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23.9.21

“Sciolgo i cani”. Così lo zio dei fratelli Bianchi ha aggredito i giornalisti de La Vita in Diretta “Sciolgo i cani”. È la minaccia dello zio di Marco e Gabriele Bianchi contro la troupe Rai della trasmissione ‘La Vita In Diretta’, che è stata aggredita dalla famiglia dei due tra gli imputati

 di cosa stiamo parlando 


 
premetto che : non ho visto la trasmissione  ed la puntata incriminata  ., non mi piace  il giornalismo di quel tipo .Ma  se usi contro d'essa e i loro.giornalisti a violenza  fisica vuol dire  che  tu abbia qualcosa da nascondere  o  li difendi gli assasini  o presunti     tali  .  







“Sciolgo i cani”. Così lo zio dei fratelli Bianchi ha aggredito i giornalisti de La Vita in Diretta
“Sciolgo i cani”. È la minaccia dello zio di Marco e Gabriele Bianchi contro la troupe Rai della trasmissione ‘La Vita In Diretta’, che è stata aggredita dalla famiglia dei due tra gli imputati a processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. La giornalista ha raccontato a Fanpage.it i momenti dell’aggressione.
           A cura di Alessia Rabbai


La giornalista de ‘La Vita In Diretta' Ilenia Petracalvina ha raccontato a Fanpage.it l'aggressione verbale e fisica subita dalla troupe della trasmissione Rai da parte della famiglia Bianchi, avvenuta durante un servizio nel territorio in cui un anno fa nella notte si è consumato il brutale pestaggio di Willy Monteiro Duarte. La giornalista e il cameraman si sono recati a Colleferro, dove i genitori e i parenti di due dei quattro imputati a processo per omicidio vivono, per chiedere spiegazioni sulla frase pronunciata un anno fa dalla madre dei due ragazzi in carcere riguardo il ventunenne ucciso di botte: "Lo hanno messo in prima pagina manco fosse morta la regina". "Un'aggressione violenta e inaspettata" così la definisce Petracalvina. Il tutto è accaduto in pochi attimi, minacce a seguito dei quali i componenti della troupe non hanno potuto fare altro che andarsene, preoccupati per possibili ripercussioni sulla propria incolumità fisica.
Il racconto dell'aggressione alla troupe Rai de La Vita In Diretta
"Quando siamo arrivati davanti all'abitazione per porre qualche domanda la mamma dei fratelli Bianchi era affacciata alla finestra. Accorgendosi che eravamo giornalisti ci ha aggrediti verbalmente, ripetendomi per due volte che non avrei dovuto fare l'intervista. Subito dopo è comparso suo marito, che ha preso di mira l'operatore intento a riprendere e gli si è avvicinato velocemente, dandogli uno schiaffo, colpendolo tra la guancia e l'orecchio sinistro". Un gesto che ha colto entrambi di sorpresa. La giornalista si è allarmata e ha capito che la situazione non si stava mettendo bene: "Mi sono spaventata quando lo zio di Marco e Gabriele Bianchi ha pronunciato la frase ‘Sciolgo i cani', perché ho subito pensato che ce la saremmo vista brutta, per questo ho detto all'operatore di andarcene. Lui ha ripreso tutto, poi siamo saliti in macchina". A seguito dell'aggressione il cameraman si è recato in ospedale per alcuni accertamenti e refertato in pronto soccorso ha ricevuto tre giorni di prognosi.


Il tutto in mezzo alla strada, fuori dalla sua proprietà e per la sola “colpa” di aver fatto il loro lavoro: domande. Di fronte a una tale brutalità, il pensiero è immediato: la mela non cade mai lontana dall’albero. O, per essere più chiari, come  dice  Lorenzo Tosa ,  dimostra la più incontrovertibile delle verità: che il mostro nasce in famiglia, nell’educazione (o nella sua totale mancanza), nel brodo culturale in cui si cresce. Nell’attesa, pene certe, eque e rapidissime, giustizia per Willy e poi l’oblio. Abbiamo sopportato anche troppo questo orrore.
Ora  sarò   impopolare, suonerà pure urticante, ma la verità è che non riesco a provare il minimo sollievo o se ci riesco e solo temporaneo né a placare alcuna sete di giustizia nel sapere che i fratelli Bianchi, i presunti visto che c'è un processo in corso assassini di Willy Monteiro, in carcere vivono sotto la minaccia di essere accoltellati.Né pietà né soddisfazione. Quello che provo è , lo stesso di Lorenzo Tosa , più simile a un senso di sconfitta nel vedere il punto a cui siamo arrivati: una tale sfiducia nei confronti della giustizia e dello Stato da spingere milioni di persone - in buona fede - a preferire, anzi invocare, la “legge del carcere”, la vendetta sommaria, il contrappasso dantesco.
Nel momento in cui il carcere assume i contorni della piazza di Colleferro in cui è stato massacrato Willy, nell’attimo in cui accettiamo - anzi, addirittura auspichiamo - questo passaggio logico, è come se stessimo accettando le regole imposte dai suoi assassini, l’idea di mondo delle bestie, la violenza come arma di soluzione, e implicitamente rifiutando e umiliando la civiltà che Willy fino all’ultimo respiro della sua vita aveva cercato di salvare.Quando fu arrestato Bernardo Provenzano, uno dei criminali più brutali e feroci di tutti i tempi, la prima cosa che fecero gli agenti fu trovargli rapidamente l’occorrente per un’iniezione per curare la sua malattia.“Gli dimostrammo la differenza tra noi e loro: non ci si abbassa mai al livello dei criminali che si combattono” ricordò anni dopo Pietro Grasso.Ogni volta che deroghiamo a questo principio, stiamo dando ragione a loro.Ogni volta che cediamo alla pancia, alle viscere, stiamo accettando un populismo che a parole pretendiamo di combattere.In cosa, in questo, diversi da un Salvini qualsiasi ?C’è solo un modo per restituire a Willy e alla famiglia giustizia: assicurarci che lo Stato protegga chi ha in custodia, che li processi con le sue regole, non quelle del branco, che sia più forte dei criminali che giudica, non più debole. E lo faccia una volta tanto in modo serio, rigoroso, il più possibile rapido ed equo, il cui verdetto non faccia mai dubitare a nessuno, neanche per un istante, che lo Stato non abbia fatto il suo dovere.Giustizia, non vendetta. Altrimenti abbiamo già perso.

29.6.14

Capire l’Europa del ‘14 è indispensabile per intendere quella del 2014.






Capire l’Europa del ‘14 è indispensabile per intendere quella del 2014. Non è possibile capire se cammini eretto là dove loro sono andati strisciando come vermi. Non puoi, se porti scarpe asciutte e vestiti puliti‘‘

                     Paolo Rumiz








Combattendo nelle trincee con i diari di nonni e bisnonni


Centenario della Grande Guerra: speciale on-line del nostro giornale in collaborazione con l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano - I DIARI RACCONTANO

di Pier Vittorio Buffa





Tornare con loro nelle doline del Carso, sulle cime dolomitiche, nel fango delle trincee. Ascoltare i loro racconti fatti di poche parole e di tantissime emozioni. Lasciar scorrere i giorni al loro ritmo. Abituarsi a sentir parlare di morte, cadaveri, amputazioni, gas che uccide. Viaggiare sulla mappa dei campi di battaglia scoprendone o riscoprendone la toponomastica. E non dimenticare.
Per tutto questo è nato “La Grande Guerra, i diari raccontano”, lo speciale del nostro giornale realizzato in occasione del centenario della guerra mondiale 1914-1918. Uno speciale on-line frutto della collaborazione tra il gruppo editoriale L’Espresso e l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e raggiungibile dalla homepage del sito del nostro giornale. Lì, nelle stanze dell’archivio fondato trent’anni fa da Saverio Tutino, sono conservati quasi ottomila tra diari, memorie ed epistolari di altrettanti italiani e italiane. Sono straordinari spaccati di vita privata e pubblica, microstorie con le quali ripercorrere la vita del nostro Paese. In quella montagna di taccuini, pagine di quaderno, lettere, fotografie, ci sono alcune centinaia di “fondi” che parlano della Grande Guerra. Sono soprattutto racconti di soldati al fronte, ma anche testimonianze di crocerossine o donne sfollate con la loro famiglia.
È dall’analisi di questi diari che è nato lo speciale, uno strumento per certi versi unico. Per la prima volta documenti di questo valore vengono messi a disposizione di tutti in versione digitale. Sono un migliaio i brani estratti dai diari. Selezionati in base a criteri giornalistici e di interesse generale e collocati nel modo più puntuale possibile sul territorio. Ogni estratto ha le sue coordinate geografiche che popolano una grande mappa interattiva. È catalogato sulla base dei temi che affronta (il combattimento, la fame, la morte, il freddo) e del grande evento bellico al quale eventualmente si riferisce (disfatta di Caporetto, presa di Gorizia, battaglia di Vittorio Veneto). E, naturalmente, è collegato al proprio autore le cui vicende belliche vengono brevemente descritte. Il tutto con un apparato documentario essenziale e numerosi rinvii a schede e approfondimenti.
Immergendosi nello speciale e lasciandosi guidare dalle proprie sensibilità e curiosità ci si avvicina in modo straordinario ai nostri nonni e bisnonni. In alcuni momenti sembra quasi di stare al loro fianco.
Eccoci su una piazzetta di Noventa Padovana mentre un generale ordina la fucilazione, subito eseguita, di un soldato colpevole, mentre lo salutava, di non essersi tolto la pipa di bocca. Oppure eccoci mentre chiudiamo nella tasca della giubba una lettera ai genitori che un compagno ci ha dato prima di andare in azione, perché la si consegni alla famiglia se lui dovesse morire. Vediamo il capitano assassino. Uccide due suoi soldati che si sono nascosti invece che combattere e viene a suo volta freddato da una fucilata austriaca.
A Caporetto stiamo per andare a letto ma ci dicono di dormire con le scarpe perché durante la notte. , quando inizierà l’attacco nemico, bisognerà subito scappare.
Sul Piave siamo accanto ai ragazzi di appena diciotto anni che muoiono a centinaia. Del gas vediamo gli effetti riportando indietro i cadaveri dei nostri compagni asfissiati e poi finiti a colpi di mazza. E poi siamo a Gorizia liberata, semidistrutta e disseminata di cadaveri. In una delle centinaia terre di nessuno, nascosti dietro al cadavere di un compagno per aspettare il buio e cercare di tornare indietro. Una notte poi, dopo un attacco, abbiamo dormito come sassi e solo la mattina ci siamo accorti che sotto di noi non c’era un materasso, ma il corpo di un compagno ucciso.
Gli effetti di un simile viaggio nel tempo possono essere molteplici. L’unico che andrebbe ricacciato indietro è quello di passare oltre catalogando tutto questo come roba vecchia di un secolo, sulla quale non vale la pena soffermarsi troppo. Che sia roba vecchia non c’è dubbio, ma passare oltre sarebbe un errore per almeno due buone ragioni.
La prima è per il rispetto che si deve a una generazione che, suo malgrado, è stata decimata nel senso più stretto del termine (morì più del 10 per cento degli uomini mobilitati). Le tremende sofferenze di quella generazione, che la lettura dei diari restituisce con straordinaria concretezza, sono state schiacciate da tutto quello che è venuto dopo. Chi da ragazzo era stato nelle trincee dell’Isonzo a poco più di cinquant’anni è il reduce dimenticato di una guerra d’altri tempi di cui, chi è nato nel secondo dopoguerra, si è occupato poco o niente. La seconda è perché serbare memoria di una guerra è una delle cose più sane che un popolo possa fare. Non per celebrarne gli eroi o mandare a memoria battaglie e spostamenti di truppe. Ma per imprimersi bene nel Dna che cosa vuol dire “andare in guerra”. Per far diventare tutt’uno con il nostro comune sentire il concetto che la guerra è la cosa più terribile che l’uomo abbia inventato.
Ecco, se “I diari raccontano” darà a tutto questo un aiuto anche infinitesimale uno degli scopi principali per il quale è stato costruito sarà stato raggiunto.

                                         @PierVittBuffa






infatti esso è come dice Marco Siddi Uno speciale molto interessante. Tra l'altro, se parliamo dei soli sardi richiamati alle armi, la percentuale dei caduti fu addirittura maggiore del 10%: in un saggio pubblicato in "Storia della Sardegna dal Settecento a oggi", Manlio Brigaglia parla di 13.602 morti su quasi 100.000 sardi richiamati, dunque quasi il 14%. Nel 1914 la Sardegna aveva 870.000 abitanti (bambini, donne e anziani inclusi, ovviamente), il che significa che quasi tutti i giovani ragazzi sardi di allora furono mandati al fronte.
P.S.: per chi volesse leggere quanto poco "eroica" fu la guerra italiana, soprattutto se parliamo dei comandi politici e militari: http://www.instoria.it/home/grande_guerra_fronte_italiano.htm


Inoltre  la lettura  di questi diari  insieme  a  questa  foto uno dei luoghi  simbolo di  grandi massacri e battaglie   






                                              della bravissima https://www.facebook.com/silvia.z.zoroddu

mi ha riportato alla mente sia le storie che sentivo da piccolo avendo avuto nella paterna che in quella materna di cui hi accenato qui da qualche parte



25.1.14

l'altro olocausto e l'altra shoa Quella dei pacifisti ed obbiettori di coscienza , religiosi ( cattolici , protestanti , testimoni di geova )

In questo  giorno  di dolore  e  di ricordo voglio parlare   di un'altra  categoria  di vittime   degli  orrori  nazisti   ignorata   dai media   e  poco   studiata   dagli studiosi  . Quella  dei pacifisti  ed  obbiettori di coscienza , religiosi  (  cattolici , protestanti  , testimoni di geova    ) Infatti  ha  ragione  il  sito http://www.olokaustos.org ( da  cui è tratta anche    la storia  riportata  sotto  )  quando dice

Se volessimo classificare le vittime del nazismo in grandi macrocategorie potremmo dire che vi furono vittime "per ciò che erano", vittime "per quel che facevano" e infine vittime "per ciò che rifiutavano di fare". Nella prima categoria possiamo far rientrare gli Ebrei, i Rom e i Sinti e - in misura variabile - gli Slavi e i "non ariani". La categoria di coloro che venivano vittimizzati "per quel che facevano" era composta da tutti coloro che mostravano attitudini e comportamenti divergenti dall'ideologia o dalla morale nazista. Gli omosessuali quindi, gli oppositori politici, i massoni, i cosiddetti "asociali", coloro che trasgredivano agli ordini. La terza categoria - quella di coloro che erano vittime "per ciò che rifiutavano di fare" appare la meno studiata. Vi rientravano ad esempio coloro che rifiutavano di prestare servizio militare (come ad esempio i Testimoni di Geova), i militari che rifiutavano di obbedire ad ordini considerati immorali. Un gruppo di appartenenti a questa categoria è stata quasi del tutto ignorata dagli storici: i pacifisti. Cosa significava essere pacifisti o anche obiettori di coscienza nel Terzo Reich? 


                                                     Franz Jaegerstaetter: il pacifista solitario
 
 
 
Un umile contadino, con tre figlie, nativo di un piccolo paesino austriaco il 9 agosto 1943 venne decapitato dopo la condanna a morte comminatagli per aver rifiutato risolutamente di essere coinvolto nella guerra di Hitler.(1)
La notte prima della barbara esecuzione che avrebbe posto fine alla sua vita Franz la trascorse da solo in cella in compagnia di un foglio di carta e di una penna. Il foglio di carta era un documento con il quale si impegnava a servire nell'esercito tedesco. Sarebbe bastata una firma per salvarsi la vita.
Quando il cappellano del carcere lo visitò lo implorò di firmare Franz rispose: «Sono in una completa e totale unione con il Signore». 

Perché non firmò? Studs Terkel ha cercato di porsi questa domanda dandosi questa risposta: «Franz Jägerstätter (  foto a destra  )  
fu un folle o un santo? Forse né l'una cosa né l'altra. Non vi è alcun dubbio tuttavia fu un 'impulso' che lo condusse ad essere un testimone solitario e che questo forse derivava da un essere umano pieno del potenziale morale dell'uomo».(2)
Studs risponde parzialmente alla domanda perché non sappiamo come questo 'impulso' crebbe sino alle sue estreme conseguenze. Per cercare di capirlo occorre ripercorrere le tracce del percorso umano.
Jägerstätter quando venne decapitato aveva compiuto da poco trentasette anni. Era nato il 20 maggio 1907 nel villaggio di Sankt Radegund in Stiria che ancora oggi non supera i 2.500 abitanti. Sarebbe stato un anonimo contadino austriaco se non avesse iniziato dopo il matrimonio a nutrire un interesse religioso sempre più vivo.
Religiosità che non rimase circoscritta al privato ma che da subito si estese alle sue scelte di vita.
Nel 1938 - quando l'Austria fu annessa alla Germania - fu l'unico del suo paesino a votare no alla fine della indipendenza austriaca. Scrivendo dal carcere quando oramai si profilava la condanna a morte scrisse alla moglie: «Preferisco senza tentennamenti rinunciare ai miei diritti sotto il Terzo Reich conservando la sicurezza di mantenere intatti i diritti garantiti dal regno di Dio». Quando nel 1943 il suo parroco cercò di convincerlo a desistere dal suo proposito Franz discusse con lui citando le Sacre Scritture in modo tale che il prete dovette rinunciare al suo tentativo. L'interpretazione dei passi che 'costringevano' Franz a rifiutare la guerra erano così chiari che nessuna obiezione era possibile.

                         Sotto: le figlie di Jägerstätter chiedono il ritorno del padre dal carcere
 
Occorre dire che la decisione di Franz non fu una specie di 'illuminazione mistica' come può sembrare.
Nel giugno 1940 era stato chiamato al servizio militare ed aveva prestato giuramento di fedeltà a Hitler come tutti i soldati. Era stato pochi giorni in divisa e venne rimandato casa per 'insostituibilità'. A quei tempi - come d'altronde in tutti gli eserciti - un uomo era considerato insostituibile quando rappresentava l'unico sostentamento per la sua famiglia. Ancora nel 1940 e nel 1941 fu richiamato ma riuscì sempre dopo brevi periodi e senza mai essere impiegato in operazioni militari a rientrare a casa a causa della sua insostituibilità.
Nel 1943, quando all'esercito occorrevano tutti gli uomini abili, venne richiamato nuovamente. Inizialmente non si presentò in caserma poi. sotto la pressione, del parroco partì ma dichiarò al momento di essere inquadrato che non avrebbe portato armi. Combattere per il nazismo era contrario alla sua coscienza. Ovviamente questo atteggiamento lo condusse di fronte ai tribunali militari. L'unica concessione che Franz fece fu quella di rendersi disponibile ad essere impiegato come soldato addetto ai servizi sanitari.
Il viceammiraglio Theodor Arps, uno degli uomini
 che mandarono a morte Jägerstätter.
Che avesse maturato le sue convinzioni pacifiste e di opposizione al Terzo Reich lo dimostra il fatto che durante uno dei processi intermedi cui venne sottoposto dichiarò che aveva maturato la sua decisione nel corso dell'ultimo anno e che era giunto alla conclusione che per lui «era impossibile essere contemporaneamente nazista e cattolico». 
  La radicalità della decisione morale di Jägerstätter fa riflettere sulla pericolosità che il suo atteggiamento rappresentò per il nazismo. La sua interpretazione del cattolicesimo come antitetico al nazismo avrebbe rappresentato un pericoloso precedente, un'inaccettabile prova di debolezza. Altro elemento importante è il fatto che Franz fu un uomo solo e - soprattutto - lasciato solo. Che l'abitudine di benedire cannoni fosse cosa illecita e immorale allora non sfiorava minimamente nessuno né laico né religioso. 
Il suo atteggiamento fu pericoloso anche per la 'parte' che rappresentava. Ancora nell'agosto del 1945 il vescovo Fliesser indicava Jägerstätter come un modello da non seguire per le sue attitudini verso il servizio militare.(3) 
Il contadino Franz venne giudicato da un'alta corte di giustizia composta dal consigliere Leuben, dal consigliere Ranft, dal generale della Luftwaffe Walther Musshoff, dal viceammiraglio Theodor Arps, dal maggior generale Schreiber. L'accusa fu sostenuta dal consigliere Kleint. 
Di questi uomini che mandarono a morte Jägerstätter sappiamo poco. Il generale Walter Musshoff è morto nel suo letto nel 1971 mentre il viceammiraglio Arps - che ricoprì l'incarico di giudice militare dal gennaio 1940 sino all'8 maggio 1945 morì in prigionia nell'aprile del 1947 a Garmisch-Partenkirchen  
   
  NOTE

1) Oltre al già citato libro di Zahn va segnalato in italiano Erna Putz, Franz Jägerstätter. Un contadino contro Hitler, Editrice Berti, 2000. Esiste poi un cortometraggio realizzato dalla Associazione “Franz Jägerstätter” con la regia di Fulvio De Martin Pinter che si può richiedere alla Associazione "Franz Jägerstätter", c/o Caritas diocesana, via Endrici, 27, 38100, Trento.
   
2) Studs Terkel in Chicago Sun Times, 24 gennaio 1965.

3) «nicht als objektiv gültiges Vorbild für seine Haltung zur Militärpflicht hingestellt werden» cfr. Bischöfliches Ordinariat Linz, Seelsorgeamt, an Pfarramt St. Radegund, 11. August 1945, fatto citato anche nella versione originale tedesca del volume di Erna Putz, p. 149.

22.1.14

la storia di Iby Knill e la sua Promessa di una ragazza destinata a morire: sopravvissuta all'Olocausto rompe 70 anni di silenzio per raccontare ultime parole di adolescente prima che lei e twin sono stati portati via per esperimenti di Auschwitz



Promise to a girl doomed to die: Holocaust survivor breaks 70 years of silence to tell of teenager's last words before she and twin were taken away for Auschwitz experiments 
Iby Knill promised teenager she would tell everyone the evil of Auschwitz 

But when the death camps were liberated it 'didn't feel right' 
Now aged 90 and in Leeds, she found the courage as a mature student 

PUBLISHED: 13:04 GMT, 5 December 2013 


A grandmother who survived the Holocaust has finally spoken about the horrors of Auschwitz 70 years after promising a girl she would tell the world what she had witnessed.
Iby Knill, 90, recalls how on the first night she spent at the death camp in July 1944 a frail teenager crawled over to her and begged 'if you live, please tell our story.'

Four years ago Mrs knill took a course in theology and it was during one of the group sessions that she finally revealed she was sent to the concentration camp when she was 20.
In a moving testament she describes the realisation that she faced being gassed like six million others.
Traumatising: Iby Knill, pictured after Auschwitz was liberated and as a Leeds grandmother today, has fulfilled a promise she made to a dying girl to tell the world about the horrors of the death camps. It took almost 70 years



Survivor: Iby Knill, now 90, is the subject of a documentary. She said: 'The girl told me that her and her sister were going to be experimented on. She said they were then going to be gassed and therefore exterminated'



She explains in a new documentary that during a session on her course a group at Leeds University, in the city where she now lives, was discussing whether the Holocaust was a result of evil or sin.
The tutor said that 'only a person who was there could answer that question'. Mrs Knill responded simply with 'I was there'.
For Mrs Knill it was like the floodgates had been opened and, fulfilling her promise to the unknown girl, she decided to write her memoirs.



Horror: Iby Knill spent six weeks at Auschwitz. Pictured is
the famous inscription 'Work makes [you] free'
Remembering her terrible first night at Auschwitz, she said: 'The girl told me that her and her sister were going to be experimented on.
'She said they were then going to be gassed and therefore exterminated. She made me promise to tell the story of the camps, if I were to live.
'Of course I said yes, but after the war was over it didn’t seem right to talk about what had happened.'


Death camps: Iby Knill was at Auschwitz, which comprised two separate camps, for six weeks


nstrument of death: One of the surviving gas chambers at the Auschwitz concentration camps



She said: 'There, you were one of a number, and it came down to how long you could survive.'
After the camps were liberated, she was too traumatised to tell her story but has finally broken her silence.
Mrs Knill, who went on to marry British Army major Herbert Knill, was born in Czechoslovakia but escaped to Hungary in 1942 when the SS began rounding up Jews.
Two years later, when Mrs Knill was 20, Hungary was occupied and she was transported to Auschwitz where she spent six weeks before being transferred to the German labour camp Kaunitz, which was eventually liberated. 
Mrs Knill later moved to Britain where she had two children, Christopher Knill, a psychiatrist, 65, and Pauline Kilch, 58, a teacher.
A film was made out of Iby's memoirs, The Woman Without a Number, by film and television student Robin Pepper, 22, at Teesside University.
He and fellow students Mark Oxley, 26, from Darlington, and Ian Orwin, 22, from Sunderland, made the documentary for a final year project after he read her book in just one day.
Mrs Knill said: 'Robin has done a marvellous job, and I am very happy with the film. It goes some way towards fulfilling the promise I made to the twin all those years ago.'
Robin added: 'It was an honour to work with Iby. She is an amazing lady, and we are really pleased we have helped her keep that promise she made so long ago.'



                                GRUESOME EXPERIMENTS 
The Auschwitz death camps played host to some of the most gruesome Nazi medical experiments, which few survived.
Professor Carl Clauberg oversaw the mass sterilisation of hundreds of Jewish prisoners by putting chemicals in their fallopian tubes and exposing their genitals to X-rays. The procedures were brutal, often causing infections and radiation burns. 
Some ‘patients’ were used for human medical trials of the drugs Rutenol and Periston, reacting with bloody vomiting and painful diarrhoea.
Other experiments had no apparent purpose and were done merely for practice - or pleasure.
Doctors deliberately made the lungs of tuberculosis patients collapse and killed others by injecting lethal phenol into their hearts.
One of the most infamous doctors, Josef Mengele (above right) infected different races with contagious diseases to see how their survival rates compared.
Source: Auschwitz.org
She said: 'There, you were one of a number, and it came down to how long you could survive.'
After the camps were liberated, she was too traumatised to tell her story but has finally broken her silence.
Mrs Knill, who went on to marry British Army major Herbert Knill, was born in Czechoslovakia but escaped to Hungary in 1942 when the SS began rounding up Jews.
Two years later, when Mrs Knill was 20, Hungary was occupied and she was transported to Auschwitz where she spent six weeks before being transferred to the German labour camp Kaunitz, which was eventually liberated.
Mrs Knill later moved to Britain where she had two children, Christopher Knill, a psychiatrist, 65, and Pauline Kilch, 58, a teacher.
A film was made out of Iby's memoirs, The Woman Without a Number, by film and television student Robin Pepper, 22, at Teesside University.
He and fellow students Mark Oxley, 26, from Darlington, and Ian Orwin, 22, from Sunderland, made the documentary for a final year project after he read her book in just one day.
Mrs Knill said: 'Robin has done a marvellous job, and I am very happy with the film. It goes some way towards fulfilling the promise I made to the twin all those years ago.'
Robin added: 'It was an honour to work with Iby. She is an amazing lady, and we are really pleased we have helped her keep that promise she made so long ago.'



emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...