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Risposta ., oltre alle canzoni consigliate a chi mi chiede come scelgo gli argomenti
«Il fatto è che tu non scegli quello che scrivi, mia cara Necla, spesso è l’argomento che sceglie te.»
( da il film Il regno d'inverno - Winter Sleep \ Kış Uykusu di Nuri Bilge Ceylan )
da http://www.noncicredo.org/
Ci sono persone che danno fastidio.
Sono quelle che ti si siedono vicine durante la proiezione di un film e lo commentano.
Sono quelle che alle due di notte lasciano la televisione accesa a tutto volume.
Sono quelle che sanno tutto loro e gli altri sono solo dei poveracci che non capiscono niente.
Sono quelle che a loro è capitato tutto quello che è capitato a te, anzi di più, quelle che hanno un ego di fronte al quale la piazza più grande d’Europa è uno stanzino.
E molte altre ancora.
Il problema, tuttavia, non è questo, perché fa tutta la differenza del mondo “a chi” costoro danno fastidio. Se, semplicemente te ne puoi andare non c’è problema. Se puoi rompere il rapporto, non c’è problema.
Poi ci sono quelli che danno fastidio al sistema. Con sistema intendo un po’ tutto quello che usa il verbo “comandare”. Quindi la politica ai vari livelli, quindi le società importanti che devono fare soldi non importa chi c’è da schiacciare. Questi danno fastidio davvero, perché la difesa dei propri diritti non sta bene a quelli che, eliminando proprio quei diritti, possono avvantaggiarsene. Diventare, cioè. più potenti o più ricchi o tutte e due le cose assieme.
Tra questi individui, cioè quelli che danno fastidio ai potenti, ce ne sono molti che difendono l’ambiente. Non mi riferisco a chi lo fa come missione o in generale che tiene conferenze sull’effetto serra, lo scioglimento dei ghiacci polari e così via. Mi riferisco a chi difende il proprio ambiente, inteso come habitat, come luogo dove risiede con la sua famiglia, la sua tribù, il suo popolo.
Sono gli indios a cui non sta affatto bene che le loro foreste vengano distrutte per piantarci la soia o farci pascolare le mandrie di mucche. Queste azioni modificano il loro stile di vita e con esso, spesso, la possibilità di sopravvivere come hanno sempre fatto. Sono i peones che non capiscono perché si debba far passare l’autostrada proprio sui terreni che servono per produrre il loro cibo, sono i munduruku che non vogliono che il loro paradiso terrestre venga distrutto da un mostruoso monumento alla modernità come la diga di Cleudivaldo.
Come finiscono queste storie? Non finiscono mai bene per i ragazzi, gli uomini e le donne che fronteggiano il progresso che avanza. Il progresso è portato là, usando i bulldozer delle grandi multinazionali, quelle dell’energia, dei mangimi, dell’acqua privata, della carne in scatola.
Spesso le storie finiscono male, molto male, perché ci scappa il morto e, quasi sempre il morto è ammazzato, ucciso dagli interessi e dall’ignoranza.
Pochi giorni fa (il 24 febbraio) l’ultimo fatto di sangue avviene in Costa Rica, considerato un paese modello, senza esercito, con leggi di tutela ambientale straordinarie, eppure …
Si chiamava Yehry Rivera, freddato da alcuni colpi di pistola, dopo essere stato bastonato e lapidato da un gruppo di assassini. Secondo le testimonianze (che non possiamo però controllare) un gruppo di poliziotti avrebbe assistito alla scena senza intervenire.
Lo riferisce il Guardian, giornale inglese che spesso si occupa di questioni che con l’ambiente e la sua tutela hanno a che fare.
Perché Rivera è stato ucciso? Per il solito motivo: difendeva la sua terra, la piana di Terraca, percorsa da un grande fiume, sul quale la solita azienda, supportata dalle autorità locali, ha deciso di costruire una diga. Per questi lavori servono 6 mila ettari e lo spostamento di 1100 persone, le famiglie che Rivera rappresentava.
Di uomini e donne coraggiosi come Rivera ce ne sono un sacco. La lotta, laggiù nelle foreste e tra gli autoctoni, non è certo come scrivere su un blog o raccontare in una piccola radio questi fatti orribili. Noi al massimo rischiamo di essere estromessi, di non poterlo più fare (anche se i giornalisti russi potrebbero obiettare non poco su questo punto). Loro rischiano di morire.
Come dite? Che è solo un caso e non bisogna generalizzare? Provate a seguirmi e lo vedremo.
É un caso che si sia cercato di uccidere con colpi di pistola il 29-enne Mainor Ortiz Delgado, difensore di una popolazione indigena di 10'000 anime, i Bribri, che vivono di agricoltura, caccia e pesca nelle loro foreste?
E che dire di Raúl Hernández e Homero Gomez, assassinati in Messico, per aver difeso delle … farfalle? Proteggevano il loro santuario di “El Rosario”, un’area dove migrano ogni anno, in autunno, milioni di farfalle monarca, provenienti dal Nord America. Poi, alla fine dell’inverno ripartono. Il santuario è in una zona favorevole per queste farfalle, che, da specie in via di estinzione, si stanno riprendendo e aumentando di numero. Che fastidio può dare un’area destinata ad uno scopo così leggiadro?
La minaccia esterna è quella di una specie di consorzio di banditi, che hanno bisogno di spazio e terreno dove coltivare ben altro che l’amore per la natura. Si parla con insistenza di enormi piantagioni di marijuana, che sostituiscono gli alberi della foresta.
Le cose stanno così e noi veniamo a sapere, solo qualche volta, che un ambientalista è stato ucciso o è stata uccisa. I loro nomi sono del tutto sconosciuti, tranne in pochissimi casi, come quello di Berta Càceres, che ha scatenato indignazione perfino nell’Europa che se ne frega di quanto accade nelle lontane zone del terzo mondo.
La scorsa estate, la rivista forse più conosciuta al mondo, che si occupa di ambientalismo, Nature, ha cercato di fare il punto della situazione e ha contato i morti assassinati perché difendevano l’ambiente.
Negli ultimi 15 anni il bilancio è spaventoso: 1613 vite perdute in 20 paesi diversi tra il 2002 e il 2018. Delitti avvenuti là dove più alto è il tasso di corruzione e illegalità e, per contro, più basso, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, figuriamoci di quelli dell’ambiente. Ogni anno la vita di centinaia di persone svanisce o viene messa in grave pericolo solo per l'amore verso la natura e per aver capito che continuare a violentare l’ambiente è un pazzesco modo di finire anche le nostre vite, un suidcidio di massa, un'eutanasia.
L’organizzazione Non Governativa “Global Witness” ha contato 207 morti nel 2017 e 164 l’anno successivo.
É sicuramente dura leggere di queste cose, ma, per fortuna, c’è un movimento ecologista globale che combatte in prima linea. Sono donne e uomini coraggiosi: sfidano il potere per proteggere la terra in cui sono nati, angoli di mondo bellissimi e fragili, animali a rischio di estinzione, fiumi, foreste e campi che fanno gola ad affaristi senza scrupoli.
Meriterebbero tutti di essere nominati ed elogiati. Lo facciamo per alcuni di loro.
Ricordiamo Salomè, che in Ecuador, difende la foresta amazzonica e il diritto delle donne a vivere libere dal pericicolo delle violenze sessuali, soprattutto domestiche.
Ricordiamo Marivic Danyan, nelle Filippine, che difende un’isola dalle piantagioni intensive di caffè.
Kandi Mosset, nel Nord Dakota, tutela gli indigeni dai cambiamenti climatici e dalle ingiustizie ambientali, nella civilissima patria della libertà … degli altri.
Tuğba Günal e Birhan Erkutlu, sono una coppia turca, che vive presso una sorgente che il governo del despota Erdogan voleva usare per una centrale idroelettrica. La battaglia, una volta tanto, è finita a favore dell’ambiente e quella sorgente, oggi, è dichiarata area da tutelare. (leggi qui la loro storia)
Izela Gonzalez Diaz è un’infermiera messicana, diventata attivista. Non difende l’ambiente in qualche foresta incontaminata, ma dall’ufficio di Alianza Sierra Madre, l’associazione che ha fondato per dare assistenza giuridica ai territori minacciati dalle coltivazioni intensive nel Messico del Nord. La sua attività non piace ai potenti locali, vive sotto scorta. «Ho subito più intimidazioni da uomini in giacca e cravatta che dai criminali. Do fastidio», dice. «Non sono un’indigena, non difendo la terra in cui vivo, lo faccio perché è la cosa giusta».
Potremmo continuare a lungo, ma quest’ultima frase chiude bene il discorso, perché dietro la tutela del bene comune non deve esserci necessariamente qualcosa di personale da difendere. Lo si fa, come dice Izela, semplicemente perché è giusto farlo.
(fonti: Corriere della Sera, The Guardian, www.nature.com, Wikipedia)
Sono quelle che ti si siedono vicine durante la proiezione di un film e lo commentano.
Sono quelle che alle due di notte lasciano la televisione accesa a tutto volume.
Sono quelle che sanno tutto loro e gli altri sono solo dei poveracci che non capiscono niente.
Sono quelle che a loro è capitato tutto quello che è capitato a te, anzi di più, quelle che hanno un ego di fronte al quale la piazza più grande d’Europa è uno stanzino.
E molte altre ancora.
Il problema, tuttavia, non è questo, perché fa tutta la differenza del mondo “a chi” costoro danno fastidio. Se, semplicemente te ne puoi andare non c’è problema. Se puoi rompere il rapporto, non c’è problema.
Poi ci sono quelli che danno fastidio al sistema. Con sistema intendo un po’ tutto quello che usa il verbo “comandare”. Quindi la politica ai vari livelli, quindi le società importanti che devono fare soldi non importa chi c’è da schiacciare. Questi danno fastidio davvero, perché la difesa dei propri diritti non sta bene a quelli che, eliminando proprio quei diritti, possono avvantaggiarsene. Diventare, cioè. più potenti o più ricchi o tutte e due le cose assieme.
Tra questi individui, cioè quelli che danno fastidio ai potenti, ce ne sono molti che difendono l’ambiente. Non mi riferisco a chi lo fa come missione o in generale che tiene conferenze sull’effetto serra, lo scioglimento dei ghiacci polari e così via. Mi riferisco a chi difende il proprio ambiente, inteso come habitat, come luogo dove risiede con la sua famiglia, la sua tribù, il suo popolo.
Sono gli indios a cui non sta affatto bene che le loro foreste vengano distrutte per piantarci la soia o farci pascolare le mandrie di mucche. Queste azioni modificano il loro stile di vita e con esso, spesso, la possibilità di sopravvivere come hanno sempre fatto. Sono i peones che non capiscono perché si debba far passare l’autostrada proprio sui terreni che servono per produrre il loro cibo, sono i munduruku che non vogliono che il loro paradiso terrestre venga distrutto da un mostruoso monumento alla modernità come la diga di Cleudivaldo.
Come finiscono queste storie? Non finiscono mai bene per i ragazzi, gli uomini e le donne che fronteggiano il progresso che avanza. Il progresso è portato là, usando i bulldozer delle grandi multinazionali, quelle dell’energia, dei mangimi, dell’acqua privata, della carne in scatola.
Spesso le storie finiscono male, molto male, perché ci scappa il morto e, quasi sempre il morto è ammazzato, ucciso dagli interessi e dall’ignoranza.
Pochi giorni fa (il 24 febbraio) l’ultimo fatto di sangue avviene in Costa Rica, considerato un paese modello, senza esercito, con leggi di tutela ambientale straordinarie, eppure …
Si chiamava Yehry Rivera, freddato da alcuni colpi di pistola, dopo essere stato bastonato e lapidato da un gruppo di assassini. Secondo le testimonianze (che non possiamo però controllare) un gruppo di poliziotti avrebbe assistito alla scena senza intervenire.
Lo riferisce il Guardian, giornale inglese che spesso si occupa di questioni che con l’ambiente e la sua tutela hanno a che fare.
Perché Rivera è stato ucciso? Per il solito motivo: difendeva la sua terra, la piana di Terraca, percorsa da un grande fiume, sul quale la solita azienda, supportata dalle autorità locali, ha deciso di costruire una diga. Per questi lavori servono 6 mila ettari e lo spostamento di 1100 persone, le famiglie che Rivera rappresentava.
Di uomini e donne coraggiosi come Rivera ce ne sono un sacco. La lotta, laggiù nelle foreste e tra gli autoctoni, non è certo come scrivere su un blog o raccontare in una piccola radio questi fatti orribili. Noi al massimo rischiamo di essere estromessi, di non poterlo più fare (anche se i giornalisti russi potrebbero obiettare non poco su questo punto). Loro rischiano di morire.
Come dite? Che è solo un caso e non bisogna generalizzare? Provate a seguirmi e lo vedremo.
É un caso che si sia cercato di uccidere con colpi di pistola il 29-enne Mainor Ortiz Delgado, difensore di una popolazione indigena di 10'000 anime, i Bribri, che vivono di agricoltura, caccia e pesca nelle loro foreste?
E che dire di Raúl Hernández e Homero Gomez, assassinati in Messico, per aver difeso delle … farfalle? Proteggevano il loro santuario di “El Rosario”, un’area dove migrano ogni anno, in autunno, milioni di farfalle monarca, provenienti dal Nord America. Poi, alla fine dell’inverno ripartono. Il santuario è in una zona favorevole per queste farfalle, che, da specie in via di estinzione, si stanno riprendendo e aumentando di numero. Che fastidio può dare un’area destinata ad uno scopo così leggiadro?
La minaccia esterna è quella di una specie di consorzio di banditi, che hanno bisogno di spazio e terreno dove coltivare ben altro che l’amore per la natura. Si parla con insistenza di enormi piantagioni di marijuana, che sostituiscono gli alberi della foresta.
Le cose stanno così e noi veniamo a sapere, solo qualche volta, che un ambientalista è stato ucciso o è stata uccisa. I loro nomi sono del tutto sconosciuti, tranne in pochissimi casi, come quello di Berta Càceres, che ha scatenato indignazione perfino nell’Europa che se ne frega di quanto accade nelle lontane zone del terzo mondo.
La scorsa estate, la rivista forse più conosciuta al mondo, che si occupa di ambientalismo, Nature, ha cercato di fare il punto della situazione e ha contato i morti assassinati perché difendevano l’ambiente.
Negli ultimi 15 anni il bilancio è spaventoso: 1613 vite perdute in 20 paesi diversi tra il 2002 e il 2018. Delitti avvenuti là dove più alto è il tasso di corruzione e illegalità e, per contro, più basso, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, figuriamoci di quelli dell’ambiente. Ogni anno la vita di centinaia di persone svanisce o viene messa in grave pericolo solo per l'amore verso la natura e per aver capito che continuare a violentare l’ambiente è un pazzesco modo di finire anche le nostre vite, un suidcidio di massa, un'eutanasia.
L’organizzazione Non Governativa “Global Witness” ha contato 207 morti nel 2017 e 164 l’anno successivo.
É sicuramente dura leggere di queste cose, ma, per fortuna, c’è un movimento ecologista globale che combatte in prima linea. Sono donne e uomini coraggiosi: sfidano il potere per proteggere la terra in cui sono nati, angoli di mondo bellissimi e fragili, animali a rischio di estinzione, fiumi, foreste e campi che fanno gola ad affaristi senza scrupoli.
Meriterebbero tutti di essere nominati ed elogiati. Lo facciamo per alcuni di loro.
Ricordiamo Salomè, che in Ecuador, difende la foresta amazzonica e il diritto delle donne a vivere libere dal pericicolo delle violenze sessuali, soprattutto domestiche.
Ricordiamo Marivic Danyan, nelle Filippine, che difende un’isola dalle piantagioni intensive di caffè.
Kandi Mosset, nel Nord Dakota, tutela gli indigeni dai cambiamenti climatici e dalle ingiustizie ambientali, nella civilissima patria della libertà … degli altri.
Tuğba Günal e Birhan Erkutlu, sono una coppia turca, che vive presso una sorgente che il governo del despota Erdogan voleva usare per una centrale idroelettrica. La battaglia, una volta tanto, è finita a favore dell’ambiente e quella sorgente, oggi, è dichiarata area da tutelare. (leggi qui la loro storia)
Izela Gonzalez Diaz è un’infermiera messicana, diventata attivista. Non difende l’ambiente in qualche foresta incontaminata, ma dall’ufficio di Alianza Sierra Madre, l’associazione che ha fondato per dare assistenza giuridica ai territori minacciati dalle coltivazioni intensive nel Messico del Nord. La sua attività non piace ai potenti locali, vive sotto scorta. «Ho subito più intimidazioni da uomini in giacca e cravatta che dai criminali. Do fastidio», dice. «Non sono un’indigena, non difendo la terra in cui vivo, lo faccio perché è la cosa giusta».
Potremmo continuare a lungo, ma quest’ultima frase chiude bene il discorso, perché dietro la tutela del bene comune non deve esserci necessariamente qualcosa di personale da difendere. Lo si fa, come dice Izela, semplicemente perché è giusto farlo.
(fonti: Corriere della Sera, The Guardian, www.nature.com, Wikipedia)
da https://www.avvenire.it/agora/pagine/ domenica 1 marzo 2020
«Viviamo un’epoca dove sempre più ci disincarniamo, separando l’io e il corpo, non indossiamo più le nostre vecchie “tuniche di pelle” ma siamo “fabbricatori sovrani” di corpi»
Gli uomini oggi «intendono scambiare le loro vecchie “tuniche di pelle” con un corpo di cui saranno i “fabbricatori sovrani”: corpo ripristinato e migliorato, corpo senza padre né madre, e non più generato; corpo ricostruito e neutro, oltre l’uomo e la donna; corpo sempre meno vulnerabile ma sempre meno vivente». Così scrive Sylviane Agacinski, già docente al Collège international de philosophie e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi in L’uomo disincarnato (pagine 92, euro 12,50) in uscita per Neri Pozza il prossimo 5 marzo con una prefazione di Francesca Izzo.
Idee, quelle di Agacinski, che fanno fremere i polsi ai custodi del politicamente corretto, suoi censori lo scorso anno all’Università Bordeaux Montaigne quando le impedirono di tenere una conferenza ma che non le impediranno di essere a Milano, lunedì 30 marzo alle 18.30, alla libreria Feltrinelli di piazza Duomo, a discutere con Marina Terragni e Antonio Polito; e a Roma, il giorno successivo alla stessa ora, al Maxxi, il Museo delle arti del XXI secolo, a confrontarsi con Francesca Izzo e il ministro Elena Bonetti.
Quale relazione c’è, professoressa, tra l’uomo e il suo corpo?
Non parlerei di una relazione, perché il nostro corpo non è altro da noi stessi. Siamo una stessa cosa con lui. Nessuno dice «sto arrivando e sto portando il mio corpo con me!». Se il mio corpo è ferito, sono io a soffrire. Se il corpo è malato, sei tu il malato. E se ti chiedo dove sei, ti troverai nello spazio dove sei fisicamente con il tuo corpo. La filosofia platonica dice che il corpo è la tomba dell’anima, a cui è inchiodata per un tempo limitato e da cui desidera fuggire. Ma il pensiero cristiano dice qualcosa di completamente diverso. L’uomo ha una duplice natura, spirituale e carnale, anche se tra loro c’è una gerarchia. Con dolore e lacrime, gioia e sorriso, sperimentiamo costantemente l’unità della nostra vita psichica, spirituale e corporea.
Da dove viene l’idea di un uomo disincarnato?
L’uomo moderno è tentato dalla propria disincarnazione. Egli considera il corpo sia come un oggetto della scienza sia come un oggetto trasformabile a proprio piacimento. Ne fa un prodotto fabbricato e non generato dai genitori (n.d.r. in italiano nell’originale). Di par mio, considero l’uomo come un essere vivente, dotato di sensibilità, capacità di agire e pensare. E soprattutto: parla! Con gli altri, cerca di dire il bene e il giusto.
Lei sostiene che la medicina è passata da un ruolo terapeutico a una missione antropotecnica...
La missione della medicina è sempre stata quella di curare gli uomini, curarli dalle malattie, sopprimere o ridurre i loro dolori e ritardare la fatalità della morte. E continua a farlo in modo straordinariamente efficace. A fianco degli psicoterapeuti, sia psicologi sia psicoanalisti, il medico si concentra essenzialmente sull’esplorazione e sul trattamento dei nostri corpi utilizzando vari metodi, farmaci, regimi alimentari, chirurgia, protesi, e molti altri. Tutte queste tecniche sono terapeutiche. Invece le antropotecniche sono i mezzi utilizzati per agire sul corpo umano senza una relazione con malattie e cure. Penso a tatuaggi, scarificazioni, mutilazioni rituali, doping, per esempio. I transumanisti sostengono l’uso di tecniche per aumentare le prestazioni fisiche e intellettuali umane, se non per creare addirittura una nuova specie, il cyborg o il postumano. Possiamo anche ricondurre all’antropotecnica le tecniche predisposte per consentire a una persona di cambiare sesso. La procreazione assistita può rientrare in questa categoria in un altro modo. L’inseminazione artificiale, per esempio, è un modo di applicare metodi veterinari all’uomo, inizialmente destinata a produrre embrioni di migliore qualità, nell’interesse degli allevatori. I ricercatori stanno anche lavorando a una macchina chiamata utero artificiale (AU). Entriamo così nell’era della riproducibilità tecnica dell’essere umano e assistiamo allo sviluppo in tutto il mondo di quelli che negli Stati Uniti vengono chiamati “istituti di riproduzione umana”.
In che modo questo progetto è legato all’ideologia neoliberista?
Da un lato, la frenetica ricerca di migliori prestazioni si iscrive nel quadro della concorrenza economica. Dall’altro, i mercati devono costantemente aumentare il numero di consumatori e il numero di beni. La produzione di embrioni, e in definitiva di nuovi nati, utilizzando madri surrogate, fa parte di un produttivismo generalizzato che serve il capitalismo e produce notevoli profitti per gli attori di questi mercati, medici, avvocati, agenzie di reclutamento di donatori.
Come avviene l’allocazione del proprio corpo sul mercato?
In questo settore, l’offerta, su un mercato globalizzato, di servizi e materiali e biologici incoraggia la domanda sociale. Si comincia col considerare il corpo umano come una risorsa biologica, disponibile per alimentare il baby–business e body–shopping. In Europa, si chiede alla medicina e alla solidarietà sociale di offrire le stesse prestazioni offerte dalle aziende private, americane o di altro tipo. Gli ideologi neo-liberisti, compresi quelli della Scuola di Chicago, come Gary S. Becker, arrivano a dire che tutti dovrebbero essere liberi di vendere parti del proprio corpo o di acquistarle da altri. La libertà è limitata alla sfera dei contratti.
Perché la sola volontà individuale non può giustificare la creazione di mercati per il corpo umano?
Semplicemente perché, dopo l’abolizione della schiavitù, la dignità della persona umana e del suo corpo è tutelata dalla legge. Il corpo umano, come la persona stessa, ha un valore assoluto, a differenza delle cose che hanno un prezzo. In Francia, come in Italia, si distingue tra il diritto delle persone e il diritto dei beni. Quando consideriamo il corpo come un bene, per poterlo comprare meglio, i più poveri sono incoraggiati a vendersi. Nel caso della procreazione, le donne sono le più sfruttate. L’unico contributo maschile alla procreazione medicalmente assistita è la donazione di sperma. L’estrazione di ovociti, la gravidanza e il parto sono qualcosa di ben diverso! Aggiungo che, per quasi tutti i movimenti femministi, la questione non è stabilire chi sono i clienti delle “madri in surroga”, se sono omosessuali o eterosessuali, ma proteggere, attraverso la legge, la vita personale e la dignità delle donne.
da la nuova sardegna online del 04 Marzo 2020
L’8 marzo appuntamento al Palazzo Baronale con l’associazione Insieme. Donando i capelli si potranno realizzare parrucche per le pazienti in chemio
SORSO. Dona una ciocca, regala un sorriso. È lo slogan di una giornata solidale organizzata in occasione della Festa della donna dalla nuova associazione culturale sorsense “Insieme”. Lo scopo è creare un circuito di solidarietà per le pazienti oncologiche che perdono i capelli a causa della chemioterapia. L’appuntamento è fissato alle 10.30 dell’8 marzo nel palazzo Baronale di via Convento. L’iniziativa è stata concepita dando un risvolto solidale alla giornata, che l’associazione ha deciso di dedicare alle donne che in questo momento si trovano a vivere un periodo difficile, intenso e ad alta carica emotiva.
L’evento è stato organizzato con la collaborazione della Banca dei capelli, la disponibilità dei parrucchieri cittadini e il patrocinio del Comune di Sorso. Il programma della giornata prevede la presentazione dell’associazione e l’angolo della donazione delle ciocche aperto tutto il giorno. E ancora: musica con le arpe dei giovani talenti del Conservatorio di Sassari, lettura di poesie scritte dagli alunni sorsensi, interventi di psicoterapeuti, interpretariato Lis, intrattenimento dei bambini, omaggio floreale alle donatrici e buffet per tutti.
L’associazione Insieme, guidata dalla presidente Anna Marras, nasce dall’idea di dar seguito a un percorso nato con la costituzione del gruppo che si è presentato alle ultime elezioni comunali con la lista “Insieme per Sorso”, guidata dal candidato sindaco Antonio Spano. «Durante la campagna elettorale – si legge in una nota diffusa dall’associazione – oltre ad esserci conosciuti meglio e aver condiviso gli stessi valori, che ci hanno spinto ad unirci formando un gruppo che aveva le ambizioni di voler valorizzare la nostra comunità, ci siamo anche divertiti ed è stato un modo per avvicinarci ancora di più alla comunità di Sorso». Di qui la volontà di questo gruppo di persone di non disperdersi dopo la sconfitta elettorale, ma partecipare ugualmente alla valorizzazione della comunità attraverso un’associazione politico-culturale. «Con la nostra associazione – continua la nota – fatta di persone di ogni genere ed età, vogliamo riprendere i valori ormai trascurati della Costituzione, quelli che di certo nessuno nega ma che nessuno ha più voglia di occuparsi, come l’ambiente e il paesaggio, la cultura, il patrimonio storico e artistico, la scuola».
L’evento è stato organizzato con la collaborazione della Banca dei capelli, la disponibilità dei parrucchieri cittadini e il patrocinio del Comune di Sorso. Il programma della giornata prevede la presentazione dell’associazione e l’angolo della donazione delle ciocche aperto tutto il giorno. E ancora: musica con le arpe dei giovani talenti del Conservatorio di Sassari, lettura di poesie scritte dagli alunni sorsensi, interventi di psicoterapeuti, interpretariato Lis, intrattenimento dei bambini, omaggio floreale alle donatrici e buffet per tutti.
L’associazione Insieme, guidata dalla presidente Anna Marras, nasce dall’idea di dar seguito a un percorso nato con la costituzione del gruppo che si è presentato alle ultime elezioni comunali con la lista “Insieme per Sorso”, guidata dal candidato sindaco Antonio Spano. «Durante la campagna elettorale – si legge in una nota diffusa dall’associazione – oltre ad esserci conosciuti meglio e aver condiviso gli stessi valori, che ci hanno spinto ad unirci formando un gruppo che aveva le ambizioni di voler valorizzare la nostra comunità, ci siamo anche divertiti ed è stato un modo per avvicinarci ancora di più alla comunità di Sorso». Di qui la volontà di questo gruppo di persone di non disperdersi dopo la sconfitta elettorale, ma partecipare ugualmente alla valorizzazione della comunità attraverso un’associazione politico-culturale. «Con la nostra associazione – continua la nota – fatta di persone di ogni genere ed età, vogliamo riprendere i valori ormai trascurati della Costituzione, quelli che di certo nessuno nega ma che nessuno ha più voglia di occuparsi, come l’ambiente e il paesaggio, la cultura, il patrimonio storico e artistico, la scuola».