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7.1.25

diario di bordo n 97 anno III , I sinti salvano il dialetto piemontese: «Ormai lo parlano solo loro» ., Lascia il lavoro in banca e fonda un ipermercato solidale, la scelta di Edoardo ., Rosa Maria Tropeano e Salvatore Picariello, dopo un percorso pieno di difficoltà, diventano genitori della piccola Silvia, nata ad Avellino


quelli che noi chiamiamo \ etichettiamo come zingari un termine generico e spesso considerato ed usati in modo offensivo, usato per descrivere vari gruppi nomadi, inclusi i Sinti e i Rom ,  sono  talmente  italiani    che    da    quel  ho  letto   cazzeggiando  su  msn.it


I sinti salvano il dialetto piemontese: «Ormai lo parlano solo loro»



Sono i sinti oggi a garantire la trasmissione del dialetto piemontese. Una minoranza etnica presente in queste terre da 400 anni, che ne vanta l’uso esclusivamente orale. Ma, se è impossibile un censimento numerico e non essendo codificata come minoranza, la comunità non può accedere a fondi regionali per la sua salvaguardia anche se ancora oggi tutti i sinti parlano piemontese. Altre minoranze, invece, pur codificate e finanziate stanno diminuendo vertiginosamente.Lo stesso dialetto piemontese, classificato come gallo-italico, non è considerato una minoranza linguistica e non può avere accesso ai fondi specifici per la protezione di tali lingue. Secondo uno studio di Regis del 2012, circa 700 mila persone parlano il piemontese principalmente in aree rurali come il Cuneese, il Biellese e il Pinerolese. Difficile il passaggio intergenerazionale, ma in alcune zone agricole permane l’uso del dialetto anche tra i banchi di scuola. «Vi sono studenti in queste aree – spiega Nicola Duberti, docente di linguistica del Dipartimento di studi umanistici di Unito – che parlano il piemontese come prima lingua, l’italiano viene dopo. La competenza passiva, ovvero la capacità di comprendere senza parlare fluentemente, coinvolge fino a un milione di persone, ma a Torino e nelle aree urbane è rara». Il piemontese sopravvive nei mercati, in alcuni cartelli commerciali e in iniziative culturali come la traduzione di opere in dialetto. Nel 2025 uscirà una versione di Topolino in piemontese, un tentativo di avvicinare le nuove generazioni alla lingua.Il Piemonte ospita poi tre lingue minoritarie riconosciute dalla Legge 482/1999: il francoprovenzale, l’occitano e il walser. Il francoprovenzale è parlato da circa 11.500 persone nelle valli Susa, Sangone, Lanzo e Locana è simile ai dialetti della Valle d’Aosta, ma meno vitalizzato. La sua trasmissione è in declino, limitata a eventi culturali e iniziative didattiche occasionali. L’occitano usato da circa 15-20.000 persone è diffuso nelle valli alpine del Torinese e del Cuneese, tra cui la Val Varaita e la Val Po. Pur essendo ancora parlato in contesti familiari, è considerato a rischio. Nelle aree di Mondovì, poi, si trovano varietà uniche come il Kjé, con circa 300 parlanti. Infine il walser conta circa 100 parlanti attivi, usato all’interno della comunità di origini germanofone conserva una lingua unica nei villaggi di Alagna Valsesia e Macugnaga. Nonostante la sua fragilità demografica, il walser rimane un simbolo di resilienza culturale.
Un caso peculiare è rappresentato dai Sinti, che parlano una varietà di piemontese con influenze della lingua Romanì. Questa comunità, storicamente insediata in aree come San Damiano d’Asti e Villafalletto, è paradossalmente uno dei gruppi con la maggiore vitalità linguistica in piemontese, grazie alla trasmissione orale tra generazioni. Se tra il piemontese e le minoranze ci sono molte assonanze, perché le parole provengono dalla stessa radice latina, con il sinto ci si spinge lontano. La parola acqua (dal latino aquam), a titolo di esempio, in piemontese si dice eva, in occitano aigo, in francoprovenzale ewa, mentre in sinto si dice panin, mantenendo la parola di origine indiana.
Le minoranze linguistiche piemontesi vivono tra il rischio di estinzione e i tentativi di valorizzazione. La Legge 482 prevede finanziamenti per corsi e progetti scolastici, ma l’impegno istituzionale è spesso limitato. Inoltre questa legge che ha promesso finanziamenti, ha indotto alcuni comuni ad auto-dichiararsi parte di minoranze linguistiche senza solide basi storiche, confondendo ulteriormente il panorama linguistico. Iniziative come l’Espaci Occitan e la Chambra d’Òc offrono spazi per la promozione culturale, mentre esperienze innovative, come i supermercati con cartelli in piemontese (ad esempio, M**c Bun), tentano di inserire la lingua nel contesto contemporaneo.
Senza un rilancio deciso, il rischio di perdere questi patrimoni linguistici è concreto. Studi recenti, come quello di Riccardo Regis e Matteo Rivoira «Dialetti d’Italia: Piemonte e Valle d’Aosta» (Carrocci 2023), evidenziano la necessità di un intervento mirato per sostenere la trasmissione delle lingue minoritarie. Solo attraverso una collaborazione tra istituzioni, scuole e comunità locali sarà possibile garantire un futuro a questa straordinaria diversità culturale.
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Lascia il lavoro in banca e fonda un ipermercato solidale, la scelta di Edoardo: «Non diamo soldi, ma aiuti concreti»

A Mestre, dietro le porte del Centro di solidarietà cristiana Papa Francesco, ogni giorno accadono storie che sembrano uscire da un romanzo. Tra queste, Edoardo Rivola ne ricorda una in particolare: «Una ragazza è tornata per raccontarmi che il cappotto preso qui aveva commosso sua madre: era quello del
nonno, riconosciuto dall’etichetta». Edoardo, ex direttore di banca, tre anni fa ha lasciato la carriera per dedicarsi anima e corpo a chi è in difficoltà, fondando un vero e proprio ipermercato solidale. Con oltre 3.000 metri quadri di esposizione e 600 di magazzino, il centro è diventato un punto di riferimento unico in Italia. «Ogni giorno mille persone vengono a prendere qualcosa», racconta al Corriere della Sera, mentre racconta le sue giornate interminabili, che iniziano alle 8 del mattino e finiscono solo la sera.
Un segno del destino
Il lavoro, dice, è stancante ma lo riempie di soddisfazione: «Vengo da una famiglia povera, ma unita. Ho imparato che con impegno e determinazione puoi raggiungere qualsiasi obiettivo». Non è solo la mole di lavoro che impressiona, ma il metodo: il centro funziona come un’azienda, ma ogni euro guadagnato viene reinvestito per aiutare i bisognosi. Il progetto è nato grazie alla sua intuizione e a un segno del destino. «Tre anni fa mi sono rotto la tibia saltando un ostacolo. Era un segno dall’alto. Durante quei mesi, con le stampelle, passavo le giornate al centro, capendo cosa serviva per farlo crescere».
Oggi il centro coinvolge 150 volontari: persone fragili, madri single, ex detenuti e ragazzi con disabilità che trovano qui una seconda opportunità. Le loro storie sono spesso toccanti, come quella di un giovane coinvolto in un programma di reintegrazione che ora è candidato per un’assunzione. Edoardo, che si definisce un uomo semplice, non nasconde il cambiamento che questo lavoro ha portato nella sua vita: «Quando uno dei ragazzi con sindrome di down mi abbraccia, mi trasmette una forza pazzesca. Sì, sono cambiato anche io».


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Rosa Maria Tropeano e Salvatore Picariello, dopo un percorso pieno di difficoltà, accolgono la piccola Silvia, nata ad Avellino


Un percorso lungo dieci anni di speranze e difficoltà
Una storia di resilienza e amore quella di Rosa Maria Tropeano, 47 anni, e Salvatore Picariello, 53 anni, residenti a Capriglia Irpina, in provincia di Avellino. La coppia ha coronato il sogno di diventare genitori il 28 dicembre scorso con la nascita della piccola Silvia al “Malzoni Research Hospital” di Avellino. La bambina, venuta al mondo con un peso di 2 2,36 kg, rappresenta il lieto fine di un viaggio complesso segnato da innumerevoli ostacoli.
La strada verso la genitorialità è stata lunga e difficile per Rosa Maria, impiegata, e Salvatore, autotrasportatore. Per oltre dieci anni hanno affrontato cinque aborti spontanei e un intervento di miomectomia laparoscopica. Nonostante un fallimento nel tentativo di procreazione medicalmente assistita (PMA), la coppia non ha mai smesso di sperare, affidandosi al ginecologo salernitano Raffaele Petta, esperto in casi di infertilità complessi. Contro ogni previsione, Rosa Maria ha concepito spontaneamente, ma anche questa gravidanza non è stata priva di complicazioni
Complicazioni superate grazie alla competenza medica
Durante la gravidanza, i medici hanno monitorato attentamente la salute di Rosa Maria, resa critica dalla presenza di miomi e dal rischio di parto prematuro. Alla 33esima settimana, il ricovero d’urgenza si è reso necessario per un improvviso raccorciamento del collo uterino. La paziente è stata sottoposta a terapia cortisonica per accelerare la maturazione polmonare della bambina.

Alla 34esima settimana, una rottura del sacco amniotico ha portato i medici a intervenire rapidamente con un parto cesareo. L’operazione è stata eseguita dal dottor Raffaele Picone, coadiuvato dal collega Antonio Ranieri, dall’ostetrica Anna Pepe e dall’anestesista Franco Lazzarini. Subito dopo la nascita, la piccola Silvia è stata affidata al dottor Angelo Izzo, responsabile della Terapia Intensiva Neonatale, che ne ha garantito le cure necessarie.

La gratitudine di una madre

“Si è realizzato il sogno della mia vita che sembrava irraggiungibile,” ha dichiarato emozionata Rosa Maria Tropeano, ringraziando il professor Carmine Malzoni, il dottor Petta, e tutto il personale sanitario del “Malzoni Research Hospital” per l’assistenza ricevuta. “Non avremmo mai potuto farcela senza il loro supporto e la loro professionalità.”

Con la nascita di Silvia, si conclude un cap

23.10.23

diario di bordo n°18 anno I. nei più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica” . La storia di Alessandra Musarra, dal femminicidio per soffocamento all’ergastolo di Cristian Ioppolo .e Paolo Nori L’uomo che (non) morì due volte

due storie quelle , di questo n  del  diario  di  bordo,  che   nonostante la diversità unite da qiuesta  frase   : << Dobbiamo abituarci all’idea: ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica >> di Ernest Hemingway ( (Oak Park21 luglio 1899 – Ketchum2 luglio 1961 )

La  prima  presa  da  https://www.fanpage.it/attualita
smonta il mito  che  tutti  i  femminicidi    finiscano     con pene  irrisorie    e  con  assoluzioni     Essa  è


 La storia di Alessandra Musarra, dal femminicidio per soffocamento all’ergastolo di Cristian IoppoloAlessandra Musarra, 29 anni, viene uccisa la sera del 6 marzo 2019 nella sua casa di Messina dal fidanzato Cristian Ioppolo. Il 26enne, condannato in appello all’ergastolo, l’ha picchiata e soffocata.

A cura di Chiara Ammendola


                Alessandra Musarra (a sinistra) e il suo assassino Cristian Ioppolo (a destra)

La mattina del 7 marzo 2019 Alessandra Immacolata Musarra viene trovata morta nel suo appartamento al rione Santa Lucia sopra Contesse di Messina. A scoprire il cadavere è il padre preoccupato perché la figlia 29enne non risponde più al telefono. Alessandra è stata picchiata e poi soffocata dal suo fidanzato, Cristian Ioppolo, 26 anni, che viene arrestato poco dopo, non prima di aver cercato di sviare le indagini accusando l'ex compagno della vittima. Il 27 maggio 2022 la Corte d'Appello di Messina conferma per la condanna all'ergastolo.‍
Chi era Alessandra Immacolata Musarra, la giovane donna uccisa a Messina
Alessandra Immacolata Musarra ha 29 anni quando viene uccisa dal fidanzato Cristian. Aiuta la madre nel locale di Kebab alle spalle del Duomo di Messina ma da qualche tempo non lavorava più. Dopo un periodo difficile ha infatti incontrato Cristian al quale sembra rivolgere ogni sua attenzione. Con il fidanzato, di tre anni più giovane, ha però un rapporto burrascoso dovuto principalmente alle reazioni, spesso violente, sia fisicamente che verbalmente, da parte di Ioppolo. Convivono in un appartamento a Santa Lucia Sopra Contesse, frazione della città di Messina.



                           Alessandra Musarra (Facebook)

Chi è Cristian Ioppolo, l'ex fidanzato di Alessandra che la uccise per gelosia
Cristian Ioppolo, 26 anni, è originario di Messina. Inizia la sua storia d'amore con Alessandra un anno prima dell'omicidio: il loro rapporto però si incrina quasi subito, a causa della gelosia di quest'ultimo. Il 26enne è taciturno, non ha molti amici e trascorre le giornate da solo o in compagnia di Alessandra, è disoccupato ma non cerca un lavoro, ogni tanto aiuta la famiglia portando le pecore al pascolo. Le difficoltà economiche dei due influiscono negativamente nel loro rapporto.
Il problema principale però è che Cristian è geloso, lo è in maniera ossessiva nei confronti di Alessandra e spesso le sue reazioni sono piuttosto violente. Qualche volta intervengono pure intervenuti i carabinieri: nell'ultimo periodo in particolare il 26enne è ossessionato da un ex ragazzo della compagna col quale teme ci sia stato un riavvicinamento. Comportamenti ossessivi che esasperano Alessandra che decide così di mettere fine alla loro relazione.


                                   Alessandra Musarra e Cristiana Ioppolo (foto Facebook)

L'omicidio di Alessandra e il tentativo di depistare le indagini con un sms
Il femminicidio di Alessandra avviene la sera del 6 marzo 2019. I due sono a casa quando scoppia una lite, l'ennesima, probabilmente perché Cristian non accetta la fine della loro storia e accusa la ormai ex compagna di averlo lasciato per un altro. Il 26enne a un certo punto si scaglia contro Alessandra che aggredisce con calci e pugni, accanendosi sul viso, fino a metterle le mani alla gola per soffocarla, infine la uccide. I pm parlano, durante la requisitoria in tribunale, di una violenza inaudita.Il tempo passa. Sono le 2 di notte quando Cristian, con estrema lucidità, invia col telefono di Alessandra, un messaggio ai genitori ai quali dice di essere stata presa in ostaggio dall'ex fidanzato. Un modo per sviare le indagini, ma che non sortisce il suo effetto: il malcapitato viene interrogato risultando estraneo ai fatti. A quel punto gli inquirenti si concentrano proprio su Ioppolo che viene così arrestato.
Il ritrovamento del cadavere da parte del padre di Alessandra Immacolata Musarra
Il cadavere di Alessandra viene ritrovato la mattina del 7 marzo dal padre che preoccupato dopo aver ricevuto il messaggio dalla figlia, prova a contattarla. Non ricevendo risposta decide di raggiungere l'abitazione della vittima dove fa la macabra scoperta. Alessandra è a terra, ormai senza vita, col volto tumefatto.


               Cristian Ioppolo (foto Facebook)

Le indagini e l'autopsia sul cadavere
Inizialmente Cristian nega qualsiasi coinvolgimento nell'omicidio della fidanzata spiegando di non ricordare nulla di quella notte, se non l'inizio della colluttazione. La versione non convince gli inquirenti che vanno avanti con le proprie indagini. Secondo il giudice per le indagini preliminari che lo interroga dopo l'arresto la sua amnesia è soltanto una strategia.A chiarire ogni dubbio è l'autopsia sul corpo di Alessandra che, nel luglio 2019, stabilisce che la 29enne è stata strozzata, la morte è sopraggiunta "per asfissia meccanica violenta da strozzamento con segni anche di soffocazione, ed escludono altre dinamiche letifere". La ventinovenne inoltre presenta lesioni a due vertebre cervicali causate dal pestaggio.
Le dichiarazioni della sorella Chiara Musarra
Chiara, la sorella di Alessandra, alle porte del processo d'Appello, decide di rompere il silenzio e ricordare la 29enne puntando il dito contro la richiesta della difesa: “È impossibile dimenticare, ogni giorno è difficile. E poi, pare che questa storia non debba mai finire – le sue parole – pensavamo che almeno giustizia fosse fatta, invece l’ultima udienza ci ha lasciati spiazzati. E’ impossibile per noi pensare che Alessandra non possa avere giustizia, che a noi non venga concesso di trovare pace”, spiega.
La confessione del fidanzato Cristian IoppoloIntanto gli inquirenti continuano le indagini. Viene perquisita casa di Cristian Ioppolo, al rione Camaro, e lì, nel vano lavanderia, gli agenti trovano gli abiti sporchi di sangue. Nel mese di ottobre vengono chiuse le indagini e Ioppolo viene considerato l'unico responsabile del pestaggio che ha causato la morte di Alessandra: deve rispondere del reato di omicidio volontario aggravato dalla relazione affettiva e dalla stabile convivenza.‍‍
Il processo e la condanna all'ergastolo di Cristian Ioppolo
Il 28 gennaio 2020 Ioppolo viene rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Messina. Il 18 giugno 2021 viene condannato dalla Corte d'Assise di Messina alla pena dell'ergastolo, confermata il 27 maggio 2022 dalla Corte d'Appello che respinge così la riduzione della condanna a 24 anni.‍ Cristian Ioppolo è condannato anche al risarcimento dei familiari della vittima: 20mila a ciascuno dei due fratelli; 80mila a padre e madre.


La  seconda     tratta  da  Altre/Storie di Mario Calabresi

L’uomo che (non) morì due volte
Ognuno ha le sue sliding doors, momenti in cui il destino prende una direzione che cambia tutto. Per lo scrittore Paolo Nori questi momenti hanno coinciso con le sue due morti, ovviamente false. Vi racconto la sua storia e come l’ho scoperta

                                      di Mario Calabresi





Nelle nostre esistenze ci sono mille possibili biforcazioni, tantissime possibilità di prendere una strada piuttosto che un‘altra. Spesso siamo noi a scegliere da che parte andare, ma ci sono momenti in cui è la vita che sceglie, in cui accadono cose che non controlliamo e che mutano per sempre la nostra traiettoria. Più di vent’anni fa mi aveva colpito un film con Gwyneth Paltrow – si chiamava Sliding Doors - che raccontava come sarebbe potuta cambiare radicalmente la vita della protagonista a fronte di un piccolo dettaglio: riuscire a salire sulla metropolitana per tornare a casa o perderla perché una bambina si mette davanti alla porta. Mi ha sempre affascinato cercare di vedere e capire questi cambi di direzione, è un lavoro che ognuno può fare su sé stesso, ma non mi era mai capitato di incontrare una persona a cui fosse accaduto in modo tanto chiaro e spettacolare come allo scrittore Paolo Nori. E non una, ma ben due volte.

Lo scrittore Paolo Nori


Ma voglio partire dall’inizio, per restituirvi la storia così come l’ho conosciuta: ho incontrato per la prima volta Paolo Nori, che oltre a fare lo scrittore è traduttore dal russo, viaggiatore e professore universitario, poco più di un anno fa. Ci siamo incontrati perché mi voleva parlare di un possibile podcast tratto dal suo libro “Noi la farem vendetta” sulla strage di Reggio Emilia del luglio 1960, quando durante una manifestazione sindacale nel centro della città la polizia uccise cinque sindacalisti iscritti al PCI. Io, invece, avevo pensato che mi sarebbe molto piaciuto che lui facesse un podcast sulla letteratura russa, su Dostoevskij. Dopo aver discusso un po’ le due possibilità, abbiamo deciso che saremmo andati a mangiare.
Appena ci siamo seduti a un tavolino all’aperto, lui mi ha detto a bruciapelo: «Ma eri tu il direttore di Repubblica quando scrissero che io ero morto?». Sono rimasto di sasso e gli ho detto una frase del tipo: «In che senso che eri morto?». «Era il 2013 e una sera di pioggia venni investito da un motorino fuori da una pizzeria, picchiai la testa, fui portato in ospedale e rimasi alcuni giorni in coma. Si diffuse la notizia che io ero morto e voi la scriveste». Per prima cosa ho fatto i conti e gli ho detto che non avevo nessuna responsabilità perché nel 2013 ero alla Stampa, ma a quel punto la curiosità era tantissima e gli ho chiesto di raccontarmi tutto. E lui mentre guardavamo il menù ha aggiunto: «Quella era la seconda volta che mi hanno dato per morto, la prima era stata nel 1999, quando feci un incidente e rimasi intrappolato nella macchina che prese fuoco, una due cavalli grigia e nera. Una macchina bellissima con la quale ero andato a San Pietroburgo partendo da Basilica Nova, che è un paese in provincia di Parma. Ci avevo messo quattro giorni ed è stato il viaggio più bello della mia vita. Rimasi in ospedale per 77 giorni con ustioni su tutto il corpo e anche quella volta si diffuse la notizia che ero morto». Poi, vedendo il mio stupore, ridendo ha aggiunto: «Sono state le due volte in cui io sono stato più famoso nella mia vita». Come potete immaginare, era quella la storia che non mi potevo lasciar sfuggire.
“Due volte che sono morto” è il podcast di 6 puntate prodotto da Chora Media per RaiPlay Sound (potete ascoltarlo qui). Le prime 3 puntate sono disponibili anche su Spotify


Così, prima di chiedergli altre spiegazioni gli ho detto che Reggio Emilia e Dostoevskij potevano aspettare, che il podcast lo doveva fare sulle due volte che era morto. Siamo rimasti a tavola per due ore e poi lui ha lavorato per quasi un anno e ne è nata una serie potente e meravigliosa, un’indagine sulla propria vita. Perché Paolo, dei suoi due incidenti, ricordava pochissimo, così ha iniziato un viaggio alla ricerca dei protagonisti delle sue storie: i tre ragazzi che lo hanno salvato, tirandolo fuori dall’auto in fiamme, il medico che lo ha operato sette volte, il fratello che aveva dato la notizia alla madre, tutti gli amici che avevano letto che era morto. E poi ancora – quattordici anni dopo – i proprietari della pizzeria che avevano chiamato l’ambulanza, i barellieri, i giornalisti che lo piangevano, la bibliotecaria che quando lo rivide a Bologna andò a toccarlo perché pensava fosse un fantasma…
Un racconto corale che contiene il famoso bivio che cambia la vita: quella telefonata ricevuta quando ancora è in ospedale di una donna – Francesca - che ha bisogno di informazioni per andare in Russia e che al ritorno dal viaggio diventerà la sua compagna e la madre di sua figlia Irma. La loro storia finisce, ma poi riprende perché, quando si sveglia dal coma la seconda volta, trova lei accanto al suo letto.

Paolo Nori con sua figlia Irma


Quando abbiamo presentato il podcast, al cinema Anteo a Milano, Paolo mi ha presentato sua figlia Irma, che ha 19 anni, e insieme hanno cominciato a raccontarmi un sacco di altre cose, su quanto tutto quello che è successo sia stato determinante nelle loro vite. Ho pensato che questa storia la volevo raccontare anche io e così li ho intervistati insieme nella nuova puntata del mio podcast Altre/Storie. (lo potete ascoltare qui).
La prima cosa di cui abbiamo parlato con Irma, che studia Astronomia a Bologna, è che se non ci fossero stati Alessandro, Roberto e Amir, tre persone così coraggiose da buttarsi a turno nel fuoco per cercare di tirare fuori suo padre da quell’auto in fiamme, lei non ci sarebbe. E questa è la cosa che più l’ha colpita del racconto del padre.
Irma ricorda benissimo la seconda volta, quando Paolo è stato investito, come se il tempo si fosse fermato: «Avevo otto anni e quando abbiamo ricevuto la telefonata che diceva che era stato ricoverato in ospedale, io ero seduta per terra con il gomito appoggiato sul divano, stavo guardando la televisione e c'era ancora Pepe, il nostro gatto». La tennero a casa da scuola per una settimana perché i suoi compagni di classe le dicevano: «Abbiamo saputo che il tuo babbo è morto».
«Quando è uscito dall'ospedale lui e la mamma sono venuti a prendermi a scuola, io non lo sapevo e sono corsa ad abbracciarlo. E poi tutti i miei compagni di classe e la mia maestra hanno fatto lo stesso. Che bello!».
Quel secondo incidente, meno doloroso e con conseguenze fisiche meno importanti, è stato però quello che ha inciso di più, sia sul lavoro di Paolo che sulla sua vita privata: «Quando mi sono svegliato dal coma, la prima persona che ho visto è stata proprio Francesca. Se non ci fosse stato il primo incidente, probabilmente io e Francesca ci saremmo conosciuti lo stesso. Ma se non ci fosse stato il secondo probabilmente non saremmo tornati insieme, perché nell'incoscienza del risveglio le ho detto una cosa che ha riacceso la nostra relazione. Però non voglio dire cosa».
Sono tante le storie di persone che vengono date erroneamente per morte e che così scoprono cosa si pensa di loro. Successe allo scrittore americano Mark Twain che per smentire il necrologio diffuso dall’agenzia Associated Press scrisse un laconico telegramma: “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata”.
Chiedo a Paolo cosa abbia capito dai commenti alle sue morti: «Quando sono tornato a casa, ci ho messo del tempo a smaltire tutte le mail che mi erano arrivate, messaggi mandati a un morto. Tutte cose belle, ma non credo che fosse quello che la gente pensava veramente di me, perché quando uno è morto diventa subito più simpatico. C’è stata un’ondata d’affetto che mi ha fatto molto piacere che però non ho preso come la verità».
Paolo è dotato di un grande senso dell’ironia, ma si capisce che queste esperienze di rinascita lo hanno cambiato in meglio, tanto che la sua chiusura è provocatoria e spiazzante: «Ti posso dire una cosa? Morire la seconda volta è stata proprio una bella esperienza che mi sento di consigliare a tutti».

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...