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24.11.22

Genova, Mussolini fece confiscare il suo conto: dopo 70 anni fa causa alla banca e allo Stato

Piero Riccardo Pavia era solo un bimbo quando arrivarono le leggi razziali. I genitori gli avevano aperto un libretto - ritrovato solo poco tempo fa - al Banco di Chiavari che oggi gli offre 800 euro, lui chiede mezzo milione



Il signor Piero Riccardo Pavia oggi ha 81 anni. Ne aveva appena 3 quando il Governo fascista, con lo strumento delle leggi razziali e attraverso la prefettura di Genova, nel procedere alla confisca di tutti i beni degli ebrei e quindi anche di quelli della sua famiglia, si appropriò del libretto di risparmio numero 3142 che i suoi genitori gli avevano aperto all’allora Banco di Chiavari e che conteneva 11 mila lire. Era il 6 aprile del 1944. Oggi, 78 anni dopo, una giudice del tribunale di Genova deve decidere sulla richiesta di risarcimento depositata dal signor Pavia attraverso il suo legale, l’avvocato Mauro Frigerio.
Se Piero Riccardo Pavia si è mosso solo dopo così tanto tempo è perché lui neppure sapeva di quel libretto. Lo ha ritrovato di recente, rimettendo in ordine antichi ricordi, documenti e cimeli di famiglia. E quella carta antica e scolorita ha riportato alla luce angosce, sofferenze e una richiesta di giustizia ancora, dolorosamente, vive.
Molteplici sono le sfumature di questa vicenda storico-giudiziaria che ruota attorno ad una cifra, o meglio due. Da un lato gli 838,96 euro che il Banco Bpm (che oggi ingloba l’antico Banco di Chiavari e della Riviera Ligure) ha offerto al signor Pavia come rimborso per le 11mila lire “rivalutate dalla data del sequestro ad oggi”.

La sede dell'ex Banco di Chiavari oggi Bpm in via Garibaldi (bussalino)

Dall’altro la richiesta, in base a conteggi effettuati da consulenti, avanzata dal signor Pavia che ammonta a 420mila 748,68 euro. La citazione, in solido, riguarda, oltre a Bpm anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, incarico in questo momento ricoperto da Giorgia Meloni, al quale, in gioventù, aderì al Msi, partito fondato da Giorgio Almirante, convinto fascista che della Repubblica Sociale Italiana fu un importante esponente. Un incrociarsi di vicende storiche e personali che riduce le distanze temporali.
Tornando alla somma richiesta come risarcimento, seppur importante, non è il cuore di questa causa sul tavolo della giudice Barbara Romano.
In tempi di revisionismo e omologazioni diffuse, sono utili, per capire lo spirito che permea questa causa, le parole che pronunciò Tina Anselmi nella sua veste di presidente della Commissione che tra il 1998 e il 2001ebbe il compito di ricostruire, e lo fece in 500 pagine, quella gigantesca rapina dello stato fascista che fu il decreto legislativo di Mussolini con cui si stabilivano le “Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica”.
Scrive Tina Anselmi: “Prima di essere un affare di denaro, la spoliazione è stata un persecuzione il cui obiettivo finale era l’annullamento morale e quindi lo sterminio”.
Un concetto che ribadisce il signor Pavia: “Vede, sicuramente a differenza di tante altre famiglie ebree e non solo, la mia è stata anche più fortunata, tocca dire così di fronte all’orrore di quanto accaduto. Noi venimmo derubati dallo stato fascista e per salvarci, con un viaggio rocambolesco non privo di sofferenze e umiliazioni riuscimmo a raggiungere la Svizzera. Ma quelle confische furono il primo atto concreto di aggressione e credo sia un mio dovere, oggi, chiedere un risarcimento che non può essere solo simbolico ma contenga in sé una sorta di monito rispetto alle leggi razziali”
La causa è già stata avviata e il primo febbraio del 2023 ci sarà un’udienza decisiva poiché la giudice dovrà decidere se vada accolta la richiesta dell’Avvocatura di trasferire il processo a Roma dove aveva sede l’Egeli, ovvero “Ente di gestione e liquidazione immobiliare” al quale Mussolini aveva affidato la criminale classificazione e reimpiego dei beni delle famiglie ebraiche italiane.
Ma quel che più conta è che un giudice dovrà dire se il signor Pavia abbia solo diritto a recuperare quegli 800 euro come se il suo caso sia omologabile a una negligenza, un errore, una frode nel peggiore dei casi, o se invece le 11 mila lire di quel bimbofossero solo il primo, barbaro passo compiuto da una dittatura per sterminare un intero popolo ed appropriarsi, come l’ultimo dei briganti, dei loro beni.

23.8.19

l'inizio ( ? ) del razzismo in italia 30 anni fa l’omicidio di Jerry Masslo. Quando scoprimmo di essere razzisti

di cosa  stiamo parlando 
Negro di m.": a Roma scritta razzista sull'auto di medico della Croce Rossa

L'insulto contro un dottore trentenne originario del Camerun dell'Area salute del comitato nazionale della Cri. Era andato a cena fuori e aveva parcheggiato al Pigneto. Un anno fa a Cantù una paziente rifiutò di farsi curare da lui perchè di colore

Un medico della Croce Rossa italiana (Cri) ieri sera è stato vittima a Roma di una aggressione a sfondo razzista. A raccontare la dinamica dell'accaduto all'Adnkronos è proprio la Cri. Ieri sera Andi Nganso, un medico 30 enne originario del Camerun impiegato nell'Area salute del comitato nazionale della Cri era andato a cena fuori e aveva parcheggiato al sua auto personale al Pigneto.
Terminata la cena il medico è tornato alla macchina e ha trovato la frase incisa forse con una chiave 
Andi Nganso, 31 anni 
sul cofano. Sull'auto era ben visibile l'adesivo della Croce Rossa sul parabrezza. Il 30enne ha subito sporto denuncia.
"Non bastavano gli insulti al volontario di Loano - dice Francesco Rocca il presidente nazionale Croce Rossa - ieri notte un nuovo episodio esecrabile a Roma. È ora di fermare questo clima di razzismo, odio e intolleranza che sta crescendo nel nostro paese. Ribadiamo con forza e passione che 'Siamo tutti fratelli e tutti con Andi".
Nel gennaio di un anno fa mentre era in servizio nell'ambulatorio della Guardia medica di Cantù, in Lombardia, subì un'altra offesa: una donna rifiutò di farsi assistere da lui, perchè di colore. Lui rispose ironicamente sui social: "Ti ringrazio. Ho un quarto d'ora in più per bere un caffè"







Ora  Partendo     da  questo estratto    ( qui  il post integrale  )    di Andi Nganso del protagonista  dell'ennesimo atto   di razzismo    citato prima  

[--- ] 
A voi, concittadini sensibili alla battaglia antirazzista:
Ci viene facile continuare a pensare che il razzismo in Italia sia degenerato negli ultimi mesi con il precedente governo. È una falsità.NON SIAMO DI FRONTE AD UN’ EMERGENZA, né tantomeno di fronte un'emergenza la cui sola responsabilità è da imputare al governo dimissionario.Siamo, invece di fronte a un persistente problema culturale del rifiuto del diverso che non possiamo più liquidare con delle semplici frasi ad effetto.Non è più sufficiente denunciare il razzismo e basta. L'antirazzismo è una lotta che, per essere combattuta, necessita vera onestà intellettuale e un impegno che non sia solo radicamento retorico spolverato di umanità.Vivo in Italia da 13 anni e non mi ricordo un periodo nel quale non sia stato testimone di atti di razzismo. I ragazzi nati e cresciuti qua non hanno mai avuto il privilegio di poter dire che hanno passato periodi con meno aggressioni verbali e fisiche.
L'immagine può contenere: auto e spazio all'aperto

 [.... ]
Mi ha riportato alla memoria questo che smentisce clamorosamente quelli che : nascondono la testa sotto la sabbia , che sminuiscono i segnali ( già presenti nella nostra cultura e politica vedi i pogrom contro gli slavi ad iniziare dal 1920 e l'italianizzazione forzata in Jugoslavia e al periodo dai divieti contro i matrimoni misti durante l'impresa coloniale in Africa ( 1936 ) e le leggi razziali ( 1938 ) che vennero abolite solo 1947 . 

E le politiche della Lega



30 anni fa l’omicidio di Jerry Masslo. Quando scoprimmo di essere razzisti



VILLA LITERNO – Trenta lunghissimi anni. Era il 25 Agosto del 1989 quando nelle campagne di Villa Literno veniva ucciso Jerry Essan Masslo, da una banda di balordi del luogo, per essere derubato dei pochi spiccioli guadagnati in una giornata intera passata nei campi a raccogliere pomodori.

Dopo quella morte, la morte di un ragazzo sudafricano che a dicembre avrebbe compiuto 30 anni, l’Italia scoprì di essere razzista.Tanto tempo è passato ma ogni volta che arriva questa data, e quest’anno più che mai, tocca fare il punto della situazione in fatto di politiche migratorie che, soprattutto in queste terre, hanno visto scorrere molto altro sangue: basti pensare alla tremenda strage di San Gennaro del 2008 quando la “cieca” mano della camorra sparò nel mucchio di una sartoria per punire l’intero popolo africano.Dalla morte di Jerry ad oggi le politiche riguardanti l’immigrazione sono oltremodo peggiorate. Il sacrificio di Jerry Masslo rappresenta sì la storia di trenta anni fa, ma è anche drammaticamente attuale.Era un rifugiato che scappava dall’apartheid ed oggi è sotto gli occhi di tutti come spesso la politica abbia aizzato all’odio sociale che non risparmia nemmeno i rifugiati. Jerry, all’epoca, lavorava per trecento lire ad ogni cassetta di pomodoro ed ancora oggi c’è caporalato e schiavismo nei campi.«L’omicidio di Jerry Masslo commosse l’Italia – scrive in una nota la Comunità di Sant’Egidio – provocò la prima grande manifestazione antirazzista dell’ottobre 1989 e spinse il governo di allora a emanare i primi provvedimenti per la regolarizzazione dei migranti con la legge Martelli. Da allora in poi molte cose sono cambiate ma resta il gravissimo problema dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne per pochi soldi e costretti a vivere in alloggi più che precari. E restano soprattutto sentimenti di intolleranza e di xenofobia – cresciuti purtroppo negli ultimi tempi – che occorre condannare. L’Italia – prosegue l’organizzazione – se tiene al suo futuro, deve allontanare ogni radice di odio e di discriminazione e puntare su integrazione, diritti e un lavoro dignitoso per tutti».Che la morte di Jerry non sia vana, dunque, e per non dimenticare sabato 24 agosto alle ore 17 al cimitero di Villa Literno una delegazione di italiani e stranieri, provenienti da Roma, Napoli e altre città, darà luogo ad una marcia silenziosa alla fine della quale, la Comunità di Sant’Egidio, i sindacati, le associazioni e alcune autorità locali ricorderanno il sacrificio del bracciante sudafricano senza dimenticare un omaggio alle tombe di migranti, senza nome, collocate accanto a quella di Masslo e che ospitano le spoglie mortali di giovani africani che si trovavano in quelle campagne per il lavoro stagionale dei campi e di cui non si conosce nulla. Ricordando, in questo modo, tutti i migranti che in Italia sono morti nelle campagne, nel raccogliere i frutti della terra, e coloro che hanno perso la vita durante il trasferimento nei campi o mentre facevano ritorno nei luoghi dove alloggiavano.Non dimentichiamo Masslo e non dimentichiamo nemmeno che in questi 30 anni si è moltiplicata in alcuni settori della politica e della società una sorta di “cattiveria” verso i migranti. Una cattiveria che è contro la storia e contro quello in cui credeva Jerry Masslo: la multiculturalità e la convivenza civile. Ripartiamo da qui: ripartiamo da Villa Literno.

30.5.15

La cacciarono da scuola bambina perché ebrea. Ora lo Stato le dà ragione: Edi Bueno, livornese, ha diritto a riscuotere il vitalizio di benemerenza



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  e questa  puntata  de  il   tempo e la storia  sulle leggi razziali





da http://iltirreno.gelocal.it/regione/    del  28 maggio 2015

La cacciarono da scuola bambina perché ebrea. Ora lo Stato le dà ragione: Edi Bueno, livornese, ha diritto a riscuotere il vitalizio di benemerenza. Così ha deciso la Corte dei conti. In questa lunga intervista alla nostra giornalista Ilaria Bonuccelli, Edi racconti alcuni toccanti momenti della sua infanzia, come la deportazione evitata per miracolo e quella bici riconsegnata da un soldato tedesco





                                     Edi Bueno ospite al Tirreno in compagnia del niporte Renzo

Sanguinano i piedi. Edi avverte caldo e dolore, ma non si ferma. Scappa per i campi di Marlia. Via dai fascisti. Non ci crede che la vogliano mandare in Germania a lavorare, come dice sua madre. Sirio, il fratellino più piccolo, la segue. Anche il padre cerca un nascondiglio. La mamma e il fratello grande no. Restano nella casa dove si nascondono. Lontani da Livorno, nelle campagne della Lucchesia.

Edi Bueno ha rimosso il cognome della famiglia che li ha ospitati. La fuga dalla casa ce l’ha sempre impressa in mente, invece. È stata l’ultima volta che ha visto sua madre e suo fratello, morti ad Auschwitz. Quest’anno, a gennaio, ha accarezzato due piccole pietre “anti-inciampo” con i loro nomi incisi, Dina Attal e Dino Bueno: sono cementate davanti allo stabile che sorge al posto della loro vecchia abitazione di Livorno, in via della Coroncina, distrutta dai bombardamenti. L’unico segno tangibile del loro passaggio su questa terra. Fino a un paio di giorni fa. Ora ce n’è un altro. Edi Bueno l’ha inseguito per una decina di anni. Sconfitta dopo sconfitta. Ogni volta che si accarezzava le cicatrici sotto i piedi, trovava un motivo per non lasciarsi abbattere. E alla fine la Corte dei Conti di Firenze le ha dato ragione: Edi Bueno di Livorno è perseguitata per ragioni razziali. E ha diritto a riscuotere il “vitalizio di benemerenza”.


La famiglia di Edi Bueno. Da sinistra la tata, il fratello Sirio, il fratello Dino, Edi e la mamma morta ad Auschwitz




A quasi 80 anni dalla pubblicazioni dalle leggi razziali, lo Stato riconosce di averle usato violenza. Non l’ha picchiata, né messa in prigione o mandata al confino come gli oppositori del Fascismo. Ma - secondo la giurisprudenza attuale - gli atti di violenza verso gli Ebrei «sono anche di natura morale». Vanno oltre la «terribile» deportazione di familiari. Nel caso di Edi la violenza ha assunto le forme della quotidianità negata: «Sono andata a scuola fino a 7 anni. Quando sono passata in terza, non mi hanno più voluta». Secondo la magistratura contabile il «provvedimento di espulsione da una scuola pubblica può essere considerato un atto persecutorio» in quanto «limitativo del diritto fondamentale della persona». Proprio come il diritto a vivere nel proprio domicilio, ad avere una propria attività. «Il mio nonno - racconta Renzo Bueno, nipote di Edi e figlio di Sirio, detto Luciano - era benestante. Prima delle legge razziali aveva una merceria a Livorno, in via della Madonna. Ma con il fascismo e quelle leggi la vita cambiò». Lo sa bene Edi: «Le amiche con cui giocavo fino a poco tempo prima si rifiutavano di stare con me perché ero ebrea. Un giorno andai con il mio fratellino andai al bar Lateri, a Livorno, e la commessa non mi dette il gelato perché ero ebrea. Allora protestai con il direttore. E lui mi rispose: “Bimba sai leggere? Guarda cosa c’è scritto dietro di te: non si dà il gelato agli Ebrei”. Non me lo sono più dimenticato». Anche per questo dallo Stato Edi preteso il risarcimento.In denaro, il suo assegno corrisponde al trattamento minimo di pensione  erogato ai lavoratori dipendenti. Non una grande cifra, tutto sommato. Soprattutto se paragonato alla fuga precipitosa del 1944 da Livorno «per una spiata dei fascisti». Ma Edi Bueno non si è mai battuta per i soldi. Piuttosto per la sofferenza: «Dopo 15-20 giorni che eravamo a Santa Caterina, a Marlia, abbiamo visto arrivare i fascisti. Ci hanno messo tutti in un salone. Mio padre mi ha fatto un cenno. Stava cercando di aprire una porta: io e il mio fratellino ci siamo avvicinati e infilati nella stanzetta. Era un bagno. Lì siamo rimasti nascosti, fino a quando non sono andati tutti via. Mia madre e mio fratello si sono lasciati portare via, convinti che sarebbe arrivato presto l’armistizio e che non avrebbero subito nulla di grave. Mio padre non era convinto e aveva ragione».


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Sono state messe in via della Coroncina, dove abitavano Dina Bona Attal e Dino Bueno che furono uccisi nei campi di sterminio



Per questo nasconde i figli e si nasconde. Quando tutto è silenzo, Edi dice al fratellino: «Togliti le scarpe perché dobbiamo correre». E si buttano scalzi nei campi. Il grano è stato appena mietuto. I piedi si tagliano, ma non si fermano fino a quando non trovano un ponticello. «Ci nascondiamo, ma vediamo spuntare due teste. Iniziamo a dire: “Non siamo ebrei, non siamo ebrei”. Le voci - ricorda Edi - ci rassicurano: “Siamo partigiani”. Ci hanno presi e tenuti con sé due notti. Poi ci hanno riportati a Livorno. Davanti a casa abbiamo ritrovato nostro padre. Ma abbiamo avuto tanta paura».

Anche di questa paura, Edi chiede conto allo Stato. Ma ancora una volta la strada è in salita, conferma l’avvocato Jacopo Bandinelli di Firenze.La prima richiesta, infatti, viene inoltrata nell’aprile 2006 alla Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali costituita presso la Presidenza del Consiglio. Dopo quattro anni e un’istruttoria suppletiva, l’istanza è respinta: non viene precisato il nome della famiglia presso la quale la famiglia Attal-Bueno si è rifugiata nel periodo trascorso a Marlia, in località Santa Caterina. Gli atti sono considerati «troppo generici».
Edi Bueno non si dà per vinta. Neppure quando il ricorso viene rigettato. «Un sostegno consistente - conferma l’avvocato Bandinelli - arriva dal Comune di Capannori che ci ha aiutato a ricostruire il periodo nel quale la famiglia è rimasta nascosta a Marlia». Inoltre, da ricerche svolte sul sito www.nomidellashoah.it risulta che Dina Attal, il nonno (materno) David Attal e Dino Bueno vengono catturati a Marlia e deportati ad Auschwitz dove muoiono. Di fronte a queste indicazioni, perfino il ministero delle Finanze si è dovuto arrendere: per ordine della Corte dei Conti dovrà pagare il vitalizio a Edi, oggi 85enne. A partire dal 1° maggio 2006. la dovrà risarcire perché le leggi razziali le hanno impedito di frequentare la scuola. Di mantenere il proprio nome e, di fatto, la propria identità. Rinunce quotidiane che oggi sono archiviate, ma non dimenticate.Ci sono le cicatrici sotto i piedi a ricordarle. Ogni giorno, quando bada ai bisnipoti, va al «circolino a lavare i piatti e dare una mano», partecipa alle attività della comunità ebraica di Livorno. E perfino il sabato sera. L’unico giorno in cui i piedi non le dolgono. Perché lì al circolo Pirelli, a Livorno, Edi torna ragazza, prima della guerra. E balla. La samba, la bachata, perfino il rock. Come se le cicatrici non ci fossero. Come se.....


6.4.15

Torna 72 anni dopo «Voglio rivedere la mia cara scuola» Fiorenza da Milano al Mantegna, dove si diplomò nel 1943 Oggi ha 96 anni e suona ancora il pianoforte: «Mai fermarsi»

 del 29\3\2015





A una signora, sarebbe buona educazione non chiedere l'età. «Quando è nata, signora Fiorenza?». Lei risponde prontissima: «Ho 96 anni, sono nata il 24 ottobre 1918 a Savona».è arrivata ieri alle 13.30 davanti a quella che fu la sua scuola, oggi istituto tecnico Andrea Mantegna, in via Guerrieri Gonzaga. Scesa dall'auto guidata dal custode del condominio dove abita a Milano, è accolta con un mazzo di fiori - sette rose bianche - da tre studenti (due ragazze e un ragazzo), dalla dirigente scolastica Viviana Sbardella e dal professore di scienze Mario Cantadori. «L'ultima volta che sono stata qua, è stato 72 anni fa, mi devo un po' riambientare» dice, prima di raccontare la sua emozione per essere tornata in un luogo e in un tempo lontano eppure vicino nella sua memoria. Qui il 30 settembre 1943 sostenne gli esami per poter insegnare economia domestica, il diploma di abilitazione le fu consegnato il giorno dopo. Fiorenza lo ha portato da casa, con tanti bei voti, e la dirigente Sbardella estrae dall'archivio della scuola il relativo registro con la firma della preside di allora, Maria Santarelli.
«A quel tempo la scuola si chiamava Magistero Maria José del Belgio principessa di Piemonte» dice Fiorenza. Infatti sul registro c'è proprio scritto "Regia scuola di Magistero professionale per la donna Principessa Maria di Piemonte". Fiorenza ha solo precisato «José del Belgio, che aveva sposato il principe Umberto», dice. Dopo essersi diplomata in pianoforte al Conservatorio a Milano nel 1941, Fiorenza venne a Mantova per sostenere l'esame da privatista, il diploma le serviva per lavorare. «I giovani erano in guerra - dice - e a lavorare dovevamo essere noi donne». E il lavoro lo trovò immediatamente come insegnante di economia domestica, a Reggio Emilia all'istituto del Buon Pastore. Tempo di guerra. Che però a Mantova, nonostante si fosse nel settembre del ’43, Fiorenza per fortuna non patì, i rastrellamenti tedeschi erano già avvenuti. Soffrì invece a Reggio, bombardata, così che riparò con la famiglia in Piemonte.
A Mantova «ero ospite delle suore e ricordo che - Fiorenza dice proprio così - mangiavo un bicchierone di latte in un bar qui vicino, così quando tornavo dalle suorine non avevo più fame». L'amore per il pianoforte l'ha sempre accompagnata: «Due volte al mese vado a suonare per i malati di Alzheimer», svela, e il primo appuntamento con Mantova, due settimane fa, è slittato perché Fiorenza è andata a Pistoia per seguire un suo allievo pianista impegnato in un concorso di musica. In aprile l'allievo andrà a un altro concorso, a Padova, e Fiorenza lo seguirà anche là.
«I miei nipoti mi dicono di stare ferma, invece io devo muovermi, vivere». E Fiorenza si muove e vive: vuole vedere «almeno un'aula». Viviana Sbardella, la dirigente, la invita a salire al piano superiore, e Fiorenza procede sullo scalone. Nelle aule ci sono degli affreschi. Lei li osserva: «Tante cose si sono mantenute» dice. Meravigliosa Fiorenza.

                                       Gilberto Scuderi




3.2.15

Serve ancora il giorno della memoria ?

 Dopo  quest fatti  
  da  Milano repubblica   del 2\II\2015

Milano, scritte antisemite contro il convegno sulla Brigata Ebraica: la denuncia del Pd

L'atto vandalico alla sede della Provincia denunciato dal Pd milanese. Bussolati: "Condanniamo ogni provocazione contro una pagina importante della guerra di Liberazione dai nazifascisti"


"Non ci fermano e non ci condizionano le scritte ingiuriose apparse nottetempo davanti a Palazzo Isimbardi, in vista della conferenza sulla Brigata Ebraica". Il Pd metropolitano milanese così prende posizione sulle scritte comparse ('Sionisti assassini') su palazzo Isimbardi, dove prende il via la serie di eventi del programma di 'Bella Ciao Milano!', l'iniziativa promossa dal Partito Democratico Area Metropolitana di Milano per ricordare, celebrare e narrare il 70° anniversario della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo. continua   qui

 Mi "  marzuullo  "  cioè mi faccio domanda e risposta   se    come   suggerisce  ,  questo articolo   di http://caratteriliberi.eu/   che trovate  sotto    di   cui ho ripreso  apposta    il titolo . 
N.B
 Ho riportato   integralmente  l'articolo in quanto   la risposta  che  do' alla mia domanda elucubrartoria  e  forse  ovvia  \ scontata   per  me  chje ricordo  a  360  la  giornata del 27  gennaio di  ogni anno  stessa     è alla fine  più  precisamentre  : << ( .....)   questa delega alla memoria ebraica mostra una sempre più scoperta vocazione a collocare l’intera storia della Shoah in una storia ebraica e solo ebraica. Quasi che anch’essa vada assegnata al dolore “privato” di ciascun popolo che la storia ha nel tempo percosso e offeso, non importa neppure in che misura.
Eppure, se non si prende coscienza del fatto che il carattere mostruosamente inedito di quello sterminio riguarda l’intera Europa, compresi soprattutto i non ebrei, la Shoah continuerà a restare inesplicata, macigno rimosso che continuerà a gravare sulla coscienza pubblica e privata d’Europa, ombra pesante al cui riparo altre ombre potranno di nuovo allungarsi. >>

                        Serve ancora il giorno della memoria  ?
                         di Marco Brunazzi

Da tempo alcuni intellettuali ebrei in Italia (David Bidussa, Alberto Cavaglion, Elena Loewenthal e non pochi altri) si interrogano su quella che a loro pare la progressiva irrilevanza culturale e sociale di quella commemorazione e la sua perdita di significato etico-civile.
Non si tratta soltanto dell’effetto saturazione o, peggio, di”business”, peraltro, in vario modo e peso presenti entrambi. Si tratta proprio della constatazione della distorsione che si sta determinando, pur con le migliori intenzioni delle istituzioni, delle finalità stesse dell’iniziativa e della sua legge istitutiva, ormai quindici anni fa.
In sostanza, si constata che per troppi quelle commemorazioni sono percepite ormai come risarcimenti simbolici agli ebrei vittime della Shoah e dunque come qualcosa che riguarda “loro” e non “noi” e quindi, tutto sommato, persino stucchevoli: dopo tutto, che ognuno pianga i suoi morti e non ci stia a importunare oltre. Ovviamente, le vittime non ne hanno alcun bisogno, in quanto tali, ma sono tutti gli altri, le non-vittime che ne avrebbero sempre più bisogno. Infatti, il nodo della memoria della Shoah è il nodo irrisolto della domanda su come sia potuta accadere quella mostruosità incrociata di “barbarie e modernità”. E tutto ciò nella “dotta e civile Germania”, come scriveva Thomas Mann, ma per estensione collaborativa anche da parte di tutti i”volenterosi carnefici” in tutta Europa, Italia compresa.
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 dalla rete  un estratto del film  Il bambino con il pigiama a righe di   Mark Herman Usa  2008        
 
Qui sta appunto il problema, il comandamento ebraico della memoria riguarda certamente un imperativo di sopravvivenza culturale di un popolo da duemila anni almeno esposto alla minaccia dell’annientamento (violento o per assimilazione più o meno pacifica). Ma per l’Europa tutta quel dovere di memoria non dovrebbe affatto essere soltanto un atto di dovuta solidarietà per “le povere vittime”. Al contrario, dovrebbe essere un serio tentativo di fare i conti, finalmente, con le radici oscure di un passato che si crede di demonizzare su qualcuno soltanto (i nazisti, in primis, certo) ma senza alcun serio sforzo di analisi sulle origini e natura di quel terreno fecondo (culturale, politico, sociale) che nutrì il nazismo e il razzismo omicida che ne scaturì. E poiché questa autocoscienza riguarda tutti, ma innanzitutto quei paesi che posero mano per tempo all’edificio ignobile del razzismo antisemita (tra cui l’Italia, con le sue leggi del 1938 e l’attivo concorso alle deportazioni verso i Lager da parte della Repubblica neofascista dopo l’8 settembre 1943), forse occorre che anche in Italia si cominci a ragionare senza più compiacenti indulgenze.
Da parecchi anni la letteratura storiografica ha affrontato il tema delle leggi antiebraiche del 1938 in Italia (le c.d. leggi razziali) e valga citare, tra le prime e più accurate, le ricerche di Michele Sarfatti. Così, il complesso lavorìo che portò a quella odiosa legislazione è oggi riscontrabile in tutti i suoi aspetti politici, giuridici e amministrativi.
Grazie a tali ricerche appaiono oggi ormai inadeguate e superate le spiegazioni che puntavano sulla occasionalità e superficialità di decisioni attribuite essenzialmente all’ondivago umore di Mussolini in materia.
E così pure smascherata si rivela l’infondatezza della opinione, presentata quasi come senso comune, per la quale quelle leggi sarebbero state in complesso blande e tali da non arrecare grave nocumento alla vita degli ebrei italiani, per i quali invece la sciagura della deportazione nei Lager e della persecuzione anche cruenta sarebbero iniziate soltanto con l’occupazione tedesca e soltanto per causa esclusiva dei Tedeschi stessi.
Al contrario, le gravi responsabilità del regime fascista, sia prima dell’8 settembre 1943 e soprattutto dopo, con l’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana, sono oggi chiaramente individuate e documentate.

Certo, ancora aperto resta il dibattito sulle ragioni decisive che indussero Mussolini a quella svolta, anche se qui oramai il problema non si pone più nei termini esclusivi e deterministici ancora presenti nella storiografia meno recente (come nel pur apprezzabile e originale lavoro di Meir Micaelis, per esempio).
In realtà, a quel passo concorsero, sia pure con intensità, tempistica e gradazioni diverse, una molteplicità di fattori che andavano dall’antisemitismo latente (ma non troppo) nella cultura fascista alle esigenze di politica estera non meno che di quella interna e di riposizionamento del partito fascista in vista di una guerra ormai ritenuta comunque imminente e, presumibilmente, da condursi a fianco della Germania nazista.
In questo quadro, finalmente preciso e documentato, hanno da tempo assunto crescente rilevanza le vicende dei “giusti” che si prodigarono, non di rado con grave rischio personale, per recare soccorso e salvezza agli ebrei perseguitati e ricercati per essere avviati alla deportazione. Tali vicende hanno spesso occupato e con larga risonanza l’informazione e la divulgazione pubblicistica.
Non infrequenti sono state anche le trasposizioni letterarie e cinematografiche (basti citare la storia di Perlasca o quella, in realtà tuttora controversa, di Palatucci). Anche la memorialistica ha apportato, in misura crescente, nuovi contributi, così come le stesse procedure avviate, da parte ebraica, per pervenire al riconoscimento ufficiale del ruolo di “giusto” nei confronti di personaggi prima sconosciuti anche se, per altre ragioni, di storica notorietà (basti citare il recente caso del campione del ciclismo Gino Bartali).
D’altra parte, che tali riconoscimenti siano oggi accolti molto favorevolmente dall’opinione pubblica italiana è facilmente comprensibile, ma non solo per l’ovvia soddisfazione di vedere così migliorata l’immagine della propria identità etico-civile in sede storica.
In realtà, questi riconoscimenti sembrano poter confermare e corroborare la vulgata da tempo presente nella memoria diffusa e nel senso comune. Che cioè gli italiani non sono mai stati antisemtiti, tranne frange estreme del fascismo più filonazista; che le leggi razziali vanno addebitate totalmente alla spregiudicatezza politica del Duce e ai suoi errati calcoli opportunistici per compiacere l’alleato tedesco; che sino all’occupazione tedesca “nessun ebreo perse la vita per causa di tali leggi”; che di fronte alla brutalità nazista all’opera nell’Italia occupata la stragrande maggioranza degli italiani, civili e religiosi, antifascisti e anche fascisti, si prodigarono per mettere in salvo quanti più ebrei poterono.
Queste semplificazioni storiche sono da tempo smascherate, dalla storiografia più attenta, per quelle che sono: mezze verità che sono anche, inevitabilmente, bugie intere, raccontate con finalità autoconsolatorie e di “giustificazionismo” per una storia altrimenti troppo imbarazzante.
In tali edificanti racconti non hanno quasi mai posto le numerose delazioni che, per denaro o qualsivoglia altra ragione, consegnarono invece non pochi ebrei ai loro carnefici; per non parlare dell’attivo ruolo svolto dalle istituzioni e dalle varie autorità civili e militari della RSI nella ricerca, cattura e consegna delle vittime al loro destino.
Si ha insomma l’impressione che in tutta la storia sciagurata e tragica delle persecuzioni contro gli ebrei italiani continuino a mancare alcuni tasselli fondamentali. Primo fra tutti quello di una indagine più capillare della rappresentazione dell’ebreo nell’immaginario italiano del 1938 e poi anche dopo.
Naturalmente, molto è stato finora indagato, anche a livello documentario, dalla storiografia più recente, ma molto deve essere ancora ricercato. Ad esempio in quelle minute notizie di cronaca locale nelle quali spesso si nasconde l’ombra del pregiudizio, pur se solo indirettamente richiamato. Né andrebbe trascurato il lessico corrente, specialmente là dove la natura del suo luogo di elezione (la comunicazione pubblicitaria, quella di intrattenimento, ecc.) potevano facilmente e subdolamente (persino inconsapevolmente) veicolare messaggi di sottinteso razzismo antiebraico.
Si vuole dire insomma che un fenomeno come quello dell’inaspettato irrompere di un antisemitismo istituzionale in una società apparentemente sino allora esente, complessa e articolata come quella italiana (e sia pure costretta nelle forme di un regime autoritario e tendenzialmente totalitario), richiede un supplemento di analisi che tenti di andare più a fondo nella comprensione della “dimensione “molecolare” di quell’evento stesso.
Come è potuto accadere tutto ciò, anzi, che cosa è accaduto davvero in una realtà di diffusa e profonda assimilazione della minoranza ebraica, di fronte all’ improvviso ribaltamento formale e sostanziale di quella stessa realtà? La memorialistica e la sua rielaborazione letteraria (pur di dignitosa qualità e onestà autocritica, si pensi ad esempio a “La parola ebreo” di Rosetta Loy) non paiono sufficienti a fornire un quadro adeguato.
Si consideri che, a tale scopo, assai più significativo e probante del punto di vista degli ebrei italiani e della loro memoria (necessariamente sofferta, oscillante, soprattutto nei primi anni dopo la fine della guerra, tra rimozione e minimizzazione) sarebbe stato fondamentale scandagliare il punto di vista degli italiani non ebrei. Qui le stesse fonti memorialistiche sono scarse e troppo spesso autoassolutorie rispetto alla diffusa passività con le quali quelle leggi infami furono accolte.
Oramai è troppo tardi, per le ovvie ragioni del venir meno fisiologico dell’era del testimone, ma si pensi quanto sarebbe stato interessante avviare una sorta di questionario diffuso, almeno tra gli “opinion makers”del tempo. Giornalisti, insegnanti, magistrati, avvocati, operatori sociali e culturali, che provassero onestamente a raccontare come vissero, pur nel silenzio e nella imperturbabilità delle forme esteriori del loro vivere civile e professionale, quella inaspettata “novità”. Novità che non era solo normativa, ma di sovversione di un costume, di una pratica di relazioni condivise, di un codice etico implicito oltre che esplicito. Oggi possiamo soltanto tentare di coglierne qualche riflesso nelle avare testimonianze documentarie e memorialistiche, ma con tutti i limiti prima ricordati.
E anche per il tempo dell’occupazione nazista, quanto effettivamente è rimasto di quelle delazioni, quali tracce, non soltanto nelle rare, sfuggenti e ambigue carte, ma nella memoria personale di chi seppe, di chi tacque, di chi rimosse una vicenda subito collocata nel generico contenitore dei “mali” della guerra?
Insomma, nonostante i reiterati “giorni della memoria”, continuiamo a sapere ben poco di ciò che realmente accadde nella coscienza degli italiani del tempo.
Eppure, l’antisemitismo (come altri pregiudizi, del resto) non è mai riducibile alla sua dimensione istituzionale e formale. Esso presuppone una ben più grande e profonda estensione sottostante, proprio come la scontata immagine dell’iceberg può utilmente suggerire.
Il fatto è che qui entra in gioco l’autorappresentazione storica di una società, prima ancora che di un popolo (termine di per sé già ambiguo e di scarsa maneggiabilità scientifica). Di fatto, tale autorappresentazione continua ad essere affidata alle fonti ristrette delle retoriche del discorso politico-culturale e delle sue finalità moralistiche e consolatorie, senza alcun vero tentativo di indagine sul campo.
Si badi che tale problema, di uno sforzo tuttora latitante per spiegare la realtà di una vicenda che ha segnato orribilmente la storia europea del ventesimo secolo, non riguarda solo l’Italia. Dalla Francia alla Polonia, tanto per citare due altri importanti paesi, pur con le loro distinte peculiarità, questo stesso sforzo è apparso tardivo e ancora incompleto.
E’ come se la coscienza pubblica e privata degli europei tutti cercasse di sottrarsi ancora, a quasi ottant’anni dagli eventi, a quel doloroso compito di elaborazione di un lutto che le generazioni di allora e di dopo non seppero e non vollero affrontare sino in fondo.
Così, ci si continua di fatto ad affidare all’imperativo ebraico della conservazione e trasmissione della memoria, per non lasciar cadere nell’oblio della banalizzazione e della insignificanza comparativa l’altrimenti inesplicabile e “aliena” Shoah.
Ma questa delega alla memoria ebraica mostra una sempre più scoperta vocazione a collocare l’intera storia della Shoah in una storia ebraica e solo ebraica. Quasi che anch’essa vada assegnata al dolore “privato” di ciascun popolo che la storia ha nel tempo percosso e offeso, non importa neppure in che misura.
Eppure, se non si prende coscienza del fatto che il carattere mostruosamente inedito di quello sterminio riguarda l’intera Europa, compresi soprattutto i non ebrei, la Shoah continuerà a restare inesplicata, macigno rimosso che continuerà a gravare sulla coscienza pubblica e privata d’Europa, ombra pesante al cui riparo altre ombre potranno di nuovo allungarsi.


28.1.15

La "lista" del liceo Manzoni e la storia di Edoarda ed Gli ebrei italiani nella Grande guerra: prima patrioti, poi discriminati

Lo so   che  sarete studi di leggere  post  sulla  giornata  della memoria   \ dela shoah  ma   certe cose  oltre  a non avere data    sono     ( primo caso    )  storie  incredibili o  smontano miti  ( nel secondo  caso )   quel del  nazionalismo fascista  e dell'esaltazione   della  grande  guerra

entrambe le cose  sono tratta da


http://www.famigliacristiana.it/ del  28\1\2015

28/01/2015  A 11 anni è stata espulsa a causa delle leggi razziali del 1938 dal ginnasio che frequentava a Milano. Insieme ad altri 70 ragazzi ebrei. Proprio oggi compie 88 anni e ieri, in occasione della Giornata della Memoria, Edoarda Flack ha ricevuto il diploma nello stesso liceo che l’aveva cacciata allora, il Manzoni di Milano.

di




«Ogni anno, in occasione della Giornata della Memoria, cerchiamo di promuovere delle iniziative per coinvolgere gli studenti e insegnare loro a ricordare. Ricordare è l’unica cosa da fare».


Come aveva scritto Primo Levi in “se questo è un uomo”: Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Così, quest’anno, in occasione della celebrazione dei 70 anni dalla liberazione di Auschwitz, la professoressa Olivia Merli del Liceo Classico Manzoni di Milano, insieme all’ex collega Zelia Grosselli e al marito professor Gian Guido Piazza, insegnante presso un altro rinomato classico milanese, il Parini, e soprattutto insieme alla dirigente Milena Mammani, hanno pensato di invitare l’ex allieva Edoarda Flack Cavalieri per conferirle, alla presenza degli allievi della scuola, il diploma di maturità honoris causa.
Quel diploma che allora non riuscì a prendere, cacciata insieme ad altri settanta ragazzi ebrei dal ginnasio che frequentava e poi sfollata nella vicina Svizzera, per sfuggire alla deportazione. Oggi Edoarda, o meglio Dada come la chiamano le persone care, compie 88 anni. La stessa età del marito, il dottor Renato Cavalieri, anche lui ex alunno del liceo Manzoni, al suo fianco in quest’occasione speciale, emozionato nel ricordare i terribili eventi di quegli anni.
Anche gli studenti sono emozionati nell’ascoltare le loro parole, nel cogliere i loro sguardi. Felici di poter essere presenti per quel piccolo tributo, quella “riparazione” da parte della scuola che li aveva cacciati tanti anni fa.
“Non ce l’ha fatta, invece, la compagna di banco e amica del cuore di Dada, Regina Gani”, spiega il professor Piazza. “Sfollate, le due ragazze hanno continuato a scriversi, per raccontarsi la loro tristezza e consolarsi a vicenda. Edoarda conserva ancora alcune di quelle lettere. Poi, purtroppo non ne seppe più nulla. Con la sua famiglia fu denunciata e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Di loro non tornò più nessuno”. Proprio il professor Piazza con la moglie Zelia Grosselli, hanno fatto delle ricerche per anni insieme agli studenti per recuperare le storie di quei settanta ex studenti cacciati dai banchi di scuola. E ne hanno seguito le tracce. «La storia di Regina l'abbiamo ritrovata su Il libro della memoria», spiega ancora il professore. «In onore del suo nome abbiamo dedicato la biblioteca del Manzoni. C’è una targa per ricordare questa ex allieva sfortunata. Cacciata dalla scuola a 11 anni, proprio come Edoarda, morì a 18 ad Auschwitz durante le terribili “marce”»
  


26/01/2015  Una mostra al Museo ebraico di Roma racconta la partecipazione al conflitto della comunità israelitica. Partirono per il fronte in 5.000, ma il loro patriottismo non li rese immuni dalle leggi razziali del 1938

  di 

 


  “ Il vostro pensiero deve essere sempre rivolto al Buon Dio, alla Cara nostra Italia, alla famiglia. Sarò contento il giorno che saprò che avete fatto il vostro dovere verso la nostra Cara Patria (e di questo ne sono sicurissimo)”. Sono parole del giugno 1915 scritte da un padre al figlio impegnato al fronte durante la prima guerra mondiale. Lo scrivente è Prospero Anticoli. Il figlio Gabriele, classe 1889, era bersagliere nel 54° battaglione. Sono parole di affetto sincero per la patria. Nel 1916 Gabriele resterà anche gravemente stordito dallo scoppio di una granata, ma riuscirà a recuperare l'uso della parola e nel dopoguerra troverà un lavoro in Comune, a Roma. Eppure anche lui, combattente di guerra, cresciuto in un famiglia di sentimenti patriottici, non avrà sconti. In quanto ebreo, nel 1938 Gabriele Anticoli verrà cacciato dal posto di lavoro e nel 1943 riuscì a fuggire in Sudamerica, salvandosi così dalle persecuzioni razziali e forse anche dalla deportazione. La sua storia, con foto, lettere e altri documenti d'epoca, è raccontata nella mostra Prima di tutto italiani ospitata fino al 16 marzo al Museo Ebraico di Roma. Così, nell'anno del centenario dell'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale, il Museo rende omaggio agli ebrei italiani che

emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...