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6.4.15

Torna 72 anni dopo «Voglio rivedere la mia cara scuola» Fiorenza da Milano al Mantegna, dove si diplomò nel 1943 Oggi ha 96 anni e suona ancora il pianoforte: «Mai fermarsi»

 del 29\3\2015





A una signora, sarebbe buona educazione non chiedere l'età. «Quando è nata, signora Fiorenza?». Lei risponde prontissima: «Ho 96 anni, sono nata il 24 ottobre 1918 a Savona».è arrivata ieri alle 13.30 davanti a quella che fu la sua scuola, oggi istituto tecnico Andrea Mantegna, in via Guerrieri Gonzaga. Scesa dall'auto guidata dal custode del condominio dove abita a Milano, è accolta con un mazzo di fiori - sette rose bianche - da tre studenti (due ragazze e un ragazzo), dalla dirigente scolastica Viviana Sbardella e dal professore di scienze Mario Cantadori. «L'ultima volta che sono stata qua, è stato 72 anni fa, mi devo un po' riambientare» dice, prima di raccontare la sua emozione per essere tornata in un luogo e in un tempo lontano eppure vicino nella sua memoria. Qui il 30 settembre 1943 sostenne gli esami per poter insegnare economia domestica, il diploma di abilitazione le fu consegnato il giorno dopo. Fiorenza lo ha portato da casa, con tanti bei voti, e la dirigente Sbardella estrae dall'archivio della scuola il relativo registro con la firma della preside di allora, Maria Santarelli.
«A quel tempo la scuola si chiamava Magistero Maria José del Belgio principessa di Piemonte» dice Fiorenza. Infatti sul registro c'è proprio scritto "Regia scuola di Magistero professionale per la donna Principessa Maria di Piemonte". Fiorenza ha solo precisato «José del Belgio, che aveva sposato il principe Umberto», dice. Dopo essersi diplomata in pianoforte al Conservatorio a Milano nel 1941, Fiorenza venne a Mantova per sostenere l'esame da privatista, il diploma le serviva per lavorare. «I giovani erano in guerra - dice - e a lavorare dovevamo essere noi donne». E il lavoro lo trovò immediatamente come insegnante di economia domestica, a Reggio Emilia all'istituto del Buon Pastore. Tempo di guerra. Che però a Mantova, nonostante si fosse nel settembre del ’43, Fiorenza per fortuna non patì, i rastrellamenti tedeschi erano già avvenuti. Soffrì invece a Reggio, bombardata, così che riparò con la famiglia in Piemonte.
A Mantova «ero ospite delle suore e ricordo che - Fiorenza dice proprio così - mangiavo un bicchierone di latte in un bar qui vicino, così quando tornavo dalle suorine non avevo più fame». L'amore per il pianoforte l'ha sempre accompagnata: «Due volte al mese vado a suonare per i malati di Alzheimer», svela, e il primo appuntamento con Mantova, due settimane fa, è slittato perché Fiorenza è andata a Pistoia per seguire un suo allievo pianista impegnato in un concorso di musica. In aprile l'allievo andrà a un altro concorso, a Padova, e Fiorenza lo seguirà anche là.
«I miei nipoti mi dicono di stare ferma, invece io devo muovermi, vivere». E Fiorenza si muove e vive: vuole vedere «almeno un'aula». Viviana Sbardella, la dirigente, la invita a salire al piano superiore, e Fiorenza procede sullo scalone. Nelle aule ci sono degli affreschi. Lei li osserva: «Tante cose si sono mantenute» dice. Meravigliosa Fiorenza.

                                       Gilberto Scuderi




25.1.14

l'altro olocausto e l'altra shoa Quella dei pacifisti ed obbiettori di coscienza , religiosi ( cattolici , protestanti , testimoni di geova )

In questo  giorno  di dolore  e  di ricordo voglio parlare   di un'altra  categoria  di vittime   degli  orrori  nazisti   ignorata   dai media   e  poco   studiata   dagli studiosi  . Quella  dei pacifisti  ed  obbiettori di coscienza , religiosi  (  cattolici , protestanti  , testimoni di geova    ) Infatti  ha  ragione  il  sito http://www.olokaustos.org ( da  cui è tratta anche    la storia  riportata  sotto  )  quando dice

Se volessimo classificare le vittime del nazismo in grandi macrocategorie potremmo dire che vi furono vittime "per ciò che erano", vittime "per quel che facevano" e infine vittime "per ciò che rifiutavano di fare". Nella prima categoria possiamo far rientrare gli Ebrei, i Rom e i Sinti e - in misura variabile - gli Slavi e i "non ariani". La categoria di coloro che venivano vittimizzati "per quel che facevano" era composta da tutti coloro che mostravano attitudini e comportamenti divergenti dall'ideologia o dalla morale nazista. Gli omosessuali quindi, gli oppositori politici, i massoni, i cosiddetti "asociali", coloro che trasgredivano agli ordini. La terza categoria - quella di coloro che erano vittime "per ciò che rifiutavano di fare" appare la meno studiata. Vi rientravano ad esempio coloro che rifiutavano di prestare servizio militare (come ad esempio i Testimoni di Geova), i militari che rifiutavano di obbedire ad ordini considerati immorali. Un gruppo di appartenenti a questa categoria è stata quasi del tutto ignorata dagli storici: i pacifisti. Cosa significava essere pacifisti o anche obiettori di coscienza nel Terzo Reich? 


                                                     Franz Jaegerstaetter: il pacifista solitario
 
 
 
Un umile contadino, con tre figlie, nativo di un piccolo paesino austriaco il 9 agosto 1943 venne decapitato dopo la condanna a morte comminatagli per aver rifiutato risolutamente di essere coinvolto nella guerra di Hitler.(1)
La notte prima della barbara esecuzione che avrebbe posto fine alla sua vita Franz la trascorse da solo in cella in compagnia di un foglio di carta e di una penna. Il foglio di carta era un documento con il quale si impegnava a servire nell'esercito tedesco. Sarebbe bastata una firma per salvarsi la vita.
Quando il cappellano del carcere lo visitò lo implorò di firmare Franz rispose: «Sono in una completa e totale unione con il Signore». 

Perché non firmò? Studs Terkel ha cercato di porsi questa domanda dandosi questa risposta: «Franz Jägerstätter (  foto a destra  )  
fu un folle o un santo? Forse né l'una cosa né l'altra. Non vi è alcun dubbio tuttavia fu un 'impulso' che lo condusse ad essere un testimone solitario e che questo forse derivava da un essere umano pieno del potenziale morale dell'uomo».(2)
Studs risponde parzialmente alla domanda perché non sappiamo come questo 'impulso' crebbe sino alle sue estreme conseguenze. Per cercare di capirlo occorre ripercorrere le tracce del percorso umano.
Jägerstätter quando venne decapitato aveva compiuto da poco trentasette anni. Era nato il 20 maggio 1907 nel villaggio di Sankt Radegund in Stiria che ancora oggi non supera i 2.500 abitanti. Sarebbe stato un anonimo contadino austriaco se non avesse iniziato dopo il matrimonio a nutrire un interesse religioso sempre più vivo.
Religiosità che non rimase circoscritta al privato ma che da subito si estese alle sue scelte di vita.
Nel 1938 - quando l'Austria fu annessa alla Germania - fu l'unico del suo paesino a votare no alla fine della indipendenza austriaca. Scrivendo dal carcere quando oramai si profilava la condanna a morte scrisse alla moglie: «Preferisco senza tentennamenti rinunciare ai miei diritti sotto il Terzo Reich conservando la sicurezza di mantenere intatti i diritti garantiti dal regno di Dio». Quando nel 1943 il suo parroco cercò di convincerlo a desistere dal suo proposito Franz discusse con lui citando le Sacre Scritture in modo tale che il prete dovette rinunciare al suo tentativo. L'interpretazione dei passi che 'costringevano' Franz a rifiutare la guerra erano così chiari che nessuna obiezione era possibile.

                         Sotto: le figlie di Jägerstätter chiedono il ritorno del padre dal carcere
 
Occorre dire che la decisione di Franz non fu una specie di 'illuminazione mistica' come può sembrare.
Nel giugno 1940 era stato chiamato al servizio militare ed aveva prestato giuramento di fedeltà a Hitler come tutti i soldati. Era stato pochi giorni in divisa e venne rimandato casa per 'insostituibilità'. A quei tempi - come d'altronde in tutti gli eserciti - un uomo era considerato insostituibile quando rappresentava l'unico sostentamento per la sua famiglia. Ancora nel 1940 e nel 1941 fu richiamato ma riuscì sempre dopo brevi periodi e senza mai essere impiegato in operazioni militari a rientrare a casa a causa della sua insostituibilità.
Nel 1943, quando all'esercito occorrevano tutti gli uomini abili, venne richiamato nuovamente. Inizialmente non si presentò in caserma poi. sotto la pressione, del parroco partì ma dichiarò al momento di essere inquadrato che non avrebbe portato armi. Combattere per il nazismo era contrario alla sua coscienza. Ovviamente questo atteggiamento lo condusse di fronte ai tribunali militari. L'unica concessione che Franz fece fu quella di rendersi disponibile ad essere impiegato come soldato addetto ai servizi sanitari.
Il viceammiraglio Theodor Arps, uno degli uomini
 che mandarono a morte Jägerstätter.
Che avesse maturato le sue convinzioni pacifiste e di opposizione al Terzo Reich lo dimostra il fatto che durante uno dei processi intermedi cui venne sottoposto dichiarò che aveva maturato la sua decisione nel corso dell'ultimo anno e che era giunto alla conclusione che per lui «era impossibile essere contemporaneamente nazista e cattolico». 
  La radicalità della decisione morale di Jägerstätter fa riflettere sulla pericolosità che il suo atteggiamento rappresentò per il nazismo. La sua interpretazione del cattolicesimo come antitetico al nazismo avrebbe rappresentato un pericoloso precedente, un'inaccettabile prova di debolezza. Altro elemento importante è il fatto che Franz fu un uomo solo e - soprattutto - lasciato solo. Che l'abitudine di benedire cannoni fosse cosa illecita e immorale allora non sfiorava minimamente nessuno né laico né religioso. 
Il suo atteggiamento fu pericoloso anche per la 'parte' che rappresentava. Ancora nell'agosto del 1945 il vescovo Fliesser indicava Jägerstätter come un modello da non seguire per le sue attitudini verso il servizio militare.(3) 
Il contadino Franz venne giudicato da un'alta corte di giustizia composta dal consigliere Leuben, dal consigliere Ranft, dal generale della Luftwaffe Walther Musshoff, dal viceammiraglio Theodor Arps, dal maggior generale Schreiber. L'accusa fu sostenuta dal consigliere Kleint. 
Di questi uomini che mandarono a morte Jägerstätter sappiamo poco. Il generale Walter Musshoff è morto nel suo letto nel 1971 mentre il viceammiraglio Arps - che ricoprì l'incarico di giudice militare dal gennaio 1940 sino all'8 maggio 1945 morì in prigionia nell'aprile del 1947 a Garmisch-Partenkirchen  
   
  NOTE

1) Oltre al già citato libro di Zahn va segnalato in italiano Erna Putz, Franz Jägerstätter. Un contadino contro Hitler, Editrice Berti, 2000. Esiste poi un cortometraggio realizzato dalla Associazione “Franz Jägerstätter” con la regia di Fulvio De Martin Pinter che si può richiedere alla Associazione "Franz Jägerstätter", c/o Caritas diocesana, via Endrici, 27, 38100, Trento.
   
2) Studs Terkel in Chicago Sun Times, 24 gennaio 1965.

3) «nicht als objektiv gültiges Vorbild für seine Haltung zur Militärpflicht hingestellt werden» cfr. Bischöfliches Ordinariat Linz, Seelsorgeamt, an Pfarramt St. Radegund, 11. August 1945, fatto citato anche nella versione originale tedesca del volume di Erna Putz, p. 149.

1.11.13

i morti non sono solo il 1-2 novembre \ anche la morte è vita







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in sottofondo  \  consigliati


Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.(  V.Hugo  da  Les miserables  ) 

famosa   lapide  di un medico tempiese  
Lo so  che al  cimitero dovremmo andarci più spesso   del  periodo  fine ottobre  \ novembre in particolare il 1  e  il 2 novembre ma  fra  vari impegni  e motivi vari (  il mio  è psicologico , mi sciolgo in lacrime   sia per i parenti indiretti e diretti   che  ho  sepolti  nei vari cimiteri   galluresi e  non   sia per le persone   che  ho conosciuto durante  il mio arco di vita  fin qui  trascorso  )  .
 Ma    onde  a evitare , quello che ho visto stamattina  ( non l'ho fotografata  , rispetto a quest'altra  foto in alto a sinistra  )  

                           William-Adolphe Bouguereau (1825-1905) - The Day of the Dead (1859)  da                                      wikipedia.org



  perchè  c'era  troppa  gente   e perchè con la  fotografia risultavano  i nomi  di quelli  affianco e  sopra  e  poi   non so  usare    gli strumenti  per  modificare   le  foto ) una  toba  senza  fiori  , scolorit  di cui non ci sono neppure  i classici  fiori  finti ,  proprio come  il finale  di Les Miserables  di  V.Hugo 

                L'ERBA NASCONDE E LA PIOGGIA    CANCELLA
Nel cimitero del Père-Lachaise, in vicinanza della  fossa comune, lontano dal quartiere elegante di quella  città dei sepolcri, lontano da tutte quelle tombe stravaganti  che ostentano di fronte all'eternità le orribili mode  della morte, v'è, in un angolo deserto, lungo un vecchio muro, sotto un grande tasso lungo il quale s'arrampicano, in mezzo alla gramigna ed al muschio, i convolvoli,
una pietra. Quella pietra non è più delle altre esente dalla lebbra del tempo, dalla muffa, dal lichene e dallo sterco degli uccelli; l'acqua la fa divenire verde, l'aria l'annerisce.
Non è vicina a nessun sentiero e a nessuno vienein mente d'andare da quella parte, perché l'erba vi cresce folta e ci si bagna subito i piedi. Quando v'è un po' di sole, vengon le lucertole; intorno intorno, è tutto un fremere d'avena selvatica. In primavera, le capinere cantano sull'albero.
Quella pietra è completamente spoglia. Colui che  la tagliò pensò soltanto al puro necessario della tomba e  l'unica cura fu di far la pietra abbastanza stretta perché potesse coprire un uomo.
Non vi si legge nessun nome. Solo (sono passati molti anni da allora), una mano  vi scrisse colla matita codesti quattro versi, divenuti a poco a poco illeggibili sotto la pioggia e sotto la polvere e che, probabilmente, oggi sono scomparsi:

Ei dorme. Sebben strana fosse con lui la sorte,
Vivea. L'angel suo sparve, ed egli venne a morte.
Così, semplicemente, la vita sua finì,
Come la notte scende, quando tramonta il dì.



Infatti concordo con il commento  di




Finché sono vive nei ricordi, queste persone non saranno mai morte.
Buon Ognissanti, buon novembre, buon ponte. Un abbraccione! ^^

E  poi  perchè  ( nel prossimo post  metterò delle  foto   di alcune tombe di quello  cittadino  ) i  cimiteri    come dimostra questa  puntata  di questa trasmissione  essi oltre luogo di  culto   e  di cultura  


indicano  la  storia  di un popolo e  della  sua storia ed  il cimitero di  
  

Concludo   riportando oltre  i  soliti link  nel finale  parte  di un post    dal  

25.8.13

La pasoliniana morte di Pier Paolo DI MATTEO TASSINARI

 Sulle  note  di quel  matto sono io  dei Mnegramarò



 Ho letto   il commento  a    questo mio post  sulla mia  bacheca fb

 Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio.

Pier Paolo Pasolini

 dell'amico  ed nostro    utente Matteo Tassinari http://mattax-mattax.blogspot.it/


Come in un suo libro

di Matteo Tassinari

La morte di Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre ricorrerà la 37esima celebrazione (immagino senza particolari entusiasmi) è una morte molto pasoliniana, un romanzo scritto da lui stesso. Normale, piccolo borghese, era il quartiere dove abitava, così come la sua casa, con i centrini sotto i vasi di fiori, i ninnoli, i comodini e tutto quanto. Una casa piccolo borghese. Non aveva, Pasolini, a differenza di tanti altri intellettuali italiani (parlo di quelli di allora, s’intende, oggi è una razza estinta), la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma il modo di parlare piano, pacato, rettilineo, modesto di chi è consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce perché ne capisce la vanitosa inutilità. E in questa atmosfera anche le cose che diceva, le stesse che scritte suscitavano scandalo, irritavano o entusiasmavano, parevano cose normali, elementari e quasi banali, per lui. I gesti erano misurati, tranquilli, ma micidiali, quanto meno inusuali per l'élite intellettuale del periodo. Divorava la sua esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? "Lo ignoro. Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano".


*Vittima ideale*

Se incontravi quel volto non lo dimenticavi, uno sguardo profondamente segnato, ruvido, un Cristo. Ma un Cristo diverso da quello terribile e putrefatto di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell’iconografia cattolica. Insomma, anch’esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese. Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della “checca”. Era anzi piuttosto virile. La scena cambiava ogni qual volta era con la mamma e quest’uomo, l'intellettuale furioso s'infantilizzava, per sdilinguarsi in bacini e bacetti, in puci-puci imbarazzanti con la persona da lui più amata certamente. La Chiesa l'ha maledetto, mettendo l'omosessualità tra "i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio". Il padre si vergognava di lui, ma ritagliava tutti i suoi articoli. A Casarsa, Pasolini è sepolto insieme alla madre, in una tomba doppia, una tomba matrimoniale. Il padre sta da solo, distante. La psicanalisi non l'ha aiutato (è andato in analisi da Cesare Musatti, ma dopo sette-otto sedute s'è ritirato). Queste sono le nostre colpe. Non l'abbiamo capito. Cerchiamo di capirlo adesso, e accettiamolo per quel che è stato. La sua scrittura grande era e grande resta. La sua vita è finita com'è finita. Non illudiamoci: la passione non ottiene mai perdono fra gli umani.

Pier Paolo Pasolini e la signora maestra Susanna Colussi, sua madre

Un delitto senza fine
"Forse qualche lettore troverà che dico cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano (la banalità del loro linguaggio lo dimostra), ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo. Il vero scandalo di questi scritti è nella loro severità. Essi toccano fatti che coinvolgono, in modo patente o oscuro, la vita e la coscienza di milioni di uomini. Sono duri, aspri, "scandalosi" argomenti che Pasolini affronta senza indulgenza, senza approssimazioni. Il lettore degno della "scandalosa ricerca" trova qui degli scritti di "attualità" certo non effimeri, in cui si cerca di decifrare la fisionomia degli anni a venire. La tragica morte dello scrittore e le reazioni che ne sono seguite rivelano la terribile qualità profetica, il sicuro presagio nascosti in questo libro".                     (Pier Paolo Pasolini)

*"Il cuore te lo spaccano una sola volta,

poi sono solo graffi che non senti più" P.P.P.*

Ogni tanto si avvicinavano dei ragazzi, le classiche “marchette”, e si scambiava due chiacchiere in modo molto pulito. Uno di questi lo avrebbe fatto uccidere. L’intellighentia di sinistra italiana, nella sua ipocrisia, non ha mai accettato che Pasolini fosse morto, com'é morto. Come minimo doveva essere stato un complotto dei fascisti, fantasticheria cui diede voce per prima Oriana Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere. E invece andò proprio così. “Pino la rana” si ribellò ad una richiesta sessuale particolarmente umiliante di Pier Paolo e contando sui suoi diciassette anni, nonostante Pasolini fosse ancora un uomo atletico (giocava a calcio, che gli piaceva moltissimo) lo ha ammazzato. Così come questa intellighenzia non ha mai capito che il fondo oscuro di Pasolini era proprio l’humus necessario al suo essere artista e, soprattutto, un grande, un grandissimo intellettuale. “L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero. Perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di non sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo. La diversità è una grande ricchezza”, scriveva Pasolini nel 1974 sulla prima pagina del Corriere, come non si possono accantonare le seguenti sue parole: "Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente".

                                                                                  *Adescamento*

Ma non si può trattare, in poche righe, l’opera di Pier Paolo Pasolini. E' possibile invece ricordare una frase che scrisse nel 1962 inserita ne “Le belle bandiere”"Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione individuale e sociale. Questo per un fiorire estremo della tecnologia che sperpera ogni tradizione culturale. La corruzione sarà il male politico da difendersi". Parole dette 50 anni fa. Torna compulsivo il dubbio: la P2 è responsabile, o complice, del delitto Pasolini? Pino Pelosi, l'allora ragazzino accusato dell'omicidio, lo scorso anno dichiarò, come riportato nel libro: "Profondo Nero", che i responsabili della morte di Pasolini erano cinque uomini arrivati sul posto, come d'accordo, con una moto e una Fiat targata Catania. Tra loro due frequentatori della sezione del Msi del Tiburtino, Franco e Giuseppe Borsellino. Mentre lo picchiavano a morte gridavano: "Sporco comunista! Frocio, ecco quel che ti meriti" e botte fino a sfinirlo, sfigurarlo per poi passarci sopra il corpo tramortito con la macchina.



Icorpo massacrato di Pasolini

Famose le parole di Pelosi agli atti: "Se tu uccidi qualcuno in quel modo, o sei pazzo o hai una motivazione forte. Siccome questi assassini sono riusciti a sfuggire alla giustizia per trent'anni, pazzi non sono certamente. Quindi avevano una ragione, una ragione importante per fare quello che hanno fatto". In breve, chi l'ha ucciso, sa bene quando l'ha voluto e come. La lotta sul corpo di Pasolini ebbe varie fasi e si svolse in vari posti, accanto all'auto, a trenta metri, a settanta metri, a dieci. Nel primo posto fu trovato un anello di Pelosi. Lui lo riconobbe. Con la prima versione gli è stato sfilato nella colluttazione. Con la seconda versione, non riesce a dire perché gli sia caduto lì. Nel secondo posto Pasolini si fermò, si sfilò una maglietta, si asciugò il sangue. Poi arrivò il branco nascosto dietro Alfette in borghese ma appartenenti ai Servizi. A questo punto è interessante evidenziare la ferocia sanguinosa con cui gli assassini hanno massacrato Pasolini. Come se fosse un punto non casuale ma voluto, come a scorticare una razza una categoria: gli omosessuali. Direi che i tempi sono cambiati in meglio rispetto agli anni '70, ma sono ancora tantissimi gli omofobi che per motivi religiosi, politici, culturale calpestano i diritti di persone che non chiedono nulla se non di assomigliare a ciò che sentono dentro. Purtroppo c'è gente, ancora, che vuole cambiarti, che vuole decidere lei come devi comportarti. Per dire che la lotta per la salvaguardia dei diritti degli omosessuali è ancora sulle cime tempestose, e non pochi sono i segnali inquietanti che giungono da tutte le parti del mondo, anche da dove addirittura ti uccidono se dimostri tendenze "diverse" dal gregge.

Il corpo di Pier Paolo Pasolini, la mattina del 2 novembre 1975 ad Osta

Bombardamento ideologico televisivo
"Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito. esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Mai come oggi, un modello di vita ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo e di donna che conta, è moderno, è da imitare, e da realizzare. Non è descritto, raccontato nella sua verità. E' decantato o rappresentato, alterato, plastificato". Da "Il bombardamento ideologico televisivo".                       (P.P.P.)                                                           

"Una storia sbagliata"
"Una Storia Sbagliata" di Fabrizio De André
Se "Petrolio" fosse stato pubblicato, Pasolini forse sarebbe ancora vivo. Com'è vero che se Roberto Saviano non fosse riuscito a pubblicare "Gomorra", ora, probabilmente, sarebbe morto
 Epoca alienante per i mal disposti

Pasolini stava lavorando a un romanzo-denuncia, "Petrolio", rimasto incompiuto e pubblicato postumo, quello che può a tutti gli effetti essere considerato il suo vero “romanzo delle stragi, in cui alludeva all'attentato a Enrico Mattei, presidente dell'Eni. E forse è proprio in Petrolio che si trova la chiave della morte del suo autore, legata a un altro mistero italiano: la “strana” morte diEnrico MatteiPasolini era venuto in possesso di informazioni scottanti, riguardanti il coinvolgimento di Eugenio Cefis nel caso MatteiPasolini scrive che Eugenio Cefis, citato con il nome di fantasia di Troya, diventa a sua volta presidente dell'Eni e questo "implica la soppressione del suo predecessore". Cefis, secondo il Sismi, è il fondatore della P2. Alla sua fuga dall'Italia, nel 1977, il suo posto fu preso da Licio Gelli.Cefis, secondo Pasolini, teorizzava un golpe bianco, senza l'uso dei militari e della violenza, attraverso il controllo dei mezzi di informazione, come descritto in seguito nel "Piano di rinascita democratica" di Gelli. Per Pasolini, il delitto Mattei è il primo di una lunga serie di stragi di Stato.
"Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore | della sera, quando le campane | suonano a morto"                   PPP
Una tesi sostenuta persino da Amintore Fanfani: "forse l'abbattimento dell'aereo di Mattei, più di vent'anni fa, è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese, il primo atto della piaga che ci perseguita". In "Petrolio" descrive la storia del colosso industriale Eni ed in particolare quella del suo presidente Eugenio Cefis. Lo fa con un espediente letterario: il personaggio inventato di Troya, ricalcato sulla figura di Cefis."L'intellettuale - ha scritto Pasolini -deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento". Più semplicemente, se "Petrolio" fosse stato pubblicato, forsePasolini sarebbe ancora vivo. Come se Saviano non fosse riuscito a pubblicare "Gomorra", sarebbe già morto. 
Sul set di Uccellacci e uccellini, 1966, con Totò
Frocio comunista? Cefis!
A questo puntoseguendo tale ragionamento, ci dovremmo chiedere perché un gruppo di picchiatori della malavita romana uccide un poeta? Allo stato dei fatti ci sono due ipotesi ritenute tra le più fondate. La prima è che Pasolini sia morto così perché è così che si moriva allora. Quelli sono gli anni '70, gli anni di piombo e gli anni della "violenza diffusa" e "trasversale". Sono gli anni in cui si ammazza le gente per quello che è, perché è diversa, politicamente e culturalmente. Ci sta che un gruppo di persone, spontaneamente o spinte da qualcuno che sta più in alto e coltiva una sua relativa "strategia della tensione", si organizzi per dare una lezione a quel "frocio comunista", come Pino Pelosi oggi solo racconta di aver sentito durante il massacro di Pier Paolo Pasolini. E dare una lezione può anche essere sinonimo di ammazzare, come era successo soltanto pochi mesi prima a Sergio Ramelli, militante dell'Msi ucciso da estremisti di sinistra a Roma, o ad Alberto Brasili, simpatizzante di sinistra ucciso da estremisti di destra a Milano, e come sarebbe successo anche dopo quel 2 novembre. La seconda ipotesi, invece, ha a che fare col lavoro di Pasolini, col suo essere lo scrittore di quel "Io so." di pochi ma potenti e pronti a tutto che vuole raccontare la misteriosa, confusa e drammatica storia del nostro Paese. Pier Paolo Pasolini lo stava facendo con un romanzo molto moderno, rimasto incompiuto che si chiama "Petrolio". In quel romanzo ci sarebbe un capitolo importante che parlerebbe dei risvolti politici e criminali che girerebbero attorno all'Eni e al suo direttore Cefis e al suo predecessore Enrico Mattei, ucciso com'è stato poi provato in seguito.
Un oceano di occhi, veleni, depistaggi, diffamazioni, prevaricazioni
Cos’è questo golpe? Io so
Pasolini, nel famoso editoriale apparso sul Corriere della Sera “Cos’è questo golpe? Io so”, diceva che l’intellettuale deve avere il coraggio della verità. Deve saper dire la verità. È ancora possibile parlare di verità, alla quale si può aggiungere la giustizia) senza cadere nel dogmatismo? Un esempio per capire il suo anticonformismo dalle maglie larga d'umanità. Oriana Fallaci lo intervistò per l’Europeo, in quella che resta una straordinaria testimonianza del modo d’essere di Pasolini, il suo cercare l’umanità dove il senso comune rifugge e resta, all’artista, l’inesauribile voglia di capire, sapere, conoscere."La notte scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, i suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torno che è l’alba: con le palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpresa d’essere vivo. A volte penso che se non smetto me la trovo una pallottola in cuore o la gola tagliata". Ma è pazzo a girare così per New York, scriveva la Fallaci e Pasolini replicava con una dichiarazione d’amore per la città: Vorrei aver 18anni per vivere tutta una vita quaggiù".


 Lo scritto "Corsaro" che scelse la sua fine
Quale sia in assoluto la verità nessuno lo sa a parte quelli che credono in Dio. L’intellettuale deve dire onestamente quello che pensa e non è detto che sia in assoluto giusto, a prescindere da qualsiasi legame di tipo partitico o, se vogliamo, per usare l’espressione che ha usato lei, feudale. Pasolini è un ottimo esempio, nel senso che diceva quello che pensava. Non è detto che tutto quello che pensava Pasolini fosse giusto, ma era il punto di partenza che era giusto e onesto. L’intellettuale, ma anche il giornalista, non dovrebbe essere legato a gruppi di potere, altrimenti non fa più il giornalista o l’intellettuale. Ad esempio un giornalista dell’Unità degli anni ’50, lì giustamente poiché dichiarato, non faceva il giornalista, ma il propagandista.
Cos'è questo golpe? Io so. 


di Pier Paolo Pasolini
dal Corriere della Sera, 14 novembre 1974
                                 *Io so*
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine deicolonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) unacrociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastrodel referendum. 

                   Brescia, Bologna, Italicus: regia occulta
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum". Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano) o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. 
Il corpo di Pasolini ritrovato dopo il massacro a Ostia. Una notte sbagliata.
 La tensione di Pasolini


Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi. Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.


"Il coraggio intellettuale della verità e la politica
sono cose inconciliabili in Italia"

La poetica di Pasolini è la realtà in cui viveva, tanto che alcuni l’hanno definito “poeta civile e moralista”. Ma sono “prediche” che piacciono, queste di Pasolini, perché con la sua schiettezza esce dagli schemi, presentandoci quasi un diario politico, culturale, cronachistico e letterario dell’epoca, che vale la pena leggere anche nei nostri giorni. egotismo, non v'è orizzonte, alcuna prospettica. Così, quello che ha fatto Pasolini in quegli anni è grande giornalismo, altro che Montanelli. Un giornalista racconta quel che succede, lo osserva e lo comprende. E Pasolini capiva, intuiva e scriveva, buttando poesia e letteratura nella cronaca e nel racconto. L’autore ha cioè interpretato a suo modo una forma di giornalismo culturale che all’epoca era poco in voga, ma di cui anche oggi avremmo un disperato bisogno: per capire, interpretare e avere il coraggio di mescolare la realtà alla poesia.Nessuno è più disposto a gridare che il Re è nudo. Nessuno è più capace di denunciare nulla. Un'abulia totale come nella "Domenica delle palme" di De André, dove le cicale parlano al nostro posto, incapaci di reagire ad ogni vessazione sociale, culturale e politica. Vedo persone col naso all'insù, ammirare le stelle, fregandosene del marcio su cui camminiamo e indifferenti al rumore di questo motore, gonfi di pregiudizi deteriorati appartenenti ad una società collassata. Tra mele marce, c'è poca scelta. 
Pasolini sulla tomba di Antonio Gramsci

*Infine*
Cosa vedeva Pasolini che gli altri intellettuali non vedevano? Cosa sapeva che numerosi portaborse sapevano ma non dicevano? Vede trame stragiste, servizi segreti deviati, corruzione politica, misfatti compiuti e perpetuati dalla legge. Vede la mutazione antropologica della classe dominante riverberarsi nel linguaggio narcotizzante della televisione e nell’immutata logica del nuovo Potere che ha portato alla cattiva società dei ceti immobili, del finto sviluppo senza vero progresso, delle diseguaglianze senza ascensore sociale, "in un Paese orribilmente sporco e privo di mobilità, stagnante". Vedeva l'Italia di oggi.
Monumento, ripulito, a Pasolini nel piazzale dov'è stato ucciso ad Ostia

14.6.13

banditi ( o presunti tali ) senza tempo la storia di antonio bossu


dalla nuova sardegna del 27\5\2013


Le memorie in versi dell’ex detenuto

L’orgolese Antonio Bassu scontò un quarto di secolo per la strage di Monte Maore: a 91 anni ha deciso di scrivere un libro


ORGOSOLO Antonio Bassu?  ( foto  a  sinistra   )  Innocente. La vox populi non ha mai avuto dubbi, il paese sapeva e lui Graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 1974, l'ex carcerato affida ora al ritmo dei versi endecasillabi in ottava rima le sue memorie di miele amaro. Ci pensava da oltre trent'anni, ora non ha più dubbi: è giunta l'ora della narrazione poetica.A novantun anni suonati, la libertà per lui è sempre un cavallo veloce che non teme le discese ripide e salva il suo cavaliere intrepido. Lui, su cadderi (il fantino) di tante vàrdias paesane, è stato derubato di un quarto di secolo della sua esistenza: 25 anni meno 25 giorni. «Mi sarei dovuto presentare prima della strage di Monte Maore, ero latitante, accusato di reati minori – ricorda –. Non l'ho fatto perché il mio avvocato, il senatore orgolese Antonio Monni, in quel periodo era in vacanza in Svizzera». Nella sua casa del rione storico di Caspiri, zona di Monte Isoro, Antonio Bassu risponde volentieri alle domande.aveva le prove: 17 testimoni nuoresi in corte d'assise dissero a una voce che il giorno della strage di Monte Maore – tre carabinieri uccisi e un quarto reso cieco da una pallottola, il 13 agosto 1949, in una tragica rapina alla camionetta che trasportava le buste paga degli operai ogliastrini dell'Erlas – il pastore orgolese era con loro sull'Ortobene. Ma i giudici diedero ascolto soltanto al pm Francesco Coco: ergastolo, confermato in appello (con Coco pm anche nel giudizio di secondo grado) e in cassazione.
Quando è nata l'idea di domandare aiuto alle Muse?
«Nel 1982, quando lo Stato mi chiese il pagamento del vitto e dell'alloggio in carcere e un mio compaesano e coetaneo, Antonio Piras noto Pireddu che viveva a Bolotana, mi scrisse un sonetto consolatorio».
Le poesie parlano solo della vicenda giudiziaria?
«No, quando mai? Trattano della mia vita, dall'infanzia alla vecchiaia, con gli episodi più salienti. Del periodo in cui era ancora vivo mio padre: avevo quindici anni quando lui, reduce della grande guerra, morì prematuramente. Ci sono le stagioni vissute da servo pastore, a Nuoro e Orgosolo, e soltanto dopo le stagioni della mia disavventura nei penitenziari di Ventotene e di Porto Azzurro. Ma c'è anche dell'altro».
Cos'altro?
«Il mio paese, le corse dei cavalli, i murales, la decadenza».
Il degrado del villaggio natale?
«Sì, nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e della comparsa di un malattia dello spirito. L'egoismo».
Come si vive il passaggio dalla libertà alla cella del carcere?
«Sei davanti a una scelta: reazione o rassegnazione. Se non reagisci sei perduto. Se a Lanusei stavo male, a Cagliari era molto peggio»
Perché peggio?
«In una cella teoricamente destinata a un solo prigioniero eravamo in tre, 24 ore su 24, tranne un'ora d'aria nei cunicoli, non ti dico in quali condizioni. Si doveva parlare a bassa voce, non mi potevo fare nemmancu una cantadedda, neppure una cantatina».
Cosa si prova a ripensarci?
«Non mi sembra vero di essere riuscito a sopportare tante privazioni».
Maltrattamenti?
«In tutta sincerità debbo dire: nessuno mi ha mai messo un dito addosso. Ma anch'io non ho mai mancato di rispetto a nessuno».
Nelle poesie degli ultimi anni due parole tornano più di altre: resurrezione e risorto...
«Sì, tornano. Istintivamente, è più forte di me. Stare in carcere è come essere morti e sepolti. La galera è una tomba. Venticinque anni là dentro hanno distrutto la mia giovinezza».
Di chi la colpa di questo dramma?
«Del sistema barbaro di una giustizia che riteneva delinquenti tutti gli orgolesi: forze dell'ordine e magistratura davano ascolto solo alle spie prezzolate, di mestiere».
Con qualche eccezione?
«Indubbiamente. Riconosco al famoso maresciallo Loddo un'onestà professionale al di sopra di ogni sospetto. Con me è stato corretto anche nella testimonianza davanti alla corte».
Assiste all'intervista Franco Buesca, un giovane pastore di Orgosolo che ha acquisito il merito di essere una sorta di enciclopedia vivente della storia del suo paese. 


Le sue parole sono lo specchio esatto del sentire comunitario: «L'ischimus totus, l'ischit sa vidda: tziu Antoni est innossente (lo sa il paese intero: lo “zio” Antonio è innocente)».Uno dei testi più emozionanti tra le poesie di Antonio Bassu riguarda la liberazione, dopo la grazia firmata dal presidente della Repubblica: 26 ottave, 208 versi. Eccone una parafrasi italiana compatibile.«Era il 28 agosto 1974. Alle otto del mattino mi avviai verso il camerone dove cucivo palloni per tornei di calcio: il mio lavoro, a Porto Azzurro. Ero triste, da innocente condannato alla segregazione perpetua».Poche ore prima Antonio aveva fatto un sogno: «Sul fare dell'alba sentii una voce che mi chiamava e subito dopo vidi una figura candida come neve, simpatica e sorridente. Mi disse due parole: buona libertà. Mi sedetti e iniziai a lavorare. Non era facile, i punti dovevano essere lineari. D'un tratto sentii alcuni che dicevano: è arrivato un foglio di scarcerazione. Si erano fatte le nove e continuai a lavorare».Ed ecco la sorpresa: «Venne da me un guardiano e mi disse di andare con lui dal direttore».Il responsabile del penitenziario attendeva il prigioniero con il capo delle guardie. «Mi salutarono contenti e mi annunciarono la grazia. Non riuscivo a parlare per l'emozione. Feci un cenno di ringraziamento e andai a prepararmi: mi tolsi la divisa interna e indossai un abito da libero cittadino».L'addio alla reclusione è uno dei punti più intensi: «E pro s'ùrtima 'orta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto:/ in presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella./ Dae su muru ch'ispico una foto/ chi fit lughente coment'e istella/ sa chi m'at fatu sempre cumpagnia,/ sa figura fit sa 'e mama mia» (Per l'ultima volta rientro nella mia cella e mi preparo in fretta il fagotto. Ritiro la cosa più bella: da una parete stacco una foto luminosa come una stella che mi aveva sempre fatto compagnia: il ritratto di mia madre».Arrivò l'ora di salutare i compagni di pena.«Erano gli uomini con i quali avevo diviso il dolore e l'angoscia in quel luogo oscuro dove non esiste l'allegria: chi sconta una pena è come un cane legato a catena. Mi avviai verso il portone che si spalancava alla libertà. Superato l'uscio, mi voltai e feci il segno della croce con la mano sinistra».Con Bassu c'era un guardiano che lo doveva accompagnare fino al porto, dov'era pronta un'imbarcazione. Il prigioniero iniziava a respirare l'aria inebriante della libertà.Ricorda ancora Antonio Bassu: «La traversata da un porto all'altro durò due ore. Mi sentivo come un risuscitato, dopo 25 anni in una cella buia di appena quattro metri quadrati. In quel tempo il carcere era duro, ancora esistevano i mezzi di tortura: letti di forza e fruste di tutti i tipi permessi dal codice Rocco che alla prigionia aggiungeva isolamento e segregazione».Sbarcato a Piombino, Antonio andò dritto alla stazione. Sul treno trovò posto accanto a un finestrino: «Avevo un desiderio insopprimibile di vedere le bellezze della natura, per dimenticare il passato: mi sembrava di essere entrato in una vita nuova, come un uccello che esce dall'uovo».Poi l'imbarco, l'arrivo in Sardegna, l'incontro con la figlia Mara. Ma la scena più commovente è l'abbraccio con la madre, a Orgosolo.«La ritrovai vecchia e sfinita ma sempre amorosa e sorridente. Mi disse: adesso che sei tornato tu, in casa è ritornata l'allegria. E poi, come in un sussurro: quando morirò andrò via contenta».



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...