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26.9.22

«Dal mare e dalla natura selvaggia arrivano le mie creature magiche» La storia di Enrico Mereu, scultore e unico abitante dell’Asinara

da la nuova sardegna del 25\9\2022

 In quella che a tutti può sembrare una pietra insignificante, lui ci vede del preziosissimo materiale per scolpire le sue creature, a volte fantastiche, a volte ispirate alla natura. E da quei detriti di legno che il mare quotidianamente gli deposita sulla spiaggia sotto casa, lui riesce a realizzare opere stupefacenti. Così come fa plasmando con mazzetta e scalpello una gigantesca radice di olivastro recuperata per caso in campagna. Per esempio “L’esaltazione del creato”, capolavoro realizzato appositamente per il Giubileo del Duemila, dal quale prendono corpo, oltre a San Francesco, ben trentacinque animali: dal lupo ai cinghiali, dal serpente ai colombi. Sculture capaci di impressionare molti critici d’arte, ma che non hanno mai cambiato la personalità umile e gentile del loro autore, Enrico Mereu, 63 anni, ormai  noto come “Lo scultore dell’Asinara”, visto che da tempo è l’unico abitante dell’isola. Un paradiso che non ha più lasciato dal gennaio del 1980, quando vi si trasferì, a dirla tutta senza troppo entusiasmo, per fare l’agente di polizia penitenziaria. «Fu mio padre, quando ero pronto a partire per la leva militare, a convincermi a fare quel mestiere – racconta Mereu –, in fondo nella nostra numerosa famiglia uno stipendio fisso contava moltissimo. Ma pur avendo svolto il mio lavoro con estremo zelo, non mi sono mai appassionato, anzi. Poi, certo, all’Asinara mi è capitato anche di conoscere persone eccezionali come Falcone e Borselllino, che negli anni Ottanta passarono alcuni mesi sull’isola per istruire il maxiprocesso contro la mafia. 


Ma il carcere è un ambiente triste sia per i detenuti sia per le guardie». E poi Enrico, sin da bambino – cioè da quando viveva a Nurri, paese al confine tra Barbagia e Ogliastra – aveva mostrato attitudini artistiche non comuni. «Avrò avuto al massimo sei anni – rivela lui stesso – e ricordo che per tre giorni mi presi una brutta influenza con febbre così alta che durante la notte avevo quasi delle allucinazioni: vedevo creature mostruose, animali, cose del genere. Fatto sta che una volta guarito mi venne voglia di riprodurre quelle visioni tanto particolari plasmando la creta o scolpendo le pietre. Diciamo che avevo questa dote: guardavo le pietre o il legno e nella mia mente mi appariva l’opera già finita. Furono i miei fratelli maggiori a procurarmi i materiali per muovere i primi passi da artista». I riconoscimenti e le prime soddisfazioni non tardarono ad arrivare. «Alle scuole medie – continua Enrico – un insegnante rimase incredulo davanti ad alcuni miei lavori e per sincerarsi che era tutta farina del mio sacco mi chiese di realizzarne uno durante la lezione. Ricordo ancora il suo stupore. Ma la vera svolta ci fu quando un professore acquistò una mia scultura in pietra che raffigurava un’aquila reale. Me la pagò la bellezza di 25mila lire, all’epoca una cifra considerevole. Tanto che davanti a tutti quei soldi persino mio padre, che da ufficiale giudiziario guadagnava 23mila al mese e che francamente non aveva mai visto di buon occhio la mia passione per la scultura, cominciò pian piano a cambiare idea e a puntare sul mio talento. Da un giorno all’altro iniziò a portarmi davanti a grandi pietre e a chiedermi: “Enri’, che cosa vedi? Ajò, dimmi che cosa vedi dentro questa pietra? “E io a rispondergli: “Babbo, ma così a comando non ce la faccio, deve essere una cosa spontanea». Negli ultimi anni Enrico Mereu ha allestito molte mostre personali e numerose sono le sue presenze a esposizioni collettive o a simposi, così come molteplici sono i riconoscimenti e i premi ricevuti. Le sue opere sono diventate parte di collezioni di grande prestigio, sia pubbliche che private, tanto che tra i luoghi che le ospitano ci sono il Quirinale, il Palazzo della Provincia di Sassari, il Palazzo Reale all’Asinara e nelle piazze principali di numerosi paesi. Tutto fatto senza mai   lasciare l’Asinara. «Ormai non potrei più andarmene – rivela – e anche d’inverno quando si svuota dei visitatori, riesco ad apprezzarne la bellezza, con gli animali che si avvicinano a casa. La solitudine è dura, ma a me piace»

23.4.13

Nella loro solitudine



Ha compiuto 66 anni lo scorso 21 aprile ed è sempre il solito: eccessivo, grandguignolesco. Espressionista, aggiungerei, se non temessi di scivolare nella banalità. Perché Iggy Pop “è” l’espressionismo. Nella sua forma più conclamata, popolare e popolaresca.
È tornato con un album incendiario con copertina incendiaria, da kamikaze, e testi incendiari. Gli stessi, anche nei riff energici e cavernosi. Eppure non potrebbe essere che così, eppure lo riconosci sempre pugnace, vecchio e rabbioso. Mi ha attratto e l’ho pure amato, ma confesso di conoscerlo piuttosto superficialmente. Solo i brani più famosi, così clamorosamente anticipatori del punk, dell’indie, dell’heavy metal, del grunge e di tutto il graffio e la bruttura che riassumono quest’epoca incerta. La mia non vuol essere una recensione prettamente musicale. Semmai estetica; perché spesso si dimentica che il rock non è solo fenomeno musicale, ma stato d’animo. Visione e corpo. Se segno esiste della sua internazionalità, lo si percepisce nell’accostamento di due figure solo all’apparenza lontanissime: la sua, appunto, e quella d’un artista nostrano, anch’egli in questo periodo in clima di ricorrenze: disco appena pubblicato, una serie di concerti da tutto esaurito di qui a tre giorni. Mi riferisco a Renato Zero.
Che di anni ne ha 62 compiuti (ne farà 63 il prossimo settembre), che pare, e in qualche caso è, ormai alieno dagli eccessi degli esordi; eppure, se c’è stato un artista autenticamente cosmopolita, e autenticamente rock, quest’ultimo era proprio Zero.
Il giovane Iggy e il giovanissimo Renato. Immortalati nello stesso periodo (1971) da due grandi dell’obiettivo, Gerard Malanga e Arpad Kertesz. Pittori e artigiani, prima che fotografi. Entrambi nudi, entrambi frontali, entrambi maschi. Il primo, manco a dirlo, dionisiaco. Tutto muscoli e tendini, vibrante di poderosità malata, rude, ma con una malcelata grazia da Egon Schiele, e che non deve ingannare. Non un San Sebastiano, tranne una languida sensualità. Sguardo sfrontato. Renato, manco a dirlo, apollineo. Più bellino, più aggraziato. Ma stessi occhi di Iggy, persino identica posa. Bombetta in testa, a sottolineare l’ironia e la giocosità d’un frizzo altrimenti troppo ardito. In ambedue, una sessualità esibita e contemporaneamente velata, e, al suo posto, un triangolo strano; oscuro o sovraesposto in una luce confusa. Che scompare nell’istante esatto in cui si scopre. Un petto ossuto, marcato, simile a mammelle di donna. Quelle che vediamo in altre due immagini, dove un Pop ormai stagionato e un Renato ancora imberbe, conciato dal genio maligno di Patroni Griffi in isterica donna incinta (!), irridono la maschilità sfoggiandola in abiti goffi, inadatti e impertinenti.
Iggy e Renato evocano asperità da camionisti, nella voce, nelle immagini a tinte forti. Ma camionisti d’un’autostrada senza fine, quella della vita. Soffocati nella sperdutezza d’un mondo senza più identità precise. Iggy ha continuato a sorridere e a irridere, con sarcasmo e disperazione. Renato ne ha sofferto atrocemente fino a cercare consolazione in accenti sfibrati, per taluni manieristici. Ambedue icone d’un passaggio d’epoca, nevrastenica e balbuziente. Due uomini divenuti corpo senza esserne possessori. In questo, Cristi pagani – e blasfemi. Testimoni loro malgrado della crisi del maschio, del suo tragico e maestoso declino.

quando l bullo è un prof' Obesa','Anoressica'.Roma una Scuola sciopera contro la prof bulla

(ANSA) - ROMA, 12 MAR - Alla fine hanno deciso di prendere il problema di petto, facendo uno sciopero, con tanto di presidio e un video per...