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14.7.24

San Giovanni Suergiu, assunto e licenziato: non ha la terza mediaPer Stefano Sulas niente stabilizzazione dopo 29 anni di precariato: la scoperta dopo la firma del contratt

La  storia    di   Stefano Sulas ( scusate  se la pubblico  integralmente  , non m'andava  e poi  non   ci  sono riuscito   ,  di riassumerla )  conferma  il paradosso  , datemi pure   del  populista \  qualunquista , tipico    di  un sistema politico  \  culturale    che  discrimina  \  penalizza   le persone    che  non hanno  
    Stefano Sulas (65 anni) mostra il contratto
di lavoro annullato
 dopo le verifiche su  i suoi  documenti 
 avuto  la possibilità    d'istruirsi scolasticamente .  Infatti   non sapevo  che  per  fare  i lavori socialmente utili    ci volesse   la  terza media  . Ma  allora    mi chiedo   come  hanno fatto  a  fargli fare    tutti quei  corsi   .
 Essa  è   il paradosso \  dilemma    della   burocrazia   assurda  ed astrusa   che  non distingue la regola dall'eccezione  . E  permette   che   gli acculturati non scolasticamente   vengano discriminati  , mentre   ignoranti   e  Gaffers    (    vedi un famoso  ministro di questo  governo    che  confonde  Pompei con il   Colosseo   o   dice  che Colombo  era  contemporaneo di Gallileo )   vengono  osannati  dal media  maistream  e   sono al  potere  .  Ingnorano    che  le  vite  come la  sua  sono  più  dignitose  della loro  e che    ha faticato  per  vivere  onestamente   e  ha  sempre  dimostrasto la dignità e  il  suo valore  erchè non è  solo   un pezzo di carta   a  detterminare  una persona  e  il suo impegno ed  passione  che  ci  mette nel  prorio lavoro ed  i sacrifici  fatti per  dare  alla famiglia   una  vita  dignitosa  . E poi il fatto di non aver pouto studiare  ed essere  andato a lavorare  dopo la  terza  elementare    non significa  che   persone  come lui    siano senza  valore  perchè non è un pezzo di carta  che dettermina il valore  e le  competenze   di  una persona  ma  come esso agisce  con quello che ha  imparato ( ed  impara  semre  visto chje nella  vita  non si  finisce  mai     d'imparare  ) con  : umiltà  , sacrifici  , ed  assenza   di giudizio  

Ma  ora  basta parlare      eccovi la  sua      storia  

unione  sarda    14\7\2024

San Giovanni Suergiu
Aveva già firmato il contratto a tempo indeterminato dopo una vita da precario. Ma il sogno è svanito quando dopo i controlli si è scoperto che non aveva mai conseguito la licenza media.
Stefano Sulas, 65enne di San Giovanni Suergiu, si era fermato alla terza elementare e il Comune non ha potuto stabilizzarlo. «Mi è crollato il mondo addosso – racconta l’operaio – eravamo due Lsu in attesa di stabilizzazione. L’altro collega ce l’ha fatta. Io no. Siamo andati insieme al Comune per firmare il contratto. È passato qualche giorno poi è accaduto quello che non avrei mai immaginato». Dopo 29 anni di lavori socialmente utili e un’esperienza nella zona industriale di Portovesme Stefano Sulas sognava di arrivare alla pensione (potrà andarci tra un anno e nove mesi) con il posto fisso. «Nei giorni scorsi – racconta sconfortato – sono andato in Comune per annullare il contratto».
IL DISPIACERE
«Per me è una notizia terribile – racconta l’operaio – speravo di avere tutti documenti in regola. Si sarebbero dovuti informare, invece ho scoperto di non poter avere il contratto dopo la firma. Nessuno mi aveva detto del titolo di studio, ho sempre fatto tutti i corsi per poter lavorare. Se l’avessi saputo avrei preso anche la licenza media. Io in buona fede nell’autocertificazione ho scritto di aver frequentato fino alla terza elementare. Ora sono fermo in attesa di poter riprendere a lavorare come Lsu, ma sono molto deluso e dispiaciuto. Non riesco a darmi pace. Mi sembra di vivere in un incubo. Dopo alcuni anni di lavoro a Portovesme sono stato in cassa integrazione e mobilità. In seguito ho iniziato a con i lavori socialmente utili. Ho sempre lavorato da quando avevo otto anni, portando i buoi in campagna. La mia era una famiglia numerosa e la priorità era portare il pane a casa».
GLI AMICI
Nella frazione di Is Urigus, gli amici di Stefano Sulas sono dispiaciuti. «Nei giorni scorsi era felicissimo di aver finalmente firmato il contratto – dice Giuseppe Steri – siamo addolorati per Stefano. Ha lavorato per tanti anni e proprio adesso che vedeva vicina la pensione ha dovuto subire questo duro colpo». «L'amarezza dell’operaio è la stessa che prova l'amministrazione comunale che ne ha fortemente voluto la stabilizzazione – spiega la sindaca Elvira Usai - ma di fronte alle verifiche di legge, che siamo tenuti ad effettuare, e che hanno attestato la mancanza del requisito, non possiamo che riportare alla situazione lavorativa precedente l'operaio. Infatti, da lunedì riprende regolarmente a lavorare per il Comune, ma con il contratto da Lsu».

                                   Fabio Murru

28.6.22

LA CONGIURA DEL SILENZIO SULLA VICENDA DI GIOVANNI IANNELLI SEMBRA CHIUDERSI VISTO CHE ANCHE L'EX CAMPIONE CIPOLINI NE HA DENUNCIATO L'INGIUSTIZIA E E LE GRAVI RESPONSABILITÀ DELLA FCI E DEGLI ORGANIZZATORI INCOMPETENTI

leggi anche  


Finalmente anche all'interno del mondo del ciclismo professinistco , anche se da un ex , qualcuno prende posizione sulla triste ed vergognosa ( vedere URL inizio Post  )  . Infatti non passano certo inosservate le parole del campione Mario Cipollini, uno dei pochi "coraggiosi" del mondo del ciclismo che si è esposto più volte parlando apertamente dell'incidente avvenuto a Molino dei Torti il 5 ottobre 2019.



Un breve riassunto per chi non avesse letto il post precedente ( trovate sopra l'url ) dal sito e facebook Giustizia Caffè il diritto per tutti che a ha creato i video citato


Una volata di gruppo ad oltre 60 km/h tra case, recinzioni, cancelli, pilastri, cartelli stradali, insegne, pali della luce, fioriere, cestini, cordoli. La via Roma che curva prima lievemente a destra, poi a sinistra, prima del traguardo sotto il balcone del sindaco, alla fine di un circuito completamente pianeggiante.
La caduta di un gruppetto di corridori a 144 metri dall’arrivo. Il contatto, la spinta e la vita di Giovanni si interrompe sullo spigolo vivo del pilastro di mattoni faccia a vista del cancello carraio del civico 45, mentre davanti si esulta e si sorride per la vittoria.Da quel momento il fango.La leggenda del guasto al pedale, il nulla da segnalare, i carabinieri che, chiamati ad intervenire, riescono a percorrere circa 5 km arrivando addirittura prima della fine della gara, mentre i colleghi dei NAS restano sotto al gazebo allestito in piazza per la campagna antidoping di un ex ministro della Sanità.L'unica testimone, presa tra le fila della FCI (giudice di gara), non certo tra le fila del pubblico presente o tra i corridori caduti a terra nell'incidente, dichiara spudoratamente il falso, mentre un video la ritrae su una moto, con il casco, in una posizione dalla quale non può certo aver visto.La FCI si schiera fornendo avvocati. Documenti inesistenti si materializzano. Documenti veri, al contrario, spariscono nei cassetti o chissà dove.Il consulente del Tribunale che fa luce sulle eventuali mancanze e responsabilità della FCI, ovviamente, è la FCI. Lo sa il Giornale mesi e mesi prima dell'avvenuto incarico.Il CONI prima non può, poi non è. Come le più alte cariche dello Stato. Sono tutti bravi, come il ministro dello sport che risponde al posto di quello della Giustizia.Non è tutto, ma sono tutti vicini. Nel fango, sì.

in attesa di ulteriori aggiornamenti con questo è tutto

6.2.15

“Io e mia sorella perdute e ritrovate dopo ventisei anni” La scoperta di Giulia, iniziata con un pezzo del 1989 di “Repubblica” “Adottate in Italia dal Brasile e separate, ora insieme per sempre”il gioernLE DEL

A  differenza  di altre  storie  simili  che  ho ripreso sull'aonda  emotiva  o forse  perchè essendo   del '76   sono cresciuto  a feuilleton \ romanzi d'appendice televisivi  e  letterari  ,  questa  storia  non lo  è  o almeno o  è  in parte   Essa  è piuttosto  un caso alla  Serena Cruz   ( vicenda  raccontata in Serena Cruz o la vera giustizia (1990), saggio, Einaudi, ISBN 88-06-11749-1 di Natalia Levi Ginzburg  (  1916-1991 ) . 
Insomma una  Grande  ingiustizia  e  pessima conduzione  delle  famiglie addottive    delel due  protagoniste  .   

  la  vicenda  dela madre  
da repubblica  del  6\2\2015

“Io e mia sorella  perdute e ritrovate dopo ventisei anni” La scoperta di Giulia, iniziata con un pezzo del 1989 di “Repubblica” “Adottate in Italia dal Brasile e separate, ora insieme per sempre”


Giulia e Maria Grazia,di nuovo insieme.

                           STEFANO COSTANTINI

ROMA. Eccola Giulia. L’appuntamento è in un bar del Portuense,a Roma. Fuori diluvia. Non ci conosciamo,ma le nostre vite si sonoincrociate il 10 settembre di  26 anni fa. Scrissi per Repubblica dell’adozione di due sorelline brasiliane. La madre naturale stava venendo in Italia per riportarle a casa, aveva denunciato che le erano state sottratte. Poi più nulla fino ai primi di gennaio
di quest’anno, quando sulla scrivania trovo l’appunto di una collega. «Ciao Stefano, ti sta cercando una signora, Giulia Aigotti. Ha lasciato il suo numero, dice che ti sei occupato di lei tanto tempo fa, ti ho stampato l’articolo. Lei è una delle bambine di cui parli. Accidenti che storia. Fammi sapere.Ila».
Era il 1989 e non ricordo di aver scritto quell’articolo. Chiamo, risponde Giulia. È nata a Bahia nel 1977 («o almeno così c’è scritto sui miei documenti»), e si chiamava Dilma. È stata adottata a Pinerolo, vicino a Torino, da una coppia di insegnanti che le hanno cambiato nome e destino. La madre naturale era una domestica di 46 anni.  ha vissuto  protetta, ha studiato pianoforte
IL GIORNALE DELL'EPOCA 
e preso una laurea in Scienze infermieristiche. Oggi lavora in un ospedale di Roma. Ha due figli e un marito militare. È serena,ma dentro ha una voragine lunga quasi trent’anni.
«Pronto? Sì, sono Giulia. Ho trovato in Rete il suo articolo e a quel punto ho capito che non potevo più far finta di niente. Sapevo di essere stata adottata, che ero nata in Brasile. Stop. All’epoca avevo dieci anni. Ignoravo la battaglia legale tentata da mia madre naturale, non sapevo che era venuta in Italia per riavermi.
Le impedirono di incontrarci. Ricordavo di essere stata in diversi orfanotrofi. E ricordavo di una sorellina che tenevo sempre per mano, che mi facevo picchiare
pur di proteggerla. Niente altro. Troppe domande fatte ai miei genitori adottivi sono rimaste senza risposta, fino a quando abbiamo smesso di parlarci, una quindicina di anni fa per delle mie scelte che non hanno condiviso. Ora so che mia sorella esiste. Se è viva,la voglio ritrovare. Mi aiuta?».
Bastano poche ore per rintracciarla. La sorella che si chiamava Debora ora è Maria Grazia Grasso e non si è mai spostata da Giugliano,Napoli. Risponde al telefono
quando Giulia chiama.Scopre così di avere una sorella.
«L’ho trovata, è lei - mi avverte Giulia in preda a una felicità ormai incontenibile - e sabato prossimo
(il 17 gennaio, ndr) ci vediamo.Mio marito è originario di Caserta, lì vive mia suocera, vicino a dove abita Maria Grazia».
Sono passate due settimane e con Giulia ci incontriamo nel bar.Riprende il filo. «Grazie a Repubblica e alla Rete è avvenuto un miracolo.
Sono frastornata e felice. Mia sorella ha saputo di essere stata adottata quando era già grande e per caso. Ha cercato tracce della nostra famiglia, ha trovato dei parenti con i quali siamo ora in contatto. C’è un cugino che vive negli Stati Uniti e un’altra sorella rimasta a Bahia, più grande di me di un anno. Ci siamo scritte, in inglese, perché noi il portoghese lo abbiamo dimenticato. Sappiamo di avere avuto due fratelli maschi, che sono morti, e un’altra sorella, che oggi  avrà 43 anni. Nostra madre è morta tre anni fa e il cugino americano ci ha fatto vedere una sua foto. Maria Grazia aveva dei ricordi confusi. Quando ci siamo incontrate ci siamo abbracciate e abbiamo pianto, poi avevamo bisogno di una conferma. E allora dal passato sono spuntati dei particolari,uno decisivo: le mattonelle gialle dell’ultimo orfanotrofio in cui siamo state insieme. Ci siamo messe a ridere, perché è bastato guardarci per capire che siamo sorelle. Altro che prova del dna, siamo identiche ».
«Anche i suoi genitori adottivi - prosegue Giulia - non le hanno mai detto di me e sono stati sempre molto vaghi, come se anche loro avessero qualcosa da nascondere.
Ho chiamato i miei genitori, loro non rispondono, hanno il filtro della segreteria telefonica. Ho lasciato un lungo messaggio con le novità, mi hanno risposto con un telegramma: “Stai attenta a chi incontri”. Ora nella mia vita è tornata Maria Grazia: non vogliamo più lasciarci. Lei si sente brasiliana, l’ha sempre avuta dentro questa passione e da quando conosce le sue origini ancora di più: pensi che insegna un ballo tradizionale. Lei vorrebbe partire subito per il Brasile. Io  ho un po’ paura, finora avevosempre evitato di conoscere le mie radici. Un anno fa mia nonna adottiva mi accennò la storia di una donna che era venuta dal Brasile a riprendermi. Io non le volli credere. Poi mia nonna è morta e mio marito che aveva intuito qualcosa ha fatto il resto. Quando un giorno sono tornata a casa mi ha detto: “Giulia, guarda su Internet cosa ho trovato ”. E mi ha lasciato da sola davanti allo schermo. Dovevo scegliere, ho esitato prima di spingere quel tasto. E alla fine ecco, ho letto il suo articolo e si è spalancato un baratro. Il viaggio nel mio passato èappena iniziato». Buon viaggio,Dilma



16.1.14

Una ragazza autistica con il talento delle percussioni: la storia di Benedetta

 chi lo ha detto  che   ha un handicap  non possa creare    ?    la  news  sotto  riportata  tratta da http://www.redattoresociale.it/Notiziario
Simone Gambirasio
è una  risposta  alle tante ingiustizie  ed  abusi che debbono sopportare quotidianamente  .come questa
questa lettera di denuncia di Simone Gambirasio, disabile al 100%, che cerca disperatamente di dare visibilità a una situazione vergognosa, che squarcia il velo dell’accessibilità dei mezzi pubblici per i portatori di handicap in Lombardia (in particolare Milano e Provincia). La pubblico nella speranza che la leggano in tanti e che in tanti la segnaliate a chi di dovere (io lo farò con i miei amici giornalisti). Perché davvero non se ne può più di diritti violati come questo.
Ecco cosa  scrive  sul suo facebook  

Cari APCOA, SEA e Tenord. Scrivo a tutti e tre, mettendovi in copia. Così magari, dato che vi date la colpa a vicenda, potete anche parlarne tra voi e risolverla più velocemente. Aggiungo anche in copia qualche amico giornalista, così per mettere un pochino di pepe. Come forse già saprete, io sono un portatore d'handicap che vive a Cairate ma lavora a Milano. Come tanti altri faccio il pendolare, e prendo i treni ogni giorno per andare al lavoro. Solo che io non posso prendere proprio tutti i treni: no, solo alcuni, pochi pochi, perché non sono tutti accessibili (anzi). Di solito prendo il Malpensa Express da Busto Arsizio (che non è esattamente una stazione vicina, ma mi adatto). Ma dato che mi piace lavorare (vi sembrerà strano, ad alcuni capita) a volte finisce che io debba fare tardi, tornando poi in orari in cui il Malpensa Express ferma esclusivamente a Malpensa. Devo sempre e comunque prendere il Malpensa Express, gli altri treni non garantiscono accessibilità a ogni corsa.
Mio padre parcheggia a Malpensa e viene a prendermi a Milano (perché anche a Milano i mezzi pubblici non sono realmente accessibili, ma questa è un'altra storia). Insieme a lui prendo un tram, un autobus e un treno. Dopo circa 1 ora e 45 minuti, se sono particolarmente fortunato, arrivo a Malpensa. E cosa scopro? Scopro che, dato che ho deciso di prendermi il "lusso" di parcheggiare nell'unica stazione accessibile a quell'ora in provincia di Varese, il parcheggio per disabili (quello giallo e contrassegnato) lo devo pagare. Lo pago, per essere precisi, la bellezza di 29,50€. 






Non è la prima volta. Mi ero già lamentato il 21 giugno 2013 in una lettera a VareseNews (http://www3.varesenews.it/comunita/lettere_al_direttore/disabile-in-cerca-di-parcheggio-devi-essere-intelligente-sveglio-alto-266178.html), ma non mi avete mai risposto.
Perché pago? Perché da qualche mese SEA e APCOA hanno deciso che se un portatore d'handicap non prende l'aereo ma il treno, allora deve pagare il parcheggio. Parcheggio, lo ripeto, per portatori d'handicap, contrassegnato. E io, modestamente, il mio contrassegno per portatori d'handicap al 100% ce l'ho. Ma pago lo stesso, già.
Pensavo che dopo la mia lettera a VareseNews qualcosa fosse cambiato. E invece no, niente. Oggi, dopo essere stato in giro per lavoro a Milano dalle 7 alle 22, quando ho provato a prendere la mia auto in Malpensa per tornare a casa, APCOA mi ha chiesto 29,50€. Ho fatto chiamare il responsabile di APCOA due volte, e la prima volta mi ha detto che devo tassativamente pagare. Alla seconda, quando ha scoperto che di lavoro ho fatto anche il giornalista, mi ha detto che al massimo posso fare insolvenza, e poi chiamare SEA. 
Io, perdonatemi, ero stanco, volevo andare a casa. Ho pagato 29,50€ e me ne sono andato. Ma è davvero normale che a Malpensa non ci sia un parcheggio gratuito per portatori d'handicap che prendono il treno? Devo davvero pagare così tanto per fermarmi in una stazione nella quale, in realtà, sono costretto a fermarmi?
E aggiungo: non ditemi che potrei parcheggiare nell'area di carico e scarico. Mio padre non è lì ad aspettarmi, mio padre viene a prendermi a Milano... quindi non può usufruire del carico e scarico, come è evidente.
Non voglio indietro i miei soldi, non voglio le scuse (non che mi siano mai arrivate, da nessuno). Voglio solo che poniate fine a una situazione imbarazzante che mette seriamente in dubbio la vostra intelligenza. Per non pagare un parcheggio, che mi spetta di diritto (DM 236, art 8.2.3), devo lottare strenuamente, al punto che mi viene suggerito di lamentarmi con SEA, Apcoa, Trenord e non saprei chi altro (ma aggiungeteli pure voi in copia, nel caso). Devo capire come e dove trovare il parcheggio disabili a Malpensa (impresa all'altezza di pochi eletti) e poi consegnare documentazione ridondante, tra cui una carta d'identità, due firme di mio pugno e un biglietto aereo per l'Isola che non c'è. Firme che, tra l'altro, devo fare sulle ginocchia perché lo sportello di APCOA non è accessibile. Per prendere parcheggi che, spesso, sono occupati da spazzatura o (non ci crederete) mi è anche capitato di vedere carrelli o cavi o sacchetti non meglio definiti. No no, meglio che i disabili paghino, mica che vi rubino abusivamente i parcheggi che voi state usando per qualcosa di veramente serio.


Cordialmente,
un vostro affezionatissimo utente

Simone Gambirasio

(1) Così, giusto per ricordarvelo, la legge dice: "Nelle aree di parcheggio devono comunque essere previsti, nella misura minima di 1 ogni 50 o frazione di 50, posti auto di larghezza non inferiore a m 3,20, e riservati gratuitamente ai veicoli al servizio di persone disabili.".
Dice "GRATUITAMENTE", stranamente non si parla di biglietti aerei, carte d'identità e obbligo di scrivere articoli di giornale per ottenere i rimborsi. Che buffa la legge, vero?
Una ragazza autistica con il talento delle percussioni: la storia di Benedetta
Da alcuni mesi frequenta la scuola del maestro Ramadori. Domani si esibirà nel recital di fine anno della Music Academy a Perugia. Eseguirà il brano “Afro interplay” con i “djembe”. La madre: "La sua esperienza deve essere un messaggio per altri genitori"

scusate la divagaszione  ma  certe cose assurde mi danno fastidio

07 giugno 2013

PERUGIA – “L’esperienza di Benedetta deve essere un messaggio per altri genitori. Se alle persone con disabilità vengono dati gli strumenti giusti e sono in grado di esprimere se stesse, sentono che ha un senso il proprio esistere, possono avere e dare tanta gioia e dare un contributo a tutti”. Sono le parole di Gabriella Larovere, madre di una ragazza di 21 anni affetta da sclerosi tuberosa e autistica. Domani, 8 giugno, Benedetta si esibisce nel recital di fine anno degli allievi della Musical Academy a Perugia. Eseguirà il brano “Afro interplay” con i “djembe”, tamburi africani di diverse dimensioni, in questo caso molto grandi. Da due
mesi Benedetta suona con il maestro Leonardo Ramadori, che “sta facendo uscire da lei il talento che ha dentro” facendole sperimentare suoni e percussioni di ogni tipo e sta coltivando un coinvolgente rapporto tra la musica e Benedetta. Un rapporto che comincia da lontano. Da quando Benni è nata, come ci racconta mamma Gabriella: “Ho una raccolta di dischi e una grande passione per la musica, e per tutta la gravidanza ho ascoltato musica, specialmente il jazz. E quando Benedetta, che ha sempre avuto difficoltà a dormire, si svegliava di notte, ho sempre cantato per lei a bassa voce, cullandola. Successivamente, nelle attività di riabilitazione hanno sempre trovato posto le percussioni. Benni ha una grossa capacità di ascolto, è capace di riconoscere un brano a partire dalla prima nota. Ed è innamorata della canzone napoletana”.
Alle scuole medie arriva “l’avviamento musicale”. Prima in Abruzzo dove Benni risiedeva con la famiglia e dove scopre di  ricevere dalla pratica musicale un grande benessere. Ora in Umbria, dove da pochi mesi frequenta la scuola del maestro Ramadori. “L’insegnante, che è uno dei più bravi percussionisti in Italia, l’ha ascoltata e subito abbiamo avuto la sensazione che era la persona giusta per Benedetta. E’ capace di comunicare con lei, si scambiano discorsi musicali, l’ha stimolata, e appena due settimane fa le ha proposto di fare il saggio di domani. Le abbiamo detto che suonerà e si andrà a divertire, senza suscitare in lei ansia da prestazione”. Quando è alle percussioni Benedetta è “come in trance – dice Gabriella - chiude gli occhi e ciondola la testa e sorride. E’ dentro alla musica”. La giovane soffre di epilessia intrattabile con terapia, ma “quando suona riesce a star bene per le 24-36 ore successive, forse perché libera tante endorfine”. Il corso con il maestro prosegue per tutto il mese di giugno. Poi a settembre riprenderà, “perché le serve – ribadisce la madre -. Vorrei che potesse esprimere sempre di più quello che ha dentro”. (ep)

14.6.13

banditi ( o presunti tali ) senza tempo la storia di antonio bossu


dalla nuova sardegna del 27\5\2013


Le memorie in versi dell’ex detenuto

L’orgolese Antonio Bassu scontò un quarto di secolo per la strage di Monte Maore: a 91 anni ha deciso di scrivere un libro


ORGOSOLO Antonio Bassu?  ( foto  a  sinistra   )  Innocente. La vox populi non ha mai avuto dubbi, il paese sapeva e lui Graziato dal presidente della Repubblica Giovanni Leone nel 1974, l'ex carcerato affida ora al ritmo dei versi endecasillabi in ottava rima le sue memorie di miele amaro. Ci pensava da oltre trent'anni, ora non ha più dubbi: è giunta l'ora della narrazione poetica.A novantun anni suonati, la libertà per lui è sempre un cavallo veloce che non teme le discese ripide e salva il suo cavaliere intrepido. Lui, su cadderi (il fantino) di tante vàrdias paesane, è stato derubato di un quarto di secolo della sua esistenza: 25 anni meno 25 giorni. «Mi sarei dovuto presentare prima della strage di Monte Maore, ero latitante, accusato di reati minori – ricorda –. Non l'ho fatto perché il mio avvocato, il senatore orgolese Antonio Monni, in quel periodo era in vacanza in Svizzera». Nella sua casa del rione storico di Caspiri, zona di Monte Isoro, Antonio Bassu risponde volentieri alle domande.aveva le prove: 17 testimoni nuoresi in corte d'assise dissero a una voce che il giorno della strage di Monte Maore – tre carabinieri uccisi e un quarto reso cieco da una pallottola, il 13 agosto 1949, in una tragica rapina alla camionetta che trasportava le buste paga degli operai ogliastrini dell'Erlas – il pastore orgolese era con loro sull'Ortobene. Ma i giudici diedero ascolto soltanto al pm Francesco Coco: ergastolo, confermato in appello (con Coco pm anche nel giudizio di secondo grado) e in cassazione.
Quando è nata l'idea di domandare aiuto alle Muse?
«Nel 1982, quando lo Stato mi chiese il pagamento del vitto e dell'alloggio in carcere e un mio compaesano e coetaneo, Antonio Piras noto Pireddu che viveva a Bolotana, mi scrisse un sonetto consolatorio».
Le poesie parlano solo della vicenda giudiziaria?
«No, quando mai? Trattano della mia vita, dall'infanzia alla vecchiaia, con gli episodi più salienti. Del periodo in cui era ancora vivo mio padre: avevo quindici anni quando lui, reduce della grande guerra, morì prematuramente. Ci sono le stagioni vissute da servo pastore, a Nuoro e Orgosolo, e soltanto dopo le stagioni della mia disavventura nei penitenziari di Ventotene e di Porto Azzurro. Ma c'è anche dell'altro».
Cos'altro?
«Il mio paese, le corse dei cavalli, i murales, la decadenza».
Il degrado del villaggio natale?
«Sì, nell'attenuarsi progressivo della solidarietà e della comparsa di un malattia dello spirito. L'egoismo».
Come si vive il passaggio dalla libertà alla cella del carcere?
«Sei davanti a una scelta: reazione o rassegnazione. Se non reagisci sei perduto. Se a Lanusei stavo male, a Cagliari era molto peggio»
Perché peggio?
«In una cella teoricamente destinata a un solo prigioniero eravamo in tre, 24 ore su 24, tranne un'ora d'aria nei cunicoli, non ti dico in quali condizioni. Si doveva parlare a bassa voce, non mi potevo fare nemmancu una cantadedda, neppure una cantatina».
Cosa si prova a ripensarci?
«Non mi sembra vero di essere riuscito a sopportare tante privazioni».
Maltrattamenti?
«In tutta sincerità debbo dire: nessuno mi ha mai messo un dito addosso. Ma anch'io non ho mai mancato di rispetto a nessuno».
Nelle poesie degli ultimi anni due parole tornano più di altre: resurrezione e risorto...
«Sì, tornano. Istintivamente, è più forte di me. Stare in carcere è come essere morti e sepolti. La galera è una tomba. Venticinque anni là dentro hanno distrutto la mia giovinezza».
Di chi la colpa di questo dramma?
«Del sistema barbaro di una giustizia che riteneva delinquenti tutti gli orgolesi: forze dell'ordine e magistratura davano ascolto solo alle spie prezzolate, di mestiere».
Con qualche eccezione?
«Indubbiamente. Riconosco al famoso maresciallo Loddo un'onestà professionale al di sopra di ogni sospetto. Con me è stato corretto anche nella testimonianza davanti alla corte».
Assiste all'intervista Franco Buesca, un giovane pastore di Orgosolo che ha acquisito il merito di essere una sorta di enciclopedia vivente della storia del suo paese. 


Le sue parole sono lo specchio esatto del sentire comunitario: «L'ischimus totus, l'ischit sa vidda: tziu Antoni est innossente (lo sa il paese intero: lo “zio” Antonio è innocente)».Uno dei testi più emozionanti tra le poesie di Antonio Bassu riguarda la liberazione, dopo la grazia firmata dal presidente della Repubblica: 26 ottave, 208 versi. Eccone una parafrasi italiana compatibile.«Era il 28 agosto 1974. Alle otto del mattino mi avviai verso il camerone dove cucivo palloni per tornei di calcio: il mio lavoro, a Porto Azzurro. Ero triste, da innocente condannato alla segregazione perpetua».Poche ore prima Antonio aveva fatto un sogno: «Sul fare dell'alba sentii una voce che mi chiamava e subito dopo vidi una figura candida come neve, simpatica e sorridente. Mi disse due parole: buona libertà. Mi sedetti e iniziai a lavorare. Non era facile, i punti dovevano essere lineari. D'un tratto sentii alcuni che dicevano: è arrivato un foglio di scarcerazione. Si erano fatte le nove e continuai a lavorare».Ed ecco la sorpresa: «Venne da me un guardiano e mi disse di andare con lui dal direttore».Il responsabile del penitenziario attendeva il prigioniero con il capo delle guardie. «Mi salutarono contenti e mi annunciarono la grazia. Non riuscivo a parlare per l'emozione. Feci un cenno di ringraziamento e andai a prepararmi: mi tolsi la divisa interna e indossai un abito da libero cittadino».L'addio alla reclusione è uno dei punti più intensi: «E pro s'ùrtima 'orta torro in cella/ cun sa divisa de su galeoto:/ in presse mi preparo su fagoto,/ mi retiro sa cosa pius bella./ Dae su muru ch'ispico una foto/ chi fit lughente coment'e istella/ sa chi m'at fatu sempre cumpagnia,/ sa figura fit sa 'e mama mia» (Per l'ultima volta rientro nella mia cella e mi preparo in fretta il fagotto. Ritiro la cosa più bella: da una parete stacco una foto luminosa come una stella che mi aveva sempre fatto compagnia: il ritratto di mia madre».Arrivò l'ora di salutare i compagni di pena.«Erano gli uomini con i quali avevo diviso il dolore e l'angoscia in quel luogo oscuro dove non esiste l'allegria: chi sconta una pena è come un cane legato a catena. Mi avviai verso il portone che si spalancava alla libertà. Superato l'uscio, mi voltai e feci il segno della croce con la mano sinistra».Con Bassu c'era un guardiano che lo doveva accompagnare fino al porto, dov'era pronta un'imbarcazione. Il prigioniero iniziava a respirare l'aria inebriante della libertà.Ricorda ancora Antonio Bassu: «La traversata da un porto all'altro durò due ore. Mi sentivo come un risuscitato, dopo 25 anni in una cella buia di appena quattro metri quadrati. In quel tempo il carcere era duro, ancora esistevano i mezzi di tortura: letti di forza e fruste di tutti i tipi permessi dal codice Rocco che alla prigionia aggiungeva isolamento e segregazione».Sbarcato a Piombino, Antonio andò dritto alla stazione. Sul treno trovò posto accanto a un finestrino: «Avevo un desiderio insopprimibile di vedere le bellezze della natura, per dimenticare il passato: mi sembrava di essere entrato in una vita nuova, come un uccello che esce dall'uovo».Poi l'imbarco, l'arrivo in Sardegna, l'incontro con la figlia Mara. Ma la scena più commovente è l'abbraccio con la madre, a Orgosolo.«La ritrovai vecchia e sfinita ma sempre amorosa e sorridente. Mi disse: adesso che sei tornato tu, in casa è ritornata l'allegria. E poi, come in un sussurro: quando morirò andrò via contenta».



8.9.09

In mutande e in pantaloni



Due capi d'abbigliamento estremi. I primi ridotti all'osso, i secondi castigati per antonomasia (eppure, come scriviamo più sotto, qualche testa bacata è giunta a considerarli indecenti). I primi, non solo simbolici (alcuni disoccupati e precari della scuola hanno davvero protestato in questo modo); ma sicuramente anche segno d'una spoliazione, d'una perdita non solo del lavoro, ma della dignità. Ebbene in questi giorni, molti lavoratori, al Nord come al Sud, sono in mutande. Per lo più nel chiassoso silenzio dei media, in tutt'altre faccende affaccendati. "Devi attirare l'attenzione delle telecamere, altrimenti non esisti": frase che suona grottesca perché non esce dalla bocca di Fabrizio Corona, ma da uno degli operai della Esab di Mesero, alle porte di Milano, che da giorni, coi compagni, grida sui tetti - il Vangelo coglie sempre nel segno - la sua lotta e la sua resistenza ai licenziamenti. Il regime videocratico impone leggi ferree: tanto vale sfruttarle a proprio vantaggio, visto che le protezioni sociali si affievoliscono sempre più. Hanno creato anche un blog, Quelli del tetto. La rete sembra essere rimasta l'unica arma per far udire le voci libere e disperate.



Ieri è giunto un inquietante comunicato degli operai dell'Innse: "Stanno arrivando a diversi sostenitori della nostra lotta provvedimenti con multe da 2500 a 10.000 euro per il blocco della tangenziale avvenuto il giorno 2 agosto, il giorno in cui l'Innse era presidiata da più di 300 poliziotti", scrivono. "Lo riteniamo un colpo basso contro una mobilitazione che, sostenendo l'iniziativa diretta degli operai, ha portato al risultato che tutti conosciamo. Come insieme abbiamo resistito allo smantellamento della fabbrica, assieme reagiremo a questa azione intimidatoria". La notizia è circolata, ancora una volta, solo sul web. Leggendola, mi è tornata in mente un'antichissima canzone di Dalla, Le parole incrociate ("Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano"). Mi chiedo se davvero non siamo tornati al 1898, quando gli industriali si chiamavano ancora padroni e alle rimostranze dei lavoratori si rispondeva con le cannonate.


Voleva i pantaloni, hanno parafrasato in tanti. No, Lubna Ahmed Hussein voleva, e vuole, essere sé stessa. Anche lei, su altri fronti, a combattere una battaglia di libertà. Vinta. Non verrà frustata, non intende nemmeno pagare una multa. Simbolicamente, l'una e l'altra sarebbero la stessa cosa, una resa. E Lubna non vuole arrendersi. Anch'essa ha gridato sui tetti. I calzoni contrasterebbero la legge coranica? Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, poi si guarda la foto del "presidente" sudanese Omar al Bashir, quello delle stragi silenziate del Darfur, che solo due anni fa è stato ricevuto dalle alte cariche del nostro Paese e dal Papa, la si confronta con quella di Lubna, e non occorre aggiungere altro.


Da quelle parti c'è sempre stata, qui ha conosciuto un picco di recrudescenza: parlo della furia maschile [pochi giorni fa, in Sicilia, un branco di ragazzini ha brutalizzato una minorenne disabile, e contemporaneamente sono avvenute quattro stragi con vittime femminili all'interno di rispettabili famiglie, tutte compiute da uomini, n.d.A.]. E' sempre la stessa storia, il frutto venefico di un clima avvelenato, quindi non mi ripeterò. Per fortuna esistono altri uomini, che dietro i pantaloni hanno un cuore e un cervello, non solo un organo genitale. Ma rischiamo di perderli. Caspian Makan, fidanzato della celebre Neda Agha Soltan, si trova in carcere dal giugno scorso, come segnala Amnesty International, per aver gridato sui tetti il nome degli assassini della compagna. Una buona notizia, invece, arriva almeno per Sayed Parvez Kambaksh: è stato graziato ieri. Chissà se riuscirebbe a spiegarlo lui, al presidente golpista del Sudan e a tanti suoi zelanti correligionari, che nel Corano non c'è traccia di sottomissione delle donne. Per aver affermato questo, Sayed ha rischiato la pelle. Ma, in verità, non frega niente a nessuno. E uomini di questa sorta si trovano ormai nei luoghi più remoti e impensati. Quaggiù si soffre e si muore nel silenzio più sepolcrale.


Daniela Tuscano




4.7.09

"Ero forestiero, e mi avete imprigionato"

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.


Don Luigi Ciotti: «Come ai tempi della discriminazione razziale»

«Non sicurezza, crudeltà. Non c’è altra parola per definire le misure sull’immigrazione approvate oggi, giovedì 2 luglio 2009, in Senato. Non c’è altra parola per definire questo accanimento contro chi fugge dalla miseria, dalla discriminazione, dall’oppressione, dalle guerre. Sono persone, prima che immigrati, quelle che chiedono di essere riconosciute e accolte nella legalità, nei diritti e doveri di ogni cittadino parte attiva del consorzio sociale. É doloroso constatare come questa legge ci faccia scivolare indietro, ai tempi della discriminazione razziale, negando i valori della Carta universale dei diritti umani, della nostra Costituzione, della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Baluardi contro il ritorno della barbarie e della guerra, antidoti perché legge sia tutela del bene comune a partire dai più deboli, non legge del più forte. Sono vittime della povertà, gli immigrati. Ma la povertà più grande, oggi, è la nostra. Povertà di coraggio, di senso, di umanità, di capacità di scommettere sugli altri, di costruire insieme a loro. Dati alla mano, è dimostrato che, laddove si è lavorato con impegno, è stato possibile armonizzare il diritto con l’accoglienza, saldare il rispetto delle regole - che deve valere per tutti - con l’integrazione. A partire da quel “mettersi nei panni degli altri” che è stato motore delle più grandi conquiste umane e civili. E spiace che, ad eccezione di una minoranza di voci nette e coerenti, su una questione tanto cruciale come quella dell’immigrazione, la politica sia venuta meno al suo orizzonte ideale: stimolare la promozione culturale e sociale di un paese, trasformando in speranze le paure della gente».


Don Paolo Farinella: «Il decreto vergognoso del governo della vergogna»

Come cittadino, come prete e come presidente dell’Associazione “Massoero 2000” di Genova che si occupa di senza fissa dimora, dichiaro la mia totale e ferma obiezione di coscienza allo scellerato decreto dell’ignobile governo italiano, proseguendo la dichiarazione di ieri. (Paolo Farinella, prete). Parola di Dio! No, della Cei! Anzi del Vaticano! Venghino, signore e signori, la commedia è cominciata. A decreto appena sfornato, ancora caldo e fumante, il responsabile vaticano dei Migrantes osa dire che il decreto «porterà molto dolore»; gli fa eco la Cei che parla a più voci: «Sull’immigrazione non basta l’ordine pubblico ma servono anche politiche volte a favorire l’integrazione». Il direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei afferma che «di fronte al fenomeno complesso dell’immigrazione, è evidente che una risposta dettata dalle sole esigenze di ordine pubblico - che è comunque necessario garantire in un corretto rapporto tra diritti e doveri - risulta insufficiente». Non è il massimo che dovrebbero dire due istituzioni religiose, ma anche un buffetto dato al momento giusto, è significativo e meglio di niente. Le parole fragili e timide erano ancora in aria e non si erano depositate in terra, che come uno sputo a tradimento arriva la dichiarazione ufficiale del portavoce vaticano, Padre Federico Lombardi: «Il Vaticano come tale non ha detto niente sul decreto sicurezza approvato dal governo italiano. Ha parlato monsignor Marchetto [Ufficio Migrantes del Vaticano], ma non mi consta che il Vaticano in quanto tale abbia preso posizione». A noi consta, consta! Il Vaticano non ha detto niente, non ha preso posizione e il suo niente ha la potenza dirompente della parola esplicita: il governo è al sicuro, Bossi può discettare sui preti che parlano ma non contano niente e Maroni fa spallucce a quelle che definisce «liturgie», cioè rituali vuoti e inutili. Non si è fatto attendere l’esimio fascista La Russa, nonché ministro della Difesa, che, grato pose: «Siamo lieti della precisazione del Vaticano, che mette in rilievo la differenza tra un giudizio, legittimo, di monsignor Marchetto e quello del Vaticano». Obiettivo raggiunto, come si conviene tra compari. Come volèvasi dimostrare, il cerchio ora è quadrato. Speravamo di ascoltare dal portavoce del papa parole semplici, antiche, parole dal sapore evangelico come «voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» (Ef 2,19). Oppure, se ancora il papa e la sua corte non fossero arrivati al Nuovo Testamento, le parole dell’Antico: «perché il Signore vostro Dio… [è] il Dio grande, forte e terribile che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,17-19) a cui fa eco il Cronista: «nell’agire, badate che nel Signore, nostro Dio, non c’è nessuna iniquità: egli non ha preferenze personali e non accetta regali [= non si lascia corrompere con regali]» (2Cr 19,17). Abbiamo sentito solo voci di diplomazia da tornaconto, di ossequio servile, di eresia e di apostasia dalle quali prendo le distanze in modo netto e senza paura delle conseguenze. Io, Paolo Farinella prete mi dichiaro «obiettore di coscienza» al decreto 733-B/2009 e al Vaticano che non riconosco come mio Stato e che non mi rappresenta come prete della Chiesa Cattolica, apostolica e universale. Anzi, lo considero una maledizione di Dio sull’intera Chiesa e prego che sprofondi negli abissi della Gehènna. Avevo facilmente previsto che l’inasprimento del 41-bis nei confronti dei mafiosi, sarebbe servito come foglia di fico per accreditare un governo screditato come tutore di legalità. Le cronache confermano e il diritto è affossato. Di seguito un breve ripasso della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (Onu, 10-12-1948) sottoscritta dall’Italia quando era uno Stato di Diritto: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1). «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione (art. 2 § 1)». «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona (art. 3)». «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù (art. 4)». «Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica (art. 6)». «Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge … contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione (art. 7)». «Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato (art. 9)». «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese (art. 13 §§ 1-2)». «Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni (art. 14 § 1)». «Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza (art. 15, §§ 1-2)». Il decreto del governo della vergogna ci colloca fuori da questa logica, da questa civiltà e dalla storia del Diritto, ma è ancora più grave che, per graziosa concessione del Vaticano, la Chiesa intera è dichiarata estranea al Vangelo, a Dio e a Gesù Cristo. Mi chiedo con quale diritto il papa e i suoi portavoce possano chiedere che nella Costituzione UE sia scritto un riferimento esplicito alle «radici cristiane». I cristiani della base, moltissimi preti, i volontari, le associazioni e le donne e gli uomini di buona volontà si oppongono e si opporranno a questo decreto anche a costo della loro vita e il Vaticano vada in perdizione. Nessuno lo rimpiangerà, tranne il governo Bossisky-Berluskonijad, compagnucci di merende e di abiezione.








P.S.: chi volesse approfondire le cose - oltre alla sguardo rivolto al volto dei nostri fratelli e sorelle “clandestini”! - può leggere quest’ottimo libro http://issuu.com/meridiana/docs/avanti_il_prossimo




19.5.09

I prìncipi di questo mondo

Qui non c'è molto da dire. Se non due sole parole, ferme, decise, chiare, irrevocabili: LIBERATELA SUBITO. Non intendiamo pregare, stavolta, ma pretendiamo. Urliamo.


Troppo intollerabile è l'ingiustizia. Troppo macroscopico il male. Dietro la farsa dello scandaloso nuovo processo ad Aung San Suu Kyi scorgiamo il terrore, il furore e, più che mai, la voglia di sangue, di vendetta. Di farla finita, una volta per tutte, con i diritti umani, la nonviolenza, la dignità.


Un caso che questi nobili ideali siano incarnati da una donna? No. La talebanizzazione del mondo è evidente. In Italia, che ovviamente ben si guarda dal muovere una minima protesta per quanto sta accadendo, siamo al livello più basso, e quindi più incancrenito e stomachevole, di tale processo. Il nostro esimio Presidente, col (tacito) benestare della Chiesa, ha fatto regredire la condizione femminile di una settantina d'anni. E oggi quei pochi ancora animati da un senso etico, quegli illusi che si ostinano a credere alla differenza tra bene e male, quei (de)relitti fuori del tempo e della storia, insomma, assistono impotenti all'adempimento della Promessa: una brillante carriera televisiva per colei/coloro che dovrebbero, invece, suscitare repulsione e orrore (ma la maggioranza degli Italiani sta col Capo, non dimentichiamolo). Le ingiurie all'Onu e alla rappresentante dell'Unhcr (anch'essa una donna) da parte di chi si fregia dell'immeritato titolo di Ministro degli Esteri aggiungono un altro tassello a questa riscossa della carne avariata, della carne rotta e cadente che, strappate le maschere, si mostra in tutta la sua spudorata ferocia.


Ma l'Italia, benché ultima e periferica, è solo un brandello di questo sfascio, di questa lotta epocale dove il potere, la militarizzazione, il riarmo e la violenza dell'economia hanno connotati viriloidi e aggressivi. E' un mondo di prìncipi che non vogliono mollare la presa. Un mondo, quindi, necessariamente sbilanciato, dove non si otterrà mai la vera pace, fin quando un sesso dominerà sull'altro.


Il fragile profilo di Aung riassume anche e soprattutto questo. Lei ha ricevuto in questi giorni l'insulto estremo. Ma stavolta no, non è più possibile subire. Non ci si abitua a tutto. E non si può delegare il comando al male, senza rinunciare alla propria umanità. Lo ricordino tutti, uomini e donne.


Daniela Tuscano

27.3.09

Vrindavan, in India, la città-lager delle vedove bambine....

Nella CASA DELLE VEDOVE, le più coraggiose vi arrivano da sole, sognando di raggiungere il paradiso dove saranno  liberate dal ciclo della morte e della rincarnazione.


Ma la maggior parte viene accompagnata, o meglio «scaricata» a sua insaputa, dalla famiglia del marito, ormai defunto.


Con lui del resto hanno perso tutto, persino il cognome da sposate.


Eppure a portare a Vrindavan migliaia di donne ogni anno non è tanto la fede, ma la disperazione. Questa cittadina dell' Uttar Pradesh, 150 chilometri a sud-est di Nuova Delhi, da 500 anni è un rifugio per le donne spogliate di tutto che qui vivono, se va bene, di elemosine e offerte.


 


Un lungo purgatorio in terra, un viaggio senza ritorno verso l' oblio: a casa non arriverà neanche la notizia della loro morte.


Vrindavan, una città santa quasi tutta per loro: su 56 mila anime, quasi 15 mila sono vedove.


Un abitante su quattro.


Cinquemila in più rispetto a dieci anni fa.


A lanciare l' allarme è il rapporto del Fondo di sviluppo dell' Onu per le donne e Guild of Service, organizzazione umanitaria laica indiana.


Rifiutate dalle famiglie d' origine, diventate un peso per quella del marito, praticamente impossibilitate a risposarsi, le vedove si ritrovano a vagare come fantasmi tra i templi per guadagnarsi da vivere: tre rupie (6 centesimi di euro) e una ciotola di riso per 4 ore di canti e preghiere al giorno. È anche per questo che Vrindavan è segnalata dalle guide: le donne avvolte nei loro sari bianchi, che mendicano nelle strade polverose e cantano «hare Krishna» nei 5 mila templi della città, sono diventate senza volerlo delle attrazioni.


Molte sono giovanissime, andate in sposa da bambine a uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: una bocca da sfamare in meno in casa.


A Vrindavan 2 su 5 sono convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su tre è rimasta vedova prima dei 24.


Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito sotto i 10.


Rimaste sole, un tempo le bruciavano sulla stessa pira dell' uomo.


Ora, almeno, vivono. Rifugiate negli ashram. Dove però soprattutto se giovani vengono sfruttate sessualmente da chi dovrebbe proteggerle.


 


Della città delle vedove parla un film:


“Water, il coraggio d’amare” per la regia di Deepa Mehta.


Patrocinato da  Amnesty International e inserito  nella campagna di sensibilizzazione  "Mai più violenze sulle donne" .


 La pellicola è stata e candidata all'Oscar 2007. Water. Il coraggio di  amare è un film toccante e con una messa in scena accurata e coinvolgente. Un film che si colloca nella tradizione del miglior cinema di impegno civile.

India, 1938: Chuyia è una bambina di otto anni, con lo sguardo, la spontaneità, la voglia di giocare di qualsiasi coetanea, solo che lei è diversa:


è una baby-sposa, a cui, per colmo di sfortuna, muore il marito.


Così, come prescrivono i rigidissimi rituali religiosi indù, la piccola è costretta a lasciare la famiglia e l'adorata mamma, per essere segregata in una "Casa delle vedove":


una sorta di lager dove - tra amicizie, umanità dolente, prostituzione occulta, divieti di ogni genere - finirà, dopo l'ennesimo trauma, per perdere definitivamente l'innocenza e tutta la luce che aveva negli occhi.


La denuncia della regista si fa aspra e inflessibile:


la vedovanza che impone alle donne indiane di allontanarsi dal resto della società, le trasforma in fantasmi abbandonati da tutti, riunite dalle lacrime per una vita passata, spesso infelice, ma sicuramente più libera.


L'arrivo nella casa delle vedove di una piccola bambina  mescola destini e scatena passioni, sentimenti di tenerezza e desideri appropriativi.
Film-denuncia e set bruciato…


Lavoro osteggiato dalle autorità bengalesi e preso di mira dai fondamentalisti indù che distrussero il set e minacciarono di morte la Metha e le attrici.


Il governo interruppe la produzione per questioni di pubblica sicurezza e dopo 4 anni le riprese ripartirono in Sri Lanka segretamente.

29.11.08

Giorgio Cremaschi: "Al capitalismo piace questa crisi"

Dobbiamo smetterla di discutere delle chiacchiere e guardare alla sostanza dei provvedimenti che vengono presi. Per ora non c'è un solo paese occidentale che abbia deciso misure per far aumentare i salari e fermare i licenziamenti. Anche Obama tace sul salario minimo di legge, che negli Usa è fermo al 1998. Al contrario tutte le decisioni che vengono concretamente varate servono a sostenere le banche, la finanza, i programmi d'investimento, di ristrutturazione, di licenziamento delle imprese. Sotto l'onda dell'emergenza globale si affermano criteri sociali che sono quelli di una vera e propria economia di guerra. E anche gli investimenti militari veri e propri aumentano. Mentre i poveri reali crescono a dismisura, si definiscono ristrette categorie di poveri ufficiali. In Italia stiamo sperimentando l'elemosina di Stato che tocca, con la carta sociale del governo, un milione e duecentomila persone. C'è del metodo in questa follia. Si usa la crisi per selezionare un nuovo tipo di lavoratore, e costruire attorno ad esso una società ancora più ingiusta e feroce di quella attuale.

Da noi hanno cominciato con la scuola e l'Università. Le controriforme del governo sono state scritte su dettatura della Confindustria e partono dall'assunto che è impossibile avere una scuola di massa pubblica ed efficiente. Così si abbandona a se stessa gran parte della scuola pubblica e si seleziona, assieme alle imprese, l'élite per il mercato e per il profitto.

In Alitalia si è fatto lo stesso. L'intervento pubblico è servito a socializzare le perdite, che pagheremo tutti noi. I padroni privati invece potranno scegliere dal contenitore della vecchia società il meglio delle rotte, delle strutture, e naturalmente dei lavoratori. E chi non ci sta attenta all'interesse nazionale. "Il Sole 24 ore" ha dedicato un editoriale ai nuovi nemici del popolo, piloti, musicisti, lavoratori specializzati, che pretendono di difendere il proprio status. La macina del capitalismo diventa ancora più dura quando questo va in crisi.

Nel 1994 la Fiat buttò in Cassa integrazione gran parte di quegli impiegati e capi, che sfilando a suo sostegno nell'ottobre del 1980, le fecero vincere la vertenza contro gli operai. Oggi si parla tanto di merito, ma tutte le categorie professionali subiscono gli effetti di un'organizzazione del lavoro sempre più parcellizzata e autoritaria, mentre l'unico merito che davvero viene riconosciuto è quello della fedeltà e dell'obbedienza.

 

G. Grosz, Eclissi di sole, 1926.

 

 

L'amministratore delegato della Fiat vuole che la sua azienda somigli sempre di più alla catena di supermercati Wall-Mart. Si dice che Ford abbia installato le prime catene di montaggio ispirandosi a come si lavorava nei magazzini della carne di Chicago. Il modello giapponese a sua volta nasce copiando la logistica dei moderni supermercati. Ora la Fiat annuncia un futuro copiato dalla più grande catena di supermercati a basso costo. Ma Wall-Mart è anche una società brutalmente antisindacale, che schiavizza i propri dipendenti. Il programma di Marchionne è dunque anche un programma sociale, che prepara ulteriori assalti all'occupazione e ai diritti dei lavoratori Fiat.

Le leggi sul lavoro flessibile che centrosinistra e centrodestra hanno varato in questi anni, ora mostrano la loro vera funzione. Esse permettono di licenziare centinaia di migliaia di persone senza articolo 18 o altro che l'impedisca. E così la tutela contro i licenziamenti diventa un privilegio, quello che permette di essere almeno dichiarati come esuberi. E i soliti commentatori di entrambi gli schieramenti annunciano che con tanto precariato, i privilegi non si possono più difendere. Per i migranti la perdita dei diritti sociali diventa anche distruzione di quelli civili. Chi viene licenziato, grazie alla Bossi-Fini, diventa clandestino e con lui tutti i suoi famigliari. E la crisi avanza. Che essa fosse ben radicata nell'economia reale e non solo in quella finanziaria, lo dimostra la velocità con cui si ferma il lavoro, si licenziano o si mettono in cassa integrazione i dipendenti. Una velocità superiore a quella della caduta della Borsa.

Le ristrutturazioni nelle aziende non sono solo crisi. Esse, come sostengono tanti dottori Stranamore dell'economia, hanno una funzione "creatrice". Esse servono a frantumare le condizioni sociali e di lavoro, a dividere e contrapporre gli interessi, a fare entrare nel Dna di ogni persona che la sconfitta e di uno è la salvezza di un altro. La riforma del modello contrattuale vuole suggellare questa situazione. Distruggendo il contratto nazionale e limitando la contrattazione aziendale al rapporto tra salario e produttività, essa punta a selezionare una nuova specie di lavoratori super flessibili, super obbedienti e super impauriti. E per il sindacato resta la funzione della complicità, come è scritto nel libro Verde del governo.

Se è vero che le crisi sono occasioni, quella italiana sta delineando la possibilità di distruggere ogni base materiale dei principi contenuti nella Costituzione della Repubblica. Bisogna fermarli, bisogna travolgerli come stava scritto in uno striscione degli studenti. Non ci sono mediazioni rispetto al disegno di selezione sociale che sta avanzando sotto la spinta della Confindustria e del governo. O lo sconfiggiamo o ne verremo distrutti. Per questo lo sciopero del 12 dicembre non può concludere, ma deve dare l'avvio a un ciclo di lotte in grado di imporre un'altra agenda politica e sociale. Alla triade privato, mercato, flessibilità, bisogna contrapporre la difesa e l'estensione del pubblico sociale, dei diritti e dei salari. E l'Europa di Maastricht è nostro avversario così come il governo Berlusconi. C'è sempre meno spazio per quella cultura riformista che pensava di coniugare liberismo economico ed equità sociale. Per questo ci paiono sempre più stanchi e inutili i discorsi sull'economia sociale di mercato di tanti benpensanti di centrosinistra e centrodestra.

Solo un cambiamento radicale nell'economia e nella società può sconfiggere il disegno reazionario dei poteri e delle forze che ci hanno portato alla crisi attuale e che pensano di farla pagare interamente a noi. O si cambia davvero, o si precipita in una società mostruosa che avrà come necessario corollario l'autoritarismo nelle istituzioni. Forse è proprio la dimensione e la brutalità delle alternative che ci spaventa e frena, ma se questa è la realtà allora è il momento di avere coraggio.




Giorgio Cremaschi




emergenza femminicidi non basta una legge che aumenti le pene ma serve una campaga educativa altrimenti è come svuotare il mare con un secchiello

Apro l'email  e tovo  queste  "lettere "   di  alcuni haters  \odiatori  ,  tralasciando  gli  insulti  e le  solite  litanie ...