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31.5.23

la menoria condivisa non esiste il pasticcio della memoria alla Stazione Centrale di milano e delle lapidi in cui l’omaggio ai deportati della Shoah convive con quello alla guerra del Duce in Etiopia

 La  vicenda   che riporto  nel post   odierno  dimostra   che   la memoria  condivisa  non esiste  ed   un utopia . Al contrario esistono    più memorie   su detterminati eventi del secolo scorso come  fa  notare  quest'articolo : <<  La memoria condivisa non esiste >> de Il Foglio di    qualche anno fa  

da https://www.open.online/ del  24 MAGGIO 2023 - 06:35

Milano, il pasticcio della memoria alla Stazione Centrale: l’omaggio ai deportati della Shoah convive con quello alla guerra del Duce in Etiopia

                                        di Simone Disegni






La giustapposizione delle targhe al binario 21 dello scalo milanese, da cui partivano i convogli della morte della Shoah. Lo storico Filippi: «Così l’Italia (non) fa memoria»
Ai viaggiatori che sbarcano a Milano da fuori città, la Stazione Centrale dà il benvenuto con un strano minestrone: di Storia e di memoria. Per lo meno a quelli non distratti da smartphone e bagagli che alzano lo sguardo sul complesso di targhe che domina l’ultimo avamposto della stazione: il famigerato binario 21. Situato all’estremità destra del grande scalo ferroviario, il binario apre la via a quelle che oggi sono le ultime tre aree di partenza di treni, per lo più regionali: i binari 21, 22 e 23. Ma nella memoria collettiva, quel nome corrisponde soprattutto al luogo di partenza dei vagoni della morte che gli occupanti tedeschi organizzarono tra il 1943 e il 1945 per deportare verso i campi di sterminio migliaia di nemici del Reich. Stipati in quei carri bestiame, partirono dal “centro di smistamento” ferroviario di Milano a centinaia e centinaia gli ebrei e gli oppositori politici rastrellati dai nazifascisti in tutto il Nord Italia. Per destinazioni a loro ignote – che rispondevano a nomi come Auschwitz e Mauthausen – da cui nella maggior parte dei casi non avrebbero mai fatto ritorno. Tra le eccezioni più note, quella di Liliana Segre, partita sul convoglio stipato all’inverosimile del 30 gennaio 1944
È stata proprio la senatrice a vita, il 27 gennaio di quest’anno, a dare ulteriore rilevanza al grande progetto di memoria che sorge nelle viscere della Stazione Centrale proprio per ricordare quel crimine: quel Memoriale della Shoah quotidianamente visitato da scolaresche di tutta Italia che Segre ha voluto fosse teatro dell’intervista-testimonianza con Fabio Fazio trasmessa in diretta tv su Rai1 nell’ultimo Giorno della Memoria. Ma che tracce restano del buio del Novecento sul “vero” binario 21, quello situato sopra terra da cui transitano ogni giorno migliaia di pendolari e viaggiatori? Molte, varie e contrastanti.



All’imbocco del binario, sorge in effetti una targa che commemora «il lungo viaggio di uomini, donne e bambini, ebrei e oppositori politici deportati verso Auschwitz e altri lager nazisti» dai sotterranei della stazione. «La loro memoria vive tra noi insieme al ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo», richiama solennemente la stele, apposta sulla grande parete del binario 25 anni fa, il 27 gennaio 1998. Peccato che a pochi metri di distanza, prima di altri spazi murari dedicati ai ferrovieri caduti nella Prima Guerra Mondiale e in quella di Liberazione, giaccia un’altra targa, destinata questa volta a ricordare la «guerra italo-etiopica». Ovvero quella campagna d’invasione voluta da Benito Mussolini nella quale – pur di conquistare un “posto al sole” tra le potenze coloniali del mondo – le forze armate italiane non esitarono a sterminare migliaia di etiopi, civili compresi. Con una mobilitazione di uomini e forze straordinaria che comprese, come ormai ampiamente provato dagli storici, l’utilizzo di armi chimiche come l’irpite, usata senza troppi complimenti tra il 1935 e il ’36 per spegnere brutalmente i resistenti etiopici che difendevano più strenuamente le posizioni. Possibile un tale omaggio campeggi proprio a fianco del richiamo universale a custodire, nel nome di Primo Levi, «il ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo»?
Possibile. Tanto quanto lo è il lapidario (letteralmente) omaggio d’accompagnamento al “Capitano Giovanni De Alessandri, Medaglia d’Oro”. Chi era costui? Un valente combattente della guerra anti-etiopica, già distintosi nelle operazioni di contro-guerriglia in Libia durante la Prima Guerra Mondiale, e autore poi di altre “valorose” azioni di polizia coloniale in Etiopia vent’anni dopo. L’ultima delle quali, un violento combattimento con le formazioni partigiane locali, gli costò infine la vita. «Rimproverato alla vigilia di un aspro combattimento dal comandante perché nella lotta si esponeva troppo – si ricorda nella solenne motivazione della medaglia d’oro attribuita nel 1937 – estraendo dal portafoglio il ritratto della figlia “le giuro su questa”, disse, “ch’ella non avrà a lamentarsi di avermi ricevuto alla banda. Non ci sarà nessuno domani davanti a me e farò vedere come combattono gli italiani”. E mantenne la promessa. In un furioso attacco contro un nido di mitragliatrici scatta per primo, si slancia con pugnale e bombe a mano, è ferito più volte, cadono i suoi intorno a lui ma in un ultimo sforzo giunge all’arma nemica, pugnala il tiratore, col nome della figlia sulle labbra, sorridente si abbatte. Il corpo è crivellato di ferite, l’anima è in Cielo, il nome è di un eroe».
Un perfetto eroe di un’epoca fortunatamente alle spalle, orgogliosamente fascista e razzista. Il cui ricordo resta a tutt’oggi evocato però proprio a fianco di quello dei cittadini italiani, ebrei e non, perseguitati, deportati e infine assassinati – non di rado proprio col gas – a prodotto compiuto proprio di quell’epoca e di quegli “ideali”. Poco più sotto, sulla stessa targa – verosimilmente aggiunto in un secondo momento – campeggia infine il ricordo «di tutti i ferrovieri che in servizio e in armi caddero per il supremo ideale della patria negli anni dal 1940 al 1945»: dalla guerra voluta dal Duce al fianco dei tedeschi a quella di Liberazione contro il regime stesso, dunque. Il minestrone di Storia è servito. Proprio a pochi passi da quel totem multimediale – voluto da Ministero della Cultura, Gruppo FS e Memoriale della Shoah stesso – inaugurato appena tre mesi fa alla presenza del ministro Sangiuliano, del sindaco Sala e dell’Ad di Ferrovie Luigi Ferraris per ricordare a tutti i frequentatori, con la viva voce di Liliana Segre, la tragedia che su quel binario si svolse e lo straordinario patrimonio del Memoriale distante appena pochi isolati.
«Più che di bisticcio di memoria parlerei di sovrascrittura di memoria», commenta con Open lo storico Francesco Filippi, che alla memoria abiurata o distorta dei crimini coloniali italiani ha dedicato diversi studi, confluiti da ultimo nel volume Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Bolinghieri, 2021). «La stratificazione di questo muro racconta molto dell’Italia – ragiona Filippi – Quella targa nasce con ogni probabilità nel momento in cui l’Italia si voleva imperiale e imperialista, per celebrare pubblicamente i trionfi della guerra di aggressione in Etiopia. Ma da un giorno all’altro, dopo il 1947, quella memoria per l’Italia non fu più comoda da indossare, e venne semplicemente amputata, o abbandonata a se stessa come in questo caso, sovrascrivendo la nuova memoria, quella della Resistenza. Senza nessuna preoccupazione di metabolizzare o contestualizzare la cesura. Come emerge plasticamente dall’accostamento alla Stazione Centrale di due azioni antitetiche: la condanna dello sterminio di altri uomini da parte di un regime totalitario da un lato, la sua esaltazione lì a fianco». «Quello che più stupisce dell’approccio italiano alla memoria pubblica – conclude Filippi – è la totale incapacità di vedere la bruttura, la stonatura, di un’associazione come questa. Neppure oggi, a 80 anni di distanza, tutto ciò dà fastidio». Fino a prova contraria, s’intende.







25.1.23

perchè parlo ancora della shoah e dell'olocausto nonostante sia un tema inflazionato e ormai diventato giornata palla

 leggo   qualche      giorno fa      su  uno dei giornali  vecchi    che   uso  per  accendere  il  fuoco del  camino  che una  Liliana  Segre  particolarmente amareggiata quella che arriva a Palazzo Marino, a Milano, per presentare assieme al sindaco Beppe Sala le iniziative per il Giorno della Memoria  ha  dichiarato 



"Quando uno vecchio come me, che ha visto prima l'orrore, e poi, arriva a sentire che si nega addirittura quel che è stato la coscienza si sveglia. Dopo che sei stato silenzioso,
ammalato, non capito, a un certo punto succede che non si sia mai contenti, che si diventi pessimista. E che si ritenga che fra qualche anno, della Shoah ci sarà una riga sui libri di storia, e poi nemmeno quella".  [...] Capisco che la gente dice da anni "basta con questi ebrei, che cosa noiosa". [...]  "Il giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei.


il mio  commento  a  caldo  /d'istinto ( che poi  non lo è  se leggete i link riportati a fine post e le modifiche   segnalate  in  corsivo  del post  in questione    )è   stato  che  poi è  anche    la  risposta     a  chi mi  dice     perché   dici  che  è  una  giornata palla   e  poi  ne  parli  

19 h 
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adesso se ne accorge ? io sono anni che lo dico e lo scrivo come introduzione a miei post in cui ricordo tali che ancora continuo a scrivere perché ci sono ancora delle
💩 che negano o sminuiscono o creano miti auto assolutori tipo italiani brava gente dimenticando che anche noi italiani vi abbiamo partecipato direttamente ( leggi razziali , campi di internamento , poi di transito , collaborando con i tedeschi o da soli nelle deportazioni , con vagoni ferroviari la deportazione in quelli nazisti , ) o indirettamente ( silenzio , ovazioni nelle piazze , con spie e , delazioni , ecc ) a tali brutture e coloro che si sono opposti ed hanno reagito salvando e nascondendo ebrei si contano sulle dita delle due mani


le cause che i media ufficiali quando parlano del 27 gennaio fanno un unicum tra shoah e olocausto ( vedere nel precedente post , le differenze se pur sottili ) concentrandosi solo sul primo dimenticando o minimizzando che ci fu anche l'olocausto cioè lo sterminio di tutte le categorie di persone ritenute dai nazisti "indesiderabili" o "inferiori" per motivi politici o razziali, tra cui le popolazioni slave delle regioni occupate nell'Europa orientale e nei Balcani, neri europei e, quindi, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, massoni, minoranze etniche come rom, sinti e jenisch, gruppi religiosi come testimoni di Geova e pentecostali, omosessuali e portatori di handicap mentali e/o fisici

Sitografia




20.1.23

Benghabrit e la sua attività nella Grande Moschea di Parigi PER SALVARE GLI EBREI ALGERINI da lafarfalladellagentilezza

  A salvare    gli  ebrei  dai nazi  fascisti      furono     anche    i  mussulmani    come riporto     questa  vicenda     ripresa     dalla bellissima  pagine    Facebook

    https://www.facebook.com/lafarfalladellagentilezza
Quando Albert Assouline iniziò a raccontare la sua storia, molti non gli credettero. Ma lui si ostinava a raccontarla, perché voleva che il mondo sapesse chi gli aveva salvato la vita. Per questo, molti anni dopo, nel 1983, scrisse un articolo su una rivista dei veterani francesi, per saldare il suo debito di riconoscenza. Ma ciononostante, molti continuarono a non credergli. Però nel 2005 la sua storia fu confermata, quando il celebre cantante algerino, Salim Halali, morì all’età di 85 anni. Halali si era trasferito giovanissimo in Francia, e lì divenne famoso per la sua voce, ma pochi conoscevano il suo passato. Eppure, alla sua morte, venne fuori la sua storia di sopravvissuto durante la Seconda guerra mondiale, una storia molto simile a quella di Assouline. Erano infatti entrambi ebrei algerini, entrambi in pericolo nella Francia nazista della Repubblica di Vichy. Ed entrambi si salvarono grazie al signore nella foto a destra : Si Kaddour Benghabrit, il Rettore della grande Moschea di Parigi. Benghabrit (di origine algerina ma che da anni ormai viveva in Francia dove era molto stimato), infatti, accolse centinaia di persone in difficoltà, nei sotterranei della Moschea per nasconderli dai rastrellamenti dei nazisti. Non solo: per proteggerli e permettere loro di fuggire, Benghabrit (probabilmente aiutato da una rete di partigiani algerini) falsificò centinaia di documenti, facendo passare per musulmani molti ebrei, uomini, donne e soprattutto bambini. Grazie a questo stratagemma Assouline riuscì a fuggire e a unirsi alla Resistenza francese, e Halali potè sopravvivere agli anni della guerra.Non si sa esattamente quante persone si siano potute salvare in questo modo. Alcune fonti parlano di circa cinquecento, altri ritengono che furono circa 1600. Ma in fondo non è poi così importante tenere una contabilità precisa, perché chi salva una vita salva il mondo intero. E anche se fosse stata solo una, la vita salvata, sarebbe comunque una bella storia di altruismo e solidarietà. Ma soprattutto una storia di speranza e fiducia negli esseri umani, che in certe occasioni riescono mettere umanità e fratellanza avanti a tutto il resto.

🦋La farfalla della gentilezza 🦋
(Nel libro di Robert Satloff, “Tra i giusti. Storie perdute dell’Olocausto nei paesi arabi”, Marsilio 2008, c’è un capitolo dedicato a Benghabrit e alla sua attività nella Grande Moschea di Parigi).

10.9.22

lucy Salani: "Io trans, sopravvissuta a Dachau, chiedo a Meloni di non toglierci i nostri diritti"

 

"Non tollero che si possa agire contro delle persone come noi che hanno subito la deportazione nei campi di concentramento. Non tollero una donna che si può permettere la sfacciataggine di toglierci i nostri diritti. É una vergogna".


 Non va per il sottile Lucy Salani 98 anni, l'unica transgender italiana sopravvissuta al campo di concentramento di Dachau, quando, durante l'apertura della Festa dei Sentinelli a Milano, le chiedono cosa pensa di un'eventuale vittoria di Giorgia Meloni. "Essere trans nel Ventennio è stato terribile", ha ricordato durante l'inaugurazione della mostra Omocausto, dedicata allo sterminio dimenticato degli omosessuali da parte del nazifascismo. "L'Italia è in sospeso sul tema dei diritti, ed è quel 'sospeso' che fa paura e non vorrei che tornassimo all'era fascista", ha sottolineato con forza Salani .     

                                 di Andrea Lattanzi

Musica - "Betterdays" - bensound.com


 non sapendo niente  di lei    ecco cosa  ho trovato su wikipedia  


una scena  del documentario   della  scrittrice e regista Gabriella Romano


Lucy Salani (Fossano12 agosto 1924) è un'attivista italiana, nota come l'unica transessuale italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.Lucy Salani è nata come Luciano Salani[1] e cresciuta a Bologna come uomo omos     essualeAntifascista,
dopo aver disertato sia l'esercito fascista italiano che quello nazista, è stata deportata a Dachau nel 1944, dove è rimasta per sei mesi, fino alla liberazione del campo per opera degli americani nel 1945. In seguito è vissuta a Torino, lavorando come tappezziera e frequentando l'ambiente transessuale italiano e parigino. Di ritorno a Bologna negli anni '80, vi si è stabilita dopo la pensione.La sua storia è diventata nota negli anni dopo il 2010, grazie al lavoro della scrittrice e regista Gabriella Romano, che le ha dedicato due opere. Salani è considerata dal Movimento Identità Trans l'unica persona transessuale italiana ad essere sopravvissuta alle persecuzioni fasciste e naziste. [  segue su  Lucy Salani - Wikipedia

                    


3.6.22

I pugili di Auschwitz, veri e improvvisati: costretti a battersi nei lager per sopravvivere


  repubblica  online  

La storia di Noah Klieger, che sarebbe poi diventato scrittore, giornalista e dirigente sportivo in Israele, ha ispirato José Ignacio Perez a scrivere ''K.O. Auschwitz". Atleti nell'inferno dei campi di concentramento 


Noah Klieger ha avuto un vita lunga, dal 1925 al 2018. E’ stato scrittore, dirigente sportivo, giornalista: ha raccontato il basket in dieci mondiali e

cinque olimpiadi. Tutto o quasi passa però in secondo piano rispetto ad anni maledetti, a un maledetto: 1944, 1945, Auschwitz. “Sai fare la boxe?”. In quella miriade di porte che il destino apre e chiude, la sua vita può ruotare anche intorno  a una banale domanda. No, la boxe Noah non la sa fare, ma coglie la sfumatura, capisce che può essere una via di scampo. “Sì”, nonostante non abbia mai messo un paio di guantoni e sul ring non sia ammessa improvvisazione, perché su quel quadrato ci salgono non solo kapo fisicamente molto più in forma di lui, ma anche gente che prima di entrare nell’inferno la boxe l’ha fatta davvero.

Quel ‘Sì’ potrebbe trasformarsi in una condanna se non fosse per Jacko Razon: campione di Grecia, poi militare e fatto prigioniero dai nazisti, che lì sono intervenuti dopo l'impantanamento delle truppe italiane. Jacko, che deve affrontare Noah, ci mette poco a capire che il suo avversario di boxe sa poco. E allora gli insegna i rudimenti, come stare sul ring, la fase difensiva. Di fatto il loro incontro è una sorta di recita, ma tanto basta a Noah per prendere tempo, imparare, combattere (lo farà una ventina di volte), per salvarsi con la classica forza della disperazione. Una storia raccontata nell’ultimo anno della sua vita a José Ignacio Perez, che ne ha tratto ispirazione per scrivere ‘’K.O. Auschwitz”. E’ un libro in cui si ripercorrono le vicende di alcuni pugili, veri o improvvisati, nei campi di concentramento.

Match organizzati usando violenza allo spirito nobile della boxe, degradata a senso della sopraffazione, privata di qualsiasi significato sportivo. Eppure, sembra impossibile, anche un contesto di follia presenta delle eccezioni. Come quella di Walter Durning, un kapo meno spietato del solito: affronta Tadeusz Pietrzykowski, pugile forte e molto popolare in Polonia. Ne esce demolito, ma riconosce la grande bravura dell'avversario al punto da fargli aumentare le razioni di cibo e alleggerirgli i carichi di lavoro. Tadeusz è fortunato, non come Victor Young Perez, che invece non sopravvive alle tante marce della morte.

Un libro che ci dà lo spunto anche per ricordare tante altre storie. Quella sinti Johann Trolmann ad esempio, un ballerino del ring, forte al punto da diventare campione di Germania in anni difficilissimi per la sua etnia. Purtroppo lui sulla sua strada non trova Walter Durning, ma Emil Cornelius: è uno che non accetta di essere distrutto sul ring da un avversario che neanche riesce più a stare in piedi e si vendica a colpi di piccone.

Quella di Harry Haft: il nome è l’americanizzazione di Hertzko. Lui è un pugile vero, lo dimostrerà nel dopoguerra, quando riuscirà addirittura a ottenere una chance mondiale per il titolo dei pesi massimi contro l’immenso Rocky Marciano.  Si chiama ancora Hertzko quando mette nei suoi combattimenti ad Auschwitz una tale ferocia da venire chiamata la ‘belva giudea’. Le cicatrici nell’anima gli rimarranno, ma la sua storia è di quelle in cui tante sensazioni si confondono. Una storia diversa da quella del romano Leone ‘Lelletto’ Efrati, uno dei parecchi idoli dei ring romani degli anni Trenta. Va forte, abbatte i confini, va all’estero: in Francia e poi in America, dove arriva a battersi per il titolo mondiale fallendo di poco l’impresa. Potrebbe restarsene al di là dell’oceano, ma torna per stare vicino alla famiglia. Caduto in una retata della Gestapo, vincerà tante volte nonostante – peso piuma – venga spesso costretto a battersi contro gente fisicamente molto più grande. Non potrà farlo quando, intervenuto per difendere il fratello, la furia dei guardiani si accanirà contro di lui.

19.2.22

le foto di Whilelm Brasse ed altre storie del 900

 il ricordo di tali eventi  no  è   solo  il 27 gennaio 


Un giorno di febbraio del 1941, un giovane prigioniero polacco di nome Whilelm Brasse fu incaricato dai nazisti di fotografare, uno dopo l’altro, tutti i prigionieri di Auschwitz, di fronte e di profilo.
Quando, quasi due anni dopo, fu il suo turno, prima che la foto fosse scattata, Czesława Kwoka “si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro” - come ricorda lo stesso Brasse - che le aveva procurato la kapò a bastonate in faccia.
In quel momento Czesława aveva 14 anni, era appena arrivata al campo, non parlava e non capiva una
parola. Poche settimane dopo, il 18 febbraio 1943, le ammazzarono la madre, Katarzyna. Il 12 marzo fu assassinata con un’iniezione di fenolo nel cuore.

Poco prima che l’Armata rossa fece irruzione ad Auschwitz, i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere tutte le foto insieme ai negativi, ma lui riuscì coraggiosamente a salvarne qualcuna. Tra queste, c’era quella di Czesława, che diventerà una delle fotografie più iconiche di sempre di quell’orrore, e nel 2018 fu colorata per aumentarne la vividezza.
Questo scatto è di una dignità, nello strazio, da mettere i brividi.

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La chiamavano affettuosamente “la biondina della Val Taleggio”. Ma lei, Piera Vitali detta Pierina, era prima di tutto una partigiana, una combattente, una donna libera.

E lo è stata sempre, fino all’ultimo istante.
È stata arrestata dai fascisti a 21 anni, mentre combatteva per la liberazione.
È stata interrogata, ma lei non ha fatto i nomi dei compagni.
È stata messa al muro davanti a un plotone armato. Ma lei non ha fatto i nomi.
È stata pestata a sangue, torturata, ma lei non ha fatto i nomi.

Hanno tentato di comprarla i nazisti. Ma anche in quel caso lei non ha fatto i nomi.
Infine l’hanno caricata su un pullman diretto ai campi di concentramento. E lei ha sfondato il finestrino e si è lanciata in corsa, tornando a fare la staffetta partigiana fino alla libertà.
Aveva 21 anni, poco più che una ragazzina.
Due anni fa esatti, Pierina se n’è andata a 96 anni. Lei, una di quelle che la patria l’ha difesa davvero, non a parole o a slogan, ma con un coraggio e una forza (e a un’età) che oggi fatichiamo anche solo a immaginare.

Ciao Pierina, ovunque tu sia. 

27.1.22

MEMORIA, AMNESIA, INCOERENZA

leggi anche

 
con il post  d'oggi   finisco   la  mia  contro  giornata settimana della memoria    del  27\1\2022   lo so  che   come  dice   


Emiliano Antonino Morrone

11 h 
MEMORIA, AMNESIA, INCOERENZA

Buongiorno per tutto il giorno. Oggi è il Giorno della Memoria. Molti scriveranno pensieri al riguardo: contro la violenza, l'odio, l'ingiustizia, la disumanità.
Domani sarà, come ogni giorno, la Giornata dell'Amnesia e dell'Incoerenza: riprenderemo le nostre piccole guerre contro il vicino di casa, il compaesano, il confinante. Lo riempiremo di insulti, proveremo ad infangarlo, diremo ogni male possibile sul suo conto. Incapaci di costruire comunità, di valorizzare le diversità, di essere accoglienti, solidali, inclusivi. Il buonismo social(e) è interno al capitalismo, che ci induce ad essere mercanti della nostra immagine, megafoni del nostro ego in cerca di quotazioni. Ci vendiamo come prodotti della moda: identici, sgargianti, privi di qualità. In fondo, la storia dei Migliori al governo non è che una metafora, una conferma del desiderio individuale, diffuso, di apparire per ciò che non siamo.

Sarò poco coerente perchè prima ne parlo male e poi lo celebro . Ma l'unico modo per rendere nelle nostre coscienze ( ecco perchè oltre il termine giornata palla uso il termine pulicoscienza ) fatti come : le leggi razziali del 1938 con tutto quello che ne consegue , i vagoni piombati che partirono da Roma a partire dalla notte del 15-16\ottobre del 1943 la retata nazista del ghetto  ( foto sotto a sinistra) ,  i  campi di Fossoli e  della  Riviera  di San Saba   oltre  a quelli    Tedeschi , ecc.    è di continuare  a raccontarla  visto  che i testimoni diretti   o semi diretti  sono scomparsi  o sono sempre  meno . Lo so  sembrerà    una  contraddizione  con quanto  ho  condiviso  con Emiliano  ma  sui ricordi   di  avvenimenti  simili maggiormente  su quelli  più bui    va  gettata (
non solo   a date  fisse , infatti   ne  ho  scritto   prima  di  questa  data  )    la  luce e del presente  per tenerli vivi  , per evitare  che  non si dimentichi ma  soprattutto  vengano emulati o  diffuse  quelle  aberranti ideologie  che ne  sono alla base  stessa .  Ed  i cui germi  \  scorie    troviamo  ancora  oggi   in atti  di nonnismo e  di bullismo estremo , o  in certi  discorsi   di politicanti come Pillon ed  Adinolfi    . 

Scusate   lo sfogo   ma  mi  sono  fatto prendere la mano  . ecco l'articolo  che volevo  proporre oggi   che  un tema      di cui non si parla   quasi  mai  nelle  rituali celebrazioni del  27  gennaio  . Ovvero  il perchè   gli Alleati  non  fecero pur   sapendolo niente 
 
Da il FQ  del  27\1\2022


                         IL SILENZIO   "ALLEATO " SUI LAGER 
SHOAH  DALLA RIUSSIA  AGLI USA  LA  COMPLICITA'   CON I  NAZISTI . 
STERMINIO TUTTI SAPEVANO 

Seppero e tacquero per molto tempo. Fecero finta di non capire o voltarono la testa dall’altra parte. Decisero che l’obiettivo era vincere la guerra e che del resto non potevano occuparsene. Per decine e decine di militari, funzionari, diplomatici, spie, politici dei governi Alleati la Shoah fu un film dell’orrore che – fotogramma per fotogramma – si svolgeva sotto i loro occhi. Intercettazioni,

decrittazioni, rapporti, testimonianze, gli appelli delle organizzazioni ebraiche per fermare lo sterminio: da subito dopo l’invasione nazista dell’unione Sovietica (giugno 1941) per mesi e anni la massa di informazioni prese forma fino a comporre il quadro nero dell’olocausto. Certo, nel dicembre del 1942 Stati Uniti e Gran Bretagna (assieme ai governi in esilio dei Paesi occupati da tedeschi e italiani) denunciarono lo sterminio in una dichiarazione congiunta minacciando di farla pagare alla “barbara tirannia hitleriana”. Troppo tardi.

ERA GIÀ SCRITTO Pochi presero alla lettera il Mein Kampf di Hitler. Nella copia personale di Himmler compare questo passaggio sottolineato (riferito alla Prima guerra mondiale): “Se si fossero tenuti sotto i gas dodici o quindicimila di quegli ebraici corruttori del popolo... si sarebbe salvato un milione di tedeschi, preziosi per l’avvenire”.

I RADIOMESSAGGI decodificati dall’intelligence britannica:

Ucraina - 25 agosto 1941. 1342 ebrei uccisi durante “un’azione di Polizia”; 283 ebrei uccisi dalla Prima Brigata SS. Ucraina – 27 agosto 1941. 2200 ebrei liquidati vicino a Kamenec-podol’skij. Come scriverà il comando territoriale a Berlino, all’11 settembre gli ebrei sterminati ammonteranno a 23.600.

Prussia, Germania – 11 dicembre 1941. Il maggiore delle SS Franz Magill è inviato al campo di concentramento di Oranienburg per farsi spiegare dal personale della Tesch & Stabenow come utilizzare il gas Zyklon (acido prussico) per uccidere prigionieri. Bruno Tesch, il proprietario della società, sarà condannato a morte da un tribunale militare alleato e poi giustiziato.

IL TELEGRAMMA RIEGNER

È il messaggio che l’8 agosto del 1942 Gerhart Riegner, segretario della sezione svizzera del Congresso mondiale ebraico spedisce a Londra e a Washington. “Nel quartier generale di Hitler è stato discusso un piano che prevede che l’intera popolazione ebraica dell’europa sotto il controllo tedesco sia deportata a Est per essere sterminata. L’azione sarebbe programmata per l’autunno prossimo... con modalità che includono l’acido prussico”. La fonte di Riegner è un industriale tedesco.

IL RAPPORTO RACZYŃSKI Il titolo è: “Lo sterminio di massa degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti”, e non l’ha scritto un ricercatore anni dopo la fine della guerra, ma il ministro degli esteri del governo polacco in esilio Edward Raczynski il 10 dicembre 1942. Sedici pagine che riassumono testimonianze e documenti della resistenza: la storia in presa diretta dell’evacuazione dei ghetti, i nomi e i luoghi dei campi di sterminio come Treblinka e Belzec.

AUSCHWITZ Il 4 giugno 1942 i criptoanalisti britannici decodificano un messaggio nel quale il generale delle SS Hans Klammer – che sovraintende alla costruzione dei campi di sterminio – parla di un camino per il crematorio.

A ottobre il traffico radio delle ferrovie tedesche fa riferimento agli arrivi di ebrei polacchi, cechi e olandesi. Ormai i servizi alleati sanno che: 1) il numero di ebrei ammassati nelle baracche non è confrontabile con quello degli ebrei arrivati con i treni; 2) che gli ebrei non lasciano Auschwitz. Lo storico Richard Breitman si è chiesto ironicamente se Auschwitz non fosse diventata una delle più grandi metropoli d’europa.

Il 7 aprile 1944, l’anno nel quale la macchina infernale raggiunge il massimo livello di efficienza (600.000 vittime) due ragazzi slovacchi riescono a scappare dal campo e a tornare a casa. Il rapporto Vrba-wetzeler è la loro testimonianza scritta, c’è tutto: il numero dei treni, la descrizione accurata delle camere a gas e dei crematori, la stima dei morti. Il documento arriva anche in Vaticano mentre si compie il destino di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, il capolavoro logistico del criminale di guerra Adolf Eichmann. Pio XII chiede in una lettera aperta al dittatore ungherese Horthy alleato dei nazisti di “risparmiare a tanta gente sventurata ulteriori sofferenze”; il presidente americano Roosevelt avvisa Horthy di sapere tutto e per ritorsione ordina il 2 luglio di bombardare Budapest. Trenta organizzazioni ebraiche chiedono di colpire con l’aviazione le linee ferroviarie che portano ad Auschwitz e le camere a gas per interrompere lo sterminio. È tecnicamente possibile ma i militari si oppongono. Il 14 novembre il dipartimento della Guerra dice no, e lo scrive: “Siamo impegnati a distruggere le industrie tedesche, non possiamo permetterci diversioni”. Le SS hanno già cominciato a smantellare Auschwitz. I russi stanno arrivando.





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