La storia non è un mausoleo di memorie spente da omaggiare con gesti rituali. Non è il riparo dei reduci, ma una sorgente viva: un repertorio di ispirazione e di possibilità. Ed è ancora più vero se pensiamo alla memoria delle Resistenze europee contro il nazifascismo.
Si è provato a disinnescarla la forza generativa di quella storia, eppure continua a premere sul presente, chiamandoci al cospetto di scelte che non sono mai state né ovvie né scontate
La stagione delle Resistenze che hanno attraversato l’Europa nel cuore del Novecento è un crocevia ancora percorso dalle vicende di uomini e donne che, spesso con discrezione e nella consapevolezza che anche il più piccolo gesto potesse fare la differenza, hanno scelto di non essere complici o spettatori. Studenti, impiegate, operai, contadini, madri, insegnanti, preti, infermiere, come Lelia Minghini, giovane infermiera dell’ospedale Niguarda, che raccontiamo nel podcast Microstorie della Resistenza. Persone comuni che – in sella a una bicicletta, nel chiuso di una copisteria, tra i corridoi di un ospedale – hanno lottato per la loro e la nostra libertà.
Quelle lotte non furono semplicemente la reazione a un’occupazione o a una dittatura. Furono esperienze concrete di riappropriazione collettiva del destino comune, tentativi di riscrivere il patto tra cittadino e Stato, tra libertà e giustizia.
Ha scritto, molti anni fa, lo storico Lucien Febvre come sia “proprio nelle epoche di crisi e di transizione che fioriscono gli indovini e i progetti”. La Resistenza è soprattutto questo: lo sguardo puntato sul «domani», malgrado un profondo smarrimento. Ce lo dicono le parole scritte di getto da Giaime Pintor nei giorni stessi del ritorno a casa dei militari italiani che, all’indomani dell’8 settembre 1943, cercano ragioni e parole in grado di aprire i cuori e dare nuove prospettive a chi si sente naufrago nell’Italia della dittatura, ma non rinuncia a pensare e fare insieme. È la stessa condotta a cui sollecita un giovane Eugenio Curiel già alla fine degli anni ’30 e che nei mesi duri della lotta nell’inverno ’44-’45 diventa azione. Un inverno di cui Curiel non vedrà la fine, ma che è carico della consapevolezza che la liberazione è solo l’inizio di un percorso. E quel percorso sarà possibile se si vivono le scelte come bivio, come misura del prezzo da pagare, delle responsabilità da assumere senza illusioni, come scrive Leo Valiani nel 1944, ma con una grande voglia di progetto.
In Italia, in Francia, nei Balcani, nei Paesi Bassi e altrove, uomini e donne di ogni estrazione hanno rischiato la vita per affermare che nessun potere ha diritto di spogliarci della dignità, della parola, della solidarietà. Quelle scelte hanno gettato le basi delle democrazie europee, delle Costituzioni, del principio secondo cui i diritti non sono concessioni ma conquiste.
Oggi che i linguaggi dell’odio, del revisionismo e della nostalgia autoritaria tornano a farsi largo, ricordare le Resistenze non è esercizio celebrativo ma necessità civile. Le minacce alla libertà si insinuano nella diseguaglianza strutturale, nella precarietà elevata a norma, nel discredito sistematico della partecipazione, nei contrappesi democratici via via delegittimati.
Per questo, la memoria delle Resistenze è oggi una risorsa per uscire dall'ombra del presente. L’antifascismo non è un capitolo da archiviare, ma un alfabeto che oggi ci aiuta a comporre nuove parole. È la grammatica del nostro stare insieme, il collante che tiene insieme le differenze senza annullarle, che ci insegna a discutere senza annientare, a dissentire senza disumanizzare. È un impegno che si rinnova ogni volta che scegliamo il dialogo invece del dominio, la cura invece del profitto, la memoria invece della rimozione. L’antifascismo non è solo la radice della nostra democrazia: è il respiro che tiene uniti cittadini e cittadine per un futuro di libertà e di diritti, da immaginare e conquistare giorno per giorno.