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7.1.25

diario di bordo n 97 anno III , I sinti salvano il dialetto piemontese: «Ormai lo parlano solo loro» ., Lascia il lavoro in banca e fonda un ipermercato solidale, la scelta di Edoardo ., Rosa Maria Tropeano e Salvatore Picariello, dopo un percorso pieno di difficoltà, diventano genitori della piccola Silvia, nata ad Avellino


quelli che noi chiamiamo \ etichettiamo come zingari un termine generico e spesso considerato ed usati in modo offensivo, usato per descrivere vari gruppi nomadi, inclusi i Sinti e i Rom ,  sono  talmente  italiani    che    da    quel  ho  letto   cazzeggiando  su  msn.it


I sinti salvano il dialetto piemontese: «Ormai lo parlano solo loro»



Sono i sinti oggi a garantire la trasmissione del dialetto piemontese. Una minoranza etnica presente in queste terre da 400 anni, che ne vanta l’uso esclusivamente orale. Ma, se è impossibile un censimento numerico e non essendo codificata come minoranza, la comunità non può accedere a fondi regionali per la sua salvaguardia anche se ancora oggi tutti i sinti parlano piemontese. Altre minoranze, invece, pur codificate e finanziate stanno diminuendo vertiginosamente.Lo stesso dialetto piemontese, classificato come gallo-italico, non è considerato una minoranza linguistica e non può avere accesso ai fondi specifici per la protezione di tali lingue. Secondo uno studio di Regis del 2012, circa 700 mila persone parlano il piemontese principalmente in aree rurali come il Cuneese, il Biellese e il Pinerolese. Difficile il passaggio intergenerazionale, ma in alcune zone agricole permane l’uso del dialetto anche tra i banchi di scuola. «Vi sono studenti in queste aree – spiega Nicola Duberti, docente di linguistica del Dipartimento di studi umanistici di Unito – che parlano il piemontese come prima lingua, l’italiano viene dopo. La competenza passiva, ovvero la capacità di comprendere senza parlare fluentemente, coinvolge fino a un milione di persone, ma a Torino e nelle aree urbane è rara». Il piemontese sopravvive nei mercati, in alcuni cartelli commerciali e in iniziative culturali come la traduzione di opere in dialetto. Nel 2025 uscirà una versione di Topolino in piemontese, un tentativo di avvicinare le nuove generazioni alla lingua.Il Piemonte ospita poi tre lingue minoritarie riconosciute dalla Legge 482/1999: il francoprovenzale, l’occitano e il walser. Il francoprovenzale è parlato da circa 11.500 persone nelle valli Susa, Sangone, Lanzo e Locana è simile ai dialetti della Valle d’Aosta, ma meno vitalizzato. La sua trasmissione è in declino, limitata a eventi culturali e iniziative didattiche occasionali. L’occitano usato da circa 15-20.000 persone è diffuso nelle valli alpine del Torinese e del Cuneese, tra cui la Val Varaita e la Val Po. Pur essendo ancora parlato in contesti familiari, è considerato a rischio. Nelle aree di Mondovì, poi, si trovano varietà uniche come il Kjé, con circa 300 parlanti. Infine il walser conta circa 100 parlanti attivi, usato all’interno della comunità di origini germanofone conserva una lingua unica nei villaggi di Alagna Valsesia e Macugnaga. Nonostante la sua fragilità demografica, il walser rimane un simbolo di resilienza culturale.
Un caso peculiare è rappresentato dai Sinti, che parlano una varietà di piemontese con influenze della lingua Romanì. Questa comunità, storicamente insediata in aree come San Damiano d’Asti e Villafalletto, è paradossalmente uno dei gruppi con la maggiore vitalità linguistica in piemontese, grazie alla trasmissione orale tra generazioni. Se tra il piemontese e le minoranze ci sono molte assonanze, perché le parole provengono dalla stessa radice latina, con il sinto ci si spinge lontano. La parola acqua (dal latino aquam), a titolo di esempio, in piemontese si dice eva, in occitano aigo, in francoprovenzale ewa, mentre in sinto si dice panin, mantenendo la parola di origine indiana.
Le minoranze linguistiche piemontesi vivono tra il rischio di estinzione e i tentativi di valorizzazione. La Legge 482 prevede finanziamenti per corsi e progetti scolastici, ma l’impegno istituzionale è spesso limitato. Inoltre questa legge che ha promesso finanziamenti, ha indotto alcuni comuni ad auto-dichiararsi parte di minoranze linguistiche senza solide basi storiche, confondendo ulteriormente il panorama linguistico. Iniziative come l’Espaci Occitan e la Chambra d’Òc offrono spazi per la promozione culturale, mentre esperienze innovative, come i supermercati con cartelli in piemontese (ad esempio, M**c Bun), tentano di inserire la lingua nel contesto contemporaneo.
Senza un rilancio deciso, il rischio di perdere questi patrimoni linguistici è concreto. Studi recenti, come quello di Riccardo Regis e Matteo Rivoira «Dialetti d’Italia: Piemonte e Valle d’Aosta» (Carrocci 2023), evidenziano la necessità di un intervento mirato per sostenere la trasmissione delle lingue minoritarie. Solo attraverso una collaborazione tra istituzioni, scuole e comunità locali sarà possibile garantire un futuro a questa straordinaria diversità culturale.
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Lascia il lavoro in banca e fonda un ipermercato solidale, la scelta di Edoardo: «Non diamo soldi, ma aiuti concreti»

A Mestre, dietro le porte del Centro di solidarietà cristiana Papa Francesco, ogni giorno accadono storie che sembrano uscire da un romanzo. Tra queste, Edoardo Rivola ne ricorda una in particolare: «Una ragazza è tornata per raccontarmi che il cappotto preso qui aveva commosso sua madre: era quello del
nonno, riconosciuto dall’etichetta». Edoardo, ex direttore di banca, tre anni fa ha lasciato la carriera per dedicarsi anima e corpo a chi è in difficoltà, fondando un vero e proprio ipermercato solidale. Con oltre 3.000 metri quadri di esposizione e 600 di magazzino, il centro è diventato un punto di riferimento unico in Italia. «Ogni giorno mille persone vengono a prendere qualcosa», racconta al Corriere della Sera, mentre racconta le sue giornate interminabili, che iniziano alle 8 del mattino e finiscono solo la sera.
Un segno del destino
Il lavoro, dice, è stancante ma lo riempie di soddisfazione: «Vengo da una famiglia povera, ma unita. Ho imparato che con impegno e determinazione puoi raggiungere qualsiasi obiettivo». Non è solo la mole di lavoro che impressiona, ma il metodo: il centro funziona come un’azienda, ma ogni euro guadagnato viene reinvestito per aiutare i bisognosi. Il progetto è nato grazie alla sua intuizione e a un segno del destino. «Tre anni fa mi sono rotto la tibia saltando un ostacolo. Era un segno dall’alto. Durante quei mesi, con le stampelle, passavo le giornate al centro, capendo cosa serviva per farlo crescere».
Oggi il centro coinvolge 150 volontari: persone fragili, madri single, ex detenuti e ragazzi con disabilità che trovano qui una seconda opportunità. Le loro storie sono spesso toccanti, come quella di un giovane coinvolto in un programma di reintegrazione che ora è candidato per un’assunzione. Edoardo, che si definisce un uomo semplice, non nasconde il cambiamento che questo lavoro ha portato nella sua vita: «Quando uno dei ragazzi con sindrome di down mi abbraccia, mi trasmette una forza pazzesca. Sì, sono cambiato anche io».


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Rosa Maria Tropeano e Salvatore Picariello, dopo un percorso pieno di difficoltà, accolgono la piccola Silvia, nata ad Avellino


Un percorso lungo dieci anni di speranze e difficoltà
Una storia di resilienza e amore quella di Rosa Maria Tropeano, 47 anni, e Salvatore Picariello, 53 anni, residenti a Capriglia Irpina, in provincia di Avellino. La coppia ha coronato il sogno di diventare genitori il 28 dicembre scorso con la nascita della piccola Silvia al “Malzoni Research Hospital” di Avellino. La bambina, venuta al mondo con un peso di 2 2,36 kg, rappresenta il lieto fine di un viaggio complesso segnato da innumerevoli ostacoli.
La strada verso la genitorialità è stata lunga e difficile per Rosa Maria, impiegata, e Salvatore, autotrasportatore. Per oltre dieci anni hanno affrontato cinque aborti spontanei e un intervento di miomectomia laparoscopica. Nonostante un fallimento nel tentativo di procreazione medicalmente assistita (PMA), la coppia non ha mai smesso di sperare, affidandosi al ginecologo salernitano Raffaele Petta, esperto in casi di infertilità complessi. Contro ogni previsione, Rosa Maria ha concepito spontaneamente, ma anche questa gravidanza non è stata priva di complicazioni
Complicazioni superate grazie alla competenza medica
Durante la gravidanza, i medici hanno monitorato attentamente la salute di Rosa Maria, resa critica dalla presenza di miomi e dal rischio di parto prematuro. Alla 33esima settimana, il ricovero d’urgenza si è reso necessario per un improvviso raccorciamento del collo uterino. La paziente è stata sottoposta a terapia cortisonica per accelerare la maturazione polmonare della bambina.

Alla 34esima settimana, una rottura del sacco amniotico ha portato i medici a intervenire rapidamente con un parto cesareo. L’operazione è stata eseguita dal dottor Raffaele Picone, coadiuvato dal collega Antonio Ranieri, dall’ostetrica Anna Pepe e dall’anestesista Franco Lazzarini. Subito dopo la nascita, la piccola Silvia è stata affidata al dottor Angelo Izzo, responsabile della Terapia Intensiva Neonatale, che ne ha garantito le cure necessarie.

La gratitudine di una madre

“Si è realizzato il sogno della mia vita che sembrava irraggiungibile,” ha dichiarato emozionata Rosa Maria Tropeano, ringraziando il professor Carmine Malzoni, il dottor Petta, e tutto il personale sanitario del “Malzoni Research Hospital” per l’assistenza ricevuta. “Non avremmo mai potuto farcela senza il loro supporto e la loro professionalità.”

Con la nascita di Silvia, si conclude un cap

20.12.24

«Io, maestra nera nella scuola italiana. Oggi c'è chi non si vergogna più di essere razzista» la storia di Rahma Nur

  corriere  della sera   tramite  msn.it  \  bing   



Rahma Nur insegna italiano, storia e inglese alla scuola elementare Fabrizio De André di Pomezia, Plesso Martinelli. Quest’anno ha la quinta elementare: «Un bel gruppo di studenti che mi sono coltivata piano piano. Mi dispiacerà lasciarli andare, ma il nostro lavoro è questo: dargli le ali per volare per conto loro».
 E’ arrivata in Italia a cinque anni dalla Somalia: erano i primi anni 70. La sua mamma era già qui e lei, che aveva avuto la poliomielite, venne per farsi curare e stare con la sua famiglia. L’idea era di
tornare a casa dopo qualche anno. E invece: scuole elementari, medie, magistrali in collegio dalle suore e in contemporanea Ospedale Spolverini, don Gnocchi, operazioni ripetute per poter rafforzare le gambe e stare in piedi con le stampelle. Poi il Magistero e l’impossibilità di fare i concorsi perché non aveva la cittadinanza. A vent’anni dal suo arrivo, nel 1989,  riesce a ottenerla e dal 1992 insegna felicemente a Pomezia. E’ sposata e ha una figlia di undici anni: «Questo è il mio Paese. Ho fatto qui le scuole».
Come sono stati gli inizi come maestra?

«Quando ho saputo che sarei andata a insegnare a Pomezia, sono stata a vedere la scuola con mio padre. Troviamo il collaboratore, gli spiego che sono la nuova maestra. Lui, molto gentile, ci fa entrare, ci racconta come funziona la scuola, giriamo per aule e corridoi e io lo saluto dicendo che tornerò nel giro di qualche settimana. Quando ho preso servizio vedevo gli insegnanti un po’ cauti nei miei confronti. Una volta entrati più in confidenza mi hanno detto che il collaboratore aveva detto loro che parlavo a stento italiano».

Le è mai capitato un episodio spiacevole con i colleghi?

«Tempo fa c’era una collega che durante il collegio dei docenti mi diceva: “Tu come la pensi, cioccolatino?”. Le sembrava di usare un vezzeggiativo. Le ho fatto notare che se voleva usare un tono affettuoso avrebbe potuto chiamarmi con un diminutivo: Rahmuccia, casomai. La collega si è offesa».

Aneddoti, ricordi, ferite di una maestra nera, per di più con le gambe rese incerte dalla poliomielite. Rahma Nur è appassionata di poesia, ha scritto racconti e saggi, l’ultimo nell’Alfabeto della scuola democratica (Laterza, a cura di Christian Raimo). E’ diventata insegnante per caso e per necessità: «Non era il mio sogno: studiavo lingue e volevo viaggiare, scrivere e fare l’interprete, però ho passato il concorso, volevo essere indipendente e avere un lavoro. C’erano già state troppe lungaggini».

Non aveva cercato altri posti?

«Avevo provato a fare qualche colloquio ma sono una persona nera e con disabilità. Mentre studiavo sono stata presso una signora che mi chiamava la sua “dama di compagnia”».

Lei l’ha avuta dura. Ritiene che i tempi siano cambiati?

«Ho vissuto momenti davvero tristi e difficili. Nel collegio dove ho fatto le superiori mi sono sentita sola e non capita. Gli assistenti mi dicevano: perché non torni nel tuo Paese? Una volta risposi a una di questi assistenti, allora ero più coraggiosa… Le dissi: siete voi che siete venuti nel mio Paese in Somalia, a farci colonia».

E oggi?

«Oggi ci sono più persone che approfondiscono: si parla di più di antirazzismo, antiabilismo, femminismo. Sono persone che studiano e si documentano. Dall’altro lato però vedo che non ci si vergogna più di essere definiti razzisti, anzi, ci sono molti che si sentono orgogliosi di dire: "questi non li voglio qui nel mio Paese". Sono persone che hanno paura di affrontare questi temi perché non hanno gli strumenti per capire e superare i pregiudizi.

E i bambini?

I bambini sono più curiosi che paurosi. I miei studenti sono più preoccupati perché io non posso accompagnarli in gita o al campo scuola visto che non ci sono strutture accessibili. Quando tornano hanno pudore a dirmi che si sono divertiti, perché sono tristi per me. Purtroppo, le scuole non sono organizzate per gli insegnanti disabili. Ma loro i bambini mi vedono come persona, mi disegnano con la mia carrozzina blu piena di stickers, per loro è normale».

Lei, avendo vissuto tra due culture, porta in classe qualcosa di diverso o anche di più di altri suoi colleghi?

«Credo di sì. Per esempio, oltre ai nostri autori classici faccio conoscere  sempre poeti e poetesse di lingua inglese non solo europee. Ho fatto con i bambini lavori sulla poesia afroamericana, o su Mahmud Darwish con la poesia “Pensa agli altri”; mi piace molto Nicky Giovanni, una poetessa e attivista americana che è appena scomparsa. Un altro progetto che i bambini hanno amato molto è quello sulla poesia “Homesick blues” di Langston Hughues: l’abbiamo ascoltata letta da lui, abbiamo provato a tradurla, ci abbiamo messo la musica, il blues. Bellissimo… Ma faccio anche Ungaretti».

Chi le ha dato una mano nei momenti di difficoltà?

«Ricordo due insegnanti. Adriana è stata la mia maestra a Roma: diceva alla mia mamma che non dovevo stare lì nell’istituto, perché ero super, capace e sensibile. Ma io avevo bisogno di cure, della fisioterapia e non c’era alternativa. E’ stata la prima a credere in me e a farmelo capire. Poi ricordo con affetto la prima collega che mi ha accolta e sostenuta, Carmela Crea. Temevo di non essere in grado di entrare in comunicazione con i bambini. Poi ho capito che, se io non avevo paura, loro mi avrebbero visto soltanto come colei che ama il proprio lavoro e ama trasmettere curiosità e amore per il sapere.

E ora come si trova in classe?

«In classe sto bene, è il mio luogo sicuro e spero sempre lo sia anche per i miei studenti ma siamo molto soli: se hai un gruppo non omogeneo di studenti formato da italiani, neoarrivati, seconde generazioni devi diversificare anche le attività, dividendo gli studenti in gruppi. Bisognerebbe potenziare l’insegnamento dell’italiano L2, non in orario extrascolastico, ma dentro la scuola, per dare a tutti la possibilità di lavorare insieme anche facendo cose diverse. Trovo poi che si tenda a non dare importanza all’acquisizione degli strumenti culturali, alla capacità di pensare criticamente. Ci chiedono concentrarci sul fatto che lo studente deve essere inserito nel mondo del lavoro: ma questo viene dopo, prima bisogna imparare a imparare e poi è possibile scegliere la propria strada».

E le sue colleghe, lei come le vede?

«Ci sono tantissime insegnanti sensibili alla diversità culturale: cercano di conoscere le realtà che hanno in classe, di capire la cultura e la religione. I testi sui quali formarsi ci sono, ma in generale in Italia prevale la paura della diversità: è più facile chiedere ai bambini di omologarsi e assimilare la nostra cultura. Ma lo studio della storia e della cultura è già previsto: la questione è come aprirsi anche noi agli altri, alle alterità che abitano le nostre aule».

E come si fa?

«Per cominciare dobbiamo saper pronunciare bene i nomi dei nostri alunni: saper dire bene Mohamed o Jasmine è un primo passo per creare incontro, chiedere al mio alunno che lingua si parla a casa, che cibo si mangia, quali sono le feste. Creare dei momenti in cui festeggiare anche le feste degli altri: lei ha mai sentito parlare della festa della primavera in Romania, per esempio? Da qui parte l’integrazione o meglio “l'accoglienza nelle differenze”, dal riconoscere i nostri alunni per aprire un dialogo. Siamo noi adulti, noi insegnanti, che dobbiamo aiutarli: se non siamo pronti noi, come possono essere pronti loro a vivere serenamente?»

Se potesse, che cosa cambierebbe nella scuola?

“Semplificherei. Ci sono troppi progetti che non portano a nulla, toglierei i soldi a quei progetti e li userei per far funzionare bene la scuola, per gli arredi e per la sicurezza”.


P.s

mentre leggendo  i  commenti   a  tale  notizia   non ho  saputo  controllarmi     ed  ho   risposto  a    questo  commentoi   idiota    e  fuorviante

Franz Pier11m  
Ma potrebbe andare in africa la c e tanto bisogno di insegnanti, invece di stare qui a dire stupidaggini.
@Franz Pier perchè invece non ci vai tu in africa . coi capisci perchè si fugge e si corrono rischi per venire qui e poi ne riparliamo . scusa dove sarebberoi le stupidaggini che dice , elencale grazie


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