quelli che noi chiamiamo \ etichettiamo come zingari un termine generico e spesso considerato ed usati in modo offensivo, usato per descrivere vari gruppi nomadi, inclusi i Sinti e i Rom , sono talmente italiani che da quel ho letto cazzeggiando su msn.it
I sinti salvano il dialetto piemontese: «Ormai lo parlano solo loro»
Sono i sinti oggi a garantire la trasmissione del dialetto piemontese. Una minoranza etnica presente in queste terre da 400 anni, che ne vanta l’uso esclusivamente orale. Ma, se è impossibile un censimento numerico e non essendo codificata come minoranza, la comunità non può accedere a fondi regionali per la sua salvaguardia anche se ancora oggi tutti i sinti parlano piemontese. Altre minoranze, invece, pur codificate e finanziate stanno diminuendo vertiginosamente.Lo stesso dialetto piemontese, classificato come gallo-italico, non è considerato una minoranza linguistica e non può avere accesso ai fondi specifici per la protezione di tali lingue. Secondo uno studio di Regis del 2012, circa 700 mila persone parlano il piemontese principalmente in aree rurali come il Cuneese, il Biellese e il Pinerolese. Difficile il passaggio intergenerazionale, ma in alcune zone agricole permane l’uso del dialetto anche tra i banchi di scuola. «Vi sono studenti in queste aree – spiega Nicola Duberti, docente di linguistica del Dipartimento di studi umanistici di Unito – che parlano il piemontese come prima lingua, l’italiano viene dopo. La competenza passiva, ovvero la capacità di comprendere senza parlare fluentemente, coinvolge fino a un milione di persone, ma a Torino e nelle aree urbane è rara». Il piemontese sopravvive nei mercati, in alcuni cartelli commerciali e in iniziative culturali come la traduzione di opere in dialetto. Nel 2025 uscirà una versione di Topolino in piemontese, un tentativo di avvicinare le nuove generazioni alla lingua.Il Piemonte ospita poi tre lingue minoritarie riconosciute dalla Legge 482/1999: il francoprovenzale, l’occitano e il walser. Il francoprovenzale è parlato da circa 11.500 persone nelle valli Susa, Sangone, Lanzo e Locana è simile ai dialetti della Valle d’Aosta, ma meno vitalizzato. La sua trasmissione è in declino, limitata a eventi culturali e iniziative didattiche occasionali. L’occitano usato da circa 15-20.000 persone è diffuso nelle valli alpine del Torinese e del Cuneese, tra cui la Val Varaita e la Val Po. Pur essendo ancora parlato in contesti familiari, è considerato a rischio. Nelle aree di Mondovì, poi, si trovano varietà uniche come il Kjé, con circa 300 parlanti. Infine il walser conta circa 100 parlanti attivi, usato all’interno della comunità di origini germanofone conserva una lingua unica nei villaggi di Alagna Valsesia e Macugnaga. Nonostante la sua fragilità demografica, il walser rimane un simbolo di resilienza culturale.
Un caso peculiare è rappresentato dai Sinti, che parlano una varietà di piemontese con influenze della lingua Romanì. Questa comunità, storicamente insediata in aree come San Damiano d’Asti e Villafalletto, è paradossalmente uno dei gruppi con la maggiore vitalità linguistica in piemontese, grazie alla trasmissione orale tra generazioni. Se tra il piemontese e le minoranze ci sono molte assonanze, perché le parole provengono dalla stessa radice latina, con il sinto ci si spinge lontano. La parola acqua (dal latino aquam), a titolo di esempio, in piemontese si dice eva, in occitano aigo, in francoprovenzale ewa, mentre in sinto si dice panin, mantenendo la parola di origine indiana.
Le minoranze linguistiche piemontesi vivono tra il rischio di estinzione e i tentativi di valorizzazione. La Legge 482 prevede finanziamenti per corsi e progetti scolastici, ma l’impegno istituzionale è spesso limitato. Inoltre questa legge che ha promesso finanziamenti, ha indotto alcuni comuni ad auto-dichiararsi parte di minoranze linguistiche senza solide basi storiche, confondendo ulteriormente il panorama linguistico. Iniziative come l’Espaci Occitan e la Chambra d’Òc offrono spazi per la promozione culturale, mentre esperienze innovative, come i supermercati con cartelli in piemontese (ad esempio, M**c Bun), tentano di inserire la lingua nel contesto contemporaneo.
Senza un rilancio deciso, il rischio di perdere questi patrimoni linguistici è concreto. Studi recenti, come quello di Riccardo Regis e Matteo Rivoira «Dialetti d’Italia: Piemonte e Valle d’Aosta» (Carrocci 2023), evidenziano la necessità di un intervento mirato per sostenere la trasmissione delle lingue minoritarie. Solo attraverso una collaborazione tra istituzioni, scuole e comunità locali sarà possibile garantire un futuro a questa straordinaria diversità culturale.
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Lascia il lavoro in banca e fonda un ipermercato solidale, la scelta di Edoardo: «Non diamo soldi, ma aiuti concreti»
A Mestre, dietro le porte del Centro di solidarietà cristiana Papa Francesco, ogni giorno accadono storie che sembrano uscire da un romanzo. Tra queste, Edoardo Rivola ne ricorda una in particolare: «Una ragazza è tornata per raccontarmi che il cappotto preso qui aveva commosso sua madre: era quello del
nonno, riconosciuto dall’etichetta». Edoardo, ex direttore di banca, tre anni fa ha lasciato la carriera per dedicarsi anima e corpo a chi è in difficoltà, fondando un vero e proprio ipermercato solidale. Con oltre 3.000 metri quadri di esposizione e 600 di magazzino, il centro è diventato un punto di riferimento unico in Italia. «Ogni giorno mille persone vengono a prendere qualcosa», racconta al Corriere della Sera, mentre racconta le sue giornate interminabili, che iniziano alle 8 del mattino e finiscono solo la sera.
Un segno del destino
Il lavoro, dice, è stancante ma lo riempie di soddisfazione: «Vengo da una famiglia povera, ma unita. Ho imparato che con impegno e determinazione puoi raggiungere qualsiasi obiettivo». Non è solo la mole di lavoro che impressiona, ma il metodo: il centro funziona come un’azienda, ma ogni euro guadagnato viene reinvestito per aiutare i bisognosi. Il progetto è nato grazie alla sua intuizione e a un segno del destino. «Tre anni fa mi sono rotto la tibia saltando un ostacolo. Era un segno dall’alto. Durante quei mesi, con le stampelle, passavo le giornate al centro, capendo cosa serviva per farlo crescere».
Oggi il centro coinvolge 150 volontari: persone fragili, madri single, ex detenuti e ragazzi con disabilità che trovano qui una seconda opportunità. Le loro storie sono spesso toccanti, come quella di un giovane coinvolto in un programma di reintegrazione che ora è candidato per un’assunzione. Edoardo, che si definisce un uomo semplice, non nasconde il cambiamento che questo lavoro ha portato nella sua vita: «Quando uno dei ragazzi con sindrome di down mi abbraccia, mi trasmette una forza pazzesca. Sì, sono cambiato anche io».
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Rosa Maria Tropeano e Salvatore Picariello, dopo un percorso pieno di difficoltà, accolgono la piccola Silvia, nata ad Avellino
Un percorso lungo dieci anni di speranze e difficoltà
Una storia di resilienza e amore quella di Rosa Maria Tropeano, 47 anni, e Salvatore Picariello, 53 anni, residenti a Capriglia Irpina, in provincia di Avellino. La coppia ha coronato il sogno di diventare genitori il 28 dicembre scorso con la nascita della piccola Silvia al “Malzoni Research Hospital” di Avellino. La bambina, venuta al mondo con un peso di 2 2,36 kg, rappresenta il lieto fine di un viaggio complesso segnato da innumerevoli ostacoli.
La strada verso la genitorialità è stata lunga e difficile per Rosa Maria, impiegata, e Salvatore, autotrasportatore. Per oltre dieci anni hanno affrontato cinque aborti spontanei e un intervento di miomectomia laparoscopica. Nonostante un fallimento nel tentativo di procreazione medicalmente assistita (PMA), la coppia non ha mai smesso di sperare, affidandosi al ginecologo salernitano Raffaele Petta, esperto in casi di infertilità complessi. Contro ogni previsione, Rosa Maria ha concepito spontaneamente, ma anche questa gravidanza non è stata priva di complicazioni
Complicazioni superate grazie alla competenza medica
Durante la gravidanza, i medici hanno monitorato attentamente la salute di Rosa Maria, resa critica dalla presenza di miomi e dal rischio di parto prematuro. Alla 33esima settimana, il ricovero d’urgenza si è reso necessario per un improvviso raccorciamento del collo uterino. La paziente è stata sottoposta a terapia cortisonica per accelerare la maturazione polmonare della bambina.
Alla 34esima settimana, una rottura del sacco amniotico ha portato i medici a intervenire rapidamente con un parto cesareo. L’operazione è stata eseguita dal dottor Raffaele Picone, coadiuvato dal collega Antonio Ranieri, dall’ostetrica Anna Pepe e dall’anestesista Franco Lazzarini. Subito dopo la nascita, la piccola Silvia è stata affidata al dottor Angelo Izzo, responsabile della Terapia Intensiva Neonatale, che ne ha garantito le cure necessarie.
La gratitudine di una madre
“Si è realizzato il sogno della mia vita che sembrava irraggiungibile,” ha dichiarato emozionata Rosa Maria Tropeano, ringraziando il professor Carmine Malzoni, il dottor Petta, e tutto il personale sanitario del “Malzoni Research Hospital” per l’assistenza ricevuta. “Non avremmo mai potuto farcela senza il loro supporto e la loro professionalità.”
Le voci di Andrea Celeste e di Francesco si sovrappongono come in un concerto polifonico, senza mai prevaricare l’una sull’altra. Chi li interrompe è Lucia, la loro bambina. La sua vocina si inserisce nel racconto più di una volta. Forse desidera capire chi è che sta parlando con i suoi genitori e perché è proprio lei la protagonista della storia. O forse vuole solo le «coccole», la prima parola che è uscita dalla sua bocca, ancor prima di mamma e papà, e che continua a ripetere, insieme a «mi piace tanto tanto tanto» – riferendosi alla pasta al pesto che sta mangiando –, a «Parole, parole parole» (sì esatto, la canzone di Mina) e a «Volare» di Domenico Modugno. «Sono i suoi cantanti preferiti – spiega la mamma ridendo –. Non sappiamo proprio come si sia innamorata di loro...».Tante altre cose, in realtà, non riescono a spiegarsi. Perché Lucia è un vero e proprio miracolo. Non ci sono altre parole per descriverla. Non avrebbe dovuto nascere. Due terribili diagnosi prenatali rischiavano di segnarle la vita. Prima la scoperta dell’idrocefalia, l’accumulo di acqua cerebrale nei ventricoli, che «non viene smaltita e quindi ingrandisce la scatola cranica». E poi la diagnosi ancora più grave dell’oloprosencefalia alobare, una malformazione congenita del cervello. «Si tratta del livello più grave – dice Francesco –. Nel 40 per cento dei casi i bambini muoiono entro pochissimi giorni dalla nascita, quelli che sopravvivono non riescono a respirare autonomamente, a mangiare, a muovere le mani, a defecare, e nemmeno a piangere». E invece Lucia ha pianto. Nonostante i medici che avevano consigliato ai suoi genitori di abortire, «perché anche se ce l’avesse fatta dicevano che sarebbe cresciuta come un’ameba».: 1Tutti tranne uno. Il professor Giuseppe Noia, direttore dell’Hospice - Centro cure palliative prenatali del Policlinico Gemelli di Roma e promotore nel 2015, insieme alla moglie Anna Luisa La Teano e all’amica Angela Bozzo, della Fondazione “Il Cuore in una Goccia onlus”, di cui è presidente. Proprio ieri è iniziato, a Roma, il settimo raduno nazionale che ci conclude oggi con la Messa celebrata da Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma. Tanti volontari e famiglie da tutta Italia sono riunite per «rilanciare il concetto di custodia della vita umana in senso globale», spiega Noia. Con storie come quella di Lucia, che non appena è uscita dal grembo materno ha squarciato, tra la sorpresa di tutti, la quiete dei corridoi del Gemelli.
«La tentazione di abortire l’abbiamo avuta», ammettono entrambi i genitori. «Ma poi ho pensato – aggiunge Andrea Celeste – che nella vita la cosa più importante che ho ricevuto è stata l’amore. Se decido di abortire, mi sono detta, che cosa insegno a mia figlia? Che nella vita esiste solo la morte?». Francesco l’illuminazione l’ha avuta davanti al Santo Sepolcro di Gerusalemme: «Il Signore mi ha fatto capire che non poteva esserci dono migliore che potessi fare a mia figlia che farla nascere».
Poi l’incontro con Noia, «un angelo custode. Ci ha detto: “Le speranze di vita sono poche, e probabilmente Lucia avrà deficit neurologici molto gravi, ma tutti nasciamo malformati dalla storia, dal peccato e dalle sofferenze, eppure Dio ci ama». Lucia è nata al Gemelli un mese e mezzo prima del previsto con un cesareo. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta. Oggi ha tre anni e mezzo ed è stata operata già undici volte. La sua testa, per dimensioni, è quella di una bambina di 12 anni. Ma respira autonomamente, mangia, vede (nonostante non possieda la struttura cerebrale della vista). I medici non si spiegano come ci riesca. E sente, «anche meglio di me, che sono musicista», aggiunge la mamma. Per muoversi usa un deambulatore. Ma per i medici è solo questione di tempo: prima o poi camminerà da sola. Così come si riuscirà a toglierle il pannolino.
La sua storia insegna che «ci vuole uno sguardo umile e grato sull’esistenza, senza cedere alla tentazione dell’autodeterminazione assoluta», sottolinea Ambarus. «Il nostro intento – aggiunge Noia – è contrastare la cultura dello scarto con la scienza, l’umanità, la formazione e la ricerca». Lo dimostrano i numeri: «Sono 824 le famiglie che l’Hospice ha aiutato nei suoi anni – conclude il professore –. Il 40 per cento dei bambini sembrava non avere speranze. E invece oggi è in braccio alle proprie mamme».
Barba e capelli lunghi, Giulio Vannucci ha l’aspetto da asceta. Ma anche da “musicista punk”. Una musica che ha segnato la sua vita e che continuerà a seguire anche da prete. Perché stamani l’ex chitarrista e tastierista di un gruppo folk punk della Toscana è diventato sacerdote nella Cattedrale di Prato. «Un periodo nel quale mi sono
divertito tantissimo e che non rinnego», dice don Giulio.Con lui, è stato ordinato prete dal vescovo di Prato, Giovanni Nerbini, un ex carabiniere: Michele Di Stefano. Due vocazioni cresciute all’interno della diocesi di Prato. «Il Signore non si è scelto manager o super uomini, ma persone semplici e sempre generose» è stato l’augurio che il vescovo Nerbini ha rivolto ai due sacerdoti. Don Giulio, 38 anni, è nato a Pistoia, dove ha vissuto fino a otto anni fa, quando ha deciso di entrare a far parte della comunità dei Ricostruttori nella Preghiera di Prato, con sede a Villa del Palco. Prima di maturare la vocazione ha preso due lauree, in lettere e in scienze della formazione, e ha lavorato come insegnante ed educatore. Ma si è anche cimentato nel punk suonando la chitarra e la tastiera nella band “i Quanti”, molto attiva nella zona. Poi l’incontro con i Ricostruttori e con la figura di padre Guidalberto Bormolini. Don Giulio ha una folta capigliatura riccia e una lunga barba, tratto distintivo dei membri maschili dei Ricostruttori, comunità conosciuta a Prato per aver realizzato il progetto del borgo “Tutto è Vita”, un paese abbandonato nel Comune di Cantagallo, rinato dopo essere caduto nell’abbandono. «Negli ultimi tempi ho fatto il muratore e ho accolto le tante persone venute al borgo, una esperienza bellissima. Per me diventare sacerdote – afferma don Giulio – significa mettersi ancora di più a servizio, significa prendersi cura di tutto e di tutti». Tanti scout in Cattedrale. Perché il neo sacerdote è la guida spirituale dei gruppi Agesci di Prato. Don Michele, 39 anni, è siciliano di Gela. A 19 anni ha scelto di fare il carabiniere di leva ed è stato mandato a Bardonecchia, in alta Val di Susa.Qui ha incontrato don Mario Bonacchi che ha una casa dove accoglie tantissimi ragazzi per le ferie estive. Il canonico Bonacchi, come veniva chiamato, è stato all’origine di molte vocazioni nella Chiesa pratese. Arrivato a Prato nel 2009, due anni dopo la morte del sacerdote pratese, Michele è stato accolto dall’allora vescovo Gastone Simoni per frequentare il Seminario e studiare teologia a Firenze.Presente alla Messa di ordinazione anche una rappresentanza dei carabinieri di Prato, in nome della vecchia appartenenza del prete novello. «Quello di oggi non è un obiettivo raggiunto, ma l’inizio di un nuovo cammino, anche faticoso, ma ho la certezza di non essere solo e di avere l’aiuto di Dio – dice don Michele Di Stefano –. È mia intenzione stare vicino alla gente che soffre, che si sente sola».
La scelta della castita sta diventando molto cool .... ehm... di moda come di riporta il sito https://unapennaspuntata.com/
TLW. Negli USA, il movimento è così popolare che il suo motto è addirittura diventato una sigla, un po’ sulle linee di ROTFL e TVB. “True Love Waits”, si ripetono ogni giorno centinaia di adolescenti in ogni parte degli Stati Uniti: “il vero amore sa aspettare; dunque, è più che possibile conservarsi casti fino alle nozze”.
Per una come me, “appassionata” di castità, era praticamente impossibile non imbattersi nelle (millemila) attività che il movimento True Love Waits organizza oltreoceano. Per chi non conoscesse TLW, trattasi di un movimento giovanile nato negli Stati Uniti che si rivolge a tutti quei giovani intenzionati a rimanere vergini fino alle nozze. È un movimento popolarissimo: molto ggggiovane, molto cool, molto famoso in tutta l’America, capace di raccogliere ogni anno centinaia e centinaia di nuove adesioni. [ .... segue qui sul sito ]
Infatti leggo su da https://www.msn.com/it-it/notizie/ che riporta ka notizia appresa da Redazione Tgcom24 - 6 h fa Redazione Tgcom24 - 6 h fa
Casti fino alle nozze. È la scelta fatta da due giovani di religione protestante che hanno deciso di arrivare al giorno del matrimonio in totale purezza. A " Zona Bianca" i due sposi, proprio nel giorno della loro unione, spiegano il perché della loro scelta in linea con quanto descritto dal Vaticano nel documento Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale del Dicastero per i laici che propone ai fidanzati la castità prematrimoniale.
" Non vogliamo essere cristiani solo per modo di dire, ma vogliamo seguire la parola di Gesù con tutto quello che ci ha insegnato", spiegano i due sposi che poi raccontano l'incredulità di chi non ha mai preso sul serio la loro scelta e che spesso li ha derisi. I due ragazzi già uniti mediante il rito civile hanno atteso quello religioso per avere rapporti sessuali.
" Ne è valsa la pena attendere", dichiarano marito e moglie in collegamento con Rete 4, dopo qualche giorno dalla celebrazione del matrimonio religioso. " La nostra è stata una scelta consapevole come cristiani - dichiara la neo sposa - adesso che ci siamo uniti sappiamo che saremo uno al fianco dell'altro tutta la vita".
tale decisone della chiesA mette molti dubbi da parte dei teologi
REPUBBLICA 16 GIUGNO 2022
I dubbi dei teologi sulla castità prima delle nozze: "E'anacronistica"
ANSA
di Paolo Rodari
Mancuso: "Il fidanzamento serve alla conoscenza e i rapporti sessuali sono un grande e decisivo momento di conoscenza. Escluderli, come da sempre fa la dottrina cattolica, è un grave errore di natura etica"
CITTÀ DEL VATICANO - Il Vaticano vara nuove linee guida per la preparazione al matrimonio: percorsi più lunghi e suddivisi in vari step, catechesi che si prolunga anche dopo le nozze e una maggiore attenzione alle coppie in crisi. L’obiettivo è quello di evitare che una persona per sposarsi in chiesa impieghi poche settimane e poi vada incontro ad un "fallimento", come dice il Papa, introducendo un vero e proprio "catecumenato" e ricordando che per diventare sacerdoti sono necessari invece anni e anni di seminario. Sul rapporto uomo-donna, parlando in un altro contesto, quello dell’udienza generale a Piazza San Pietro, Papa Francesco ha sottolineato che il servizio non è "una faccenda di donne".
La castità come strada verso la santità della coppia
Il documento vaticano, che sarà pubblicato in forma cartacea da Libreria editrice vaticana, non dice nulla di nuovo rispetto a quanto il Catechismo afferma da sempre: i rapporti pre-matrimoniali non sono ammessi, la castità è una strada verso la santità della coppia. Tuttavia, le parole della Santa Sede calate nel contesto odierno dove anche diversi credenti hanno rapporti prima delle nozze provocano dibattito ed anche qualche polemica. Scrive il teologo Vito Mancuso: "Il fidanzamento serve alla conoscenza e i rapporti sessuali sono un grande e decisivo momento di conoscenza: di sé, del partner, e dell’armonia di coppia. Escluderli, come da sempre fa la dottrina cattolica, compreso l’attuale Papa, è un grave errore di natura etica".
"Documenti così sono un passo indietro, bisogna ascoltare i giovani"
Spiega ancora un altro teologo, padre Alberto Maggi: "Nel Vangelo Gesù lascia agli uomini la sapienza dello Spirito. Documenti come questo non rappresentano passi in avanti alla luce dello Spirito ma passi indietro in contesti che ormai sono del tutto nuovi. Servirebbe più ascolto della realtà dei giovani d’oggi, di come vivono, prima di riproporre la dottrina di sempre". Francesco ha sempre confermato l’importanza della castità. Per lui la dottrina ha valore e non si cambia. La sua rivoluzione della misericordia non ha intaccato fino ad ora la base della dottrina, seppure il modo di proporla sia stato del tutto innovativo.
Gli sposi devono trovare il tempo di conoscersi
"Il servizio evangelico della gratitudine per la tenerezza di Dio non si scrive in nessun modo nella grammatica dell’uomo padrone e della donna serva", ha detto. Per arrivare al matrimonio servono sì cammini rinnovati, ma confermando la linea della Chiesa cattolica, a partire dalla castità: "Non deve mai mancare il coraggio alla Chiesa di proporre la preziosa virtù della castità, per quanto ciò sia ormai in diretto contrasto con la mentalità comune", si legge nel documento del Dicastero per i laici che traccia le nuove linee per la preparazione al matrimonio. E ancora: "Vale la pena di aiutare i giovani sposi a saper trovare il tempo per approfondire la loro amicizia e per accogliere la grazia di Dio. Certamente la castità prematrimoniale favorisce questo percorso".
Percorsi ad hoc per i conviventi che decidono di sposarsi
E "anche nel caso in cui ci si trovasse a parlare a coppie conviventi, non è mai inutile parlare della virtù della castità". Astinenza che — sempre secondo il documento del Vaticano — può essere praticata in alcuni momenti anche nello stesso matrimonio. Per i ragazzi e i giovani, al di là della preparazione del matrimonio, si parla poi di educazione sessuale da ricevere nello stesso contesto di catechesi nelle parrocchie. Quanto invece alle coppie che già convivono, la Chiesa apre le porte al sacramento ma pensando a percorsi di catechesi ad hoc. "L’esperienza pastorale in gran parte del mondo mostra ormai la presenza costante e diffusa di “domande nuove” di preparazione al matrimonio sacramentale da parte di coppie che già convivono, hanno celebrato un matrimonio civile e hanno figli".
La Chiesa deve aiutare le coppie anche dopo il matrimonio
"Tali domande — sottolinea il Dicastero per i laici — non possono più essere eluse dalla Chiesa, né appiattite all’interno di percorsi tracciati per coloro che provengono da un cammino minimale di fede; piuttosto richiedono forme di accompagnamento personalizzate". Il dopo-matrimonio dovrebbe prevedere un accompagnamento da parte della Chiesa sia perché permangono questioni importanti come "la regolazione delle nascite o l’educazione dei figli", ma anche per aiutare la coppia a non entrare in crisi anche se, in alcuni casi, sono "inevitabili", ammette il Vaticano.
Beatrice Zott, la 19enne che accudisce le capre di Agitu Gudeta: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista: «Altro che social e vestiti griffati, con la natura ritrovo me stessa» – L’intervista
Per dedicarsi alla sua passione, la ragazza ha lasciato la scuola e sacrificato i suoi fine settimana, specialmente in estate. «Non mi importa più di niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera, finalmente sono me stessa» Beatrice Zott ha 19 anni. È lei che si occuperà delle capre di Agitu Gudeta, imprenditrice etiope barbaramente uccisa da un collaboratore nella sua casa a Frassilongo, in Trentino. Un’occupazione insolita per una ragazza così giovane che – confida a Open – passa «tutta la mattina e tutta la sera a lavorare»: «Prima stavo sempre sui social, ero la classica persona a cui piaceva vestirsi bene. Ora, invece, non mi importa più niente, vado in giro così, con i capelli spettinati, libera. Ho ritrovato me stessa e, passando molte ore da sola, ho più tempo per conoscermi meglio». Certo, un profilo Instagram e uno Facebook ce l’ha – «sono comunque una ragazza di 19 anni» – ma ci trascorre «pochissimo» tempo. La natura e gli animali hanno la «priorità assoluta». «Devo preoccuparmi di loro che non hanno più un padrone»
Due volte al giorno – racconta – si sposta dal suo paesino a quello di Agitu Gudeta, sale fin lassù dove prepara «cinque balle di fieno», ovvero i pasti per gli animali per tutta la giornata. Macina chilometri e chilometri non solo per dar loro da mangiare ma anche per «tenerle pulite e soprattutto per gestire le caprette gravide che rischiano di partorire tutte negli stessi giorni». Quando le hanno chiesto di prendersi cura degli animali, a cui Agitu Gudeta era particolarmente attacca, non ci ha pensato un attimo: «La richiesta mi è arrivata dal sindaco di Frassilongo (che a Open ha assicurato massimo impegno nel prendersi cura degli animali, ndr) a cui ho detto subito di sì. Non potevo fare altrimenti, devo preoccuparmi di queste caprette che non hanno un padrone. Poi io per Agitu avevo un grande rispetto. L’ho conosciuta quattro anni fa ed era diventata anche un’amica di mia madre». «Ho interrotto gli studi, andavo al liceo artistico»
BEATRICE ZOTT | In foto la 19enne con le capre
Per Beatrice Zott quello di accudire gli animali non è affatto un lavoro nuovo o improvvisato. Nonostante la giovane età, infatti, ha già fatto esperienza in Svizzera, Valle d’Aosta e l’anno scorso nelle valli trentine dove ha gestito un grande gregge. Papà e nonno sono pastori, è cresciuta «a natura ed animali». Certo, questo le è costato l’interruzione degli studi. «Fino a due anni fa andavo al liceo artistico, poi ho lasciato per dedicarmi a questo. Non tornerei indietro, non sono pentita perché questo lavoro mi dà libertà. Certo, non c’è sabato e domenica, specialmente in estate quando si lavora tanto
e, dunque, devo rinunciare alle uscite. Ma, credetemi, sono felice». L’eredità che lascia Agitu Gudeta Le caprette di Agitu Gudeta, dunque, sono in buone mani. L’imprenditrice etiope è stata uccisa da un suo collaboratore che l’avrebbe presa a martellate per uno stipendio che lui riteneva non essere stato pagato. Il colpo alla testa le è stato fatale. Per lei – che era fuggita dall’Etiopia a causa di violenze e persecuzioni e che, in Italia, si era integrata fin da subito – non c’è stato niente da fare. Il suo sogno – ed è questo ciò che lascia in eredità – era quello di allargare la sua azienda di allevamento, la “Capra felice”, magari con la costruzione di un agriturismo. Aveva già aperto due punti vendita in cui vendeva formaggi e prodotti cosmetici a base di latte di capra. Ma il suo desiderio, quello più intimo, era che le caprette che lei adorava venissero trattate bene, che fossero felici. Ed è questo il compito affidato ora a Beatrice Zott.
La seconda invece
Sono aperte le candidature per accaparrarsi l'unico biglietto disponibile per partecipare alla più importante rassegna cinematografica di Scandinavia: siete pronti a finire (da soli, esiliati in un faro, a 5 stelle però) su un'isola in mezzo al mar ?
Guardare sessanta film per sette giorni consecutivi su un'isola deserta. È l'esperimento sociale di distanziamento estremo, chiamato The Isolated Cinema, ideato dal Göteborg Film Festival, il più grande evento cinematografico in Scandinavia, ora in versione online a causa del Covid-19. Un appassionato o un'appassionata di cinema potrà trascorrere una settimana, in totale isolamento, in un lussuoso boutique hotel sull'isolotto di Pater Noster, al largo della costa occidentale della Svezia. Senza cellulare, senza computer né libri. A fare compagnia al prescelto saranno solo le sessanta pellicole (numero decisamente ridotto a causa della pandemia) selezionate dal festival. L'obiettivo è esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che può avere la visione di un film in solitudine. C'è tempo fino al 17 gennaio per fare domanda.
Il Göteborg Film Festival, con la sua storia ormai più che quarantennale (è attivo dal 1979), trampolino di lancio per i nuovi lungometraggi nati nel grembo di ghiaccio della penisola scandinava con destinazione resto del mondo grazie a un concorso e un premio tutto suo, il Dragon Award Best Nordic Film, non si lascia abbattere dalle circostanze infauste e sfida la pandemia autoesiliandosi. Proprio così: in tempi in cui è fondamentale cambiare le proprie, vecchie (ahimè) abitudini adottando un comportamento giudizioso che preveda il minor numero di contatti con altri esseri umani stando alla larga da ambienti affollati, il Festival di Göteborg fa uno sgambetto al virus e segue alla lettera le norme imposte dal coronavirus. Che, per una volta almeno, riescono a trasfigurare un contenitore culturale in un'opera d'arte nell'opera d'arte. Povera, quasi brutalista e quindi estremamente affascinante nella sua essenzialità.
Una rassegna cinematografica che, da evento in cui gli assembramenti rappresentavano una consuetudine gioiosa poiché mezzo necessario per compiere appieno il rito della collettività, di unione tra tanti sconosciuti davanti a uno schermo – ovvero cinema – diventa unica. Unica intesa proprio come 'uno'. Solitaria. Non più 160mila visitatori ma un solo spettatore, con a disposizione un biglietto di andata (e di ritorno, state tranquilli) per la remota isola svedese di nome Hamneskär. Più che una vera e propria isola, però, si tratta di un cumulo di scogli, circondati da macchie sparute di vegetazione strinata dal vento e dalle intemperie, con un faro nel mezzo riconvertito in hotel. Un hotel che, come va di moda oggi, viene definito 'boutique', cioè di lusso, un 5 stelle caldo e accogliente per combattere il gelo.
L'isola di Hamneskär circondata dai flutti
Un luogo necessario per rendere tutto più allettante e permettere al fortunato, unico spettatore del Göteborg Film Festival che verrà (è programmato da venerdì 29 gennaio a lunedì 8 febbraio, in versione online-streaming tramite abbonamento, mentre lo spettatore rimarrà sull'isola per sette giorni), di vedere, lontano dal rumore e dai problemi del mondo, la selezione in concorso. Anche se a causa della pandemia il festival ha dovuto ridurre drasticamente la sua programmazione, passando da una media di 450 titoli ad appena 60, l'Italia può gioire: tra i film è infatti presente anche Molecole, il documentario di Andrea Segre girato a Venezia durante il primo lockdown. Il titolo dell'iniziativa, che per assonanza ricorda una delle più interessanti nel nostro paese, Il cinema ritrovato di Bologna, è Il cinema isolato, e può definirsi – oltre le definizioni canoniche – anche un esperimento sociale: siamo davvero pronti a guardare scorrerci davanti agli occhi delle storie, vere, fantastiche, sognanti, felici o drammatiche introiettando ogni singola emozione custodendola – anzi, obbligatoriamente, tenendola – solo per noi stessi? L'intento (dichiarato) del festival, infatti, non è solo quello di promuovere la settima arte ma di esaminare l'impatto dell'isolamento sull'uomo e il ruolo che la visione di un film in solitudine ha su di esso.
Venezia 77 - Il doc 'Molecole' sulla Venezia in lockdown preapre la Mostra
In passato, il Göteborg Film Festival aveva già portato agli 'estremi' l'idea più scontata di fruizione del cinema. Un altro peculiare progetto era stato quello che aveva in cartellone titoli esclusivamente a tema religioso da far proiettare in luoghi sacri, a ogni latitudine di culto: in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga. E se agli spettatori di sesso maschile, poi, fosse stato richiesto di guardare alcuni specifici lungometraggi seduti non su calde e comode poltroncine di velluto rosso ma distesi con le gambe spalancate su un lettino di ferro, di quelli usati dai ginecologi durante le loro visite? Anche questo è stato uno dei molti esperimenti della rassegna nordica. Parallelamente a questa iniziativa, il festival organizzerà due altre esclusive proiezioni 'per uno' in due iconici luoghi di Göteborg: lo Scandinavium, una delle arene più note in Svezia dove si svolge il campionato mondiale di hockey su ghiaccio, e il Draken Cinema, la sala dove solitamente vengono presentate le anteprime. Ad Hamneskär, e in particolare nel faro-hotel di Pater Noster (si chiama proprio così, 'Padre Nostro', ecco, non allarmatevi ulteriormente), una sola cosa è certa: non sono ammessi i cellulari – e dunque ogni contatto con l'Oltremare – e neppure i libri, altra 'finestra' verso l'esterno. Chi verrà scelto per questa impresa affascinante ma non così emotivamente semplice da sostenere dovrà accettare di abbandonare tutto, ma siamo sicuri per trovare molto.
Hamneskär, situata al largo della costa occidentale svedese, può essere raggiunta esclusivamente in gommone (o in elicottero, se il tempo è buono. Se...) dal paesino da 1.400 abitanti circa di Marstrand, frazione del comune di Kungälv, nella contea di Västra Götaland, o da Göteborg, la seconda città più popolosa della Svezia dopo Stoccolma e la quinta del Nord Europa.
Una sala dell'hotel Pater Noster
Una volta là, a parte lo schermo allestito all'interno del resort Pater Noster, potrete fare i conti solo con i vostri demoni (o angeli). Certo, l'hotel 5 stelle, a vederlo sulla carta, fa spuntare subito un sorriso: l’agenzia di design svedese Stylt ha infatti trasformato la casa del maestro del faro del XIX secolo dell’isola rocciosa – per la precisione si tratta di una struttura in ferro dipinta di uno sgargiante rosso costruita nel 1868, automatizzata nel 1964 e poi caduta definitivamente in disuso nel decennio tra il 1977 e il 1987 – in un alloggio da sogno. Quella luce che un tempo illuminava l’orizzonte per guidare i marinai attraverso le nere, pericolose acque nordiche ora profuma di legno e folklore, grazie anche ai dettagli rustici originali, ai cimeli marittimi d'epoca, ai mobili tradizionali nordici e alle tonalità ispirate alle acque circostanti. Con le sue sole nove camere doppie per un massimo di 18 ospiti (ma voi sarete soli, ve lo ricordiamo!) e una zona notte realizzata all'esterno, sugli scogli e sotto la volta celeste limpidissima, disponibile ai turisti a un costo di circa 435 dollari a notte inclusi i pasti principali, Pater Noster più che un hotel sembra davvero il set di un film.
Volete dormire sugli scogli, a bordo mare? Il Pater Noster ve lo propone
“Stiamo tutti guardando il cinema in isolamento, ora, e questo cambia il nostro rapporto con esso; abbiamo visto nuovi tipi di lungometraggi in questo periodo che hanno assunto un significato diverso a causa della pandemia”, ha dichiarato Jonas Holmberg, il giovane critico cinematografico svedese e direttore artistico, dall'aprile 2014, della rassegna. “Una scena in cui le persone abbracciano uno sconosciuto, ad esempio, sembra molto diversa in un momento in cui non ci si può abbracciare”, ha continuato Holmberg.
Il direttore della rassegna Jonas Holmberg foto: Göteborg Film Festival
Il direttore ha dunque tracciato il profilo, anzi, i requisiti assolutamente necessari, che deve possedere il candidato – che verrà scelto dopo un colloquio diretto realizzato in videocollegamento – di questa esperienza cultural-sociologica: “Essere amanti del cinema, accettare di registrare un video-blog giornaliero ed essere emotivamente e psicologicamente in grado di trascorrere una settimana in questo tipo di isolamento. Con l'esplosione degli schermi e le immagini in movimento che possono essere viste ovunque e in ogni tipologia di situazione, vogliamo proporre una riflessione non solo sul cinema e su chi lo fa ma anche su come lo fruiamo in questa nuova epoca”, ha aggiunto Holmberg. Fiero sponsor dell'annuncio (guardate la clip sopra, in questo articolo) che promuove l'iniziativa di cine-isolamento: “Niente telefono. Niente amici. Niente famiglia. Nessuno. Solo tu. E 60 film in anteprima”. E se, come diceva Wim Wenders, “i grandi film cominciano quando usciamo dal cinema”, l'isola che risuona tra i venti come una 'preghiera del Signore' è lì per dimostrarlo.
le mie prese di posizioni espresse sia sula mia bacheca e sulla nostra pagina fb sia in questo mio post precedente contro quelli che la stampa chiama erroneamente ( chiarisco nella riposta e nel link citati ad inizio post ed qui nbelkpost perchè tale definizione , che dopo non userò più salvo chennon compaia in articoli faziosi , presa da me per definire dei fondamentalisti e fanatici si sia rilevata , ed ne chiedo scusa , contropruducente e generalizzata per l'intero movimento vegano ) nazivegani hanno creato reazioni indignate di vegani , alcune volgari e minacciose al limite del lingciaggio fisioc , altre che sono quelle chge mi piacciono di piuù sintetizabili in questo intervento di una mia amica vegna lasciatomi sulla mia bacheca di fb
Beatrice MudaduMi dispiace Giuseppe, ma questo non ha a che fare con l'essere vegan, piuttosto con problemi madre-figlia (se non fosse per il vegan, sarebbe stata un altra cosa). Stessa cosa vale per la YouTuber. Non era solo vegana, ma aveva anche altri fattori nella sua vita, come la sua provenienza, ed era agitata per quello che ha fatto YouTube, che non c'entra niente con il vegan, ma con altre cose del suo canale. Se la gente non sta bene, non sta bene, non cerchiamo di dare la colpa a: vegan, etnia, religione, nazionalità, ecc...
Avete ragione e vi chiedo scusa ho sbagliato termine , era riferito cmq non ai vegan ma chi lo intepreta in maniera fondamentalista ed fanatica , vedi le minacce di morte a cracco , reo solo d'aver cucinato in dretta tv carne di piccione o la reazione alle " pesanti " e generalizzate provocazioni ( se tali le voglia chiamare di Cruciani della zanzara di radio24 . Infatti come questo articolo di paginevegan.it , penso e provo ( ma non sempre ci rissco al primo colpo o completamente ) che : per far cessare la violenza di tutti su tutti occorre partire dai nostri gesti quotidiani . Quindi mi chiedo : Cosa c’entra con l’evidente intenzione di picchiare il conduttore de La Zanzara, costretto a scappare dopo essersi presentato con un salame in mano? E cosa c’entrano le minacce e gli insulti rivolti allo scrittore Camillo Langone sul suo profilo Facebook per essersi opposto alle opinioni vegetariane di Giulia Innocenzi nella trasmissione Fuori Onda, trasmessa da La 7 la sera di Pasqua? (La puntata più vista della stagione con 834.000 telespettatori, 3,94% di share).
O per tornare a qualche giorno fa, cosa c’entra il picchetto di malintenzionati pseudo-animalisti che gridava fuori dal locale milanese di Carlo Cracco Questo è un ristorante di merda oppure Cracco è un assassino perché cucina gli animali, dopo che lo chef aveva preparato un piatto a base di piccione a Masterchef ? E cosa pensano di questi Nazivegani persone Umberto Veronesi, Jovanotti, il rugbista Mirko Bergamasco, Serena Williams, Paul McCartney o Prince, tutti vegetariani o vegani convinti?
Cosa pensano di chi, anche in nome e per conto della loro stessa causa, pratica estremismo sguaiato e minaccia violenza fisica?
Una cosa è la scelta vegana. Una scelta radicale, certo , piuttosto radicale ma ognuno è libero di far quel che vuole sia che lo facca per convenzione sia che lo faccia per moda \ conformismo e quindi indotto , altro è, sebbene provocati da un fanfarone, o per altri motivi brandirla come un’arma pretendendo che il mondo intero la condivida. O che capisca, specie di questi tempi, quelli che molti media chiamano un altro fanatismo. Concordo quantio dice Beatrice :<< chiunque abbia problemi ed entra a far parte di qualsiasi movimento, rovina il nome del movimento, che sia religione o altro 🙂>>E come il primo articolo , vedi url sopra , di dissaporre : << [...] Il suggerimento di mangiare cibo vero, non troppo, per lo più vegetale ( Michael Pollan) è pieno di buon senso e messo in pratica perfino da carnaioli assidui come noi di Dissapore. [....] >> .
Quindi io non ho , come ho già sottolineato sja nel vecchio blog , vedere archivio , sia in blogspot , nessun odio contro i vegani li rispetto e ci dialogo. Infatti ci mangio insieme pur non condiviendo , è troppo rigida e dura un organismo complesso come quello dell'essere umano che è un equilibrio di tutto ha bisogno di detterminate cose di cui loro si privano . Mi nutro sia di elementi non vegani che vegetariani \ vegani , essendo nato nella cultura autarchica degli stazzi e delle camnpagne , cerco di mettere in pratica quanto dice il sito dissapore che riporta le teorie di Michael Pollan