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26.10.15

Ognuno è l’ebreo di qualcuno: il fenomeno del capro espiatorio



“In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.”
Primo Levi, La tregua
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In questi giorni Internet è stata inondata di video, poesie, post, racconti e testimonianze in occasione della Giornata della Memoria, ma si tratta per lo più della condivisione di opere realizzate da altri piuttosto che di produzioni personali. Tutto ciò naturalmente è comprensibile, infatti una persona qualsiasi può sentirsi spiazzata dall’ineffabilità di un evento storico terribile, che persino i testimoni diretti faticano a raccontare.Anche io purtroppo non saprei cosa scrivere su un simile orrore, però ho deciso di realizzare ugualmente un commento personale raccontandovi quale meccanismo della mente umana può generare tanta sofferenza: si tratta del capro espiatorio, un fenomeno di psicologia collettiva alla base di ogni emarginazione, maltrattamento o persecuzione delle minoranze o semplicemente di una persona diversa. Un genocidio non è altro che la degenerazione estrema di un tale comportamento collettivo bestiale (che naturalmente differisce dai meccanismi psicologici che possono generarsi in un singolo individuo) che può verificarsi in ogni comunità ed è lo stesso che innesca fenomeni di bullismo, emarginazione e alcuni casi di mobbing.
olocausto
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Una barbara usanza ebraica
Per ironia della sorte il termine capro espiatorio deriva proprio da una tradizione religiosa ebraica piuttosto barbara, che consiste nel sacrificio di due capri. Ogni popolo, insomma, ha i suoi scheletri nell’armadio, anche gli ebrei! E’ doveroso tuttavia ricordare che i sacrifici di animali erano diffusi presso tutti i popoli antichi, perciò non si tratta di una prerogativa ebraica ma di una macabra usanza che riguarda l’umanità intera, anche i nostri antenati italici.Nel giorno dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, il popolo israelita sacrificava due capri identici tra loro nel Tempio di Gerusalemme per espiare i propri peccati. Il sommo sacerdote estraeva a sorte il capro da immolare sull’altare dei sacrifici, situato all’ingresso dell’edificio del Tempio, per purificare il luogo sacro dai peccati del popolo, dopodiché poneva le mani sulla testa del secondo animale e confessava i peccati del popolo di Israele. L’animale veniva poi gettato da una rupe in un’area desertica situata a circa 12 km dalla città. Il primo capro era chiamato espiatorio, il secondo emissario o, nel linguaggio comune,espiatorio.Il secondo capro svolgeva un ruolo cruciale nel processo di espiazione perché si faceva carico dei peccati dell’intero popolo d’Israele, diventando impuro al suo posto, e li estingueva con la sua stessa morte.
L’approccio psicoanalitico
(non sono una psicologa, ciò che state per leggere è la fedele trascrizione di alcune informazioni provenienti da questo articolo, che analizza il fenomeno del capro espiatorio in un gruppo ristretto di individui)La psicoanalisi si è interessata alla figura del capro espiatorio per analizzare i meccanismi nascosti e inconsci che entrano in gioco quando in un gruppo si identifica una “vittima designata”. Secondo Jung nel capro espiatorio viene proiettata, psicanaliticamente, l’”ombra” di un gruppo: cioè quegli aspetti, quelle caratteristiche comportamentali che i componenti del gruppo non accettano di sé, vogliono cancellare e negare e da cui si sentono minacciati.Così le proiettano, attraverso la modalità detta del “transfert”, su uno dei componenti, quello che più degli altri rappresenta e porta in sé queste caratteristiche. In un Transfert gruppale, tutto il gruppo trasferisce appunto il senso del negativo sul capro espiatorio e se ne libera. Attraverso questa tipica modalità di “Pensiero Magico”, ovvero irrazionale e priva di basi ragionevoli, la crescita gruppale è quindi garantita dall’allontanamento, spesso dall’eliminazione effettiva, di quella che è percepita quale fonte di energia negativa e “disturbante”. Tutto ciò al fine di una riduzione del senso di ansia causato dal perseguimento della sopravvivenza del gruppo in situazioni di avversità e difficoltà. In Totem e Tabù Freud parla di “pasto totemico” in cui l’elemento considerato “impuro” di una comunità viene divorato dai suoi membri, che ne assimilano l’energia e lo “spirito”, salvo poi pentirsi del gesto compiuto, e essere colpiti dal “ressentiment” (risentimento, senso di colpa).
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Come creare la vittima perfetta secondo un approccio antropologico
Cristiano-Maria Bellei, docente di Antropologia della Mediazione Culturale, parla degli stereotipi vittimari nella teoria sacrificale di René Girard.
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Un atto di barbarie collettiva
  • La selezione di una minoranza portatrice di caratteristiche devianti rispetto alla norma.
Tra i più quotati nel corso della storia troviamo le minoranze etniche come i neri e gli zingari, gli immigrati come i “terroni”, i poveri e/o gli schiavi, persone aderenti a ideologie politiche di minoranza (come il comunismo o l’anarchia), le donne, gli omosessuali, minoranze religiose come i catari, persone con problemi psicologici, malati gravi e contagiosi come i lebbrosi e i sieropositivi. Si tratta di categorie di individui accomunate da un unico fattore: vivere all’interno di una comunità ma in modo diverso rispetto alla maggioranza.
E’ singolare notare come gli oppressi di ieri siano diventanti gli oppressori di oggi e gli attuali aguzzini potrebbero essere i martiri di domani: è una ruota che gira e, come disse Primo Levi, ognuno è l’ebreo di qualcuno. Il capro espiatorio può essere anche un singolo individuo nel caso di una personalità illustre (un esempio molto comune è Gesù Cristo, che ha salvato l’umanità offrendosi in sacrificio) o di un gruppo ristretto di persone che si accanisce contro lo “scemo del villaggio”, secondo una truce legge del branco che conosciamo tutti molto bene sin dai tempi delle elementari. .
  • La demonizzazione della vittima.
Non è sufficiente che i malcapitati siano diversi dalla massa, devono essere considerati malvagi o comunque portatori di caratteristiche negative. Essendo una minoranza, questi inoltre faticheranno a difendersi dalle accuse o a trovare degli alleati che possano difenderli. Le tattiche per trasformare una persona in un nemico perfetto le conosciamo tutti, le più comuni sono la caratterizzazione di un intero gruppo di individui per la condotta scorretta di pochi membri di tale cerchia (es. se alcuni zingari rubano, tutti gli zingari sono ladri), l’enfatizzazione degli aspetti negativi (es. tutti i padri di famiglia mussulmani maltrattano e talvolta uccidono le figlie anticonformiste) e la calunnia (es. gli ebrei sono brutti e hanno il naso adunco). Nel caso di singoli individui, le caratteristiche psicologiche del soggetto sono determinanti nella scelta di una vittima. Tale agnello sacrificale non è mai casuale: nelle scienze criminologiche e forensi esiste persino una scienza a tale riguardo, denominata “vittimologia”, per individuare chi tra noi sono più facilmente perseguitabili. .
  • La propaganda.
Ogni membro della comunità non solo deve riconoscere il capro espiatorio come un elemento negativo del gruppo, ma deve anche desiderare la sua persecuzione o eliminazione al fine di rendere l’intera comunità migliore. Quando il fenomeno si manifesta su larga scala può essere attuata anche una vera e propria operazione di propaganda politica, come nel caso dell’aggressiva campagna mediatica con cui i Nazisti e i Fascisti hanno diffamato e calunniato gli Ebrei; nelle comunità più piccole o nei gruppi circoscritti di individui possono essere sufficienti invece i pettegolezzi e la malignità su piccola scala. .
  • La percezione di benessere (dopo l’eliminazione o l’espulsione della vittima).
Anche se la persecuzione o l’eliminazione della vittima sono assolutamente prive di fondamento e costituiscono per la comunità solamente un’inutile perdita di energie e di membri su cui contare, comportano per gli aguzzini una sensazione di benessere. I restanti membri si sentiranno infatti: –  più forti, credendo di essersi liberati di una palla al piede (es. Se il ragazzino disabile cambiasse scuola i bambini seguirebbero meglio e sarebbero in pari con il programma); – migliori, avendo soppresso un portatore di caratteristiche negative (es. Se non ci fossero neri saremmo tutti belli bianchi); – più uniti, in quanto è risaputo che combattere un nemico comune aiuta ad alleviare le tensioni interne (es. Ora che quella troia adultera di una strega è bruciata sul rogo, le donne del villaggio smetteranno di invidiarla e i loro mariti non faranno a gara per averla); – più sicuri, qualora il capro espiatorio fosse ritenuto una minaccia per il gruppo stesso (es. Incarcerati tutti gli anarchici, l’ordine e la pace sociale sarebbero al sicuro). Può inoltre capitare che la comunità attribuisca ad un unico soggetto le colpe dell’intera comunità e lo punisca per sentirsi innocente e alleviare la sensazione di disagio che ne consegue. Un soggetto debole può infatti essere accusato, soprattutto in comunità arcaiche in cui la superstizione e la magia erano socialmente accettate, del cattivo andamento del raccolto o di un’epidemia. . Il bestiale piacere della vendetta Avete presente quella sensazione di sollievo che si prova quando l’antagonista di un film viene punito e l’oltraggio subito dalla comunità viene riscattato, quando vi viene spontaneo pensare frasi come “Ben gli sta!”, oppure “Finalmente quel bastardone ha quello che si merita!”? Ebbene, la vostra sensazione non è nient’altro che la normale reazione psicologica di piacere che l’essere umano prova quando assiste alla punizione (anche violenta) di qualcuno considerato “cattivo”. Si tratta di una reazione più evidente nei maschietti (che, come sapete, sono sensibili al testosterone e hai film d’azione), ma di cui le donne non sono affatto immuni. La ragione di tale meccanismo psicologico è presto spiegata: l’uomo è un animale sociale e prova benessere quando le ingiustizie vengono vendicate attraverso la punizione del cattivo. Si tratta chiaramente di una reazione animalesca e priva di fondamenti razionali che nel fenomeno del capro espiatorio assume tratti ancor più meschini, poiché consente alla popolazione tutta di godere a scapito di un innocente. Siccome non siamo animali ma esseri raziocinanti, è bene ricordarsi di saziare il piacere psicologico della vendetta soltanto quando guardiamo i film d’azione (o la nostra squadra del cuore vince un derby) e di giudicare con occhio critico gli irrazionali tumulti della folla, senza lasciarsi trascinare in atti di malvagia e insensata crudeltà. Gli orrori del lager sono ancora più odiosi perché non sono la degenerazione degli atti di qualche bruto o un momentaneo momento di follia collettiva: essi consistono nella progettazione e nella creazione di una vera e propria macchina di sterminio, l’intelletto e la razionalità umana sono stati sfruttati per il più odioso degli intenti. Nessuno riesce a spiegarsi come l’essere umano possa essere riuscito a concepire e concretizzare uno sterminio di tale entità, possiamo soltanto continuare a ricordare per evitare che atti simili possano ripetersi e opporci ad ogni forma di negazionismo.
Dobbiamo continuare a ricordare!
William_Holman_Hunt_-_The_Scapegoat
Il senatore americano Alben W. Barkley, membro del comitato d’indagine del congresso sulle atrocità naziste, in ricognizione nel lager di Buchenwald il 24 aprile 1945 (Fonte Wikipedia).
Fonti

30.5.15

La cacciarono da scuola bambina perché ebrea. Ora lo Stato le dà ragione: Edi Bueno, livornese, ha diritto a riscuotere il vitalizio di benemerenza



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  e questa  puntata  de  il   tempo e la storia  sulle leggi razziali





da http://iltirreno.gelocal.it/regione/    del  28 maggio 2015

La cacciarono da scuola bambina perché ebrea. Ora lo Stato le dà ragione: Edi Bueno, livornese, ha diritto a riscuotere il vitalizio di benemerenza. Così ha deciso la Corte dei conti. In questa lunga intervista alla nostra giornalista Ilaria Bonuccelli, Edi racconti alcuni toccanti momenti della sua infanzia, come la deportazione evitata per miracolo e quella bici riconsegnata da un soldato tedesco





                                     Edi Bueno ospite al Tirreno in compagnia del niporte Renzo

Sanguinano i piedi. Edi avverte caldo e dolore, ma non si ferma. Scappa per i campi di Marlia. Via dai fascisti. Non ci crede che la vogliano mandare in Germania a lavorare, come dice sua madre. Sirio, il fratellino più piccolo, la segue. Anche il padre cerca un nascondiglio. La mamma e il fratello grande no. Restano nella casa dove si nascondono. Lontani da Livorno, nelle campagne della Lucchesia.

Edi Bueno ha rimosso il cognome della famiglia che li ha ospitati. La fuga dalla casa ce l’ha sempre impressa in mente, invece. È stata l’ultima volta che ha visto sua madre e suo fratello, morti ad Auschwitz. Quest’anno, a gennaio, ha accarezzato due piccole pietre “anti-inciampo” con i loro nomi incisi, Dina Attal e Dino Bueno: sono cementate davanti allo stabile che sorge al posto della loro vecchia abitazione di Livorno, in via della Coroncina, distrutta dai bombardamenti. L’unico segno tangibile del loro passaggio su questa terra. Fino a un paio di giorni fa. Ora ce n’è un altro. Edi Bueno l’ha inseguito per una decina di anni. Sconfitta dopo sconfitta. Ogni volta che si accarezzava le cicatrici sotto i piedi, trovava un motivo per non lasciarsi abbattere. E alla fine la Corte dei Conti di Firenze le ha dato ragione: Edi Bueno di Livorno è perseguitata per ragioni razziali. E ha diritto a riscuotere il “vitalizio di benemerenza”.


La famiglia di Edi Bueno. Da sinistra la tata, il fratello Sirio, il fratello Dino, Edi e la mamma morta ad Auschwitz




A quasi 80 anni dalla pubblicazioni dalle leggi razziali, lo Stato riconosce di averle usato violenza. Non l’ha picchiata, né messa in prigione o mandata al confino come gli oppositori del Fascismo. Ma - secondo la giurisprudenza attuale - gli atti di violenza verso gli Ebrei «sono anche di natura morale». Vanno oltre la «terribile» deportazione di familiari. Nel caso di Edi la violenza ha assunto le forme della quotidianità negata: «Sono andata a scuola fino a 7 anni. Quando sono passata in terza, non mi hanno più voluta». Secondo la magistratura contabile il «provvedimento di espulsione da una scuola pubblica può essere considerato un atto persecutorio» in quanto «limitativo del diritto fondamentale della persona». Proprio come il diritto a vivere nel proprio domicilio, ad avere una propria attività. «Il mio nonno - racconta Renzo Bueno, nipote di Edi e figlio di Sirio, detto Luciano - era benestante. Prima delle legge razziali aveva una merceria a Livorno, in via della Madonna. Ma con il fascismo e quelle leggi la vita cambiò». Lo sa bene Edi: «Le amiche con cui giocavo fino a poco tempo prima si rifiutavano di stare con me perché ero ebrea. Un giorno andai con il mio fratellino andai al bar Lateri, a Livorno, e la commessa non mi dette il gelato perché ero ebrea. Allora protestai con il direttore. E lui mi rispose: “Bimba sai leggere? Guarda cosa c’è scritto dietro di te: non si dà il gelato agli Ebrei”. Non me lo sono più dimenticato». Anche per questo dallo Stato Edi preteso il risarcimento.In denaro, il suo assegno corrisponde al trattamento minimo di pensione  erogato ai lavoratori dipendenti. Non una grande cifra, tutto sommato. Soprattutto se paragonato alla fuga precipitosa del 1944 da Livorno «per una spiata dei fascisti». Ma Edi Bueno non si è mai battuta per i soldi. Piuttosto per la sofferenza: «Dopo 15-20 giorni che eravamo a Santa Caterina, a Marlia, abbiamo visto arrivare i fascisti. Ci hanno messo tutti in un salone. Mio padre mi ha fatto un cenno. Stava cercando di aprire una porta: io e il mio fratellino ci siamo avvicinati e infilati nella stanzetta. Era un bagno. Lì siamo rimasti nascosti, fino a quando non sono andati tutti via. Mia madre e mio fratello si sono lasciati portare via, convinti che sarebbe arrivato presto l’armistizio e che non avrebbero subito nulla di grave. Mio padre non era convinto e aveva ragione».


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Sono state messe in via della Coroncina, dove abitavano Dina Bona Attal e Dino Bueno che furono uccisi nei campi di sterminio



Per questo nasconde i figli e si nasconde. Quando tutto è silenzo, Edi dice al fratellino: «Togliti le scarpe perché dobbiamo correre». E si buttano scalzi nei campi. Il grano è stato appena mietuto. I piedi si tagliano, ma non si fermano fino a quando non trovano un ponticello. «Ci nascondiamo, ma vediamo spuntare due teste. Iniziamo a dire: “Non siamo ebrei, non siamo ebrei”. Le voci - ricorda Edi - ci rassicurano: “Siamo partigiani”. Ci hanno presi e tenuti con sé due notti. Poi ci hanno riportati a Livorno. Davanti a casa abbiamo ritrovato nostro padre. Ma abbiamo avuto tanta paura».

Anche di questa paura, Edi chiede conto allo Stato. Ma ancora una volta la strada è in salita, conferma l’avvocato Jacopo Bandinelli di Firenze.La prima richiesta, infatti, viene inoltrata nell’aprile 2006 alla Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali costituita presso la Presidenza del Consiglio. Dopo quattro anni e un’istruttoria suppletiva, l’istanza è respinta: non viene precisato il nome della famiglia presso la quale la famiglia Attal-Bueno si è rifugiata nel periodo trascorso a Marlia, in località Santa Caterina. Gli atti sono considerati «troppo generici».
Edi Bueno non si dà per vinta. Neppure quando il ricorso viene rigettato. «Un sostegno consistente - conferma l’avvocato Bandinelli - arriva dal Comune di Capannori che ci ha aiutato a ricostruire il periodo nel quale la famiglia è rimasta nascosta a Marlia». Inoltre, da ricerche svolte sul sito www.nomidellashoah.it risulta che Dina Attal, il nonno (materno) David Attal e Dino Bueno vengono catturati a Marlia e deportati ad Auschwitz dove muoiono. Di fronte a queste indicazioni, perfino il ministero delle Finanze si è dovuto arrendere: per ordine della Corte dei Conti dovrà pagare il vitalizio a Edi, oggi 85enne. A partire dal 1° maggio 2006. la dovrà risarcire perché le leggi razziali le hanno impedito di frequentare la scuola. Di mantenere il proprio nome e, di fatto, la propria identità. Rinunce quotidiane che oggi sono archiviate, ma non dimenticate.Ci sono le cicatrici sotto i piedi a ricordarle. Ogni giorno, quando bada ai bisnipoti, va al «circolino a lavare i piatti e dare una mano», partecipa alle attività della comunità ebraica di Livorno. E perfino il sabato sera. L’unico giorno in cui i piedi non le dolgono. Perché lì al circolo Pirelli, a Livorno, Edi torna ragazza, prima della guerra. E balla. La samba, la bachata, perfino il rock. Come se le cicatrici non ci fossero. Come se.....


6.4.15

Torna 72 anni dopo «Voglio rivedere la mia cara scuola» Fiorenza da Milano al Mantegna, dove si diplomò nel 1943 Oggi ha 96 anni e suona ancora il pianoforte: «Mai fermarsi»

 del 29\3\2015





A una signora, sarebbe buona educazione non chiedere l'età. «Quando è nata, signora Fiorenza?». Lei risponde prontissima: «Ho 96 anni, sono nata il 24 ottobre 1918 a Savona».è arrivata ieri alle 13.30 davanti a quella che fu la sua scuola, oggi istituto tecnico Andrea Mantegna, in via Guerrieri Gonzaga. Scesa dall'auto guidata dal custode del condominio dove abita a Milano, è accolta con un mazzo di fiori - sette rose bianche - da tre studenti (due ragazze e un ragazzo), dalla dirigente scolastica Viviana Sbardella e dal professore di scienze Mario Cantadori. «L'ultima volta che sono stata qua, è stato 72 anni fa, mi devo un po' riambientare» dice, prima di raccontare la sua emozione per essere tornata in un luogo e in un tempo lontano eppure vicino nella sua memoria. Qui il 30 settembre 1943 sostenne gli esami per poter insegnare economia domestica, il diploma di abilitazione le fu consegnato il giorno dopo. Fiorenza lo ha portato da casa, con tanti bei voti, e la dirigente Sbardella estrae dall'archivio della scuola il relativo registro con la firma della preside di allora, Maria Santarelli.
«A quel tempo la scuola si chiamava Magistero Maria José del Belgio principessa di Piemonte» dice Fiorenza. Infatti sul registro c'è proprio scritto "Regia scuola di Magistero professionale per la donna Principessa Maria di Piemonte". Fiorenza ha solo precisato «José del Belgio, che aveva sposato il principe Umberto», dice. Dopo essersi diplomata in pianoforte al Conservatorio a Milano nel 1941, Fiorenza venne a Mantova per sostenere l'esame da privatista, il diploma le serviva per lavorare. «I giovani erano in guerra - dice - e a lavorare dovevamo essere noi donne». E il lavoro lo trovò immediatamente come insegnante di economia domestica, a Reggio Emilia all'istituto del Buon Pastore. Tempo di guerra. Che però a Mantova, nonostante si fosse nel settembre del ’43, Fiorenza per fortuna non patì, i rastrellamenti tedeschi erano già avvenuti. Soffrì invece a Reggio, bombardata, così che riparò con la famiglia in Piemonte.
A Mantova «ero ospite delle suore e ricordo che - Fiorenza dice proprio così - mangiavo un bicchierone di latte in un bar qui vicino, così quando tornavo dalle suorine non avevo più fame». L'amore per il pianoforte l'ha sempre accompagnata: «Due volte al mese vado a suonare per i malati di Alzheimer», svela, e il primo appuntamento con Mantova, due settimane fa, è slittato perché Fiorenza è andata a Pistoia per seguire un suo allievo pianista impegnato in un concorso di musica. In aprile l'allievo andrà a un altro concorso, a Padova, e Fiorenza lo seguirà anche là.
«I miei nipoti mi dicono di stare ferma, invece io devo muovermi, vivere». E Fiorenza si muove e vive: vuole vedere «almeno un'aula». Viviana Sbardella, la dirigente, la invita a salire al piano superiore, e Fiorenza procede sullo scalone. Nelle aule ci sono degli affreschi. Lei li osserva: «Tante cose si sono mantenute» dice. Meravigliosa Fiorenza.

                                       Gilberto Scuderi




DIARIO DI BORDO N 113 ANNO III Enrico Deaglio C'era una volta in Italia. Gli anni sessanta e Gianrico Carofiglio Elogio dell’ignoranza e dell’errore.

Enrico Deaglio C'era una volta in Italia. Gli anni sessanta lettura  scorrevole  .  un po'  nostalgico   e  anedottico  .  Ottimo  d...