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17.11.23

Taekwondo, quando lo sport vince sul sistema educativo che si arrende al mercato di Emiliano Morrone ., E siamo tutti Sinner di Daniela Tuscano

Eccovi   un approfondimento sul taekwondo in Italia, che supplisce al sistema educativo indebolito dal mercato e, soprattutto nel sud  ed  in particolare   in  Calabria, è un'arma pedagogica potente contro la cultura, imposta, della prevaricazione e del brutto.  Un  articolo  di Emiliano Morrone   da  https://www.corrieredellacalabria.it/  17/11/2023 – 6:33

Taekwondo, quando lo sport vince sul sistema educativo che si arrende al mercato
Può essere visto come un luogo sicuro di crescita ed emancipazione, oltre che una disciplina sportiva, un’arte marziale
                                   EMILIANOI MORRONE  

COSENZA Il calcio e i calci, i soldi e i soldati. È un gioco di parole per inquadrare il contrasto fra due sport, il pallone e il taekwondo, che in Italia vivono fasi diverse. All’Olimpico di Roma, stasera la Nazionale maschile di Luciano Spalletti sfiderà la Macedonia del Nord per acciuffare la qualificazione all’Europeo 2024. La partita è piuttosto delicata per gli Azzurri, che dovranno vincerla e poi battere l’Ucraina, lunedì prossimo allo stadio BayArena di Leverkusen, in Germania. Guidata dal direttore tecnico Claudio Nolano, la nazionale italiana di taekwondo è tornata dall’Open di Svezia con ottimi risultati, che la caricano per le Olimpiadi di Parigi, in programma nell’estate ventura.
Antonio Caratozzolo e Gaia Carvelli
Zeno Mancina-Gaia Corigliano e Jessica Talarico
Biagio Cariati

Nonostante l’enorme giro di affari, il calcio nostrano fatica ad affermarsi come una volta. Invece, il taekwondo italiano, molto meno remunerativo, continua a dare soddisfazioni nette, per quanto sia (a torto) bollato come sport minore e perciò tenuto ai margini dell’informazione di settore, pressoché sconosciuto dalla tv generalista. Significa che la spinta agonistica, accompagnata dall’orgoglio di rappresentare l’Italia, può essere più forte della prospettiva del lusso personale. Vuol dire, dunque, che non sempre «i soldi muovono il mondo», al contrario di quanto, nel luglio 2016, osservò don Giuseppe Milo, parroco di Agerola, a proposito della cessione alla Juve dell’allora calciatore del Napoli Gonzalo Higuaín. Dalla ripartizione per l’anno corrente del fondo statale destinato alle Federazioni sportive nazionali, emerge che la Figc (Calcio) ha avuto 36.229.054 euro, mentre la Fita (Taekwondo) ha ricevuto 4.103.851 euro, un importo nove volte inferiore.
Si obietterà che, stando al rapporto federale del 2023, in Italia il calcio genera un impatto socio-economico di oltre quattro miliardi e mezzo, che la Figc conta quasi un milione e 50mila tesserati e la Fita ne ha, invece, circa 30mila. Sarebbe un’argomentazione prevedibile, basata sui soliti criteri economicistici che, peraltro, giustificano le decisioni pubbliche in materia di sanità, di istruzione e altri servizi essenziali. Si vedano, al riguardo, i giganteschi e irrazionali bacini d’utenza contemplati nel regolamento ministeriale sugli standard ospedalieri, che penalizza le realtà periferiche e isolate. Ancora, si consideri il dimensionamento scolastico avviato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, che condanna interi territori all’ignoranza. È un sistema oligarchico, avvertiva il filosofo Luigi Lombardi Vallauri nelle sue lezioni sull’individualismo possessivo; come se la ricchezza materiale fosse l’unica meta da raggiungere, come se non esistessero beni primari quali la salute, la solidarietà e la conoscenza, che anche lo sport è chiamato a perseguire. A cominciare dagli anni Settanta, Jean Baudrillard sostenne che «non c’è più finzione né realta», poiché «l’iperrealtà le abolisce entrambe».
Il filosofo francese rilevò l’onnipresenza, nella società contemporanea, di simboli e narrazioni virtuali quali sostituti delle realtà descritte e strumenti imposti per interpretarle. Il mito del libero mercato è stato disseminato proprio tramite simboli e narrazioni, dalla pubblicità alla tecnicizzazione del discorso politico, alla sottile rappresentazione fallica del potere del denaro. È un’illusione collettiva che impedisce il dubbio, il confronto e la dialettica, che imbriglia, confina e reprime la capacità di giudizio. È la «grande livella», per usare un’efficace espressione del filosofo Andrea Tagliapietra. Ne è una riprova il fideismo 2.0 sulla capacità di equilibramento economico della «mano invisibile», di Adam Smith: la liberalizzazione del mercato dell’energia, propagandata d’ufficio con toni trionfalistici, non ha affatto ridotto i prezzi per i consumatori, ma ha favorito speculazioni ed extraprofitti, non tassati, delle società fornitrici. Nel contesto suonano come sentito auspicio le dichiarazioni del ministro dello Sport, Andrea Abodi, il quale, riguardo all’ultima assegnazione dei fondi alle Federazioni sportive nazionali, ha detto che «le risorse finanziarie pubbliche devono produrre sempre più impatto sociale, sostenere progetti anche infrastrutturali per migliorare i luoghi di sport, generare sviluppo soprattutto dove vi è maggiore necessità» e «contribuire ad allargare la base sportiva, migliorando la qualità della vita delle persone e delle comunità, riconoscendo il merito e producendo efficienza nella gestione, a beneficio dell’intero sistema». Andrebbe dunque ripreso – ben oltre l’approfondimento giornalistico – il discorso dei luoghi dell’Italia in cui «vi è maggiore necessità» di sviluppo; atteso che, se si guarda al calcio, nel Sud e nelle Isole si trova il 19,8 per cento dei campi da gioco, nel Nord il 50,5 per cento e nel Centro il 29,7 per cento, sicché nel Mezzogiorno potrebbe non attecchire il messaggio intramontabile, di Francesco De Gregori, «Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore». Qui non si intende affatto demonizzare il calcio, ma riflettere su taluni aspetti ancora trascurati, comprese le condizioni dei ragazzi che lo praticano nel Meridione.
Angelo Cito – pressidente Fita

Ancora, i decisori pubblici dovrebbero riconoscere «il merito», anche in ambito sportivo. Domenica scorsa, il taekwondoka Simone Alessio ha conquistato la medaglia d’oro allo Swedish Open, nella categoria -80 chilogrammi. Due volte campione del mondo e numero uno del World Kyorugi Ranking nella propria fascia di peso, l’atleta calabrese ha confermato la sua superiorità tecnica e, come aveva anticipato al Corriere della Calabria, punta al primo gradino del podio alle Olimpiadi di Parigi. Anche Vito dell’Aquila, già campione olimpico nel 2020 e quinto nella classifica mondiale dei -58 chili, ha ottenuto la medaglia d’oro in Svezia. Nello stesso torneo, del tipo G1 per i punteggi in palio, la nazionale italiana di taekwondo ha brillato pure con il bronzo di Natalia D’Angelo nella -67 chilogrammi e quello di Giada Al Halwani nella -57 chili, cui si aggiunge il terzo posto di Hadi Tiranvolipour, rifugiato iraniano sostenuto dalla Fita, presieduta da Angelo Cito, che sta lavorando molto sul versante tecnico, pedagogico e comunicativo. Non è facile contrastare i pregiudizi radicati e radicali. Ma il taekwondoka Biagio Cariati, ragazzo dal volto limpido che vive in un paesino di mille abitanti alle pendici della Sila Grande, è impermeabile ai problemi sovrastrutturali. Sei giorni su sette, infatti, si allena in palestra per più di 20 ore settimanali, compreso il potenziamento muscolare, ed è pronto a partire per Ancona, dove il 18 e il 19 novembre si svolgeranno i Campionati italiani di taekwondo, categoria Senior, che comprende gli atleti dai 17 ai 35 anni.
Composto, maturo e concentrato, Biagio segue con tanto scrupolo le indicazioni dei maestri dell’associazione “Taekwondo in Fiore”: Jessica Talarico, vicepresidente del Comitato calabrese della Fita, e Zeno Mancina, che di recente è stato convocato dalla Nazionale in qualità di tecnico. Biagio è stato per due volte campione italiano e nel suo curriculum compaiono anche due medaglie d’argento e una di bronzo, oltre alla partecipazione, come junior, agli Europei di Sarajevo del 2021. Insieme a Biagio – e del suo stesso gruppo – partiranno Raffaella Giovinazzi, al debutto ai Campionati italiani senior, e Antonio Caratozzolo e Gaia Carvelli, entrambi, poi, nella squadra calabrese di combattimento. Ad Ancona la Calabria porterà in tutto una decina di atleti, provenienti anche da altre associazioni sportive, segno, aveva rimarcato Alessio, che nella regione il taekwondo sta facendo grandi passi in avanti come nel resto dell’Italia. E forse in Calabria vi è una motivazione più profonda, che sembra essere una risposta individuale e collettiva alla carenza di infrastrutture, all’aggressione dei territori e dei centri urbani, oppressi da violenze a danno dell’ambiente, brutture edilizie, disparità sociali e fatti di degrado civile, disorganizzazione pubblica e condizionamento dei poteri politici e dell’antistato. Allora il taekwondo può essere visto come un luogo sicuro di crescita ed emancipazione, oltre che una disciplina sportiva, un’arte marziale. E può supplire, come dimostra l’esperienza, al sistema educativo tradizionale, in cui il governo dell’istruzione non è più affidato ai maestri e in cui, non di rado, le «passioni tristi» dell’universo giovanile – indagate dagli psichiatri Miguel Bensayag e Gérard Schmit – sono perfino assecondate con sufficienza o indifferenza, al punto che nei minori tendono a evaporare la ricerca dell’identità e degli obiettivi personali. «Ero più che abituato alle gare importanti. Ma – ci ha chiarito Mancina – entrato con la divisa della Nazionale nel palasport dell’Europeo di Belgrado, ho capito che lì c’era altro, c’era il meglio del taekwondo, c’era il senso della mia vita».

Stavo per  schiacciare  sul  tasto pubblica  quando   mi sono ricordato     di questo breve    ma intenso  post    di    Daniela   Tuscano   
 

#janniksinner è un nome che, per ragioni personali, mi è molto caro. Lui, il campione, prescinde dalla disciplina. È uno che ti piace e basta, sia da tennista sia da boxeur o ciclista. Piace per la sua stringata precisione, perché non perdona ma senza cattiveria, o forse è la sua destrezza a essere cattiva. Perché è giovane e sbaraglia. Un fascio di nervi, limpido come un lago alpino. Perché non gigioneggia, anche quando lo fa. È il primo a non crederci, sempre distante da sé stesso, un italiano asburgico, la biondezza ironica ed esplicita, come quel suo cognome, Sinner, peccatore. Reo confesso di bravura.
E siamo davvero tutti Sinner quando lui stringe l'esile forte pugno, e ci prende in pugno, e non ci molla più. Vince con orgoglio, il nostro.

1.9.22

A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel 2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno

 A Milano c'è un circolo del tennis pubblico e gratuito: "Ma quale padel, il nostro è il vero sport" Nel
2006 il comune di Milano riconvertì nei pressi del parco Trenno un parcheggio di fronte a una scuola in due campi da tennis pubblici e gratuiti, una rarità non solo per il capoluogo lombardo ma anche per il resto del Paese. Da allora, negli anni, si è formato un nucleo storico di frequentatori che si sono autonominati "TCT", ovvero "Tennis Club Trenno", che, tramite una divertente pagina Facebook, raccontano la gestione dei campi e associano - anche se informalmente - i nuovi arrivati. "Il nostro - racconta Fabio Maffini, tra i gestori della pagina e insegnante di tennis - non è un circolo ufficiale ma ideale, dove tutti possono associarsi. Il tennis ha un costo, da noi no". E così, fra inverni passati a spalare la neve dal campo e pomeriggi estivi tra volée o partite a carte, il club è arrivato fino a 140 iscritti. "Questo - argomenta Mauro, altro giocatore - è un luogo di vera socializzazione che tiene lontane le persone da bar, bicchierini, scommesse e via discorrendo".



 Il circolo ha una forte componente di pensionati anche se non mancano i più giovani. Rispetto a pallacanestro o calcio, sport molto praticati in aree urbane in maniera estemporanea e gratuita, il tennis non ha storicamente uno spirito "di strada". Cosa che, invece, al TCT è molto presente e non senza polemiche sulla gestione dei campi. "Per prevenire incidenti su chi deve giocare e chi no - dice Pino, storico frequentatore 69enne - c'è una regola non scritta. E cioè si fanno doppi, da due set e poi si lascia il campo. Chi non rispetta la regola non è benvenuto". Nel gruppo del TCT ci si dà soprannomi, come "Acciughina" o "Bradipo", c'è "L'Artennista" Francesco, che disegna caricature dei nuovi arrivati e i campi sono divisi in due: uno per i più bravi, l'altro per i principianti. Un piccolo esempio di comunità creata da un intervento amministrativo che, ai suoi membri, fa lanciare un messaggio: "Ce ne vorrebbe uno in ogni zona di Milano".
                                    di Andrea Lattanzi

  da  non confondersi  con  Il padel (dallo spagnolo pádel, a sua volta dall'inglese paddle )  sport con la palla di derivazione tennistica. Si pratica a coppie in un campo rettangolare e chiuso da pareti su quattro lati, con l'eccezione delle due porte laterali di ingresso. Il gioco si pratica con una racchetta dal piatto rigido con cui ci si scambia una pallina uguale a quella da tennis, ma con una pressione interna inferiore, che permette un maggior controllo dei colpi e dei rimbalzi sulle sponde. Non è da confondersi, quindi  ,  con il paddle tennis di cui è una variante. ..... qui altre  notizie   sul  suo derivato Padel

10.11.17

lo sport non è solo il calcio La sfida tra lo svedese dalle poche parole e l’americano “star sregolata” ha cambiato il tennis per sempre

LMcEnroe
Li ricordiamo, e li celebriamo ancora oggi, semplicemente perché sono stati unici nel loro genere. McEnroe più di Borg forse, ma non è questo il punto. Entrambi hanno alzato l’asticella, il livello del gioco. Lo svedese, per dire, probabilmente ha modificato il tennis molto di più dell’americano. Il suo modo di giocare è stato poi imitato, se vogliamo migliorato, da chi è venuto dopo di lui. Ma Nadal non avrebbe giocato così, non fosse nato un Borg in precedenza. Certi movimenti, certi gesti tecnici non esistevano, non erano immaginati prima del suo apparire in scena.
McEnroe, poi. Non parliamone nemmeno: i suoi colpi non erano conformi alle regole scolastiche. Introdusse una modalità di esecuzione del servizio rivoluzionaria, spalle alla rete: e perfezionò un’arma letale. Dicevano i maestri, in quegli anni: “Prova a servire come McEnroe e ti verrà la cervicale in due giorni”. Bene, pensate che quel servizio fu, per almeno 6-7 anni, il migliore al mondo. Ma non faceva solo quello: “Prova a eseguire il rovescio saltando sulla palla e colpendola in anticipo e tirerai oltre gli spalti del campo” concludevano i tecnici degli anni Settanta/Ottanta. 
Quindi cosa faceva mai questo diavolo di un mancino americano? Eseguiva un tennis senza schema, imprevedibile, letteralmente “inventato” colpo dopo colpo e, particolare non secondario, senza avere mai avuto un preparatore atletico. Tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per volleare impugnando la racchetta come un cucchiaino.
americano parlava tanto. Troppo per i puristi. Lo svedese non parlava mai. Troppo poco per il resto del mondo. Erano perfetti, nella loro rivalità. Si completavano meravigliosamente. Il silenzio di Borg era quasi più assordante delle sceneggiate dell’altro. Tutto questo sul piano del gioco. Ma la vera rivoluzione, quella di McEnroe, venne dal suo comportamento, dalla sua attitudine a stupire. L’onda lunga dei suoi gestacci atterrì i benpensanti, ma affascinò pubblico e riviste scandalistiche. Attraverso McEnroe esplose una nouvelle vague tennistica che attendeva solo di essere scoperta. Per la prima volta l’immagine del tennista non fu più quella di un candido, etereo attore, ma una rock star. Il tennis si spostò verso un pubblico nuovo, bramoso non solo di diritti e rovesci ma anche di pettegolezzi, risse, musica a palla, occhi neri e spintoni ai fotografi. Di questo Mac ne era pienamente consapevole. E quello show faceva comodo anche all’altro, a Borg. La testa china, il corpo ingobbito su quel rovescio a due mani per il quale oggi dovrebbe chiedere i diritti di copyright, quelle sue rotazioni impresse alle ultime palline bianche che si spelacchiavano a ogni colpo, prima di uscire dal mercato. Solo Panatta, imprevedibile guascone come McEnroe, lo faceva impazzire. Gli altri dovettero mettersi tutti in riga, subire le sue lezioni di regolarità, la geometria pura di Björn. Rotazioni impensabili in precedenza: colpiva la palla nella parte superiore, allargò virtualmente il campo da tennis. L’avversario era costretto a retrocedere di quattro metri buoni per recuperare un rimbalzo mai visto prima. Sembra che stiamo descrivendo un colpo di Rafa Nadal, vero? Eppure il tutto avveniva alla fine degli anni Settanta.E allora, vi chiederete giustamente, perché ricordiamo maggiormente McEnroe? Non potrebbe essere altrimenti: Borg alla fine dei giochi anestetizzava gli spettatori, Mac - oltre alla grande creatività – regalava siparietti con epiteti passati alla storia (“You cannot be serious!”, “Pack it up!”, “You’re pits of the world”) contro gli arbitri e il pubblico stesso.


Borg - McEnroe in campo a Wimbledon nella finale del 1980



Come possono quindi, i tennisti di oggi così politicamente corretti, reggere il confronto con quelle sfide crudeli, estenuanti, gli odi viscerali, esagerati, folli. Come possono regalare quelle scariche di adrenalina? Oggi noi veneriamo Federer, amiamo Nadal, rispettiamo Djokovic. Ma con un tipo come McEnroe le emozioni salivano a un livello superiore. “Quando raggiungi la vetta da giovanissimo poi una parte di te cerca costantemente di rivivere quelle emozioni travolgenti. Questo è il motivo per cui molti atleti finiscono male. Non riescono più a trovare quell’euforia assoluta ed avvertono un terribile vuoto. La mia vita al contrario, è piena di cose positive, lo è sempre di più, ma per quanto sia fantastica, a volte è difficile dimenticare quelle vittorie esaltanti. In quei momenti devo ricordare a me stesso che non avevo nessuno con cui condividerle. E ripenso a quanto fredda e solitaria fosse la vetta della montagna. Non è stato solo il talento, è stata anche la mia determinazione a portarmi dove ero arrivato. Poi quella ferocia è svanita”. Ecco, McEnroe ha saputo dare delle parole al fuoco interiore.Borg no. È entrato nel tennis in punta di piedi, ne è uscito improvvisamente dalla porta posteriore. Solo attraverso la sua vita privata abbiamo poi appreso che non era l’Iceman che il campo ci mostrava. Nascondeva tumulti interni, fragilità psicologiche inimmaginabili. I suoi amori, Loredana Bertè, persino le fallimentari iniziative imprenditoriali ci hanno detto che non lo avevamo capito. Oggi Borg è un signore di bell’aspetto, affascinante. Lo sguardo addolcito, finalmente in pace con se stesso. Ma il suo addio prematuro al tennis, a soli 26 anni, è assolutamente colpa di John McEnroe.
 Non c’è bisogno di conferme, lo ha certificato Mac. “Quando vinsi il tie-break per 18-16 sentivo di aver vinto il match. Pensai che Borg si sarebbe demotivato. Ma la forza che lo animava era al di là della mia immaginazione”. Stiamo parlando della finale di Wimbledon 1980: vinse Borg, come il mondo sa. Quello che sfugge è la puntata successiva, gli US Open, con i due rivali di nuovo in finale: vinse John. “Quando a fine match ci stringemmo la mano vidi che era distrutto. Era come se per la prima volta si fosse veramente sentito sopraffatto da me”.
Quella sconfitta incrinò, irrimediabilmente, l’interno perfetto del meccanismo. In Bjorn Borg avvenne un cedimento. Lento, letale. Un’agonia che si concluse nell’unico luogo deputato che potesse offrire una nuova consacrazione: Wimbledon. Era il 1981.


Una  sfida    ricca  ed  emozionante    come si può notare   , sempre  tratto   da repubblica  ,  del resoconto  dei loro  confronti   e dele loro  carriere  


TUTTI I LORO CONFRONTI

14 scontri diretti, 7 vittorie ciascuno












Si comincia con una vittoria di McEnroe a casa Borg, Stoccolma 1978 e si chiude con una vittoria di McEnroe a casa di Mac, 1981 


 



In tre anni non si sono mai incrociati sulla terra rossa; a Wimbledon, sull'erba, è pareggio: 1-1 (1980 Borg, 1981 McEnroe) sulle superfici dure, all'aperto, meglio McEnroe: 2-1 e l'americano ha avuto anche la meglio al chiuso non su cemento: 3-1 ma Borg pareggia i contri stravincendo i confronti al chiuso, su superfici dure: 4-1 



 



Nelle sfide Slam vince McEnroe però: due volte agli US Open (1980 e 81) una volta a Wimbledon (1981) Borg ha vinto il match dell'80

Borg

Nome: Björn Rune Borg

Nato: Stoccolma, 6 giugno 1956
Nazionalità: Svezia
Altezza: 180 cm
Peso: 72 kg




Ha vinto 11 titoli del Grande Slam:
sei al Roland Garros e cinque consecutivi a Wimbledon.



È stato numero uno del mondo nella classifica ATP per
109 settimane dal 23 agosto 1977 al 2 agosto 1981



In percentuale ha vinto l’82.74% degli incontri disputati, e il 70% delle sfide contro i primi dieci della classifica



Si è ritirato a 26 anni
McNroe

Nome: John Patrick McEnroe, Jr.

Nato: Wiesbaden, 16 febbraio 1959
Nazionalità: Stati Uniti
Altezza: 180 cm
Peso: 75 kg




7 titoli del Grande Slam in singolare:
4 US Open e 3 Wimbledon,
9 in doppio e 1 in doppio misto.



È stato numero 1 del mondo
per quattro anni di seguito dal 1981 al 1984.



Ha terminato la carriera con
77 vittorie nei tornei di singolare e 72 in quelli di doppio



McEnroe ha vinto per
cinque volte la Coppa Davis (nel 1978, 1979, 1981, 1982 e 1992)



Non ha mai giocato la finale degli Australian Open













1.12.15

Renée Richards, il primo atleta a cambiare sesso e la prima a lottare per il diritto di giocare

colonna  sonora

  • Portishead - Glory Box 
  • Enrico Ruggeri - Trans 
  • Fabrizio de Andrè - Princesa 
  • The Smiths - The boy with the thorn in his side
  • Garbage - Beautiful Garbage - Cherry Lips
  •  The Velvet Underground«Lady Godiva's Operation»
  • e  le  sei canzoni contro l'omofobia  citate  ed  analizzate  in questo mio precedente  post  
fonte repubblica del 30\11\2015



Ha vissuto metà della sua vita da uomo e l'altra metà come donna. E oggi, a 81 anni, dice di "non avere rimpianti". Ricorda la battaglia per potersi iscrivere all'Us Open nel '77 ("Fu la Corte suprema a darmi ragione") diventando, suo malgrado, "bandiera di un mondo che voleva dignità". Tra pregiudizi di istituzioni sportive e colleghe("In fondo avevano solo paura di perdere il loro guadagno") e pochi episodi di solidarietà. "Ma non volevo essere la pioniera"


di EMANUELA AUDISIO



NEW YORK - TRANSAMERICA 
ha 81 anni. Quaranta vissuti da uomo, l'altra metà da donna. Non passa inosservata: per l'altezza e l'andatura. Un metro e novanta, 47 di piede, mani giganti. È stata la prima nello sport ad attraversare quel confine, con la racchetta in mano. A giocare con le protagoniste di un'epoca: doppio con Billie Jean King, scambi con Martina Navratilova, con cui da coach ha condiviso anche il Grand Slam Career.
E a vincere in tribunale per il suo diritto di partecipare ai tornei: dal 1977 al 1981. La dottoressa Renée Richards, specialista in occhi, attira sguardi nel suo studio a Manhattan.
Fosse ancora il dottore Richard Raskind, i bambini non griderebbero: "Mamma, quant'è alta". Chi ha visto la serie tv Transparent capirà. Renée porta scarpe basse, pantaloni neri, maglione a dolce vita morbido, orecchini, Rolex d'oro al polso. "Me lo ha regalato Martina Navratilova, dopo un allenamento".

Renée, lei nel 1975 cambiò sesso.

"Sì, ma senza andarlo a dire in tv. Tenni tutto segreto. Mi operai a New York, tre ore in sala operatoria, e all'uscita avevo l'impressione che mi avessero pugnalato in mezzo alle gambe. Per 48 ore fu tutto molto insopportabile. Quando lasciai l'ospedale ero sola: senza gruppo di sostegno, senza appoggio psicologico. Avevo già iniziato una cura ormonale a base di estrogeni che in tre anni mi aveva eliminato la barba. Feci altre due operazioni per aumentare il seno. Ero sposato, divorziato, avevo Nick, un figlio di tre anni. Avevo studiato a Yale, ero stato in Marina, giocavo a tennis piuttosto bene. Ma decisi di scomparire, di vivere la mia nuova identità lontano dai posti dov'ero nato e dove ero Richard. Così andai in California pronta a ricominciare un'altra vita ".

Problemi in famiglia?

"Non posso dire di no. Mio padre, ortopedico, quando andavo da lui vestito da donna, mi ignorava. Mia madre, psichiatra, una volta ad Halloween mi vestì da bambina e gli altri genitori le chiesero perché non fossi mascherata. Sono cresciuta nel Queens, mi piacevano le ragazze e le auto. Ma al college già mi depilavo le gambe. E a mio figlio fino a quando ha compiuto otto anni non ho detto niente, davanti a lui mi presentavo con abiti maschili. Per Nick ero e sono papà".

Ma in un torneo notarono il suo servizio.

"Mi ha fregato la passione per il tennis. Ho continuato a giocare con il mio nuovo nome. Ma a La Jolla, un giornalista s'insospettì per come battevo, un po' troppo da uomo, io tra l'altro sono mancina, e iniziò a fare ricerche. Scoprirono chi ero, montarono le polemiche, ero un'immorale, dovevo scusarmi. Di cosa? Volevo solo un po' di anonimato. Essere Renée, rinata appunto, quel nome lo avevo scelto anni prima in un soggiorno a Parigi dove ero stata tentata da un'operazione a Casablanca dal dottor Burou. Mi presentai in Marocco con quattromila dollari in contanti, ma scappai quando vidi le condizioni igieniche della clinica ".

E poi come andò?

"Andò che se anche mi fossi ritirata, avrei fatto scandalo ovunque. E allora pensai che forse valeva la pena battersi contro i pregiudizi, contro una United State Tennis Association che rifiutava la mia iscrizione all'Us Open. Che diritto avevano di escludermi? Portai la mia causa davanti alla Corte Suprema e vinsi, i medici testimoniarono la mia nuova identità. Avevo perso 20 chili e il 30 per cento della mia massa muscolare. A 40 anni giocavo contro le ragazzine di venti, a quali Evert e Austin potevo fare paura? Ma per loro ormai ero un mostro: venuta a deturpare la loro femminilità e i loro incassi".

Molte avversarie rifiutavano di darle la mano.

"Sì. Qualcuna si ritirò per polemica. Il pubblico mi lanciava lattine. Dicevano: se non è una vera donna perché gioca con le donne? Non volevano che usassi il loro bagno e la loro doccia. Ma perché c'è sempre questo problema della toilette? Portavano i cartelli: I'm a real woman. Mi disprezzavano: meglio un uomo intatto che una trans, donna imperfetta. Soprattutto avevano paura di perdere il guadagno, credevano che un giorno noi trans avremmo sbaragliato la concorrenza, fatto a pezzi tutte loro, che poverine avrebbero vinto solo spiccioli. Io che volevo stare in silenzio, mi ritrovai bandiera di un mondo che voleva dignità. Come oculista guadagnavo 100 mila dollari l'anno, secondo le mie colleghe mi ero fatta tagliare il pene per vincere a tennis?".

E così nel 1977 giocò l'Us Open.

"Persi al primo turno con Virginia Wade, ma nel doppio arrivai in finale, anche se contro Navratilova-Stove non ci fu niente da fare. E con Ilie Nastase nel 1979 raggiunsi la semifinale nel doppio misto. La mia miglior classifica è stata il numero 20. Fossi diventata trans a vent'anni sarebbe stata un'altra storia".

                                                                     Renée Richards (ap)

La legge disse sì, lo sport no.

"Esatto. Philippe Chatrier, presidente della Federazione Internazionale Tennis, mi proibì di giocare in Europa. Temeva la rivolta delle altre. Il vostro Martin Mulligan m'invitò al Foro Italico, ma per il divieto non se ne fece nulla. L'opposto di quello che capita oggi visto che il Cio ha aperto ai trans che hanno cambiato sesso da almeno due anni, mentre molti Paesi non riconoscono la loro nuova identità".

Da chi ebbe solidarietà?

"Dalla Navratilova, da Billie Jean King che cercò di calmare gli animi: ragazze, è una donna, quindi giocherà, fatevene una ragione. Da McEnroe, da Bjorn Borg che m'invitò da lui a mangiare polpette svedesi, solo che a tavola si sentivano degli schiocchi provenienti dagli armadi. Erano le corde delle sue racchette che saltavano perché lui le sottoponeva ad una pressione pazzesca. Lo sport è fatto di superiorità, anche fisica, dov'è l'ingiustizia? Prendete Serena Williams, ha più testosterone di qualche uomo".

E allora?

"Dovrebbe fare la boxe, salire sul ring, mette paura, avete visto i muscoli? È femmina, ma ha una forza dannata, usa e sfrutta questo suo vantaggio e fa bene. È meno donna di altre, ma anche più uomo di altri. Lo sport è diversità, è mettere a profitto le proprie caratteristiche, non vergognarsene ".

Com'è stato allenare Navratilova?

"Bello perché è un'atleta eccezionale. Ascolta, anche se non sembra, e non biso- gnava ripetere le cose due volte. Ma Martina è anche una persona fragile, generosa nel voler comprendere tutti. Con me è riuscita a battere Chris Evert e a vincere due Wimbledon. Quando sono stata in difficoltà mi ha saldato un debito di 400 mila dollari e quando in Giappone ha visto che guardavo, rapita, un oggetto elettronico che non potevo permettermi, me lo ha regalato. Sulla sua generosità non si discute, manteneva un gruppo immenso, amici e scrocconi, e pagava sempre lei".
Ma nel 1983 si è licenziata.
"Martina quando si innamora mette la persona amata al centro di tutto e a quel punto consigliarla è difficile. Ma al torneo di Parigi guardava sia me che Nancy Lieberman, sua fidanzata e preparatrice atletica, e andava in confusione. Così ho detto basta, senza rancori, tanto che mi ha voluta come sua presentatrice quando è entrata nella Hall of Fame del Tennis".

Sorpresa da Bruce Jenner, ex decathleta, diventato Caitlyn?

"Molto. Anche perché i giornali hanno scritto che l'avrebbe fatto su mio consiglio, ma non è vero. Io non capisco come si possa cambiare sesso sotto l'occhio delle telecamere. Quel coltello, o forse dovrei dire lama, che usa il chirurgo porta ad una realtà irreversibile. E anche dolorosa. Io volevo l'anonimato, oggi invece cercano pubblicità. C'è chi mi chiede: ci dica, lei che è stata una pioniera. Non lo sarei mai stata se la stampa mi avesse lasciata in pace. E la sera a letto, ci sono io, non la pioniera".

Rimpianti?

"Ci sono scelte personali che si fanno per sano egoismo, ma che coinvolgono anche gli altri. Mi sono allontanato per quattro anni da mio figlio, Nick, che in quel momento ha perso un padre: è una cicatrice che non sparisce. L'autorità paterna in gonna funziona meno. Per non parlare di certe scene, al supermercato, dove Nick mi chiama papà, papà, e la gente vede un omone in gonna e camicia che si avvicina a lui. Non è facile quando il tuo bimbo a nove anni ti chiede: papà hai i seni? Come non è stata facile la prima visita ginecologica dopo l'operazione, il dottore era molto più nervoso di me".

Non ha risposto.

"Non posso. Allora non avevo scelta. Ho sempre amato donne, tranne la parentesi di una relazione con due uomini. E ho provato a negare la mia parte di maschio, ma vivevo in una società che non mi avrebbe permesso di essere effeminata, senza farmi sentire diversa. E l'operazione l'ho fatta con una buona dosa di incoscienza, a volte è meglio così".

Richard è morto?

"No, vive in un'altra persona. Io da Renée non cucino, né faccio giardinaggio, adoro lo stesso Bach che adoravo quando ero Richard. Come Renée non ho mai amato uomini e come Richard ho amato donne. E ora che sono invecchiata dò ai vestiti molto meno importanza di una volta. Non odio Richard Raskind, è una parte di me, ho la sua stessa personalità. E mi dispiace per mia moglie,
per mio figlio, per la mancanza di privacy. Ai giovani quando c'è conflitto tra il proprio sentire psichico e la condizione anatomica bisognerebbe lasciare tempo per decidere, non forzarli, a volte anche le circostanze sono un obbligo".

Se si guarda allo specchio?

"Sono un facsimile di donna, non ho ovaie, né utero. Ma sto bene nella mia pelle. Richard era un bel tipo, però nel suo sguardo c'era tanta disperazione"

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