Sente ancora le mani che non ha più. Assorto nel ricordo
della trincea riempita di neve sporca del suo stesso sangue, muove i monconi delle braccia per indicare a chi
ascolta il punto da cui è sbucato il carro armato russo.
Sferra cazzotti immaginari ai suoi aguzzini, quando il filo
della memoria lo trascina di nuovo nel pozzo di disumanità che è stata la prigione dei separatisti a Donetsk. Il cuore di Slavyk si è rassegnato, il cervello no: continua a ingannarlo, facendogli percepire gli arti. Pure adesso che vuole grattarsi la testa, le sinapsi gli trasmettono la sensazione dell’articolazione del polso, del metacarpo,
delle dita, e il tentativo va a vuoto di qualche centimetro. Ma quest’uomo non si deprime mai.
Sorride, come a dire: tu che mi fissi con lo sguardo contrito, rilassati, non
mi serve la tua compassione, mi serve solo il tempo per abituarmi a un corpo più corto. Infatti, eccolo che prende le misure e riesce strusciarsi sopra
l’orecchio, scacciando insieme il prurito e la pietà dell’osservatore.
Lo spirito positivo di Slavyk ha lasciato senza parole i dottori della clinica militare che cura il corpo, la mente, gli incubi, le allucinazioni sonore, i
tremori che anticipano l’insonnia e le mille forme di stress sviluppate da
chi esce dalle carceri di guerra. Perché in fondo la sua non è una storia di
depressione e solitudine, è la storia di un’amicizia spettacolare nata in cattività.
A Slavyk hanno amputato anche le gambe. La destra sopra al ginocchio,
la sinistra a metà del polpaccio. Eppure di notte non sogna di correre o saltare, sogna le mani. Era bravo con le mani. Le infilava nel cofano delle macchine scassate e quando le tirava fuori il motore cantava che pareva nuovo. Vyacheslav Levytskyy, detto Slavyk, 40 anni, gran meccanico e abile
fabbro. Poi soldato. Arruolato il 22 marzo 2022, catturato il 25 febbraio
2023, venduto ai ceceni di Kadyrov, detenuto per tre mesi a Grozny. Senza
braccia, senza gambe, due buchi nella pancia. «Serhiy, mi fai fumare?».
Una storia di amicizia
Una storia di amicizia, si diceva. Concetto nobile, alto, tanto facile da toccare mentre si affronta insieme il pericolo immanente della battaglia
quanto complicato da mantenere dopo, una volta in salvo, quando si torna
a casa e non si è più quelli di prima ma serve ancora aiuto. Concetto qui
personificato meravigliosamente da Serhiy Potremai, 51 anni, veterano
della prima guerra del Donbass, dislocato nella regione del Donetsk a gennaio di quest’anno, catturato il 24 febbraio. Un giorno prima di Slayvyk.
Ha spinto lentamente la carrozzina fino al piccolo bungalow di legno
nel giardino della clinica. È una giornata tiepida, gli ex prigionieri escono
all’aria aperta, fa bene all’umore. Slavyk lo ha cinto al collo con quel che gli
resta delle braccia, Serhiy lo ha sollevato e lo ha messo delicatamente a sedere sulla panca. Afferra il marsupio nero che ha a tracolla, apre un pacchetto di Kozak, estrae una sigaretta, se l’accende in bocca e la appoggia
alle labbra dell’altro aspettando di sentirlo inspirare una nuvola di nicotina. Serhiy è le mani e i piedi di Slavyk. Di più. Talvolta ne è anche la memoria e il sostegno alla parola. Capita che, nel racconto della prigionia vissuta
insieme, uno cominci la frase e l’altro la finisca. Ancora un tiro, Serhiy. Tiene a lungo il fumo nei polmoni, espira. «Grazie amico. Dunque, dov’eravamo?».
Catturato dai separatisti
Alla trincea. «Già, la trincea… Era notte, stavo in prima linea e sono stato
colpito da un carro armato e poi dai mortai. Le schegge mi hanno frantumato le gambe. E un proiettile di fucile mi ha centrato allo stomaco, trapassandomi da parte a parte». È bastato uno sguardo e Serhiy gli ha alzato la
maglietta fin sopra l’ombelico per mostrare una cicatrice lunga dieci centimetri e un taglio sotto la cassa toracica. «Mi sono buttato nella trincea e sono rimasto lì per sette giorni e sette notti. Non sanguinavo molto, probabilmente perché le ferite erano bruciate e perché faceva troppo freddo. Non
potevo camminare, ho dovuto strisciare da una trincea all’altra facendomi
forza con le braccia. È così che mi si sono congelate le mani. Pregavo di veder arrivare i nostri soldati. Avevo l’acqua delle razioni dell’esercito e pure
del cibo, sono riuscito soltanto a bere, non sentivo la fame. Sette bottiglie
da un litro e mezzo. Una mattina sono comparsi i separatisti del Donetsk,
stavano raccogliendo i loro cadaveri. Li ho riconosciuti dalle divise. Mi hanno visto, mi hanno caricato su un fuoristrada e trasferito in un edificio che
ha, all’interno, una cella».
L’amico lo segue con attenzione, chissà quante volte a Grozny lo ha sentito ripetere le fasi della sua cattura e cosa ha dovuto subire dopo. Spazza via la cenere di sigaretta cadutagli sul pantalone, e ascolta, ancora,
una vicenda che conosce a memoria.
Pestato e venduto ai ceceni
«Quando mi hanno preso avevo le mani con le dita blu e gonfie, le gambe rotte con degli squarci grossi così…». Il cervello ingannatore di Slavyk di nuovo gli fa fare con le braccia i gesti di un tempo, di quando era
integro. «...e quelli invece di portarmi in ospedale hanno semplicemente applicato delle bende. Mi hanno prestato il primo soccorso e poi mi
hanno pestato a sangue con una pala, frustandomi con un tondino di ferro. Assurdo. Volevano sapere la posizione delle nostre truppe e degli obici. Gli ho risposto che non lo sapevo, che quella è roba per artiglieri e io
ero solo un autista. Per punizione mi hanno fatto andare da una stanza
all’altra carponi sulle ginocchia. Il dolore era insopportabile. Non gli ho detto niente, neanche una parola. Si sono arrabbiati ancora di più e mi hanno sbattuto in uno scantinato buio. Non so quanto mi abbiano
tenuto lì, nell’oscurità ho perso il senso del tempo. So
solo che a un certo punto mi sono venuti a prelevare
dicendomi che ero stato venduto ai ceceni di Kadyrov. Pronunciato quel nome, ho pensato che per me
fosse davvero arrivata la fine. Invece, è successa una
cosa inaspettata…».
Slavyk non sa a quanto sta la sua pelle al mercato
nero dei prigionieri, e, a dirla tutta, poco gli importa.
Non è più affar suo. La compravendita dei vinti serve
all’esercito di Kadyrov per avere qualcuno da scambiare con le forze armate ucraine e potersi riprendere i miliziani ceceni catturati.
La clinica dei borderline
Il sessantenne Oleksandr Blinov è il vice-direttore
della clinica della riabilitazione, di cui si può dire
che si trova in una regione centrale dell’Ucraina senza dare l’esatta ubicazione per motivi di sicurezza.
Spiega che prima dell’invasione questo posto che assomiglia a una casa di riposo lavorava solo per i militari della Guardia Nazionale, dopo il 24 febbraio 2022 è stato riadattato in fretta a camera di decompressione della psiche di chi torna dopo
uno scambio di prigionieri. «Non sono autorizzato a rivelare quanti pazienti abbiamo, né se sono aumentati o diminuiti nell’ultimo periodo.
Stanno qui obbligatoriamente per quindici giorni, poi una commissione medica composta da psicologi, psichiatri, fisiatri e medici generici
li valuta e decide se hanno bisogno di essere sottoposti a trattamenti
ulteriori con gli specialisti, se devono rimanere qui altri giorni oppure
se possono andare a casa». E più di questo, da Blinov, non si scuce.
«Sono tutti classificabili come borderline, lo stadio precedente al caso psichiatrico», dicono i terapisti della riabilitazione. I soldati arrivano che hanno perso peso, alcuni anche cinquanta chili, c’è chi non è
più in grado di addormentarsi, tutti fiaccati dagli effetti della sindrome post-traumatica da stress e qualcuno inseguito dai flashback delle
torture e della costrizione. Sono il tormento dei liberati, i flashback.
Perché non si fanno annunciare, si presentano e basta come ospiti sgraditi, penetrando la fragilità di uomini senza più un baricentro emotivo.
Flashback
Dalle cartelle cliniche, reali, di pazienti che sono stati o sono tuttora in
cura: un incursore dell’esercito, neanche quarant’anni, sta facendo fisioterapia alle gambe per imparare a farle andare come prima e all’improvviso avverte la sensazione fisica della corda che in prigione gli stringeva le braccia (flashback tattile); in mensa un soldato del battaglione Azov lamenta di percepire il nastro adesivo avvolto attorno alla testa e il sacchetto di plastica con cui i carcerieri lo hanno quasi soffocato, tanto realistico da avvertire dolore agli occhi pur essendo al sicuro davanti a una zuppa; un artigliere è andato in crisi perché crede di aver sentito il rumore dello scotch da imballaggio quando viene tirato e delle chiavi della cella (flashback uditivo); un comandante di battaglione stava passeggiando sul prato accanto al dormitorio dove i giardinieri hanno rasato il prato e l’odore dell’erba appena tagliata lo ha riportato al tanfo dei cadaveri carbonizzati, provocandogli un attacco di panico.
Serhiy, il cui corpo è
miracolosamente intatto, è le
gambe e le braccia dell’amico
mutilato: lo spinge sulla sedia a
rotelle, gli accende le sigarette, lo
aiuta in tutto La loro amicizia è nata
nei campi di detenzione di Kadyrov,
a Grozny. Sotto, una delle sale per
la riabilitazione della clinica
Ora
scambia le foglie per bombe.
Amputato (e salvato) a Grozny
Slavyk e Serhiy, dentro, non sono così rotti come gli
altri perché, ed ecco la cosa inaspettata cui accennava, sono stati trattati bene dalle guardie musulmane
del feroce Kadyirov. «Forse perché gli è imposto dalla loro religione, ipotizzo». I due amici sono gli unici
nella clinica ad essere tornati dalla detenzione in Cecenia. «A Grozny mi hanno subito portato in ospedale, in terapia intensiva. Dopo una settimana o qualcosa di più in ostaggio dei separatisti ero senza speranze, le dita gonfie e blu, le mani infette, le gambe ormai immobili, le ferite ancora aperte e purulente, lo
stomaco in fiamme. Sono stato visitato da un dottore
capace e umano. Mi ha riempito di antidolorifici e antibiotici che mi hanno fatto stare meglio, mi ha fatto le trasfusioni di sangue, però una mattina è entrato nella stanza con una cartella bianca in
mano e ha detto che doveva amputarmi tutto, gambe e braccia, perché
ormai erano in cancrena. Ho firmato il consenso senza pensarci troppo,
l’idea di poter rivedere mio figlio Dmytro e mia moglie Natalia mi ha dato coraggio. L’operazione è andata bene ma…». Pausa. La frase la termina Serhiy. «...se a Donetsk lo avessero portato subito sotto i ferri invece
di picchiarlo per estorcergli informazioni che non aveva, avrebbe ancora le mani».
Le strade di Slavyk e Serhiy si incrociano adesso, quando il primo
esce dall’ospedale di Grozny e il secondo viene condotto con gli altri prigionieri ucraini che Kadyrov fa tenere in un seminterrato senza finestre
di una palazzina della polizia, nella periferia della capitale
L’angelo protettore
«Quando l’ho visto arrivare ho capito che era necessario prendersi cura
di lui, altrimenti lo avremmo perso». Ora è Serhiy a raccontare. «Eravamo 39 prigionieri ucraini e i ceceni ci hanno fatto capire immediatamente che Slavyk era sotto la nostra responsabilità, perché le guardie non
avrebbero mosso un dito per lui. Quindi ho fatto ciò che andava fatto e
ciò che ci insegna l’etica militare. Siamo due soldati e i soldati si aiutano
sempre nelle difficoltà». Come Achille e Patroclo, ma un Patroclo mutilato. «Lo prendevo in braccio per portarlo in bagno a pisciare, lo prendevo
in braccio per spostarlo dal letto sulla carrozzina, lo prendevo in braccio per fargli prendere ossigeno alzandolo fino a una grata nel soffitto.
Lo facevo fumare. Muovevo per lui le pedine sulla dama, ne avevamo
una. Lo imboccavo tre volte al giorno. Nell’ora d’aria facevamo a turno
con gli altri a spingere la sua carrozzina. Sì, di cibo ce n’era a sufficienza,
ciascuno riceveva quotidianamente una pagnotta e mezzo di pane e tre
volte alla settimana il cibo era caldo e appena cotto.
Per il resto mangiavamo patate crude e gli spaghetti
in scatola, ma va bene, non abbiamo sofferto la fame.
Era il paradiso in confronto al carcere nel Donbass».
Pur avendo il corpo intatto, anche Serhiy ha conosciuto la violazione dei diritti umani e della convenzione di Ginevra sul trattamento dei detenuti di guerra. L’agenzia dell’Onu da mesi denuncia abusi in corso soprattutto in Russia, ma talvolta censura anche
gli ucraini. Catturato al fronte, Serhiy si è ritrovato a
Donetsk in una colonia penale. «Picchiato, vessato
con l’elettroshock, ammanettato al termosifone per
tre settimane…». Tre frasi per riassumere la tortura.
Pronunciate rapidamente, una attaccata all’altra, così da fare in fretta e tornare a dimenticare.
Dimenticare
Nella clinica c’è una sala con un tavolo ovale verde e
una lavagna. I pazienti fanno sedute di autocoscienza di gruppo, cercano di fare uscire l’ansia, di condividerla, di esorcizzarla. Entrano uomini duri, aspri, che
hanno combattuto col Reggimento Azov a Mariupol,
con tatuaggi nazionalistici sulla pelle che per i carcerieri russi sono tutti, indistintamente e a prescindere, prove di nazismo, dunque meritevoli di essere cancellati versandoci
sopra l’acqua a cento gradi. Ed è curioso sentir parlare un guerriero delle proprie emozioni, vederlo disegnare con tratti infantili la maschera
del demone che lo affligge.
«La terapia prevede esercizi di riabilitazione in palestra, aromaterapia, massaggi, incontri con gli psicologi e con gli psichiatri», spiegano i
medici. «Dipende dal livello di stress con cui entrano e che definiamo in
una prima intervista, al momento dell’accettazione». I dottori aiutano
gli ex prigionieri a rifare i documenti e a fissare l’appuntamento con il
procuratore per testimoniare. La permanenza più o meno lunga in strutture come questa è una procedura resa obbligatoria dalle forze armate,
ha lo scopo di tutelare i combattenti e riportarli al più presto sulla linea
del fronte. Mogli, genitori e figli possono venire a trovarli. Non c’è molto
tempo per guarire dagli attacchi di panico, né l’esercito impegnato nella controffensiva ha la pazienza di aspettare che i flashback svaniscano.
«Quindici giorni di terapia, poi si vede».
Due carrozzine per uno scambio
Taganrog, Starioskol, Kursk, Ryazhsk: città russe diventate sinonimo
delle colonie penali che ospitano, piene di soldati ucraini, da cui escono
resoconti di quotidiana sopravvivenza che non sono poi così lontani dalla giornata infinita di Ivan Denisovič. La prigionia di Slavyk e Serhiy si è
conclusa il 12 giugno. «Hanno prelevato nove di noi, i feriti e quelli messi
peggio. Slavyk era il primo della lista, ovviamente. Io sono rientrato nell’elenco perché i ceceni hanno capito che vivevamo in simbiosi».
Ora bisogna immaginarsi questa scena. Un punto imprecisato sul confine ucraino a nord, tra la regione di Sumy e quella russa di Belgorod. Sono le quattro del mattino, albeggia. Dal lato russo si avvicinano tre autobus e un’ambulanza, dal lato ucraino tre autobus e
un’ambulanza. Dai bus scendono cento uomini in fila, dall’ambulanza scaricano la carrozzina che le
guardie cecene gli hanno lasciato tenere. Al segnale
di un militare, le due colonne si mettono in marcia,
passando il confine contemporaneamente. Slavyk
viene preso dalla sedia a rotelle cecena e messo su
una sedia a rotelle ucraina.
Stanza 105
Un letto inutilmente lungo, le coperte piegate, il tablet con cui parla in videochat con suo figlio di 14 anni (lo accende e lo programma Serhiy), il pacchetto di
sigarette sul comodino, il gancio metallico per sollevarsi. Ad averci le mani. Sono le quattro e mezzo del
pomeriggio. «Serhiy, mi tagli la mela?». Sorride. «Nonostante le amputazioni Slavyk è un uomo stabile,
equilibrato», dice Serhiy, che sta facendo spicchi ben
precisi col coltello. «Persino i ceceni lo rispettavano,
erano impressionati dal fatto che non avesse perso il
suo spirito pur avendo subito quello che ha subito.
C’era una guardia di nome Rizvan con cui si prendevano in giro. Rizvan entrava nel seminterrato e gli diceva: “ma almeno l’organo più importante ti funziona?”, e Slavyk sghignazzava, assicurandolo che in quel settore non aveva subito menomazioni».
Serhiy non ha moglie e non ha figli. È sin troppo facile pensare che abbia proiettato nell’amico amputato, di undici anni più giovane e completamente dipendente dal volere altrui, il figlio che non ha mai avuto. «Lo
considero più come un fratello, e come succede ai fratelli a volte si litiga. Piccole cose, sciocchezze, siamo esseri umani. Le sigarette, per
esempio: non sono mai abbastanza e non c’è mai un momento per fumare che vada bene a entrambi».
Slavyk mastica la mela, osserva l’amico che si dà da fare per lui. I suoi
occhi esprimono gratitudine silenziosa. Talvolta non c’è bisogno delle
mani per abbracciare qualcuno