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25.1.25

gli analfabeti funzionali ed i negazionisti colpiscono ancora e non hanno rispetto neppure per la storia Il documento della Croce Rossa su Auschwtiz usato per negare l’Olocausto


Per chi ha fretta
Il documento è reale, ma chi lo condivide non riporta il reale contesto.
Il rappresentante della Croce Rossa dell’epoca ha ammesso di non aver avuto accesso al campo.


Il documento della Croce Rossa su Auschwtiz usato per negare l’Olocausto

di David Puente
Circola un documento della Croce Rossa, rivolto a Roswell McClelland e datato 22 novembre 1944, che negherebbe l’esistenza ad Auschwitz di un «campo di sterminio». Diversi utenti, condividendone il contenuto, affermano che la Croce Rossa avesse
 

effettivamente indagato sulle affermazioni secondo cui il campo fosse tale, sostenendo di non aver trovato «alcuna traccia di installazioni per lo sterminio di prigionieri». Alcuni gestori di canali Telegram, noti per diffondere notizie false, sostengono che il documento distrugga la narrazione sull’Olocausto .Alcuni sostengono che il documento sia una prova capace di distruggere la narrazione dell’Olocausto, come riportato dal canale Telegram VQB Channel, già noto per la diffusione di notizie false:

AUSCHWITZ? UNA MEZZA BUFALA
Ecco la lettera della #Croce_Rossa che conferma che #Auschwitz non è stato utilizzato

come “campo di sterminio”.Questa prova dannosa distrugge la narrazione dell’#Olocausto, quindi normalmente la contro-argomentazione che si sente è “La #Croce_Rossa era un’organizzazione #nazista”, il che ovviamente è ridicolo.Il documento circola sui vari social, senza l’adeguato contesto e dunque le informazioni utili per comprendere quanto non sia affidabile:  Alla fine del 1944, girava voce che Auschwitz non fosse un campo di lavoro ma un campo di sterminio. La Croce Rossa indagò su questa affermazione e non trovò “alcuna traccia di installazioni per lo sterminio di prigionieri civili”.
La vera visita al campo (che non c’è stata)
Il responsabile dell’intera vicenda fu il rappresentante della Croce Rossa Maurice Rossel. Inviato a ispezionare Theresienstadt, gli fu fatto visitare anche Auschwitz. In un’intervista rilasciata al regista francese Claude Lanzmann, oggi pubblica sul sito dell’United states Holocaust Memorial Museum, Rossel, si riscontra che all’epoca Rossel non fosse a conoscenza che fosse un campo di sterminio. Come spiegato dallo stesso, e come riportato dal sito della Croce Rossa, il rappresentante ebbe un colloquio con il generale del campo senza però poterlo visitare, in quanto non venne autorizzato.
In un documento pubblicato dalla Croce Rossa nel 2012, dal titolo «The ICRC and the detainees in Nazi concentration camps (1942–1945)», viene riportato come i nazisti usarono a fini propagandistici la visita al campo di Theresienstadt, presentando un’immagine falsa delle condizioni dei prigionieri, mentre la visita ad Auschwitz viene considerata come un esempio emblematico dell’incapacità della Croce Rossa di rispondere in maniera adeguata alla politica genocida nazista.



Il documento non prova in alcun modo che ad Auschwitz non ci fosse un capo di sterminio e non smentisce in alcun modo l’Olocausto. Il rappresentante della Croce Rossa dell’epoca ha ammesso di non aver mai avuto accesso al campo, in quanto non autorizzato a visitarlo. L’organizzazione, a seguito di quanto accaduto, dichiarò l’intera attività come un proprio fallimento.

Una gita ad Auschwitz di Tanya Gold






internazionale Numero 1598 del 24 gennaio 2025

Una gita ad Auschwitz di Tanya Gold 


Davide Bonazzi
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Kazimierz è il quartiere ebraico di Cracovia, nel sud della Polonia. Qualcuno lo conoscerà per Schindler’s list, che è stato girato qui. I resti di un finto campo di concentramento, costruito per il film, sono conservati in una cava di pietra calcarea qui vicino. Le persone ci vanno e girano film in cui fissano pezzi di filo spinato.
Di questi tempi va di moda dire “Mai più per nessuno”. È una variante del giuramento “Mai più”, che fu pronunciato per la prima volta dai detenuti liberati a Buchenwald e più tardi dal rabbino di estrema destra Meir Kahane. Non sono sicura che da queste parti la gente si dedichi molto ai princìpi del “Mai più”. Per lo più è impegnata a mangiare. Sono davanti al ristorante Ariel, sulla piazza. Il ristorante suona musica ebraica, serve piatti ebraici ed è arredato come una vecchia casa ebraica, con le pareti verdi, i pavimenti di legno e un candeliere.
I monumenti alla memoria dell’Olocausto sono diffusi quanto l’odio per gli ebrei, e per questo ho la vaga idea che siano fondamentalmente sbagliati
Su una mensola c’è la statuina di un ebreo. Sarà alta dieci centimetri e ha in mano una grossa moneta: riportata alla sua scala, avrebbe le dimensioni di un sombrero. È l’Ebreo fortunato, un talismano che secondo i polacchi porta ricchezza. A Cracovia potete comprare un Ebreo fortunato o, se preferite, un draghetto. Sono ugualmente leggendari. A me non dispiacciono. Nel 1939 in Polonia c’erano 3,3 milioni di ebrei e oggi ce ne sono appena 4.500; il rabbino capo della Polonia è statunitense e questa è una specie di resa. Per arrivare ai numeri precedenti alla guerra bisognerebbe contare tra gli ebrei polacchi anche le statuine giocattolo. Essere un pupazzo è una specie di destino: nulla è più docile e disposto ad accettare la propria sorte.
Alle pareti sono appesi diciannove quadri di ebrei che contano i soldi, e questo è un ristorante frequentato dalla gente che pensa di amare gli ebrei. Ci sono anche un paio di cavalli dall’aria beata come la vergine Maria, se fosse un cavallo. Gli ebrei, invece, sono irsuti e demoniaci, impegnati a contare banconote o monete, anche se ce n’è uno che esamina un uovo. Mangio qui spesso, a volte da sola, e una volta con una donna che avevo incontrato mentre piangeva fuori della sinagoga il venerdì sera. La funzione era stata annullata perché non c’era il minian: servono dieci persone per celebrare una funzione, e non c’erano.
Dico “shalom” a un gruppo di uomini tedeschi a voce troppo alta. Sembrano dei vichinghi. Non dico tanto per dire. Rispondono con un silenzio talmente profondo che è praticamente un rumore. A quanto pare non vogliono parlare con un’ebrea in carne e ossa in un locale a tema ebraico. È come se il vero Paperino si presentasse a Disney­land, mentre loro vogliono solo quello della loro fantasia. Cerco di essere un’ebrea interessante. Quando la banda suona musica ebraica, canto e batto le mani sul tavolo. Sono un’attrazione turistica, così mi filmano.
Sono un’ebrea britannica, e mi hanno insegnato che il vero mondo ebraico è qui. Peccato che non sia vero. La famiglia di mia nonna è di Łódz, circa duecentocinquanta chilometri a nord­ovest. Ha vissuto con disagio nel Regno Unito, un paese che non le apparteneva. Quando ero bambina, mi ricordo che cantava di un bambino affogato nella vasca da bagno. Forse sono così anch’io. Anch’io sono a disagio. L’antisemitismo è dilagato, ma c’è una contraddizione che m’interessa: la proliferazione di monumenti alla memoria dell’Olocausto.
Nel Regno Unito, il governo vuole farne costruire uno immenso vicino al parlamento, anche se il paese non si è macchiato di nessuna complicità se non quella di aver impedito agli ebrei di fuggire in Palestina. Il progetto sembra lo scheletro di un dinosauro, o la griglia di un tostapane, e se ha qualcosa a che fare con il popolo ebraico, non so dire cosa sia. Piuttosto, sembra inconsciamente collegato ai crimini dell’imperialismo britannico, che vengono citati più raramente nel dibattito pubblico. Mi chiedo se il monumento sia uno specchio in cui vediamo solo il nostro riflesso così da non dover guardare il passato.
Due dei libri più venduti sulla Shoah sono Il bambino con il pigiama a righe di John Boyne, che non parla di un ebreo, e il Diario di Anne Frank, che non parla della Shoah. La zona d’interesse parla della Shoah, ma spogliata degli ebrei. In realtà, il film parla dell’estetica dei campi di concentramento e di beni di consumo.
I monumenti alla memoria dell’Olocausto sono diffusi quanto l’odio per gli ebrei, e per questo ho la sensazione che siano fondamentalmente sbagliati.
Dagli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, in Polonia c’è stato un rinascimento ebraico. A Kazimierz ci sono un centro sociale ebraico, un centro per la cultura ebraica, un festival della cultura ebraica e una piccola comunità ebraica. Gli ortodossi, custodi designati delle sinagoghe e dei cimiteri, non ammettono nella loro comunità ebrei nati fuori della Polonia, anche se accolgono i visitatori ortodossi, compresi gli israeliani. Mi aggrego a loro nella sinagoga di Remuh, sulla piazza. Per un’ora raddoppiano la popolazione ebraica di Cracovia.
Il centro sociale ebraico ammette chi ha almeno un nonno ebreo – la Polonia è piena di ebrei inconsapevoli, parziali o appena risvegliati – e ha perfino un asilo per l’infanzia. Poi c’è Chabad, che accoglie tutti gli ebrei (a patto che siano maschi). Sono stata alla sinagoga di Chabad ma me ne sono andata quando mi hanno invitata a sedermi in un corridoio lungo un muro spoglio. Si può amare un mondo ebraico perduto, ma non si è sempre ricambiati. Il mio compagno è più fortunato. Lui non siede nell’atrio. Compra un barattolo di sottaceti, che si porterà dietro per tutta la Polonia come un talismano.
Ci sono stati più salvatori (i Giusti) in Polonia che in qualsiasi altra parte del mondo, ma ci sono stati anche collaborazionisti e assassini. Il 10 luglio 1941, prima che il paese di Jedwabne fosse occupato, gli uomini del villaggio rinchiusero i loro vicini ebrei in un fienile e lo incendiarono; un monumento eretto nel 1963 ha dato la colpa ai tedeschi. Nel 2001, la pubblicazione di I carnefici della porta accanto di Jan T. Gross (Mondadori 2002), una ricostruzione del massacro di Jedwabne, ha offeso l’amor proprio della Polonia. Quello stesso anno, il presidente polacco Aleksander Kwaśniewski si è scusato per l’accaduto. L’attuale presidente, Andrzej Duda, ha invece definito questa sorta di penitenza “un tentativo di distruggere il buon nome della Polonia”. Il partito di destra Diritto e giustizia, che è andato al potere nel 2015, ha scatenato una campagna contro gli storici e i direttori dei musei non allineati alla narrazione del martirio polacco, e nel 2018 ha approvato una legge che vieta di accusare i polacchi o la Polonia dei crimini commessi dai tedeschi. Di questi tempi, solo un accademico polacco particolarmente coraggioso si azzarderebbe a parlare del pogrom di Kielce del 1946, in cui furono uccisi quarantadue superstiti ebrei. Nel 2023, però, Diritto e giustizia ha perso la maggioranza, e il nuovo governo guidato dal primo ministro centrista Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e già primo ministro dal 2007 al 2014, ha poco tempo da perdere per le dispute sulla memoria.
Ho appuntamento con Jakub Nowakowski al Museo ebraico della Galizia. È un cattolico nato a Kazimierz. Sua madre parlava qualche parola di yiddish e di ebraico che aveva imparato a sua volta da sua madre, che da bambina aveva dei vicini di casa ebrei. Ha saputo da dove venivano solo anni dopo. “Ci siamo molto impegnati a riscrivere la storia che avevamo inventato”, dice Nowakowski, “non solo quella dei Giusti ma anche quella degli ebrei che sono stati traditi. E ci siamo spinti così avanti che abbiamo creato parecchia confusione”.
“Chi è il più famoso dei Giusti?”, mi chiede. Oskar Schindler? “Schindler”, ripete. “È una follia, ma il Giusto più famoso è un maledetto tedesco. Ci sono migliaia di Giusti polacchi che hanno rischiato molto di più e in una situazione ben più terribile”. Gli Ulma di Markowa – Józef, Wiktoria e i loro sei figli – furono sorpresi a nascondere degli ebrei nel 1944. Probabilmente furono traditi da un polacco, e furono fucilati. Il Museo della famiglia Ulma sui polacchi che hanno salvato gli ebrei (dagli altri polacchi) durante la seconda guerra mondiale è stato aperto nel 2016.
Il trauma della Polonia a volte si trasforma in qualcosa che sembra un film di Mel Brooks. Una volta Nowakowski è stato avvicinato da un uomo che diceva di essere originario della città con l’unica sinagoga superstite nella regione del Podhale. “Mi dice: ‘Faremo un museo dei Giusti del nostro villaggio’. Gli rispondo: ‘Splendida idea! Quanti ce n’erano nel suo villaggio?’.
‘Lo vuole sapere?’, mi fa. ‘Zero! E quanti ce n’erano nel villaggio più vicino?’. Fa una pausa poi dice: ‘Uno!’”.
Faccio un giro del ghetto. Incontro una guida, un tipo snello e gentile. Mi mostra un monumento in memoria della liquidazione del ghetto, che consiste in una serie di sedie vuote: un macabro negozio di mobili. “Ci sono due nazioni o due religioni che vivono in una sola casa”, dice, “o un tempo vivevano in una sola casa, e soprattutto si considerano tutte e due nazioni elette”. Si mette a ridere: “Gli ebrei, che sono il popolo eletto, e i polacchi, che hanno questa idea nazionalista di essere il Gesù dei popoli perché hanno sempre sofferto. ‘Noi siamo più eletti!’. ‘No, noi abbiamo sofferto di più!’”. Ho sempre pensato che la mia capacità di soffrire fosse una peculiarità ebraica. Adesso penso che sia una peculiarità ebraico-polacca, e per la prima volta da quando sono qui mi sento a casa, insieme ai sofferenti.
Incontro Janusz Makuch al café Cheder: è un uomo cordiale e impetuoso. Ha fondato il festival della cultura ebraica nel 1988. Mi dice che al partito Diritto e giustizia piaceva molto costruire monumenti e musei. “Gli piaceva tanto enfatizzare i Giusti. I polacchi hanno salvato milioni di ebrei!”, dice con una vocina sciocca. “I polacchi, i polacchi, il popolo Giusto… capisci cosa intendo?”.
Gli chiedo: cosa c’è che non va nell’onorare la memoria della Shoah? Rimane in silenzio per un bel po’. “Non ci vedo la verità”, dice alla fine. “La gente non vuole conoscere la verità”. Ha ragione. L’ebreo del Bambino con il pigiama a righe, la favola di Boyne su Ausch­witz, sembra più un Cristo bambino che un qualsiasi bambino ebreo che mi sia capitato di incontrare: dov’è la sua ansia? La zona d’interesse sceglie un’estetica senza gli ebrei. A volte il museo statale di Ausch­witz-Birkenau sconsiglia di adottare alcune opere nelle scuole: il libro di Boyne, per esempio. Boyne ha detto che cerca di mantenere la Shoah nella coscienza pubblica, come se fosse un marchio che non può sopravvivere senza il suo aiuto.
“Possiamo sforzarci quanto vogliamo”, dice alla fine Makuch. “Possiamo provare a ricostruire il nostro mondo in Polonia. L’abbiamo fatto. Auguro tutto il meglio alla gente che vive qui e vuole costruire un futuro ebraico e ricreare una società ebraica. L’abbiamo fatto. Abbiamo i musicisti klezmer, abbiamo i ristoranti ebraici, abbiamo i camerieri con la kippah. Stronzate. Più ne abbiamo, più dolorosamente ci rendiamo conto che viviamo nell’assenza”.
Dice: “Arriviamo, costruiamo qualcosa, organizziamo la mostra al museo e la nostra coscienza, il nostro senso di colpa, sono a posto. Abbiamo fatto qualcosa”. Poi fa una pausa e sussurra, furioso. “No. Non abbiamo fatto niente! E i nostri figli, il nostro sistema scolastico? La nostra chiesa?”. La chiesa cattolica ha assolto gli ebrei per l’assassinio di Cristo, il mito fondativo dell’odio per gli ebrei, solo nel 1965. “E i polacchi che vivono ancora nelle case degli ebrei?”.
Continua: “Questa è la narrazione ufficiale polacca: abbiamo vissuto insieme quasi mille anni”. Sussurra, feroce: “Non abbiamo mai vissuto insieme, stronzi che non siete altro. Abbiamo vissuto fianco a fianco. Gli ebrei non si curavano dei polacchi. I polacchi non si curavano degli ebrei. Ogni antisemita ha il suo ebreo a cui vuole bene. Tutti gli altri alle camere a gas”. Prima che mi congedi, mi dà un consiglio: “Non cercare di generalizzare, non cercare una chiave sola per capire. È troppo complicato. Ci sono un sacco di porte in questo shtetl che è la Polonia”.

Davide Bonazzi


La mattina dopo fermo un golf cart con la scritta “ghetto”. Alla guida c’è un britannico di nome Alex. Dice che posso fargli delle domande sul suo lavoro di guida turistica se gli do cinquanta euro. “Gli ebrei controllavano tutto”, dice ai turisti che gli chiedono il perché dello sterminio. “Avevano tutte le attività imprenditoriali, ma avevano lavorato per averle, nessuno gliele aveva regalate”. Se controllavano tutto, rispondo, non sarebbe stato complicato ammazzarli? “Non tutto”, ammette, “ma economicamente… Si erano collocati più in alto della gente del posto, e questo ha fatto saltare i nervi a un sacco di persone. Sto solo esponendo le diverse motivazioni, non sono necessariamente d’accordo”.
Un tempo faceva la guida ad Ausch­witz. “Mi piaceva lavorare lì. Mi piacevano i clienti. Facevo mettere i visitatori dietro il recinto e dicevo, ‘Avete visto il film Il bambino con il pigiama a righe? Ecco, è la stessa cosa’. Nelle mie visite guidate faccio tutto, comprese le cose che i miei colleghi non fanno, cioè anche abbattere le barriere, certo, in modo che la gente capisca veramente”, dice allegramente. “Capiscono le cose da angolazioni diverse, da entrambe le parti, non solo dal punto di vista degli ebrei, anche loro non sono troppo carini”.
“Alcune persone volevano vedere la scena”, spiega. “Allora io afferravo una donna per le spalle e dicevo: ‘Immaginate se vostra moglie fosse presa in questo modo e buttata lì da una parte’. A volte facevo mettere le persone in fila e dicevo: ‘Benvenuti ad Ausch­witz. Toglietevi i vestiti’”.
“Cracovia è un bel posto”, dice, “ma se non ci fosse Ausch­witz, non sarebbe un’attrazione così grande”. Cos’hai imparato sugli ebrei da quando sei qui? Si mette a ridere. “Che non sono veramente i benvenuti. Ah ah!”. Perché la gente va ad Ausch­witz? “Si divertono! Il problema”, continua, “è che si è trasformata in una vacanza, come a EuroDisney”. È questo che ti dà fastidio? “Ha distrutto l’atmosfera di come dovrebbe essere. La macchina del turismo ha ucciso Ausch­witz”. Ha l’aria affranta. Mi capita spesso di pensare ad Alex. E spesso penso che ha ragione.
Il campo di concentramento e sterminio Ausch­witz-Birkenau si trova vicino alla cittadina di Oświęcim, in corrispondenza di due diverse intersezioni: quella delle linee ferroviarie transeuropee e quella dei fiumi Soła e Vistola. Gli ebrei arrivavano in treno e se ne andavano lungo i fiumi, che sfociano nel mar Baltico. Ausch­witz è il nome tedesco di Oświęcim. Dopo la guerra, i tedeschi se ne sono andati e sono arrivati i sovietici. I polacchi hanno deciso che il campo di sterminio dovesse conservare il suo nome tedesco, e mi sembra giusto.
Per scrivere questo articolo vado due volte ad Ausch­witz. La prima volta prendo un autobus turistico da Cracovia. La seconda prendo il treno.
Incontro un tassista alla stazione. “Tutto il mondo la conosce come un campo di concentramento”, dice, “e non sa che è una bellissima città. I bus turistici portano la gente direttamente da Cracovia a qui. Non si fermano al castello. Vivo a cinque minuti da qui, c’è una cascata”. Il giorno dopo, quando salgo su un taxi e dico “campo di sterminio”, l’autista sospira e ripete, non in tono scortese, “campo di sterminio”. Il giorno dopo ancora, quando monto in taxi e dico “campo di sterminio”, come se recitassi e la mia unica battuta fosse “campo di sterminio”, il tassista mi guarda con il volto segnato dalla preoccupazione. Poi mi prega di andare a visitare un parco a tema di nome Energylandia, che ha due montagne russe. La squadra di Oświęcim è anche molto forte nell’hockey su ghiaccio. Non importa niente a nessuno.
La città si sviluppa attorno un’antica piazza con delle fontane che di sera s’illuminano di viola. Più in là c’è un centro commerciale patinato con un Kfc e un McDonald’s, tranquillizzante nella sua somiglianza con ogni altro McDonald’s. D’estate sembra oziosa, come se mancasse qualcosa. In tutta la Polonia è come se mancasse qualcosa, come se il paese fosse sbocciato da una grande sofferenza sepolta.
Facciamo una passeggiata. Via Berka Joselewicza – la vecchia via ebraica – è deserta: al posto della grande sinagoga adesso c’è un parco dall’atmosfera tetra. Il primo cimitero ebraico, fondato nel 1588, è scomparso. Nessuno sa dove sia, anche se a volte qualcuno ristruttura la casa e trova delle lapidi nelle pareti e sotto i pavimenti. Alla fine troviamo l’ebreo del posto. È una statuina alta quindici centimetri ed è esposta nella vetrina di un negozio. Forse è questa la logica conclusione della storia degli ebrei in Europa: un pupazzetto di quindici centimetri che controlla un mondo di quindici centimetri. Il proprietario mi saluta da dietro il vetro. Non ce la faccio a entrare e a chiedere quanto costa l’ebreo in vetrina. Lo risaluto. Troviamo un murale con un ritratto di papa Giovanni Paolo II vicino a una gelateria. Ha l’espressione neutra. Dalla sua bocca esce un fumetto che dice: “Antysemityzm jest grzechem przeciw bogu i ludzkosci” (l’antisemitismo è un peccato contro Dio e l’umanità). Troviamo il Museo del castello con i suoi tableaux della vita anteguerra e la sua collezione di attrezzature sportive prebelliche, tra cui mazze da hockey, stoviglie e bambole inquietanti.
Quando chiedo di vedere qualcosa sulla vita ebraica, mi indirizzano al Museo ebraico Oshpitzin quasi con aria sollevata, anche se mi fermo abbastanza alla loro mostra sull’hockey su ghiaccio per segnare un gol, cosa che mi dà grande soddisfazione. Il museo ebraico è adiacente a una piccola sinagoga ristrutturata con i fondi della diaspora. Non ho mai visto una sinagoga così immacolata, ma manca la congregazione: sembra un teatro da dove gli attori se ne sono andati. Accanto c’è la casa dell’ultimo ebreo di Oświęcim, Szymon Kluger, morto nel 2000. In suo onore, adesso è stata trasformata in un caffè per hipster: legno chiaro, giochi da tavolo, tè esotici, spille con la scritta “coexist”. Mangio lentamente un bagel e penso: non è un po’ troppo tardi?

Davide Bonazzi


Al museo incontro Artur, un uomo dall’aria solenne e studiosa. È cresciuto a Oświęcim e dice che all’epoca la storia locale era “vuota, come una pagina bianca. Sono sicuro che molta gente non vuole parlarne, vuole dimenticare. Un piccolo gruppo di persone ha provato a ravvivare la comunità, ma ora se ne sono andati tutti. Hanno abbandonato la città, soprattutto a causa dell’antisemitismo”. Mi porta nella sinagoga e mi mostra una torah. Ce ne sono due, donate dai gruppi ebraici statunitensi: troppa grazia. Chiedo se posso baciare il bordo della copertina, e mi dà il permesso. È un incontro talmente imbarazzato che potremmo essere entrambi inglesi.
Fuori ci sono due giovani uomini che prendono il sole sulle sedie a sdraio. Uno è tedesco, l’altro è cresciuto qui. Se n’è andato quando aveva diciassette anni. Quando gli chiedo perché è venuto qui, al museo ebraico, dice: “Questo è un posto superinternazionale”. Penso che non sappia spiegare cosa lo spinge qui, ma mi racconta dei tempi in cui andava a scuola. “Un giorno ho chiesto del campo e mi hanno risposto: ‘È vietato parlarne. È come il nome di Voldemort in Harry Potter’”. Nel cortile della scuola dare dell’ebreo a qualcuno era un insulto. “Mi ricordo che te lo dicevano se rubavi le sigarette o se sembravi sporco. Ce lo dicevamo a vicenda senza nemmeno sapere che cosa significava. Magari chiedevi una penna e qualcuno non te la dava e ti diceva: ‘Ebreo di merda’”.
Passo ore seduta alla pizzeria Da Grasso nella piazza della città. Un tempo era una casa di proprietà di ebrei – l’hotel Herz – e Barbara Leibler, una discendente dell’ex proprietario, ha presentato una petizione al governo perché le sia restituita. Dubito che ci riuscirà: nel 2021 il termine ultimo per fare appello alle ordinanze di restituzione è stato fissato a trent’anni. Me ne sto seduta a mangiare spaghetti al pomodoro, guardando la piazza come se fosse una foto a doppia esposizione. Gli ebrei si radunavano qui per le deportazioni. Nonostante questo, Oświęcim è il mio posto preferito in Polonia. Non cerca di essere qualcosa che non è. È onesta.
So com’è fatto Ausch­witz perché ho visto X-Men – Apocalisse, del 2016, che è parzialmente ambientato qui. Ma non sono preparata alla sua apparente normalità. Gli edifici sono di mattoni rossi, disposti come un mazzo di carte. È stato detto che qui gli uccelli non cantano, ma è una leggenda: fanno un sacco di rumore, sono indaffarati con i pulcini. Ho registrato un video, vorrei farvelo vedere. Sembra troppo banale per essere quello che è, ma è un condizionamento: non è reale, non può esserlo. È luminoso e ventoso.
Jerzy Putrament, un comunista, fece una profezia nel 1948, quando il museo di Ausch­witz era aperto da un anno. “Mi immagino tour di americani tipo quelli organizzati dall’agenzia Cook”, scrisse. “Conoscete il più grande centro di sterminio del mondo? Preparatevi a incontrare l’inferno!”. Quei tour sarebbero stati divisi in normali, turistici e speciali. Quelli speciali, per un sovrapprezzo adeguato, avrebbero compreso quanto segue: trasporto al campo in vagoni merci (gli ultimi dieci chilometri) con 120 persone per ogni vagone, e una marcia forzata guidata da uomini delle Ss in uniforme muniti di manganelli. Alex, il mio autista a Cracovia, è la guida turistica di Putrament venuta dal futuro, o almeno ci ha provato.
Putrament apprezzerebbe le recensioni da una stella di Ausch­witz su Tripadvisor, da cui sono un po’ ossessionata. Ci sono molte lamentele, non sulla sua esistenza ma sulla logistica. “Ero così impaziente di fare questa visita”, scrive Mike da Pocklington. “Che delusione… Zero atmosfera… Mi dispiace ma molto deludente”. “Terribile perdita di tempo!”, scrive Piotr da Varsavia, che si lamenta della fila. “Credo che la direzione del museo dovrebbe cominciare a pensare di più all’esperienza del cliente!”.
La gente ha sempre litigato per Ausch­witz. Ausch­witz I, il campo di concentramento e successivamente di sterminio, è stato creato in un’ex caserma dell’esercito. Ausch­witz II, o Birkenau, dove c’erano quasi tutte le camere a gas e i forni crematori, è a due chilometri di distanza. Ausch­witz, Poland, and the politics of commemoration, 1945–1979 di Jonathan Huener (“Ausch­witz, la Polonia e la politica della commemorazione, 1945-1979”) racconta che ci sono state proposte di demolire Birkenau o di ospitare sui suoi terreni un circo oppure dei maiali. C’è stato anche il tentativo di dipingere Ausch­witz come il punto più basso mai toccato del capitalismo, cosa che sorprenderebbe i molti capitalisti uccisi qui.
Ausch­witz-Birkenau è più silenzioso che in passato. Trentacinque anni fa Avraham Weiss, un rabbino di New York, si scagliò contro il convento di suore carmelitane creato in un ex magazzino di Zyklon B – il pesticida usato per uccidere gli ebrei – all’interno del complesso. Giovanni Paolo II ignorò le richieste del comitato per la protezione delle suore carmelitane e ordinò lo spostamento del convento in altro luogo. Il New York Times fece un titolo irresistibile: “Il papa ordina alle suore di andarsene da Ausch­witz”. Il museo è stato aperto nel 1947 sotto il patrocinio del ministero della cultura e dell’arte, che ha deciso di creare un museo del martirio polacco perché offriva alla Polonia una narrazione che il paese era in grado di sostenere, non solo uno specchio con il riflesso di un ebreo dallo sguardo carico di rimprovero. E così hanno fatto di Ausch­witz I un museo dell’agonia polacca e hanno lasciato crescere l’erba a Birkenau. Questo è sia un bene sia un male.
Durante la mia prima visita, nell’estate del 2021, all’ingresso del campo c’è una mostra di fotografie dei primi detenuti: prigionieri politici polacchi. Ci sono parcheggi, bagni – vedo un ragazzo seduto sulle scale che guarda su Tinder la foto di un perizoma senza una donna dentro – e un ristorante che cerca di darsi un’aria di normalità, con barattoli di grano sulle mensole. Una mosca è finita nel condimento dell’insalata. La mosca ha capito tutto. Si è suicidata.
La mia prima visita è guidata da una bionda abbastanza giovane in abito da cocktail color salmone e sandali argentati. Ci fa fare il giro della mostra, parlando con voce monotona e un’espressione priva di qualsiasi sorpresa. Non riesco ad ascoltare e a prendere appunti nello stesso tempo, quindi non mi ricordo quasi niente di quello che ha detto. Ci mostra tutto: le pile di vasi e stampelle, le scarpe e i capelli umani. Prendo la parola e dico: qualcuno chiede mai dei capelli? Credo che secondo la tradizione ebraica debbano essere sepolti. Risponde che nessuno si è lamentato, a parte gli stretti osservanti. Ci portano al crematorio 1. Non voglio entrare. Un uomo di mezza età mi guarda. È ovvio che è vagamente emozionato all’idea: “Viene?”, mi chiede, e alla fine mi accodo.

Davide Bonazzi


Prendiamo un autobus navetta per Birkenau. Mi fisso sulle cose che lo ancorano qui e lo rendono reale: l’edificio dall’aria familiare sul retro con il tetto rosso acceso (Google Maps mi dice che ci fabbricano trapunte e materiali di cartoleria); la sottile via di accesso; il negozio che vende calamite da frigo con la scritta, piuttosto esplicita per delle calamite da frigo, “Campo di sterminio tedesco di Ausch­witz-Birkenau”; la topografia. Il campo è stato costruito ai margini di un villaggio di nome Brzezinka: i discendenti degli abitanti protestano. Hanno appeso un cartello: “Dalle nostre case demolite è stato costruito il campo di concentramento di Ausch­witz-Birkenau. Molti di noi non hanno ancora ricevuto un risarcimento. Siamo vittime dimenticate della seconda guerra mondiale”.
La gente guarda dentro le baracche, schermando gli occhi con le mani. Più tardi lo faccio notare a una donna, che è sopravvissuta ad Ausch­witz, e lei mi chiede: “E tu, cosa stai cercando?”. Non lo so, ma ho la sensazione che sia tutta una finzione. Il Magneto bambino dell’universo Marvel? Le Ss goblin? Alla nostra guida interessano soprattutto i bagni (non è insolito: al ghetto di Cracovia la guida mi ha detto di aver avuto il seguente scambio con un turista ad Ausch­witz: “Avevano la carta igienica?”. “No”. “Come si pulivano il sedere?”. “Con la mano”. “Quale mano?”. “La sinistra”. “Perché la sinistra?”. “Con la destra mangiavano”. Un ebreo americano una volta gli ha chiesto: “Dov’erano gli avvocati?”. Lui ha risposto: “Nel prossimo vagone merci”. Adoro gli ebrei americani). In sintesi, la nostra guida dice che gli ebrei non avevano bagni. Avevano perso la loro umanità. Il messaggio sottinteso sembra: tenetevi stretta la vostra tazza del gabinetto.
Torno un’altra volta. In estate, se volete venire prima dell’ora del tè (le quattro) dovete pagare ventidue dollari per una visita guidata. Si comincia con un film che ha in sottofondo una musica triste da crociera sul Reno e una voce delirante fuori campo: “I forni potevano bruciare i resti di oltre quattromilasettecento persone al giorno… Fuggire era quasi impossibile… Cosa hanno portato milioni di vite spezzate dall’altra parte del recinto?… La posta in gioco è alta. Quali scelte farete?”. Se fosse messo per iscritto sarebbe tutto in maiuscolo. È come essere presi a pugni in un cartone animato.
Nella mia seconda visita, il tizio che ci fa da guida è tutto pulito e ordinato. Sembra il cattivo di Terminator 2. Stringe l’ombrello con ostentazione. Ha un paio di occhiali da sole a specchio: vediamo il nostro riflesso sulle lenti. Le sue parole crepitano. Una famiglia polacca ha portato un bambino di sei anni. Mi chiedo che idea si sia fatto di tutto questo. La madre dice che gli hanno promesso un gelato alla fine della visita. Ha degli occhiali da sole a forma di cuore.
C’è una fotografia di un gruppo indistinto di donne nude spinte in una camera a gas. Fa parte di una famosa serie di foto scattate dal Sonderkommando – un gruppo di prigionieri, per lo più ebrei, costretti a lavorare nelle camere a gas e nei forni crematori – e fatte uscire clandestinamente dalla resistenza polacca. Non credo che questa foto dovrebbe essere mostrata: un americano grasso la fotografa senza guardarla. Mi sembra tipico. Qualcuno si è preso la briga di fare il modellino di una camera a gas e di un forno crematorio con tanti piccoli ebrei.
Arriviamo ai capelli. È un mucchio più o meno di un metro e ottanta in altezza per diciotto metri di lunghezza. Hanno tutti lo stesso colore sbiadito e sono annodati stretti. È una cosa, e quindi una metafora, anche se inconsapevole. Un uomo mi dice: “Da nessun’altra parte del mondo si può vedere una catasta così grande di capelli umani”. Allarga le mani per dimostrare la grandezza. Il suo amico risponde, come se aspettasse il momento: “I capelli sono un pugno in faccia”. La guida ci dice di non fare foto. L’americano grasso ne scatta una lo stesso. Gli chiedo: “Perché fai la foto se ti hanno detto di no?”. “È più straziante”, dice, con trasporto. Ha gli occhi stralunati, come se fosse da qualche altra parte. “Per dopo”, aggiunge.
Il primo monumento all’Olocausto è stato costruito durante lo sterminio a Majdanek, dove i prigionieri riempivano di ceneri umane delle aquile ornamentali e dicevano ai nazisti che stavano abbellendo il sito (ironia ebraica). Il monumento di qui non ha quello spirito. Lo detesto. Sembra una torre Jenga troppo grande. Forse vuole somigliare ai due forni crematori dismessi ai suoi lati o alla garitta delle Ss. Sembra appartenergli. Mi chiedo se sono la prima persona ad averlo notato. Mi chiedo se sono matta. Ma non sono sorpresa. Il monumento alle vittime ebraiche austriache della Shoah di Judenplatz a Vienna sembra una spa. Il titolo del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa non cita i nazisti, quindi è possibile che gli idioti del futuro penseranno che gli ebrei tedeschi sono stati rapiti dagli alieni.
Il Monumento internazionale alle vittime di Birkenau è stato inaugurato nel 1967, quasi a metà del dominio sovietico sul paese. Il governo aveva indetto un concorso per il miglior progetto, il bando diceva: “Questo monumento non dovrebbe essere solo un simbolo del martirio e della lotta, ma anche della fratellanza nata nella sofferenza e nella lotta comune”. Ci sono stati sette progetti finalisti, ma sono stati tutti rifiutati. Alla fine, tre gruppi di progettisti sono stati messi a lavorare insieme, tra mille interferenze politiche, e hanno prodotto questo. È un compromesso, e ne ha tutta la malinconia. C’è però una cosa bellissima, una vera barzelletta ebraica. È il refuso di Ausch­witz-Birkenau. Le targhe sul monumento originale sono state sostituite perché sovrastimavano le vittime di due milioni e mezzo: forse c’era lo zampino dei nazisti.
Non mi chiedete di questa cosa, dice la guida, non ne so niente. Lo apprezzo per questo, ma rovina tutto dicendoci che i prigionieri del Sonderkommando “facevano una vita piuttosto lussuosa”. Nella baracca qualcuno fa l’immancabile domanda sul bagno: potevano usare il bagno la notte? Non prendo nota della risposta. La guida si lamenta delle “scritte lasciate da visitatori che non sanno come ci si comporta”. La famiglia Levy ha inciso una stella di David vicino all’entrata. Gli chiedo: “Come mai, dopo la Shoah, abbiamo ancora l’antisemitismo?”. So che è una domanda stupida. Una domanda migliore, parafrasando Hannah e le sue sorelle, è: “Come potrebbe essere il contrario?”. La sua risposta: “Loro (gli ebrei) vogliono distinguersi dagli altri. Nell’impero romano c’erano cinquanta divinità. Gli ebrei ne avevano una sola”.
Qualche tempo dopo, torno a Birkenau per conto mio. Mi chiedo se potrò entrare, visto che non ho il biglietto. Ma i cancelli sono incustoditi. Guardo i bambini che corrono lungo i binari verso i forni crematori. L’erba è talmente rigogliosa che la puoi sentire muoversi. Sogno a occhi aperti che sia trasformata in un giardino chiuso a chiave, come sarebbe giusto: restituito a Dio. Perché non c’è alcun simbolismo ebraico nel monumento di Birkenau, nemmeno un’intera civiltà se lo è meritato. Ce n’è qualche traccia a Treblinka, dove il memoriale evoca il muro del pianto, spaccato a metà, ma non ci va quasi nessuno, quindi forse non conta.
Ausch­witz, però, è troppo potente per darla agli ebrei. Incontro una turista che è venuta in Polonia per una crociera fluviale ed è rimasta per il campo. “Non sono delusa”, dice, “è raccapricciante”. Io ormai non credo più che Hitler abbia perso la guerra, ma la Polonia si consegna al pensiero magico. Immagino di viaggiare nel tempo e di trovare un mago che li riporti indietro. Penso soprattutto che se non sai cos’è un ebreo quando entri ad Ausch­witz-Birkenau continui a non saperlo anche quando esci quindi, qualsiasi altra cosa sia, questo è un monumento alla logistica e a nient’altro.
A Varsavia alloggiamo nella città vecchia, che è stata quasi completamente distrutta dopo l’insurrezione del 1944 ed è stata ricostruita in parte secondo i paesaggi di Bernardo Bellotto, un dipinto sopra un massacro. Il nostro albergo è una residenza seicentesca con vasti contrafforti. All’interno di questo dipinto ho le allucinazioni. M’immagino simboli cattolici portati in piazza da una processione che recita il kaddish anche se, a dire la verità, il mio latino non è un granché. Lo scorso ottobre qui c’è stata una marcia per la Palestina e una studente norvegese ha mostrato un cartello con sopra una stella di David gettata in un cestino. La donna è stata intervistata e ha detto di non essere contro gli ebrei. Mi chiedo se intendesse le statuine giocattolo.
Visitiamo il Polin, il museo della storia degli ebrei polacchi. Dairusz Stola, il suo ex direttore, se n’è andato quando il partito Diritto e giustizia ha rifiutato di riconfermalo al suo posto. Stola era contrario alla legge che vietava le accuse di complicità polacca durante la Shoah e ha organizzato la mostra Estranged: march ’68 and its aftermath (Distanti: marzo ’68 e le sue conseguenze), che ha sottolineato i parallelismi tra la Polonia del ventunesimo secolo e la retorica antiebraica del 1968 che portò all’esodo di tredicimila ebrei polacchi superstiti. Vedo i dipinti contemporanei di Wilhelm Sasnal: una donna passa in auto il cancello di Birkenau, ma non lo guarda. Sasnal dipinge anche il campo di concentramento di Majdanek. C’è un’unica bicicletta, è quella di un turista.
Durante un temporale spaventoso, incontro il giornalista Konstanty Gebert, un esperto di genocidio comparato, nel suo grande appartamento nel centro di Varsavia. Amo la sua casa tappezzata di libri perché ho passato giorni dentro la realtà parallela di Bellotto, uscendo solo per andare al Polin e per vedere un film di Disney al Palazzo sovietico della cultura e della scienza, un’altra realtà parallela.
“Il silenzio di cui stai parlando”, mi dice, “non è esattamente il nostro argomento di conversazione preferito. La Polonia ha perso la guerra. C’è stata fin dall’inizio una relazione estremamente ambigua con il passato di guerra”. Le bugie fanno incetta di voti nazionalisti, o ci provano. Nel 2018, Yair Lapid, oggi leader dell’opposizione israeliana, ha usato la frase “campi di sterminio polacchi”, che è scandalosa. L’ex primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha risposto che ci sono stati anche degli “assassini ebrei” e che ogni ebreo sopravvissuto si è salvato solo perché ha incontrato un polacco. “Se non fosse drammaticamente serio”, dice Gebert, “sarebbe molto divertente. Entrambi questi signori mentono spudoratamente senza nemmeno capire su cosa stanno mentendo, ed entrambi hanno l’opinione pubblica saldamente dalla loro parte”. Fortunatamente c’è ancora speranza per la memoria polacca. Il nuovo governo non ha proposto una sua lettura della storia, dice Gebert. “Lascia che se ne occupino gli storici”.
“La cosa singolare della sofferenza”, aggiunge, “è che non nobilita. Questa è una fallacia cristiana. A livello collettivo, non nobilita. Ti fa concentrare sul tuo dolore e ti rende insensibile e indifferente a quello altrui. Questo è successo in Polonia. Ma non solo in Polonia”. Ogni fazione, dice, crede “che la guerra sia una cosa sua. Tutto il resto è stato una nota a margine. Prova a parlare con i serbi: la guerra era una cosa dei serbi. Con i curdi, poi, è inutile parlarci: sostanzialmente, la storia del mondo è la storia della sofferenza curda”. Ma la storia è un’altra, dice. “La loro psicologia è identica alla nostra. Sentiamo il bisogno di rimarcare la nostra sofferenza, perché se non lo facciamo noi non lo farà nessun altro, e tutto quel sangue sarà stato versato invano”.
“Viviamo in una bolla”, dice Gebert, “dal Regno Unito a Varsavia. Una bolla ricca, protetta. Facciamo solo finta di non rendercene conto”. Il mondo vero non è qui, dice, e ha ragione. Il mondo vero, dice, è a Kiev, a Kabul, a Rafah. “Non siamo riusciti a capire che un mondo con un Ausch­witz non può essere riparato. L’ambizione di renderlo di nuovo giusto è sbagliata, ci distoglie dal compito più serio di capire. Succede ogni volta. Le guerre per la memoria, le distorsioni… semplicemente, un genocidio lascia nel cuore del mondo un buco che non può essere riempito”.
Portiamo con noi i sottaceti di Chabad: sono diventati una metafora della nostra nuova vita ebraico-polacca. Naturalmente, facciamo un casino: sul treno per Varsavia il mio compagno fa cadere il barattolo e la carrozza, che è piena di giovani donne bellissime, soffoca per la puzza di sottaceti e tutti si mettono a gridare. 


Tanya Gold è una giornalista freelance. Questo articolo è uscito sul mensile statunitense Harper’s con il titolo My Auschwitz vacation.

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la bambinaia che salvò un neonato ebreo premiata grazie a un discendente genovese

 tra  le tante storie      sul  27  gennaio    ecco una  che mi    ha  colpito particolarmente 

da  Genova24  tramite   msn.it  

Genova. Tina Baldi oggi avrebbe 101 anni. E’ morta nel 2011. Quando aveva appena 19 anni, nel 1943, mise in salvo un bambino ebreo dalla persecuzione nazista, nascondendolo e fingendo per mesi che fosse figlio suo, e poi portandolo ai genitori, scappati in Svizzera, mettendo in pericolo la propria stessa vita.Lunedì 27 gennaio, in occasione del Giorno della memoria, a Parma si terrà la cerimonia in cui i familiari di
tina baldi 

Tina Baldi riceveranno la targa e la pergamena con cui la coraggiosa bambinaia sarà inserita per sempre nell’elenco dei “Giusti fra le nazioni”, l’onorificenza che lo Stato di Israele conferisce a uomini e donne che aiutarono chi rischiava la deportazione nei campi di sterminio.
Se dopo 81 anni il comitato dei “Giusti tra le nazioni” è arrivato a questa storia è grazie a un genovese, Silvio Sciunnach, nipote di Tullo Vigevani, il neonato messo in salvo. Sciunnach, da Genova, in collaborazione con la cugina Mara, che invece vive in Israele, ha contattato la famiglia di Tina e poi raccolto le testimonianze e i documenti utili a far andare a buon fine la pratica. “Soprattutto racconti e dettagli stratificati negli anni – spiega – perché gran parte delle carte del tempo sono andate perse”. Suo è stato proprio suo zio Tullo, fratello della madre, più volte, a dire che non sarebbe vivo se non fosse stato per la “Tata Tina”.
Tullo Vigevani oggi ha 82 anni, vive in Brasile, ed è un ex docente di Scienze politiche in pensione. Non ha avuto un’esistenza semplice. Dopo quei primi anni di vita in Svizzera, nel 1950 è stato anche prigioniero politico durante la dittatura militare brasiliana. Non ha vissuto la deportazione ma ha comunque subito un arresto e torture.
La storia dei suoi genitori, Rolando e Enrica Vigevani, era stata al centro del lavoro di una scuola di Fidenza, premiato nel 2019. La coppia, residente al tempo nella zona di Parma, era stata aiutata a scappare in Svizzera dall’allora pretore di Fornovo, Pellegrino
Tullo Vigevani, per mano, insieme al papà e al fratello

Riccardi, altro “Giusto fra le nazioni”.
Ma quando si svolse la premiazione degli studenti che avevano realizzato la ricerca, il nipote di Riccardi disse che c’era un’altra “Giusta”, Tina Baldi appunto. Ed è stata in quell’occasione che il genovese Silvio Sciunnach, presente all’evento come familiare dei Vigevani, si mise in testa che sarebbe stato bello farle avere lo stesso riconoscimento.La storia è drammatica ma a tratti anche rocambolesca. “I Vigevani – racconta Sciunnach – riuscirono a salvarsi all’ultimo minuto perché Riccardi li avvisò che a casa loro stavano arrivando i tedeschi, fuggirono in Svizzera con il suo aiuto ma nella concitazione del momento non riuscirono a recuperare il figlio piccolo, Tullo, che restò alla bambinaia”.
Tina Baldi se ne prese cura come se fosse figlio suo. “Lei finse che fosse figlio suo, per nasconderlo, e peraltro assieme a quel bambino si trovò a scappare in diversi posti, il caso vuole che finì ospite addirittura in una casa di cura dove stava anche la figlia di Mussolini, Edda Mussolini, la moglie di Galeazzo Ciano”.
Un altro episodio che Sciunnach racconta, ancora incredulo e ammirato, è quello della consegna del piccolo Tullo alla famiglia Vigevani, al confine svizzero. “Già potete immaginare come il viaggio fino al confine, per una 19ene con un bambino di pochi mesi, non fosse semplice ma poi accadde che per passare il piccolo tra le reti del confine, Tina e una sorella della madre di Tullo, si riconobbero utilizzando, quasi come un codice da servizi segreti, una banconota strappata a metà, se le due metà fossero coincise ci sarebbe stata la certezza che il bambino stava andando nelle mani giuste”. La consegna non fu direttamente alla madre di Tullo perché proprio in quei giorni stava partorendo il secondogenito.

la famiglia Vigevani

Ad ogni modo, lunedì 27 gennaio, si chiude un cerchio. “Non è stato facile arrivare a questo risultato – commenta Sciunnach – l’iter è iniziato nel 2019 ma nel frattempo c’è stato anche il Covid che ha rallentato le procedure di verifica da parte del comitato, però siamo contenti, io ho saputo che la procedura era andata a buon fine nel 2023, proprio nei giorni in cui trovavo in Israele per le vacanze”.Lunedì Sciunnach sarà a Parma, insieme alle figlie di Tina, Lauretta e Carla Baldi, e a Homero e Darsin Vigevani, figlio e nipote di Tullo. Il bambino salvato, purtroppo, non riuscirà a volare dal Brasile per questioni di salute ma con il cuore sarà vicino a Tata Tina, come sempre è stato in questi anni.

22.1.25

SHOAH E MEMORIA LA LEZIONE DI LEVI e come spiegarla ai bambini e a quei 14 per cento che dicono che non esiste




Inizialmente non volevo più celebrarlo e smettere di scrivere post in merito visto l'alto tasso di retorica , di strumentalizzazione dei pro israeliani sopratutto dopo il 7 ottobre e la richiesta di silenzio ( vedere post precedente ) ho deciso dopo aver letto l'articolo di Gad Lener  che trovate  sotto   di farlo ancora . Visto il ritorno ( in realtà non sono neppure del tutto scomparsi ne cancellati ) dei nuovi fascismi e dei nuovi nazismi sotto nuove forme più pericolose di quelle originarie classiche. Ma soprattutto perchè in un’Italia che si trova di fronte alla Giornata della Memoria, il 27 gennaio, e a un’inquietante recrudescenza di episodi di antisemitismo, emerge un dato preoccupante: il 14% degli italiani, secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, non crede che la Shoah sia mai avvenuta. quello che molti considerano un “vecchio tema”, relativo alla memoria della Shoah, sembra essere riemerso prepotentemente nella coscienza collettiva italiana, e non solo. Secondo il Rapporto Italia, il 15,9% degli italiani minimizza la portata della Shoah, affermando che non avrebbe prodotto così tante vittime, mentre il 14,1% nega totalmente che lo sterminio sia mai avvenuto. Dati inquietanti, che si collegano a una crescente diffusione di teorie complottiste e di discorsi revisionisti, veicolati non solo dai soliti ambienti estremisti, ma anche da frange della politica e dei social media.

Non si tratta di una crisi improvvisa, ma di un processo strisciante che si è acuito negli ultimi decenni. Nel 2004, sempre secondo Eurispes, solo il 2,7% degli italiani metteva in dubbio l’Olocausto. Oggi quella percentuale è quintuplicata, dimostrando come il tempo, anziché consolidare la consapevolezza storica, abbia aperto la strada a narrazioni distorte.
Questo deterioramento del senso storico non è privo di conseguenze. Il negazionismo non è solo una negazione del passato, ma una ferita aperta per le comunità ebraiche e un pericoloso sintomo di una società che fatica a riconoscere i propri errori e le proprie responsabilità. Il rischio è evidente: la Shoah, da tragedia universale, rischia di essere relegata al ruolo di semplice oggetto di dibattito, perdendo il suo valore di monito e insegnamento per le generazioni future.Purtroppo, quanto emerso dall’indagine dell’Eurispes non è un caso isolato. Le credenze distorte sugli ebrei, come il presunto controllo del potere economico o la capacità di determinare le politiche occidentali, continuano a radicarsi tra la popolazione. Se nel 2004 il 2,8% degli italiani negava il diritto all’esistenza di Israele, oggi quella percentuale è salita al 18,8%. La banalizzazione della Shoah, il crescere di opinioni che minimizzano o addirittura negano l’orrore subito dal popolo ebraico, è un fenomeno che può avere effetti devastanti sulla coesione sociale e sul rispetto dei diritti umani.


Il Fatto Quotidiano  21 Jan 2025   GAD LERNER


FOTO ANSA   Tracce di storia Pietre d’inciampo a Napoli
ricordano gli ebrei deportati ad Auschwitz 

EQUIPARARE L’ORRORE Sembra che gli ebrei abbiano esaurito il credito che fu loro concesso a suo tempo in quanto popolo vittima dell’olocausto Anche per questo la ricorrenza del 1945 resta una celebrazione necessaria


Piaccia o non piaccia, come e più dell’anno scorso, il Giorno della Memoria esercita una funzione scomoda.
Nel reclamare la dovuta attenzione sui milioni di ebrei sterminati in Europa fra il 1941 e il 1945, sospinge l’opinione pubblica a un confronto con la malasorte dei milioni di palestinesi che l’“ebreo nuovo”, scampato all’estinzione, si è ritrovato per vicini di casa. Dentro e fuori i confini dello Stato d’israele sorto nel 1948.
È una forzatura logica, alimentata dal risorgere di antichi pregiudizi? Un paragone che vilipende chi in famiglia reca ancora i segni delle sofferenze patite ottant’anni fa? Siamo sinceri. Fatichiamo a disgiungere nella nostra sensibilità queste due tragedie in apparenza così lontane, benché la loro incommensurabilità numerica dovrebbe risultare evidente: milioni di innocenti persero la vita nell’industria dello sterminio pianificato nei lager; decine di migliaia sono le persone uccise a Gaza dai soldati israeliani in una sorta di punizione collettiva ininterrotta di 15 mesi.
Se non bastassero le reciproche accuse di “nazismo” che i due nemici inferociti si scagliano addosso, perduto “ogni senso di affinità umana”, per dirla con Primo Levi, a rendere ancor più difficile eludere tale connessione mentale è sopraggiunta una circostanza che ha del clamoroso: lunedì 27 gennaio, ottantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz a opera dell’armata Rossa sovietica, è improbabile che alla cerimonia ufficiale convocata in quel luogo possa presenziare il primo ministro israeliano, soggetto com’è a un mandato di cattura internazionale, perché fortemente indiziato di crimini di guerra. Ci sarà re Carlo d’inghilterra mentre non sono invitati i russi. Parleranno solo gli ultimi sopravvissuti perché la politica mondiale oggi non è in grado di ritrovarsi unita neppure nella promessa infranta troppe volte del “Mai più Auschwitz”.
Inutile girarci intorno. L’insistenza con cui molte persone (che si offenderebbero a essere tacciate di antisemitismo) pretendono, in particolare da noi ebrei e ancor più dai sopravvissuti alla Shoah, l’uso della parola “genocidio” riferita a Israele, quasi che fosse lo strumento con cui misurare la sincerità o meno dell’indignazione nostra nei confronti dei crimini di guerra perpetrati in risposta al 7 ottobre, segnala il punto di non ritorno a cui siamo arrivati.
Orribile a dirsi, ma sembrerebbe che gli ebrei abbiano esaurito il credito loro concesso a suo tempo in quanto popolo vittima della Shoah. Basta, credito esaurito. Con sollievo autoassolutorio di chi manteneva il vecchio sospetto che gli ebrei fossero dei privilegiati. Una svolta che elettrizza perfino gli ammiratori della brutalità d’israele interpretata come se fosse una virtù connaturata agli ebrei da assumere come modello. Naturalmente l’esaurirsi del credito concesso alle vittime della Shoah si porta dietro la seconda domanda scomoda sempre più in voga man mano che il conflitto si estendeva e inferociva: un mondo senza Israele non sarebbe forse un mondo migliore? Interrogativo mendace ma insidioso che non riguarda solo il futuro di sette milioni di ebrei nati laggiù, ma la possibilità stessa che prosperino in pace società multietniche e multiculturali.
Mi sono sentito dire di recente da persona bene addentro nell’establis h m en t di Netanyahu: “Con questa g u e r r a Israele si è messo al sicuro. Decapitato Hamas, in malaparata gli Hezbollah, l’iran costretto sulla difensiva, caduto il regime siriano di Assad, uomini affidabili al vertice dello Stato libanese... i palestinesi continueremo a tenerli a bada e Trump ci coprirà le spalle. I problemi ce li avrete voialtri ebrei della diaspora perché ricadrà sulle vostre spalle l’odio sempre più diffuso per Israele e la nuova ondata di antisemitismo che ne deriva”.
In apparenza sembra un ragionamento cinico di realpolitik che non fa una grinza. Affaracci vostri, ebrei che vi ostinate a non capire che in futuro solo in Israele potrete star sicuri. La pensa così chi è convinto che – tregua o non tregua – questa guerra debba continuare perché fa parte di una guerra mondiale più grande. E insiste nell’illusione che bastino i rapporti di forza militari e tecnologici per garantirsi la sicurezza. Come se il 7 ottobre non gli avesse insegnato nulla. E come se bastasse una scrollata di spalle per levarsi di dosso il discredito caduto su Israele.
Se questo è il clima, ben si capisce perché il Giorno della Memoria (istituito in Italia su proposta del nostro caro Furio Colombo) accumuli un gran numero di detrattori: da chi lo liquida come inutile esercizio di retorica, ignorando l’ottimo lavoro preparatorio che tante scuole gli dedicano; a quelli che non ne possono più di “rendere omaggio” agli ebrei per riceverne in cambio nuove accuse; a non pochi esponenti delle stesse Comunità ebraiche che ormai lo vivono come un boomerang, pretenderebbero che la celebrazione venisse depurata da qualsivoglia riferimento all’attualità di Gaza e Cisgiordania o meglio ancora che venisse polemicamente abolita.
Dopo avere riletto i due testi fondamentali del principale testimone della Shoah in Italia (e non solo), cioè Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati di Primo Levi, mi sono convinto del contrario. Non solo il Giorno della Memoria va celebrato, ma deve servire proprio ad affrontare le domande più scomode che per tutta la sua vita Primo Levi ripropose martellanti nei suoi testi circa la ripetibilità e la comparabilità dell’orrore di cui era stato testimone ad Auschwitz.
Il riconoscimento del sistema concentrazionario nazista come unicum non solo non gli impedì, ma lo spronò a studiare il riproporsi successivo di forme di crudeltà di massa basate su meccanismi analoghi. Levi non adopera mai la parola “genocidio”, neanche riguardo allo sterminio degli ebrei, ma quando deve descrivere “i diligenti esecutori di ordini disumani” ci tiene a precisare che “non erano aguzzini nati, non erano (salvo poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque”... “fatti della nostra stessa stoffa”... “non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male”.
Educati male. Nell’appendice a Se questo è un uomo pubblicata nel 1976, paragona i nazisti ai “militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria” e ai “militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam”. Altrove elenca gli “imitatori” dei nazisti “in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sudafrica”. E potrei continuare. Ignoriamo, certo, se avrebbe inserito in un simile elenco Israele con cui manteneva un rapporto “affettuoso e polemico” fondato su “un nostro appoggio sempre condizionato”.
Di certo, Primo Levi non ha fatto che scriverlo e ripeterlo: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto”. Se poi qualcuno pensasse che Levi escludesse a priori gli ebrei dal novero dei potenziali “educati male”, lui stesso replica: “Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli”.
Infatti Il 27 gennaio, Giornata della Memoria, ( ma  non solo   )  è un momento di riflessione collettiva per ricordare le vittime dell’Olocausto e tramandare i valori fondamentali della pace, del rispetto e dell’inclusione. Spiegare questa ricorrenza ai più piccoli non è semplice, ma è essenziale per educarli alla consapevolezza storica e ai principi che ci aiutano a costruire un futuro migliore
La Giornata della Memoria spiegata ai bambini rappresenta un’opportunità per introdurre temi importanti con delicatezza e sensibilità, un compito cruciale che spetta a genitori e insegnanti.
Parlare della Shoah ed olocausto ai più piccoli significa non solo raccontare una pagina oscura della nostra storia, ma anche insegnare il valore della memoria come guida per evitare che errori simili si ripetano. Ecco perché è importante affrontare questo tema e farlo in modo accessibile.
Perché è importante parlarne ai bambini  ?  
Educare alla memoria: un dovere verso le nuove generazioni  La memoria storica non è solo un dovere nei confronti delle vittime della Shoah e dell'olocausto , ma anche uno strumento per educare le nuove generazioni alla consapevolezza e alla responsabilità. Parlare della Shoah ai bambini permette loro di comprendere il valore della giustizia, dell’empatia e del rispetto per il prossimo, pilastri fondamentali per una società inclusiva.

Come raccontare la Shoah e l'olocausto ai bambini allora ?

È fondamentale adattare il linguaggio in base all’età:
  • Per i più piccoli (6-8 anni): si possono introdurre concetti come la giustizia e il rispetto attraverso storie semplici che trasmettono messaggi positivi.
  • Per i bambini più grandi (9-12 anni): si può invece iniziare a fornire un contesto storico, parlando della Shoah in modo comprensibile, ma senza entrare in dettagli  non  troppo  traumatici.

Infatti, raccontare la Shoah ai bambini significa affrontare argomenti difficili con un approccio elementare, utilizzando storie e linguaggi che rispettino la loro sensibilità.

Un libro speciale per spiegare la Shoah ai bambini: un aiuto prezioso per raccontare la memoria con delicatezza

libri possono essere uno strumento particolarmente efficace per affrontare il tema della Shoah con i bambini. Tra i libri sulla Giornata della Memoria per bambini, La giostra si distingue per la sua capacità di trasmettere messaggi importanti in modo delicato e coinvolgente
La storia segue la curiosa amicizia tra Sara, una bambina ebrea, e Teo, il cavallino di una giostra. Un’amicizia ostacolata dall’arrivo della guerra e dall’allontanamento di Sara, prima confinata nel ghetto ebraico e poi portata via in un campo di concentramento. 

 Tra i libri sulla Shoah per bambini, La giostra

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è un esempio di come la narrazione possa avvicinare i più piccoli a una realtà complessa senza spaventarli, ma anzi incoraggiandoli a riflettere. Questo libro, infatti, non solo rende la Shoah comprensibile ai bambini, ma li aiuta anche a sviluppare empatia verso le persone colpite dalle discriminazioni.


Come utilizzare un libro sulla Shoah a scuola o a casa: idee pratiche per leggere e discutere con i bambini

Leggere insieme ai bambini un libro sulla Shoah è un’opportunità per parlare di valori universali, come il rispetto per gli altri e il rifiuto dell’intolleranza. In questo modo, il libro diventa un ponte tra passato e presente, capace di stimolare conversazioni profonde in un ambiente sicuro.

A scuola:

  • Organizza una lettura condivisa in classe di La giostra, seguita da un laboratorio creativo. I bambini potranno disegnare o scrivere un breve pensiero ispirato al libro, e questo li aiuterà a interpretare i messaggi in modo personale.
  • Collega la lettura di La giostra alla Giornata della Memoria. Avvia un momento di riflessione guidata dove gli alunni possano esprimere le loro emozioni e discutere su temi come il rispetto e la diversità. Questo approccio è particolarmente efficace nella scuola primaria, dove è possibile spiegare la Shoah ai bambini attraverso queste attività partecipative.

A casa:

  • I genitori  almeno quelli che  non limitano  a scaricare  \  delegare   agli insegnanti   e    alla  scuola tale  compito  ,  possono leggere con i bimbi La giostra usandolo come spunto di riflessione. Utilizzare un libro sulla Shoah come punto di partenza per dialoghi aperti può essere un’opportunità per trasmettere ai più piccoli i valori promossi dalla Giornata della Memoria.

Parlare di tali  eventi   ai bambini, quindi, è un atto di responsabilità che genitori e insegnanti devono abbracciare con sensibilità e consapevolezza. Spiegare la Giornata della Memoria ai bambini è l’occasione per trasmettere valori fondamentali attraverso strumenti come libri e attività creative.Incoraggiamo tutti a condividere questo articolo e a lasciare un commento con le proprie esperienze su come affrontare questo tema delicato con i più piccoli

 La memoria è il ponte che ci collega a un futuro migliore: camminiamoci insieme.

Autistici, autonomi e felici lanuova vita di Daniele&Daniele . Porto torres I due amici soho andati ad abitare da soli

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