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13.6.25

La crisi del calcio italiano riguarda tutti: le conseguenze del disastro della nazionale azzurra

Cari   amici \  che  vicini e  lontani con questo  post  sembrerò contro corrente , io che    ho sempre

criticato ( infatti la scorsa edizione un diario del mio boicotaggio sui modiali ) il calcio in se giudicandolo , pur raccontandone gesta e storie , psssando da ultra a critico come questa  famosa  canzone 


   

Ma  concordo   come  me   controcorrente con quest'articolo diel sito Atletica Live preso da msn.it perchè 

La crisi del calcio italiano riguarda tutti: le conseguenze del disastro della nazionale azzuri Ciò non di meno, sulla crisi della nazionale di calcio e in generale sul calcio italiano, bisogna riflettere anche per chi segue l’atletica, visto che gli effetti negativi del collasso del sistema calcio portano, a cascata, a problemi che si riversano su tutto il sistema dello sport italiano.a partiamo dall’inizio. Il calcio italiano sta attraversando una crisi profonda e cronicizzata, che non si limita al rettangolo di gioco, ma si riflette negativamente sull’intero panorama sportivo nazionale. Con la Nazionale che ha fallito la qualificazione agli ultimi due Mondiali e rischia di mancare anche il prossimo dopo la batosta storica in Norvegia, il declino del calcio nostrano sta inopinatamente danneggiando anche altri sport. Il calcio infatti rappresenta il principale motore economico e mediatico dello sport in Italia: ok, lo sappiamo tutti, con tante derive, deviazioni, ossessioni e cadute di stile, ma così è. Nel 2022, il calcio ha generato ricavi per 3,8 miliardi di euro, pari al 70% del fatturato sportivo totale. Quando questo motore rallenta, le conseguenze si fanno sentire altrove. Discipline come basket, pallavolo e atletica, che dipendono in parte dai fondi del CONI e dalle sponsorizzazioni legate al calcio, subiscono una riduzione di visibilità e di risorse. In Italia le ragnatele della politica (che hanno i loro terminali in Parlamento) hanno la facoltà di riallocare le risorse verso il calcio, come del resto già successo dopo il fallimento alle qualificazioni dei mondiali del 2018, con uno spostamento di denari per sostenere il mondo del calcio a detrimento delle altre federazioni, che in quel periodo subirono un taglio medio del 10%. Uno studio del 2023 evidenziava che il 40% delle federazioni sportive italiane ha registrato un calo dei finanziamenti da terzi (quindi tolto il CONI il cui budget è stabile attorno ai 440 milioni di euro) negli ultimi cinque anni, un fenomeno attribuibile in parte alla contrazione dei ricavi calcistici. Lungi dall’essere un evento da accogliere con favore, questa crisi è un segnale d’allarme per tutto il sistema sportivo italiano, che rischia di perdere competitività a livello globale e che è compensato – per quanto riguarda gli sport individuali – dai gruppi sportivi militari. Quando il calcio è in difficoltà—ad esempio, dopo scandali o scarsi risultati—gli sponsor tendono a ridurre i loro budget complessivi per lo sport. Un rapporto di SportBusiness del 2024 ha rilevato che, in periodi di sottoperformance calcistica, le sponsorizzazioni per sport non calcistici sono calate del 15%. Questo succede perché le aziende vedono meno ritorno economico da un calcio in crisi e tagliano i fondi anche altrove. Ma il vero problema, a mio parere, è un altro, e questo non lo troverete certo sui grandi quotidiani sportivi i cui editori, incredibile a credersi ancor’oggi, sono a rotazione i proprietari di squadre di calcio di Serie A: atteggiamento, questo, che si sposa a meraviglia con un sistema che non funziona sin dai fondamentali, pur essendo tutto perfettamente legittimo. Il problema Ora, negli ultimi anni, la Serie A ha visto un cambiamento radicale nella proprietà dei suoi club. I presidenti “romantici”, simbolo di passione e tradizione, sono stati sostituiti da fondi di investimento stranieri e businessman internazionali. Nel 2021, oltre il 50% dei club della massima serie era controllato da investitori esteri, una tendenza che come stiamo assistendo, è in continua crescita. Per questi nuovi proprietari, il calcio non è più un patrimonio culturale da tutelare, ma un’opportunità di profitto. Questo approccio si riflette in maniera paradigmatica nelle strategie di mercato, favorite fino al 2023 dal Decreto Crescita, che ha offerto sgravi fiscali sugli stipendi dei giocatori stranieri, rendendoli più convenienti rispetto ai talenti italiani. I club acquistano così continuamente calciatori internazionali a basso costo, li valorizzano e li rivendono a cifre elevate, spesso all’estero, privilegiando il bilancio rispetto alla crescita del movimento calcistico locale. Le statistiche sono eloquenti: nella stagione 2021/2022, i giocatori italiani under 21 hanno disputato solo l’1,9% dei minuti totali in Serie A, mentre gli stranieri over 21 hanno coperto il 61,3%. (Fonte “Report Calcio 2022”) Ruoli strategici, e mediaticamente a grande impatto, come l’attaccante o il trequartista, sono spesso appannaggio di giocatori provenienti dall’estero, relegando i giovani italiani ai margini. Anche nei campionati giovanili, come la Primavera, la presenza di giocatori esteri è aumentata, passando dal 29,2% nel 2020/2021 al 32,4% nell’ultima stagione. Il Lecce, campione Primavera 2023 con una squadra composta per oltre il 90% da giocatori non cresciuti nei vivai italiani, è un esempio lampante di questo nuovo asset di cui il calcio italiano si è dotato. Il risultato? La Nazionale si ritrova con un bacino di talenti limitato e poco rodato ad alti livelli. Diversi giovani devono cercare fortuna all’estero, impoverendo ulteriormente il calcio italiano. Sia chiaro: non si può pretendere di avere la moglie ubriaca e la botte piena, ovvero non si può pretendere di avere una nazionale vincente se non esistono calciatori italiani che giochino in Serie A e contemporaneamente vivere di finanza creativa acquistando solo giocatori da federazioni estere. E i giornali sportivi? Guardano il dito e non la luna Spesso i media italiani attribuiscono la crisi della Nazionale a carenze nei vivai o nelle scuole calcio. Tuttavia, questa lettura appare riduttiva e banalizzante. Sembra di sentire il mantra “bisogna ritornare nelle scuole” sentito milioni di volte quando l’atletica italiana andava male. Di fatto, poi, nessuno, a livello centrale ha fatto qualcosa (o avrebbe potuto fare qualcosa, visto che sarebbero servite risorse non immaginabili) se non qualche spot (non dimentico mai, personalmente, il demenziale “fai atletica e non farai panchina”, che ha ridotto questo sport a scarto da buttare nell’umido privo di qualunque dignità, ovvero proprio il contrario di quello che una campagna pubblicitaria avrebbe dovuto fare per coinvolgere i giovanissimi a presentarsi ad un campo d’atletica in massa). Tornando al calcio. I settori giovanili necessitano certamente di miglioramenti, come sostenuto da molti, ma il problema di fondo risiede altrove: se i club, guidati da investitori stranieri, vedono nel profitto l’unico scopo, lo sviluppo dei talenti locali diventa un’opzione secondaria. Incolpare solo i vivai significa trascurare l’impatto delle politiche fiscali e delle scelte di mercato che hanno stravolto le priorità della Serie A. La fissità delle classi dirigenti: l’aggravante Un’ulteriore concausa della crisi è la staticità delle classi dirigenti del calcio italiano. Problema non certo sconosciuto anche nell’atletica, con dirigenti che sono arrivati anche ben oltre i 10, 20 o 30 anni di “cadrega”. Nel 2021, Gabriele Gravina, presidente della FIGC dal 2018, è stato rieletto con il 73,45% dei voti, nonostante i ripetuti insuccessi della Nazionale. Quest’anno ha raccolto addirittura il 98,,7% dei voti, ovvero la totalità del mondo del calcio. Nato nel 1953, Gravina incarna una generazione di dirigenti che ha dominato il calcio italiano per decenni, spesso opponendosi al rinnovamento. Questa fissità ha bloccato riforme necessarie, come l’introduzione di quote per i giocatori italiani o la revisione degli sgravi fiscali per gli stranieri. Le classi dirigenti, votando in blocco per confermare Gravina, molto in là con gli anni, hanno scelto la continuità invece del cambiamento, aggravando un sistema già in difficoltà e incapace di guardare al futuro. Il parallelo con il calcio Inglese Un confronto con la Premier League è utile. Con circa 3 miliardi di euro annui dai diritti TV (contro il miliardo della Serie A), il campionato inglese è il più ricco al mondo e vede il 60% delle rose composto da calciatori stranieri. Eppure, la Nazionale inglese non vince un titolo dal 1966, anche se recenti progressi (semifinale ai Mondiali 2018 e finale a Euro 2020) mostrano un’inversione di tendenza. A differenza dell’Italia, l’Inghilterra ha però investito pesantemente nei vivai e nelle infrastrutture giovanili, mitigando almeno in parte l’impatto dei giocatori provenienti dalle altre Federazioni. In Italia, invece, questa visione a lungo termine manca del tutto, è del tutto evidente. Le stesse squadre U23 di alcuni top-club, nate con lo scopo di dare spazi ai giocatori giovani dei top club, dove non trovano spazi, in un contesto professionistico, non hanno certo lasciato il segno, anzi: il Milan Futuro è addirittura retrocesso dalle serie professionistiche in Serie D. Che futuro? La crisi del calcio italiano è strutturale, non solo tecnica. Capisco che (quasi) tutti l’abbiano compreso, senza però arrivare al nocciolo del problema (più che altro, per interesse a non disturbare magari qualche presidente). Politiche fiscali che favoriscono i calciatori di altre realtà e altre federazioni, l’orientamento al profitto degli investitori esteri e l’immobilità delle classi dirigenti hanno trasformato la Serie A in un mercato di passaggio, anziché in un serbatoio per il calcio italiano e, di conseguenza, della Nazionale. Siamo tutti perfettamente consapevoli che i grandi campioni, una volta affermatisi in Italia, vadano in UK o in Spagna, e, quando sono cotti, in Arabia Saudita. La stessa Nazionale non ha più una sua anima, non è più espressione di una “scuola”, quella italiana, con determinate caratteristiche e peculiarità. Se in Serie A giocano per la stragrande maggioranza calciatori presi da altri campionati, la “cultura” calcistica non esiste più, se mai fosse un valore sportivo da salvaguardare. Potremmo anche dire che così va il mondo, che sarebbe del tutto anacronistico fermare le tendenze alla globalizzazione dei mercati, compreso il mercato del lavoro (anche se in questo preciso momento storico, la tendenza andrebbe verso la contrazione di tali spinte). Potrei anche essere d’accordo, ma allora non pensiamo più alla Nazionale come un “bene” da salvaguardare o dal quale aspettarci chissà cosa. La Nazionale di calcio è semplicemente il frutto del suo campionato, delle sue logiche sistemiche (che spesso, fiscalmente, non sono così virtuose), e dei suoi dirigenti, che in Italia sono diventate un fardello enorme da trainare. Detto questo, andare ad un mondiale di calcio sarà sempre più un’impresa sportiva con queste premesse se non cambierà qualcosa (o qualcuno). Con conseguenze su tutto lo sport italiano.

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