondo King costa di più sull'isola che in città.
Catherine ha spiegato che, come artisti, si sono uniti per lavorare con un budget «ridotto», aggiungendi che «hanno lavorato per molti anni in cui tutto ciò che guadagnavamo era di $ 6.000 all'anno».
La morte del marito
Adams è morto lo scorso marzo otto anni la diagnosi di cancro al retto, ma da allora Catherine non ha voluto abbandonare l'isola. «È rimasto il più vitale possibile - ha detto parlando del marito - il più attivo possibile. Anche fino alle ultime due settimane, stava ancora lavorando su un'importante scultura, che finirò per lui».
Diventare l'unica proprietaria e la sola abitante dell'isola non è stato facile: ha dovuto farsi carico di tutti quei "lavoretti" che una volta spettavano ad Adams, come far funzionare i generatori, fare rifornimento e gestire le continue riparazioni domestiche.
«È stata una ripida curva di apprendimento» ha detto Catherine, che, però, non ha intenzione di abbandonare la loro casa. «Per fortuna - ha detto - ho ricevuto l'aiuto di amici e familiari, che si sono alternati per stare con me, quindi non sono mai sola».

10.10.23

Quella diga ci parla ancora vajont 1963-2023

   DI    COSA  STIAMO  PARLANDO


Ieri erano  i 60 anni della  tragedia del vajont  . Vosto che  esendo nato una  generazione    dopo  il mio ricordo  è   un  ricordo per  procura    cioè  filtrato  da  : ricordi   dei familiari  e non ,  opere  artistiche  (  documentari  ,  film e  teatrali  , ecc ) . Lascio quindi la  parola  a  quest  articolo  recesione      sul  nuovo   , in realtà è  una  rielaborazione  \  approfondimenti   del   precedente omonimo Il racconto del Vajont, di Marco Paolini e Gabriele Vacis (1993)  ) ,  VajontS 23  di Marco  Paolini  . 
 Opera    che  insieme  al  fillm  Vajont, regia di Renzo Martinelli (2001) hao  costituito insieme  ai racconti dei mie  geitori  ed  i vari documentari  la   mia   base   documntaristica  .

  da  Quella diga ci parla ancora | Da ascoltare, Storie | Altre/storie di Mario Calabresi

 Nel sessantesimo anniversario della tragedia del Vajont, Marco Paolini, l’uomo che ha saputo raccontarla come nessuno, porta in scena VajontS 23, il suo storico monologo trasformato in una rappresentazione corale. Non solo una memoria, ma un monito per il presente. E il 9 ottobre, alle 22.39 insieme alle 600 messe in scena in contemporanea dello spettacolo, uscirà anche il podcast che abbiamo registrato quando Paolini ha provato il nuovo spettacolo.Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza (…).Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Tutto è accaduto in meno di dieci minuti…”. L’incipit di questo articolo di Giampaolo Pansa, che allora era un cronista della Stampa di soli 28 anni, è la prima cosa che ho letto quando ho cominciato a studiare giornalismo. Rimasi folgorato dalla chiarezza, dalle parole perfette e scolpite, dall’immagine che non si poteva dimenticare.

La diga del Vajont

Il paese che non esisteva più era Longarone, un piccolo comune della vallata del Piave, a nord di Belluno. Cancellato dalle mappe la notte del 9 ottobre 1963. Mi sarebbe piaciuto leggere di più, capire come fosse stato possibile, ma non avevano ancora inventato Google e l’unica possibilità era andare a cercare in biblioteca. Non lo feci, ma pochi mesi dopo, fuori dall’università, sentii parlare di uno spettacolo teatrale che raccontava proprio la storia del Vajont. Nel passaparola non si riusciva a capire bene di cosa si trattasse: era uno spettacolo di teatro, ma non lo si poteva vedere a teatro. Sul palco c’era una persona sola con una lavagna e la storia che raccontava era vera. Ogni volta era in un posto diverso. Lo avevano fatto nei centri culturali, nelle fabbriche, nelle scuole e perfino negli ospedali. Era una cosa un po’ clandestina. Ci andai con un gruppo di amici, non ricordo dove fosse, nella mia testa ho solo la sensazione che fossi seduto per terra. Una cosa, però, la ricordo alla perfezione: era la cosa più potente che avessi mai visto e ascoltato. Un monologo di due ore e mezza in cui era impossibile distrarsi anche solo un attimo. Raccontava della costruzione della diga della Società Adriatica di Elettricità (SADE), un capolavoro di ingegneria, alta 261 metri, era una delle più avveniristiche del mondo.
Quell’uomo solo sul palco raccontava come, negli anni della progettazione e costruzione, fossero stati ignorati, sottovalutati, nascosti tutti gli allarmi su una possibile frana che poteva investire la diga.
Quell’uomo solo sul palco si chiamava Marco Paolini, drammaturgo, regista, attore di teatro, che scrisse e interpretò un monologo che entrò nella storia del teatro e poi della televisione italiana.
Marco Paolini



Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 un’enorme frana si staccò dal Monte Toc, cadde dentro il bacino artificiale del Vajont e sollevò un’onda d’acqua alta oltre venti metri, che si abbatté sui paesi che si trovavano nella valle sottostante, spazzandoli via: morirono 1.910 persone. Ricordo che Paolini disse che prima dell’acqua arrivò il vento, uno spostamento d’aria capace di distruggere tutto, e ricordo che pensai a Hiroshima.
Era il 1993, eravamo nel pieno dello scandalo di Tangentopoli, i partiti che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo stavano crollando. Tutto ci parlava di uno stato opaco, di cose incomprensibili, della necessità di avere verità e giustizia. Erano passati solo trent’anni da quel disastro e l’indignazione di Paolini si sposava alla perfezione con quella che stava scuotendo l’opinione pubblica italiana. Nel 1997 quel monologo, che aveva la regia di Gabriele Vacis, andò in televisione, su Rai 2, e fu un successo clamoroso. Poi Paolini smise, si fermò, e questa storia rimase nella memoria.

VajontS 23 il progetto di Marco Paolini che il 9 ottobre vedrà la messa in scena in contemporanea in oltre 130 teatri del suo spettacolo sulla tragedia del Vajont realizzato 30 anni fa



Sono passati altri trent’anni e oggi il mondo è diverso, siamo preoccupati per il cambiamento climatico, ci allarmano i disastri ambientali. Marco Paolini ha ripreso quel testo in mano, lo ha reso più asciutto, ha cambiato il tono e nel sessantesimo anniversario ha immaginato che quell’uomo sul palco non dovesse essere più solo, che il racconto del Vajont dovesse diventare “Vajonts” al plurale. Il progetto è molto più ambizioso: farlo diventare di tutti. Il testo (che trovate integrale a questo link) è – come spiega Marco – «il racconto del Vajont trasformato in coro per essere letto a voce alta in casa, da cinque o più persone, non come un esercizio di memoria ma come monito del tempo presente, monito a non subire il destino di vittime, a scegliere di non affrontare la crisi climatica in solitudine, a ribellarsi al negazionismo, all’opportunismo dei piccoli passi».
VajontS 23 sarà come un canovaccio. Ci sarà chi lo metterà in scena integralmente, chi lo userà come uno spunto e lo legherà alle tante tragedie annunciate che si sono succedute dal 1963 a oggi: in Toscana l’alluvione di Firenze del 1966, in Piemonte si racconterà di quando il Po e il Tanaro esondarono nel 1994, in Veneto delle alluvioni del 1966 e del 2010, in Campania della frana di Sarno del 1998, in Friuli degli incendi del Carso nel 2022, in Alto Adige della valanga della Marmolada del 3 luglio del 2022 e in Romagna dell’alluvione di maggio.
Lunedì 9 ottobre ci saranno oltre 600 messe in scena contemporanee in Italia e nel mondo, hanno aderito 135 teatri, 94 scuole, gruppi di lettura, parrocchie, comuni e aziende.
Alle 22.39, nell’istante esatto in cui iniziò il disastro, uscirà anche un podcast, curato da Chora Media, con la registrazione della prova del nuovo spettacolo messa in scena all’inizio dell’estate a Milano negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, che oggi hanno preso il nome da una frase di Franco Basaglia: “Da vicino nessuno è normale”.

Insieme a Marco Paolini durante il Festival “I dialoghi di Trani”


Alla fine di settembre sono stato ai Dialoghi di Trani per partecipare a un evento della “Fabbrica del mondo”, un progetto che cerca di costruire un pensiero condiviso per immaginare il futuro.
Alle 11 di sera abbiamo fatto una passeggiata sul porto, gli ho raccontato cosa è stato per me il suo Vajont – una presa di coscienza di quanto il racconto possa avere una funzione civile – e poi gli ho chiesto di raccontarmi la storia di quello spettacolo e di cosa sia cambiato in questi trent’anni.
Ci siamo seduti su una panchina e ho acceso il registratore. La nostra chiacchierata la potete ascoltare qui, nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie.

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emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...