Fu idraulico e celebre partigiano tanto da avere un ruolo importante a Dongo. Ma fu anche terzino e poi ala della Comense, giocò in B e in C e perfino il c.t. Pozzo lo valutò per la Nazionale, ma non lo convocò
Il calciatore, l’idraulico, il partigiano, ma soprattutto il giustiziere di Mussolini. Quella di Michele Moretti, conosciuto dai compagni della Resistenza come Pietro Gatti, è una storia quasi leggendaria, ma che intreccia sport e politica in uno dei momenti più drammatici e significativi per l’Italia. Nato a Como nel 1908 da padre ferroviere, le sue imprese sportive vennero presto dimenticate di fronte al ruolo che ebbe con i partigiani nella cattura e nell’esecuzione del Duce, tanto dall’aver combattuto con i partigiani prima e l’esser fuggito in Jugoslavia e Unione Sovietica poi, quando dietro la fuga rimase irrisolto il mistero di un presunto bottino in milioni di lire dell’epoca sottratto alla Repubblica di Salò e agli ultimi gerarchi fascisti. Ma quello che pochi ricordano è checome calciatore giocò come terzino e poi ala nella Comense fra il 1927 e il 1935, protagonista di una stagione fantastica in serie C, dove la squadra non perse neanche una partita con ben 90 gol segnati. Nel complesso giocò 4 campionati cadetti con 83 presenze all’attivo, fino alla stagione del 1933-34 quando, perdendo per 4-2 con il Bari, vide sfumare all’ultima giornata la promozione in A conquistata invece dalla Sampierdarenese (antenata della Sampdoria).Ebbe anche la possibilità di vestire la maglia della Nazionalei giocatori visionati da Vittorio Pozzo, unico allenatore a detenere ancora oggi il record di due Mondiali di calcio vinti, giocando fra gli azzurrabili ebbe un comportamento altalenante, focoso e discutibile, mostrando presto la sua indole combattiva, anche nella vita. A casa, il ragazzo che per sopravvivere all’epoca lavorava in realtà come idraulico a Maslianico (Como), aveva sempre ascoltato il pensiero di alcuni esponenti del socialismo italiano e straniero, come Costa, Turati, Prampolini e naturalmente Marx. Nel 1944 prese parte anche a degli scioperi, prima di lavorare in Austria, in una succursale della Gerenzana a Pols, quando la sua storia sarebbe diventata famosa. Era fuggito, ma mantenendo sempre i contatti con i vertici comunisti nell’Italia settentrionale durante la Resistenza.Fu il 25 aprile del 1944, esattamente un anno prima della Liberazione, ad abbracciare pienamente la causa dei partigiani sulle Alpi Lepontine, sulla sponda occidentale del lago di Como e del lago di Mezzola. I compagni raccontavano che avesse tante vite quante ne hanno i gatti, fino a quando non fu chiaro che il fascismo era caduto e che il Duce stava fuggendo oltreconfine. Come commissario politico della 52esima Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», operante sul monte Berlinghera, intercettò un gruppo di soldati tedeschi, che fuggendo provava a razziare abitazioni, opere d’arte, ricchezze e quello che potevano.Catturati i fuggiaschi la scoperta: Benito Mussolini e la compagna Clara Petacci, insieme ad altri fedeli gerarchi, erano nascosti fra gli ostaggi. Moretti chiese consiglio ai vertici militari comunisti, ma presto si decise per l’esecuzione del Duce. Dal posto di blocco di Dongo a Bonzanigo, frazione di Mezzegra, giunsero i capi partigiani Walter Audisio e Aldo Lampredi. La storia si fa confusa, masembra che Moretti prese parte alla fucilazione con una MAS-38 francese di calibro 7,65. Da quel momento, in una fase storica estremamente confusa, l’ex calciatore venne accusato di essere fuggito con 33 milioni di lire, parte del tesoro della Repubblica di Salò, precedentemente sequestrato ai prigionieri. Un aspetto che fu oggetto anche di un processo nel 1957, ribattezzato «L’Oro di Dongo» ma il partigiano Gatti era già scappato in Jugoslavia, prima di riprendere nel dopoguerra il proprio lavoro di idraulico nell’allora Unione Sovietica. Si racconta della perdita della moglie, di quella di un figlio, anche se il resto della sua vita fu in buona parte avvolta nel mistero, compresa la sua testimonianza diretta sulla morte del Duce. Il calciatore-partigiano fu premiato con l’Abbondino d’Oro nel 1993, massima onorificenza del Comune di Como, dove nel frattempo era rientrato nell’ultimo periodo della sua vita, prima di morire per cause naturali il 5 marzo del 1995. Una storia fra le tante di anni complessi, ma che mostra come lo sport e la vita rimangano sempre componenti difficili da slegare e che si intrecciano nello svolgersi degli eventi.
Leggendo
questo interessantissimo articolo sul colonialismo italiano e su
come usava il fumetti per giustificare la sua becera e vergogna
propaganda coloniale
La Shoa fu progettata 70 anni fa e la Germania non ha perso la memoria
Laura Lucchini 20 gennaio 2012 - 13:56
Sono passati 70 anni dall’incontro in cui si diede via alla “Endlösung der Judenfrage”, la soluzione finale alla questione ebraica. E in Germania oggi saranno presenti il presidente tedesco Christian Wulff e il ministro Yossi Peled, per ricordare una delle pagine più buie del secolo scorso. Dopo l’annuncio della ripubblicazione di estratti del Mein Kampf, il libro manifesto di Adolf Hitler, si sente sempre più viva la necessità di mantenere viva la memoria sull’Olocausto.
La villa di Wannsee
BERLINO - Il 20 gennaio del 1942 circa quindici funzionari e segretari di stato del governo nazista si riunirono in un’elegante villa sul lago alle porte di Berlino. Nell’incontro dovevano trattarsi una serie di questioni logistiche. Ciascuno dei partecipanti sapeva esattamente qual’era l’oggetto di questo incontro, perché era stato stampato, a chiare lettere, su ogni invito inviato dal capo della sicurezza Reinhard Heydrich: “Endlösung der Judenfrage”, la soluzione finale alla questione ebraica.
Tutti i presenti, tra loro anche l’”architetto” Adolf Eichmann, avevano già avuto a che fare con l’emarginazione, la persecuzione e il saccheggio ai danni della popolazione ebraica in Germania e fuori. Si conoscevano tra loro. Si erano già incontrati. Proprio per questa ragione erano stati riuniti quel giorno. Si trattava di passare all’ultima fase dell’antisemitismo: l’eliminazione fisica. La conferenza di Wannsee marcò una netta cesura nella storia dell’Olocausto.
Oggi ricorre il settantesimo anniversario di quell’avvenimento e il Governo tedesco ha programmato una cerimonia per ricordare il momento in cui si decise lo sterminio di milioni di ebrei in tutta Europa. Il presidente della Repubblica Federale, Christian Wulff, ricorderà le vittime e tutti coloro che hanno sofferto per le conseguenze di questa decisione. Il ministro Yossi Peled rappresenterà il governo israeliano nell'evento. Alla fine della commemorazione, una conferenza di storici di tre giorni tenterà ancora una volta di sviscerare i significati. Commemorazioni di questo tipo si ripetono in Germania ogni anno. Però ora cresce il numero di coloro che, senza essere neonazisti o di estrema destra, si chiedono se dopo due generazioni siano ancora necessarie queste forme di memoria storica. Il tema è oggetto di dibattito quotidiano. Tra amici tedeschi e stranieri, è facile che in una cena se ne parli.
Gli storici cercano di dire la loro, sottolineando la “singolarità” e il valore assoluto dell’evento, che va oltre ai confini della Germania e si trasforma in un “problema dell'umanità” intera. Secondo quanto scrive questa mattina Sven Felix Kellerhoff su Die Welt, «il 90% delle vittime dell’Olocausto non avevano mai posseduto un documento tedesco. Però coloro che davano ordini erano soprattuto tedeschi e austriaci, mentre l’organizzazione dello sterminio di massa avvenne quasi unicamente a Berlino». Eppure oggi «l’Olocausto è molto di più che un problema tedesco, ma un problema dell'umanità». Da qui nasce la necessità, l’imperativo, ma anche la responsabilità tedesca, di ricordare.
Dalla conferenza di Wannsee uscì un documento di 15 pagine dove si dettagliava il numero di ebrei e la loro distribuzione in paesi, così come il piano minuzioso per eliminarli. Si descriveva con precisione l'organigramma delle deportazioni sui treni che avrebbero trasportato le vittime a campi di stermino o lavoro. In base alla loro condizione fisica sarebbero stati destinati a «lavorare fino alla morte» o alla «eliminazione diretta».
Il documento è conservato nella stessa villa di Wannsee dove fu concepito e che oggi è un centro di documentazione. Il fatto che il protocollo non porti la firma diretta del Führer, Adolf Hitler, è una questione che ancora oggi divide gli storici. Da un lato c’è chi argomenta che la “soluzione finale” non fu sua iniziativa diretta. Dall’altro c’è chi invece assicura che la sua firma era superflua, semplice burocrazia. Avevano i funzionari riuniti a Wannsee l’ordine esplicito di organizzare l’Olocausto? Secondo Norbert Kampe, direttore del centro di documentazione di Wannsee «non c'è alcun dubbio». Senza l'approvazione dall'alto una simile operazione non sarebbe stata possibile. «La decisione fu precedente», assicura. Secondo Kampe, Hitler non firmò il documento semplicemente perché, «non era il suo stile, odiava la burocrazia». L’argomentazione che toglie a Hitler la responsabilità dell'ordine esplicito, piace in genere ai neonazi, e viene usata come una specie di legittimazione del culto del Führer.
L’esistenza stessa di questi dibattiti dimostra la necessità di mantenere viva la memoria. Negli ultimi giorni l’opinione pubblica è stata scossa dalla decisione dell'editore inglese, Peter McGee, di ripubblicare estratti del Mein Kampf di Adolf Hitler a partire dal 26 gennaio. Il libro-manifesto non era mai stato ristampato in Germania dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma la vera provocazione, o trovata commerciale, è che il 27 gennaio è il “Giorno della memoria”, la ricorrenza annuale in cui si commemorano in tutto il mondo le vittime dei campi di concentramento. L'operazione avviene all'interno di un'iniziativa editoriale che porta il nome Zeitungszeugen (testimoniare con i giornali) e che prevede la pubblicazione di pagine di cronaca dell'epoca, non solo nazista. Il contesto non ha comunque smorzato la polemica, dove le iniziativa di carattere storico rischiano spesso di essere prese come spunto per la celebrazione dai fanatici, e il turismo di estrema destra. L’anno scorso una mostra totalmente dedicata a Hitler nel museo storico di Berlino aveva suscitato analoghe polemiche.
Come se non bastasse, l’attualità degli ultimi mesi impone di affrontare il tema. Nello scorso mese di novembre, la scoperta di una cellula terrorista di estrema destra che riuscì a uccidere una decina di stranieri e rimanere indisturbata per dieci anni grazie alla collusione dei servizi segreti, ha riacceso con violenza il dibattito sulla proibizione del partito neonazista NPD.
«Nonostante tutto rimangono persone che esaltano la folle dottrina di stato del terzo Reich e cercano di diffonderla. Antisemitismo e intolleranza avvelenano ancora oggi molte persone. (…) Ancora oggi ci sono fascisti che non solo gridano per le strade, ma che spaventano un'intero paese con una serie di omicidi, mentre la loro bandiera dell'NPD rimane ancora tollerata dallo Stato e addirittura sovvenzionata dai parlamenti tedeschi», scrive questa mattina Dieter Graumann, presidente del Consiglio centrale degli ebrei. A quanto pare, non mancano gli argomenti per continuare a parlarne. continua qui
mi è venuto in mente questa riflessione che mi ha convinto a continuare a scrivere ( nonostante i miei amici e compagni di viaggio mi dicevano che era come lavare la testa dell’asino con il sapone o peggio dare le perle ai porci ) e a parlare di questi argomenti .
Infatti In Italia li facciamo solo a metà nonostante siamo coinvolti e vi abbiamo partecipato in prima .persona . con le leggi razziali del ’38 e, successivamente, con le deportazioni, iniziate con l’occupazione nazista avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.e con la collaborazione della Rsi (repubblica sociale italiana) Stato fantoccio della Germania nazista (lo stesso Mussolini ne era consapevole[13]), la Repubblica Sociale Italiana non fu riconosciuta dalla comunità internazionale. Fu considerata erede del Regime fascista italiano dalla Germania, che la riconobbe ma esercitò su di essa un protettorato de facto. Fu riconosciuta anche dall'Impero giapponese e dalla maggioranza degli altri Stati dell’Asse ( gli alleati filo tedeschi ) che addirittura istituì le ss italiane e abbiamo avuto ben 3 campi di sterminio