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17.12.23

stranezze si esalta e si fa passare come leggitima difesa un omicidio ma s'ignora un caso come quello di alex pompa che ha ucciso il padre violento per non essere ucciso

Leggendo      gli ultimi  casi di cronaca ed  il dibattito      che   n'è  scaturicato  , mi  viene   voglia     di mandare un abbraccio fortissimo ad Alex Pompa, il ragazzo di Collegno che è appena stato condannato in Appello a 6 anni e 2 mesi per aver ucciso il padre per difendere la madre dopo l’ennesima violenza domestica.
Senza entrare nella sentenza, in quanto  non sono   un avvocato  e non ha   grandi  competenze  in merito  , non riesco a togliermi dalla testa, che Alex quel giorno del 2020, con quelle coltellate disperate, abbia salvato la vita di sua madre e scongiurato la vittima di femminicidio numero 64 di quell’anno.
Abbiamo riempito paginate   cartacee e   non  di diritti delle donne e violenza di genere, spesso senza neanche sapere da che parte cominciare.
Abbiamo sentito spesso parlare a sproposito di legittima difesa, usata come arma di propaganda politica, mentre per Alex Pompa basterebbe ascoltare le parole del fratello e della mamma che probabilmente ha salvato.
"Alex deve essere assolto perché ci ha salvato la vita. Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia Cecchettin, la sentenza non può essere questa. A questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l'ennesima donna uccisa”.
Continuo a credere che Alex e la sua famiglia debbano e possano avere giustizia.Per  il momento c'è  solo   un ingiustizia all'italiana, adesso madre e fratello saranno indagati per falsa testimonianza. Non ho ancora sentito una nota voce gridare 'legittima difesa'.......che strano
Salvini e  company  difendono  solo i rambo  \ vigilantes della notte Luigi Pelucco
<< Quella stessa nota voce, che bercia di legittima difesa descrivendo l'operato di un aggredito che insegue i malviventi e li ammazza (una vera esecuzione, a vedere le immagini).  Alcuni  diranno  : <<   a me fa più piacere vedere 2 delinquenti in bara che un cittadino in galera >> . Ma   se il cittadino ammazza a sangue freddo un delinquente, non è più uno che legittimamente si difende, ma diventa un assassino 
  da  una  discussione  avuta  via   chat  


quindi meglio non fare niente e lasciare che la madre muoia e che il padre finisca in galera?

nel  caso del ragazzo, la cui condanna lascia molto perplessi, ma al gioielliere recentemente condannato per aver inseguito e ammazzato quelli che avevano cercato di rapinarlo.

eh no secondo il tuo ragionamento, come è stato condannato il gioielliere dovrebbe essere condannato anche il ragazzo, visto che fino a prova contraria il padre era disarmato, a differenza dei due delinquenti

il padre stava massacrando la madre, non era la prima volta ed anche con i figli era stato spesso violento. Quel giorno, secondo le testimonianze, avevano tutti paura di essere uccisi per come stava reagendo il padre. E  quindoi ha  ucciso  per  non essere  ucciso    Non lo ha inseguito fuori di casa e freddato sparandogli alla schiena.

quindi    omicidi  di  serie  a  e  di serie   b 

nessuno sta dicendo questo..se min capisci la differenza..non val la pena continuare  la  discussione  

23.10.23

diario di bordo n°18 anno I. nei più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica” . La storia di Alessandra Musarra, dal femminicidio per soffocamento all’ergastolo di Cristian Ioppolo .e Paolo Nori L’uomo che (non) morì due volte

due storie quelle , di questo n  del  diario  di  bordo,  che   nonostante la diversità unite da qiuesta  frase   : << Dobbiamo abituarci all’idea: ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica >> di Ernest Hemingway ( (Oak Park21 luglio 1899 – Ketchum2 luglio 1961 )

La  prima  presa  da  https://www.fanpage.it/attualita
smonta il mito  che  tutti  i  femminicidi    finiscano     con pene  irrisorie    e  con  assoluzioni     Essa  è


 La storia di Alessandra Musarra, dal femminicidio per soffocamento all’ergastolo di Cristian IoppoloAlessandra Musarra, 29 anni, viene uccisa la sera del 6 marzo 2019 nella sua casa di Messina dal fidanzato Cristian Ioppolo. Il 26enne, condannato in appello all’ergastolo, l’ha picchiata e soffocata.

A cura di Chiara Ammendola


                Alessandra Musarra (a sinistra) e il suo assassino Cristian Ioppolo (a destra)

La mattina del 7 marzo 2019 Alessandra Immacolata Musarra viene trovata morta nel suo appartamento al rione Santa Lucia sopra Contesse di Messina. A scoprire il cadavere è il padre preoccupato perché la figlia 29enne non risponde più al telefono. Alessandra è stata picchiata e poi soffocata dal suo fidanzato, Cristian Ioppolo, 26 anni, che viene arrestato poco dopo, non prima di aver cercato di sviare le indagini accusando l'ex compagno della vittima. Il 27 maggio 2022 la Corte d'Appello di Messina conferma per la condanna all'ergastolo.‍
Chi era Alessandra Immacolata Musarra, la giovane donna uccisa a Messina
Alessandra Immacolata Musarra ha 29 anni quando viene uccisa dal fidanzato Cristian. Aiuta la madre nel locale di Kebab alle spalle del Duomo di Messina ma da qualche tempo non lavorava più. Dopo un periodo difficile ha infatti incontrato Cristian al quale sembra rivolgere ogni sua attenzione. Con il fidanzato, di tre anni più giovane, ha però un rapporto burrascoso dovuto principalmente alle reazioni, spesso violente, sia fisicamente che verbalmente, da parte di Ioppolo. Convivono in un appartamento a Santa Lucia Sopra Contesse, frazione della città di Messina.



                           Alessandra Musarra (Facebook)

Chi è Cristian Ioppolo, l'ex fidanzato di Alessandra che la uccise per gelosia
Cristian Ioppolo, 26 anni, è originario di Messina. Inizia la sua storia d'amore con Alessandra un anno prima dell'omicidio: il loro rapporto però si incrina quasi subito, a causa della gelosia di quest'ultimo. Il 26enne è taciturno, non ha molti amici e trascorre le giornate da solo o in compagnia di Alessandra, è disoccupato ma non cerca un lavoro, ogni tanto aiuta la famiglia portando le pecore al pascolo. Le difficoltà economiche dei due influiscono negativamente nel loro rapporto.
Il problema principale però è che Cristian è geloso, lo è in maniera ossessiva nei confronti di Alessandra e spesso le sue reazioni sono piuttosto violente. Qualche volta intervengono pure intervenuti i carabinieri: nell'ultimo periodo in particolare il 26enne è ossessionato da un ex ragazzo della compagna col quale teme ci sia stato un riavvicinamento. Comportamenti ossessivi che esasperano Alessandra che decide così di mettere fine alla loro relazione.


                                   Alessandra Musarra e Cristiana Ioppolo (foto Facebook)

L'omicidio di Alessandra e il tentativo di depistare le indagini con un sms
Il femminicidio di Alessandra avviene la sera del 6 marzo 2019. I due sono a casa quando scoppia una lite, l'ennesima, probabilmente perché Cristian non accetta la fine della loro storia e accusa la ormai ex compagna di averlo lasciato per un altro. Il 26enne a un certo punto si scaglia contro Alessandra che aggredisce con calci e pugni, accanendosi sul viso, fino a metterle le mani alla gola per soffocarla, infine la uccide. I pm parlano, durante la requisitoria in tribunale, di una violenza inaudita.Il tempo passa. Sono le 2 di notte quando Cristian, con estrema lucidità, invia col telefono di Alessandra, un messaggio ai genitori ai quali dice di essere stata presa in ostaggio dall'ex fidanzato. Un modo per sviare le indagini, ma che non sortisce il suo effetto: il malcapitato viene interrogato risultando estraneo ai fatti. A quel punto gli inquirenti si concentrano proprio su Ioppolo che viene così arrestato.
Il ritrovamento del cadavere da parte del padre di Alessandra Immacolata Musarra
Il cadavere di Alessandra viene ritrovato la mattina del 7 marzo dal padre che preoccupato dopo aver ricevuto il messaggio dalla figlia, prova a contattarla. Non ricevendo risposta decide di raggiungere l'abitazione della vittima dove fa la macabra scoperta. Alessandra è a terra, ormai senza vita, col volto tumefatto.


               Cristian Ioppolo (foto Facebook)

Le indagini e l'autopsia sul cadavere
Inizialmente Cristian nega qualsiasi coinvolgimento nell'omicidio della fidanzata spiegando di non ricordare nulla di quella notte, se non l'inizio della colluttazione. La versione non convince gli inquirenti che vanno avanti con le proprie indagini. Secondo il giudice per le indagini preliminari che lo interroga dopo l'arresto la sua amnesia è soltanto una strategia.A chiarire ogni dubbio è l'autopsia sul corpo di Alessandra che, nel luglio 2019, stabilisce che la 29enne è stata strozzata, la morte è sopraggiunta "per asfissia meccanica violenta da strozzamento con segni anche di soffocazione, ed escludono altre dinamiche letifere". La ventinovenne inoltre presenta lesioni a due vertebre cervicali causate dal pestaggio.
Le dichiarazioni della sorella Chiara Musarra
Chiara, la sorella di Alessandra, alle porte del processo d'Appello, decide di rompere il silenzio e ricordare la 29enne puntando il dito contro la richiesta della difesa: “È impossibile dimenticare, ogni giorno è difficile. E poi, pare che questa storia non debba mai finire – le sue parole – pensavamo che almeno giustizia fosse fatta, invece l’ultima udienza ci ha lasciati spiazzati. E’ impossibile per noi pensare che Alessandra non possa avere giustizia, che a noi non venga concesso di trovare pace”, spiega.
La confessione del fidanzato Cristian IoppoloIntanto gli inquirenti continuano le indagini. Viene perquisita casa di Cristian Ioppolo, al rione Camaro, e lì, nel vano lavanderia, gli agenti trovano gli abiti sporchi di sangue. Nel mese di ottobre vengono chiuse le indagini e Ioppolo viene considerato l'unico responsabile del pestaggio che ha causato la morte di Alessandra: deve rispondere del reato di omicidio volontario aggravato dalla relazione affettiva e dalla stabile convivenza.‍‍
Il processo e la condanna all'ergastolo di Cristian Ioppolo
Il 28 gennaio 2020 Ioppolo viene rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Messina. Il 18 giugno 2021 viene condannato dalla Corte d'Assise di Messina alla pena dell'ergastolo, confermata il 27 maggio 2022 dalla Corte d'Appello che respinge così la riduzione della condanna a 24 anni.‍ Cristian Ioppolo è condannato anche al risarcimento dei familiari della vittima: 20mila a ciascuno dei due fratelli; 80mila a padre e madre.


La  seconda     tratta  da  Altre/Storie di Mario Calabresi

L’uomo che (non) morì due volte
Ognuno ha le sue sliding doors, momenti in cui il destino prende una direzione che cambia tutto. Per lo scrittore Paolo Nori questi momenti hanno coinciso con le sue due morti, ovviamente false. Vi racconto la sua storia e come l’ho scoperta

                                      di Mario Calabresi





Nelle nostre esistenze ci sono mille possibili biforcazioni, tantissime possibilità di prendere una strada piuttosto che un‘altra. Spesso siamo noi a scegliere da che parte andare, ma ci sono momenti in cui è la vita che sceglie, in cui accadono cose che non controlliamo e che mutano per sempre la nostra traiettoria. Più di vent’anni fa mi aveva colpito un film con Gwyneth Paltrow – si chiamava Sliding Doors - che raccontava come sarebbe potuta cambiare radicalmente la vita della protagonista a fronte di un piccolo dettaglio: riuscire a salire sulla metropolitana per tornare a casa o perderla perché una bambina si mette davanti alla porta. Mi ha sempre affascinato cercare di vedere e capire questi cambi di direzione, è un lavoro che ognuno può fare su sé stesso, ma non mi era mai capitato di incontrare una persona a cui fosse accaduto in modo tanto chiaro e spettacolare come allo scrittore Paolo Nori. E non una, ma ben due volte.

Lo scrittore Paolo Nori


Ma voglio partire dall’inizio, per restituirvi la storia così come l’ho conosciuta: ho incontrato per la prima volta Paolo Nori, che oltre a fare lo scrittore è traduttore dal russo, viaggiatore e professore universitario, poco più di un anno fa. Ci siamo incontrati perché mi voleva parlare di un possibile podcast tratto dal suo libro “Noi la farem vendetta” sulla strage di Reggio Emilia del luglio 1960, quando durante una manifestazione sindacale nel centro della città la polizia uccise cinque sindacalisti iscritti al PCI. Io, invece, avevo pensato che mi sarebbe molto piaciuto che lui facesse un podcast sulla letteratura russa, su Dostoevskij. Dopo aver discusso un po’ le due possibilità, abbiamo deciso che saremmo andati a mangiare.
Appena ci siamo seduti a un tavolino all’aperto, lui mi ha detto a bruciapelo: «Ma eri tu il direttore di Repubblica quando scrissero che io ero morto?». Sono rimasto di sasso e gli ho detto una frase del tipo: «In che senso che eri morto?». «Era il 2013 e una sera di pioggia venni investito da un motorino fuori da una pizzeria, picchiai la testa, fui portato in ospedale e rimasi alcuni giorni in coma. Si diffuse la notizia che io ero morto e voi la scriveste». Per prima cosa ho fatto i conti e gli ho detto che non avevo nessuna responsabilità perché nel 2013 ero alla Stampa, ma a quel punto la curiosità era tantissima e gli ho chiesto di raccontarmi tutto. E lui mentre guardavamo il menù ha aggiunto: «Quella era la seconda volta che mi hanno dato per morto, la prima era stata nel 1999, quando feci un incidente e rimasi intrappolato nella macchina che prese fuoco, una due cavalli grigia e nera. Una macchina bellissima con la quale ero andato a San Pietroburgo partendo da Basilica Nova, che è un paese in provincia di Parma. Ci avevo messo quattro giorni ed è stato il viaggio più bello della mia vita. Rimasi in ospedale per 77 giorni con ustioni su tutto il corpo e anche quella volta si diffuse la notizia che ero morto». Poi, vedendo il mio stupore, ridendo ha aggiunto: «Sono state le due volte in cui io sono stato più famoso nella mia vita». Come potete immaginare, era quella la storia che non mi potevo lasciar sfuggire.
“Due volte che sono morto” è il podcast di 6 puntate prodotto da Chora Media per RaiPlay Sound (potete ascoltarlo qui). Le prime 3 puntate sono disponibili anche su Spotify


Così, prima di chiedergli altre spiegazioni gli ho detto che Reggio Emilia e Dostoevskij potevano aspettare, che il podcast lo doveva fare sulle due volte che era morto. Siamo rimasti a tavola per due ore e poi lui ha lavorato per quasi un anno e ne è nata una serie potente e meravigliosa, un’indagine sulla propria vita. Perché Paolo, dei suoi due incidenti, ricordava pochissimo, così ha iniziato un viaggio alla ricerca dei protagonisti delle sue storie: i tre ragazzi che lo hanno salvato, tirandolo fuori dall’auto in fiamme, il medico che lo ha operato sette volte, il fratello che aveva dato la notizia alla madre, tutti gli amici che avevano letto che era morto. E poi ancora – quattordici anni dopo – i proprietari della pizzeria che avevano chiamato l’ambulanza, i barellieri, i giornalisti che lo piangevano, la bibliotecaria che quando lo rivide a Bologna andò a toccarlo perché pensava fosse un fantasma…
Un racconto corale che contiene il famoso bivio che cambia la vita: quella telefonata ricevuta quando ancora è in ospedale di una donna – Francesca - che ha bisogno di informazioni per andare in Russia e che al ritorno dal viaggio diventerà la sua compagna e la madre di sua figlia Irma. La loro storia finisce, ma poi riprende perché, quando si sveglia dal coma la seconda volta, trova lei accanto al suo letto.

Paolo Nori con sua figlia Irma


Quando abbiamo presentato il podcast, al cinema Anteo a Milano, Paolo mi ha presentato sua figlia Irma, che ha 19 anni, e insieme hanno cominciato a raccontarmi un sacco di altre cose, su quanto tutto quello che è successo sia stato determinante nelle loro vite. Ho pensato che questa storia la volevo raccontare anche io e così li ho intervistati insieme nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie. (lo potete ascoltare qui).
La prima cosa di cui abbiamo parlato con Irma, che studia Astronomia a Bologna, è che se non ci fossero stati Alessandro, Roberto e Amir, tre persone così coraggiose da buttarsi a turno nel fuoco per cercare di tirare fuori suo padre da quell’auto in fiamme, lei non ci sarebbe. E questa è la cosa che più l’ha colpita del racconto del padre.
Irma ricorda benissimo la seconda volta, quando Paolo è stato investito, come se il tempo si fosse fermato: «Avevo otto anni e quando abbiamo ricevuto la telefonata che diceva che era stato ricoverato in ospedale, io ero seduta per terra con il gomito appoggiato sul divano, stavo guardando la televisione e c'era ancora Pepe, il nostro gatto». La tennero a casa da scuola per una settimana perché i suoi compagni di classe le dicevano: «Abbiamo saputo che il tuo babbo è morto».
«Quando è uscito dall'ospedale lui e la mamma sono venuti a prendermi a scuola, io non lo sapevo e sono corsa ad abbracciarlo. E poi tutti i miei compagni di classe e la mia maestra hanno fatto lo stesso. Che bello!».
Quel secondo incidente, meno doloroso e con conseguenze fisiche meno importanti, è stato però quello che ha inciso di più, sia sul lavoro di Paolo che sulla sua vita privata: «Quando mi sono svegliato dal coma, la prima persona che ho visto è stata proprio Francesca. Se non ci fosse stato il primo incidente, probabilmente io e Francesca ci saremmo conosciuti lo stesso. Ma se non ci fosse stato il secondo probabilmente non saremmo tornati insieme, perché nell'incoscienza del risveglio le ho detto una cosa che ha riacceso la nostra relazione. Però non voglio dire cosa».
Sono tante le storie di persone che vengono date erroneamente per morte e che così scoprono cosa si pensa di loro. Successe allo scrittore americano Mark Twain che per smentire il necrologio diffuso dall’agenzia Associated Press scrisse un laconico telegramma: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata”.
Chiedo a Paolo cosa abbia capito dai commenti alle sue morti: «Quando sono tornato a casa, ci ho messo del tempo a smaltire tutte le mail che mi erano arrivate, messaggi mandati a un morto. Tutte cose belle, ma non credo che fosse quello che la gente pensava veramente di me, perché quando uno è morto diventa subito più simpatico. C’è stata un’ondata d’affetto che mi ha fatto molto piacere che però non ho preso come la verità».
Paolo è dotato di un grande senso dell’ironia, ma si capisce che queste esperienze di rinascita lo hanno cambiato in meglio, tanto che la sua chiusura è provocatoria e spiazzante: «Ti posso dire una cosa? Morire la seconda volta è stata proprio una bella esperienza che mi sento di consigliare a tutti».

29.9.23

amore e fedeltà al tempo d'internet e dei social

ricolleganomi   allo scritto per  questro blog  di  margherita  todesco   ecco  dai social  (  a  volte  capita  di trovarci qualcosa  d'interessante   )   uno  spunto  che  lo  conferma  e  lo approfondisce  . 

  dalla  comunity  facebook 

  Utopia. 22 h

 
Mia moglie dormiva accanto a me e improvvisamente ho ricevuto una notifica di Facebook, una donna mi ha chiesto di aggiungerla.
Così l'ho aggiunta. Ho accettato la sua richiesta di amicizia e le ho inviato un messaggio chiedendole: "Ci conosciamo?.
Lei ha risposto: "Ho sentito che ti sei sposato ma ti amo ancora".
Era un'amica del passato. Era molto bella nella foto. Ho chiuso la chat e ho guardato mia moglie, dormiva profondamente dopo la sua faticosa giornata di lavoro.
Guardandola, stavo pensando a come si sente così al sicuro da poter dormire così comodamente in una casa nuova di zecca con me. È lontana dalla casa dei suoi genitori, dove ha trascorso 24 anni circondata dalla sua famiglia.
Quando era sconvolta o triste, sua madre era lì per farla piangere tra le sue braccia. Sua sorella o suo fratello raccontavano barzellette e la facevano ridere. Suo padre tornava a casa e le portava tutto ciò che le piaceva, e anche così si fidava molto di me. Mi sono venuti in mente tutti questi pensieri, quindi ho preso il telefono e ho premuto "Blocca".
Mi voltai verso di lei e mi addormentai accanto a lei. Sono un uomo, non un bambino. Ho promesso di esserle fedele e lo farò. Combatterò per sempre per essere un uomo che non tradisce sua moglie e non distrugge una famiglia.

28.10.18

L'incontro. Agnese e Adriana, la forza di uscire dalla prigione del rancore


Risultati immagini per a volte il passato viene a cercarti per  chiederti  di  fare  pace
L'articolo    che  segue    mi ha  riportato  alla  mente  ,  non so  se  comprarlo  o  meno ho  la stanza  troppo piena  di  libri e di  cd   devo decidermi a  fare  un ripulisti  e  regalare  a mercatini di riciclo   o  lotterie   delle feste   qualcosa  ,   questo   fumetto  ( foto  a  destra  )    sfogliato da poco in libreria e la  sua  frase   sula  quarta  di copertina  : <<   A  volte  il passato   viene  a  cercarti  per  chiederti di  fare  pace  . E se  l  ignori  t'intrappolerà  per sempre  >> . La  " storia    che  vi apperestate   a  leggere  presa dal sito https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/  trovata     tramite l'interessnte   sito in particolare     la sezione https://www.alganews.it/category/storie/   trovato   sulla bacheca  (  non riesco  a   smetterla  di   condividere   e  di leggerla nonostante  abbiamo litigato   tanto  da   farmi dire  : << [...]  Inutile richiedere l'amicizia. Ormai per me non esisti più >> ma  vent'anni di  frequentazioni    \  scambi ,  divergenze, ecc  cos e che    mica    si rimuovono  o scompaiono  dall'oggi a  domani  )  facebook   di una  delle prime  se  non addirrittura   la prima compagna di strada  Antonella  Serafini  di  www.censurati.it 






Maurizio Patriciellosabato 20 ottobre 2018


La storia fa da sfondo. Anche il nome di Aldo Moro non viene quasi mai pronunciato. Adriana lo chiama il «papà di Agnese». A sua volta Agnese ricorda solo i nomi degli uomini della scorta trucidati in via Fani il 16 marzo del 1978. Hanno accettato di venire, queste due signore, a Sant'Agata dei Goti, nel Beneventano, per renderci partecipi del travaglio dei loro animi. Siedono come due vecchie amiche, una accanto all'altra, sull'altare della cattedrale gremita e silenziosa. Gli occhi di tutti sono fissi su di loro. Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Br, e Adriana Faranda, una dei brigatisti responsabili della sua morte, hanno trovato il coraggio di scavare dentro se stesse per estirpare l'antico rancore che le accomunava e le divideva. Hanno spalancato le porte della prigione del passato; hanno saputo trasformare il dolore che rischiava di agghiacciarle in un trampolino di lancio verso il futuro.
«Sento la necessità di portarvi nel mio mondo interiore» esordisce Agnese. È questa la chiave di lettura dell'incontro, di questo vuol parlarci, questo siamo venuti a sentire. Non è stato un convegno sul "caso Moro" quello che si è tenuto nei giorni scorsi a Sant'Agata, ma un momento delicatissimo in cui sua figlia racconta come sia stato possibile incontrare, dialogare, sforzarsi di capire gli assassini di suo padre. All'inizio c'è stato il rischio che «l'odio, la rabbia, la delusione, i sensi di colpa» prendessero il sopravvento. Un «incoercibile desiderio di giustizia» le ribolliva dentro, ma sapeva che il dolore dell'altro non avrebbe mai potuto lenire il suo. La «dittatura del passato» doveva cessare. A tutti i costi.
Intuisce che c'è da fare un percorso interiore per ritrovare la pace, la serenità, la libertà. Per ritornare a vivere. Per farlo, però, deve saper dire "basta". Con fermezza, convinzione. Il Signore mette sul suo cammino padre Guido, gesuita, e un gruppo di sorelle e fratelli che l'aiutano a elaborare il lutto e a fare piccoli passi per una possibile riconciliazione con chi le ha fatto male. Lentamente, si concretizza la possibilità di incontrare alcuni responsabili della morte di Moro. Non è facile. Non tutti capirebbero. Agnese accetta. E si accorge che quelle persone da sempre ritenute "mostruose" hanno conservato la loro umanità. Una scoperta che vale quanto una rivelazione. Durante un ritiro, in Piemonte, dalla loro bocca sente che hanno sofferto e soffrono per averle ucciso il padre. Rimane sbigottita. Com'è possibile?, si chiede. Quel dolore è suo, appartiene a lei, alla sua famiglia. Che c'entrano loro? Vittime e carnefici accomunati nella stessa sofferenza? Non stiamo esagerando?
Questo fatto "disarmante" la sconvolge. E capisce, Agnese, che per andare incontro all'altro deve spogliarsi di ogni pregiudizio. Senza opporre resistenza. Deve smettere di vedere in lui il nemico, l'assassino, e riprendere a considerarlo un uomo. Un uomo che ha sbagliato, ha ucciso, ha fatto soffrire, ha sofferto, ma che non ha mai smesso di avere un nome, un volto, una storia. Un uomo che puoi finalmente guardare negli occhi, chiedendogli: "Come hai potuto?" Allora i ghiacciai si sciolgono, i cuori intrappolati nel dolore si allargano. Si riprende a respirare aria di montagna. E tu capisci che il male non ha avuto l'ultima parola. Non ha vinto. Finalmente giustizia è fatta.
In cattedrale non vola una mosca. Gli sguardi sono bassi. Questo parlare è vangelo "sine glossa". Agnese è pacata, serena, non alza mai la voce, ma le sue parole, come lame affilate, penetrano negli animi commossi.
È la volta di Adriana. Esile, il volto lungo, solcato dalle rughe, anche lei, senza saperlo, andava sperimentando un travaglio interiore simile a quello di Agnese. È vero, si era dissociata dalle Br, aveva pagato il suo debito con la giustizia, aveva sofferto, ma sentiva che non poteva bastare. Per fare pace con se stessa, col mondo, con gli uomini, con il futuro, occorreva ricostruire le «relazioni spezzate». Anche lei sente forte il bisogno di uscire dalla corazza del passato che rischia di soffocarla. Per farlo, sente forte il bisogno di poter incontrare le persone offese. «Io oggi mi sento responsabile di Agnese», dice, sfiorandole delicatamente la mano. Un gesto che non passa inosservato. Una carezza che vale più di mille discorsi.
Il suo intento non è quello di chiedere perdono, atteggiarsi a vittima, o pretendere di essere compresa. È molto di più. È il desiderio di caricarsi sulle spalle il fratello incappato nei briganti, portarlo in salvo, rimanergli accanto, soffrire insieme, e insieme tentare di guarire. Riconoscendo che quel brigante sei stato tu. «Certo, ci sono cose che non possono essere riparate», ammette. Indietro non si torna, è vero, ma davanti si deve guardare. Il male fatto come un macigno rimane, ma possiamo disinnescarne la carica esplosiva perché smetta di generare divisione, sofferenza, morte. «La violenza, sia quando la si riceve sia quando la si esercita, provoca traumi profondi. L'uccisione del papà di Agnese per me è stata atroce», sussurra, socchiudendo gli occhi. Dal quel giorno sono passati quarant'anni...
Adriana Faranda chiude il suo intervento con parole che tutti vorremmo sentirci dire dal Giudice supremo nel giorno del giudizio: «Ho sempre visto le mani di Agnese tese, dopo che mi avevano spaccato in due col suo dolore». Confessione. Redenzione. Risurrezione. «A volte – aggiunge Agnese – il male è tremendo per la sua stupidità, per la sua piccolezza. Io sono sicura che Gesù quello che mi dice me lo dice per rendermi felice. E se mi dice: "ama il tuo nemico"... Ci ho pensato trent'anni». E tace.
Le parole possono prendere congedo. Silenzio. Riconoscenza. Preghiera. Lo Spirito aleggia. Abbiamo capito. Abbiamo imparato la lezione. Un applauso liberante, lunghissimo, esplode in chiesa. Agnese Moro e Adriana Faranda, due donne che hanno saputo mettere a tacere l'odio e imboccare la strada faticosa e bella della riconciliazione. La sola ricca di senso e di futuro.




infatti  riaffermando   quello  che  dice   quel  fumetto citato all'indio del post  e  quest'articolo   concludo  con questa  slide   che trovate   sotto  
Risultati immagini per a volte il passato viene a cercarti 
allla  prossima  

17.2.18

Musicista fugge dalla Siria per amore e per la lirica e si rifugia a Mantova Il regime di Assad lo bolla come dissidente. E lui si rifugia a Mantova con la fidanzata Marta


Musicista fugge dalla Siria per amore e per la lirica e si rifugia a Mantova Il regime di Assad lo bolla come dissidente. E lui si rifugia a Mantova con la fidanzata Marta: "Se torno mi arrestano solo perché ho tolto una foto del presidente dal mio ufficio e non gli metto mi piace su Fb"


 di Roberto Bo
Musicista fugge dalla Siria per amore e si rifugia a Mantova
Il regime di Assad lo bolla come dissidente. E lui si rifugia a Mantova con la fidanzata Marta: "Se torno mi arrestano solo perché ho tolto una foto del presidente dal mio ufficio e non gli metto mi piace su Fb". L'articolo

MANTOVA. Da Damasco a Mantova per amore di Marta, insegnante di danza al liceo Isabella d’Este, e della musica lirica. Nahel Al Halabi, 41 anni, musicista compositore e direttore d’orchestra, è stato per cinque anni alla guida della Syrian Philharmonic Orchestra e per un anno direttore dei conservatori di musica siriani, prestigiosi incarichi che ha ricoperto fino a quando il regime del presidente Assad non gli ha fatto terra bruciata attorno costringendolo ad abbandonare il suo paese d’origine.
Oggi il maestro è considerato un dissidente, un oppositore del governo e in caso di rientro in Siria sarebbe immediatamente arrestato. Ottenuto lo status di rifugiato politico, quattro mesi fa ha raggiunto Mantova, dove ha trovato casa insieme alla fidanzata Marta Cicu, insegnante al liceo musicale e coreutico.

Il musicista insieme alla fidanzata Marta Cicu


«Non torno in Siria e non vedo mio padre e mia madre dal 2012 – racconta Nahel – anche se ci sentiamo praticamente tutti i giorni. E tutto perché sono stato inserito nella lista dei dissidenti. Non ho mai fatto politica, ma due episodi sono bastati per farmi finire nell’elenco dei cattivi».
Durante un restyling del suo ufficio un giorno aveva tolto quadri e poster dal muro, compreso il ritratto di Assad. Non lo avesse mai fatto: il giorno dopo è stato contattato dal ministero e dai servizi segreti siriani per motivare “l’affronto” al presidente. «Ma la goccia – racconta il musicista – è stato il minuto di silenzio che avevo chiesto per tutte le vittime della Siria durante un concerto in cui suonavamo il brano “Crisantemi” di Puccini. Anche lì poco dopo sono stato convocato per fornire spiegazioni. Non avevo fatto distinzioni, per me era un modo per omaggiare e ricordare tutti i caduti della Siria, ma non mi hanno creduto».Nel luglio del 2012, dopo aver ricevuto altri chiari segnali che a Damasco non era più ben visto dal regime e che era tenuto costantemente sotto osservazione, Nahel ha fatto le valigie, ha salutato con un bacio la madre, insegnante, e il padre, critico letterario radiofonico ed è partito per una vacanza in Italia. E in Siria non è più tornato.

Il direttore d'orchestra ha fondato...
Il direttore d'orchestra ha fondato la Syrian Philharmonic Orchestra


Nell’estate di quell’anno in Sicilia conosce Marta, originaria di Sassari, e Cupido fa centro nel loro cuore. Insieme trascorrono alcuni anni a Genova, dove entrambi trovano un’occupazione: lei come insegnante, lui come musicista. A Genova Nahel era già stato fin dal 2006, dove aveva conseguito la laurea specialistica in tromba all’istituto Niccolò Paganini e vinto una borsa di studio che gli aveva dato la possibilità di scegliere tra Germania, Giappone e Italia. «Non ci ho pensato su un attimo» racconta. E davanti alla commissione che gli chiede dove volesse andare risponde «fin troppo facile». «Germania?» gli domandano. «No – replica lui – voglio andare in Italia, nella patria dell’arte e della musica».
Nel 2007, quando ancora in Siria si può muovere liberamente e non è osservato speciale del governo, Nahel fonda la Syrian Philarmonic Orchestra (una delle due orchestre di Damasco, l’altra è quella nazionale) e insieme ad altri gruppi come la Euro-Mediterranean, la Conca d’Oro, la Festival Puccini condivide il podio dirigendo un ricco repertorio sinfonico e alcune opere come Tosca, Madama Butterfly e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini e la Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni in prestigiosi teatri internazionali come il Damascus Opera House, il Giuseppe Verdi di Pisa e il teatro Princesse Grace nel Principato di Monaco.

Nahel Al Halabi riceve un premio dopo...
Nahel Al Halabi riceve un premio dopo un'opera


Le sue composizioni musicali vengono inoltre suonate al Goldoni di Livorno, al Dante Alighieri di Ravenna e al Carlo Felice di Genova. La carriera del musicista siriano, che ha iniziato a suonare la tromba a nove anni e a sedici aveva già formato dei gruppi musicali da camera, è alle stelle, tanto che ottiene anche una cattedra per insegnare al conservatorio di Damasco. Ma dopo il 2010 qualcosa cambia, non per colpa sua. Prima i due episodi del ritratto di Assad tolto dal muro e il minuto di silenzio chiesto in un teatro, poi tutta una serie di altri piccoli segnali: «Ad esempio sul nostro profilo di Facebook potevamo avere solo amici pro Assad e ogni volta che veniva postato qualcosa relativo al regime e alla sua politica bisognava mettere sempre “mi piace”. Chi non lo faceva era considerato un dissidente».
Nel 2012 alcuni amici lo mettono in guardia: «Mi hanno telefonato per dirmi che mi avevano tolto l’incarico al conservatorio e che ormai ero considerato un oppositore. A quel punto ho fatto le valigie». Oggi Nahel Al Halabi è un uomo felice e sottolinea che a Mantova ha trovato la dimensione ideale per tornare a fare il musicista come un tempo. «Ha già avuto alcuni contatti con la presidente del Conservatorio Campiani, Francesca Zaltieri e con la dirigente del liceo Isabella d’Este, persone eccezionali che hanno ascoltato le mie proposte. Spero tanto che si possa fare qualcosa insieme». Il musicista ha già pronto anche un suo progetto: una ricerca del patrimonio musicale antico e contemporaneo con riproposizione attraverso tecnologie innovative. «È una cosa del tutto nuova, che consente di mettere in relazione culture diverse in diverse parti del mondo e che oltre ad avere implicazioni artistiche potrà sfociare anche in rapporti economici e commerciali».
E mentre aspetta di ricevere qualche risposta, Nahel pensa anche al matrimonio con Marta: la data non è ancora stata fissata perché, guarda caso, dalla Siria non arriva il nulla osta per le nozze. È un normale documento anagrafico, ma per uno considerato nemico di Assad può diventare difficile anche solo ottenere un pezzo di carta che certifica che non sei sposato con un’altra donna.

14.6.16

i libri e la cultura ti fanno vivere meglio i caso di Sebastiano Prino una dela banda dela strage di chilivani ed altre storie ( adotta i figli dell'amica morta di cancro , una donna che fa il barbiere )

A miei lettori, comprendendo  anche qulli di googleplus,che mi  chiedevano    che fine avessero fatto i miei post   con il tag le storie  . eccoli accontentati   .

 La  prima storia    è  quella  del percorso   di riabilitazione  (  il carcere   ti cambia    sempre  che  lo voglia  o meno   )  carceraria   che   sta  affrontando  Sebastiano Prino     uno degli appartenti  alla banda    che   partecipo   alla strage di Pedesemene, più nota come strage di Chilivani


Ora non riuscendo a  copiare  questo articolo   dell'unione sarda del 13\6\20116  dal pdf  del quotidiano in questione  scaricato  tramite http://avxhome.in/newspapers  (   N.B  ricordatevi  di mettere  navigazione anonima   o di cambiare l'ip   visto  che dall'italia   non vi  si  può  più  acedere  direttamente  )  lo riprongo  qui tramite   il cattura  schermata  di  windos





la  seconda  è la storia dell'amicizia  fra  due    donne   dove Stephanie  adotta  i  sei figli  dell'amica Bethie  morta  di  cancro



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...